del
canale navigabile. Taranto di una volta anche in
un
bellissimo libro di Cosimo Acquaviva, “Taranto…
Tarantina”,
edito nella Bimare nel 1931.
Franco Presicci
Rileggendo dopo anni “Sulla riva dello Jonio” di George Gissing (1857-1902) mi soffermo ancora su un episodio che ricorda un po’ quello del “pret de Ratanà”, che, andando con lentezza esasperante verso il tram che da Baggio portava al centro di Milano (credo fosse il 14), fece innervosire il conduttore al puntò che azionò i comandi senza aspettarlo oltre, ma il mezzo rimase fermo. Quando il prete salì e si sedette, il tram si mosse autonomamente.
Taranto dal Mar Piccolo
A Taranto, sulla sponda del canale navigabile, lo scrittore inglese notò un gruppo di persone che ascoltava una sorta di cantastorie che commentava un quadro con un avvenimento straordinario che avrebbe avuto come teatro una stazione ferroviaria delle Marche; e alla fine mise in vendita un opuscolo scritto da lui stesso, con lo stesso racconto. Un fraticello - riferiva “l’oratore” - chiese umilmente al capostazione di farlo viaggiare gratis, perché aveva un gran desiderio di raggiungere il santuario di Loreto, per visitare la Madonna, ma era squattrinato. Il ferroviere si rifiutò categoricamente e ordinò la partenza. Il macchinista azionò i comandi, ma le vetture non si mossero, tra lo stupore degli altri viaggiatori e dei loro accompagnatori. Si avviarono solo quando un signore si offrì di pagare il biglietto al cappuccino. Il “berretto rosso”, infuriato, telefonò ai carabinieri di Loreto per fare arrestare il monaco all’arrivo, con le accuse di accattonaggio e interruzione di servizio pubblico.
Barche al Mar Piccolo
Ma sul sedile dello scompartimento in cui aveva viaggiato il religioso fu trovato soltanto un biglietto con una scritta, secondo la quale il ricercato era già tra le braccia di Maria. Durante la narrazione orale “ogni due minuti gli ascoltatori maschi si levavano il cappello, mentre le femmine s’inchinavano e si facevano il segno della croce”. Poi Gissing deragliò verso le rime i versi di Orazio e le lodi di Virgilio, “che secondo una tradizione avrebbe scritto le Egloghe in questi dintorni”. Gissing, durante un suo viaggio da Napoli a Reggio, si fermò dunque a Taranto, e le dedicò parecchie pagine.
Il mare calmo
Una delle finestre dell’albergo che lo ospitava “guardava verso la città vecchia, con la diga su cui erano distese ad asciugare le reti dei pescatori, la cupola della Cattedrale, le case alte e strette, spesso con dei giardini sul tetto… e l’altra sul Mar Piccolo… punteggiato in varie zone da pali incrociati che segnano i vivai di ostriche, e orlato da questa parte da imbarcazioni di vario genere ormeggiate ai moli…”. Lo scrittore attraversò il borgo e la città vecchia, si perse nel reticolo dei vicoli, alcuni dei quali così stretti che “allargando le braccia si potevano toccare i muri di qua e di là…”.
Imbarcazioni in Mar Piccolo
Fu attratto anche dai pescatori, che “parlano un dialetto che conserva molte parole greche sconosciuto al resto della popolazione. Non potevo saziarmi di guardarli: le loro membra agili, il loro atteggiamento nel lavoro e nel riposo, i loro capelli neri e ribelli mi ricordavano continuamente figure dipinte su un vaso classico…”. Di questo parlava al nostro tavolo in una serata culturale al circolo svizzero, in piazza Cavour, nei primi anni 60, un signore seduto tra me e l’avvocato Raffaele Salinari, principe del foro milanese e fratello di Carlo, storico della letteratura italiana. Era di Taranto e aveva tanta nostalgia, per la sua città, costretto dal lavoro a starne lontano, a volte anche d’estate.
Piero Mandrillo
Un interlocutore ricordò le parole del sindaco della Bimare, avvocato Giuseppe De Cesare (appena lette nel libro di Cosimo Acquaviva, “Taranto…Tarantina”), pronunciate una domenica di giugno1869 in occasione dell’inaugurazione dell’allora nuova sede del Palazzo di Città: “L’amore del luogo natìo non è altrimenti un trovato di uomini sapienti, un patto, una legge di utile comune, ma sì bene un reclamo della natura, un bisogno del cuore che si converte, si traduce e si compie in quello che è veramente: amor di congiunti, affetto di consanguinei”. E amore per la terra. Come si fa a non amare “Mare Picce, ‘u vizzùse, Frate carnale pe’ ‘na cumbagnjie (a Mare Màsce: n.d.a.)”.
Alfredo Lucifero Petrosillo
Mi pare di sentirlo, quel grande poeta che è stato Alfredo Lucifero Petrosillo: ”’U vècchie stè ‘ngandate ‘mbacce ‘u mare. E ‘u mare, ‘ndenerite, t’u tremènde. Le parle citte-citte, e ‘u vècche sènde. ‘U fiate, quèdda vocia masciàre…”: versi de “Chiudde”, pescatori, accostati al poemetto “’U travagghie d’u mare”. Il commensale continuava: Amo Mare Piccolo, la sua acqua che fa dondolare, nazzecàre’, le barche; e le trecce di cozze distese sul pontile; le case molto invecchiate, qualcuna con gli acciacchi, le bitte, le nasse, il gruppo di giovani attorno a una fontanella, le voci, le persone…”. Ed emergeva l’ombra di un altro grande: Diego Marturano, che ha scritto opere toccanti. Intervenne un altro commensale, che stava di fianco a Salinari: “Anch’io amo Mar Piccolo. Nel ’51 (se non ricordo male), quando misero mano al ponte girevole architettarono un passaggio con barche accostate, che la gente usava per andare magari al municipio o in via Garibaldi, che si snoda fino alla dogana... A quel tempo si vedevano ancora le ‘parecèdde’ ed erano già vietati i datteri per proteggere gli scogli, da cui venivano estratti”. “Sono molto legato a ‘Tàrde nuèstre’ - continuò - sono attaccato alla città come l’edera al muro. Frequentavo ‘Pesce fritto’, il ristorante famoso in tutta Italia, e forse anche all’estero. Una sera ci andai con un gruppo di amici e due marinai americani ci ‘catturarono’ e ad ogni costo vollero imbottirci di vino.
Mar piccolo
Uno dei nostri si avventurò verso la riva di Mar Piccolo e lo salvammo a stento da una caduta in acqua”. Anche l’altro aveva qualcosa da dire: ricevette la visita di un conoscente di Roma ansioso di vedere questo locale di cui tanto si palava: ci andarono, ma lui non aveva tutti i soldi per pagare il conto; per fortuna un conoscente di cui non si era accorto gli porse un foglio di carta piegato in quattro con la salvezza all’interno. L’editore Lacaita di Manduria (numerosi titoli in catalogo, molti sul brigantaggio), ascoltava. Davanti a “Pesce Fritto” le auto trovavano difficoltà a superare la barriera delle altre cilindrate in cerca di parcheggio e il compagno di serata descriveva “il sottofondo… musicale creato dai clacson disperati”. E aggiungeva: “Pesce Fritto” portava subito a “Màre Peccerìdde” o “Mare Picce”, come lo chiamava “don” Alfredo Lucifero Petrosillo in alcune sue opere, che una volta lette ti rimangono nel cuore e nella mente.
Diego Marturano
Così anche quelle di Diego Marturano, di Nerio Tebano, Claudio De Cuia, Diego Fedele, che abitava in via Messapia alle Tre Carrare, ma aveva una lunga frequentazione della città vecchia. Di lui conservo un calendario con una poesia per ogni mese (“’U trainìere”, “Le Caggiùne”, “’U rafanìedde”… donatomi come una perla da Peppino Montanaro, martinese doc, colto e informatissimo, lettore e ammiratore di Gaetano Afeltra. Insomma, Taranto anche al di là del ponte di ferro, con i suoi vicoli, i suoi “strìttele”, le sue pusterle, le sue curiosità, la Via Maggiore, ricca un tempo di negozi e di edifici nobiliari (era infatti considerata la via dei nobili, calamita per migliaia di forestieri, che spesso entrano in quella specie di museo dell’artista Nicola Giudetti, per ammirare “zeròle”, “abbrustelatùre”, “velànze”, “vrascère”, “scarpàre de crète”, “ciucculatère”, “vummìle”, “cammelline”; processioni dei Misteri eseguite dallo stesso padrone di casa… Da lì, vanno in via Garibaldi, dove magari assaggiano qualche cozza “gnòre” da “’u cuzzarùle” che sta di fronte all’adorato Mare Piccolo. Il dialetto li incuriosisce. E come Gissing ascoltano volentieri i pescatori, che mentre depongono le nasse o rammendano le reti, conversano nella loro parlata.
Passeggiata lungo il Mar Piccolo
Per chi ama Taranto, passeggiando sulla sponda di Mar Piccolo non s’inebria soltanto al profumo dell’aria marina, così salutare, non s’incanta solo alla vista di quella distesa d’acqua che da secoli alimenta l’ispirazione dei cantori del luogo non solo di casa nostra e stimola scrittori stranieri e italiani. E i fotografi? Autentici maghi dell’obiettivo ritraggono le barche, le onde in cui si specchiano il sole e la luna, ma anche qualche venditore ambulante di “javatun’e cozze pelòse, cozz’agnacule…” o una bancarella con marangiane e puperusse”, a cui accennava Cosimo Acquaviva nel suo volume “Taranto… Tarantina”, edita nella Bimare nel 1931. Tra questi cacciatori d’immagini da immortalare, Cataldo Albano, tarantino verace che vive a Verona ma trascorre lunghi periodi nella sua città. Nel ricordo di tanti, spicca una sua foto di piazza Fontana, restaurata dallo scultore Nicola Carrino, che tra l’altro espose alla Biennale di Venezia. In un volume dello stesso Aldo scorrono le paranze, corolle di mitili su un pontile, le facciate screpolate dei palazzi, il gruppetto di pescatori che giocano a carte davanti a un bar, i ragazzi che si tuffano per recuperare gli euro che i forestieri lanciano in acqua. E qualcuno ricorda gli anni in cui alla marina anche qualche adulto giocava alla livoria, passatempo allora molto diffuso. Gli emigrati, però, Taranto e il Mar Piccolo, il canale navigabile e i tramonti sul Mar Grande non vogliono vederli soltanto in queste foto: quando possono, soprattutto d’estate, prendono l’aereo, il treno o l’auto e scendono giù, in questa specie di paradiso in terra.
E’ bello
sostare in una stazione ferroviaria per aspettare un amico o un
parente, mentre la voce all’alto parlante annuncia il traffico.
Vedere partire o apparire lentamente una motrice con il muso da
levriero dà una sensazione piacevole. Soprattutto se la voce
nascosta chissà dove non annuncia un ritardo. E’ piacevole, almeno
per me, vedere tutta quella gente in attesa, chi con il volto
corrucciato perché ha sentito che in convoglio non è in orario; chi
sorride perché il suo treno ha già superato il penultimo scalo.
Oggi le stazioni, soprattutto quello della Centrale di Milano, sfida
l’ansia e la noia con tutti quei negozi, compresa una ben dotata
libreria e un tabaccaio con la vetrina colma di “souvenir”.
Alla stazione
Cadorna sia l’anno scorso che quest’anno hanno allestito un
presepe di tre metri per uno e 50, con tante statuine alte 40
centimetri del ‘700. Un’architettura storica, con ambientazione
dell’epoca e un’illuminazione che mette in risalto le pieghe dei
vestiti preziosi. Fronte e retro impreziositi da immagini
settecentesche e ottocentesche.
Una meraviglia creata da Manola
Artuso e Giuseppe Gianluca Seregni, de “La Stele” di viale
Certosa a Milano, noti e apprezzati ovunque per la loro bravura e
l’originalità delle loro opere. Un trionfo di luci e di colori.
L’osservatore si ferma ad ammirare il manufatto e quasi si ente
parte della struttura: s’immedesima in un Re Magio dagli abiti
sfavillanti o nel suonatore con cappello e mantello di pelliccia che
soffia nel suo strumento accanto a un albero o a una pastorella
vicino ad un cammello inginocchiato. Quanta bellezza e
che fascino in questo presepe. Bella la giovinetta con il capo
incorniciato da una sciarpa rosa, che ha sotto un braccio un cesto
con frutta da offrire al Bambinello. C’è un l’angelo in
preghiera in un ricco abito giallo; e c’è un uccello stupito sul
bordo di un laghetto costellato di foglie cadute da una pianta.
Abbondano i particolari. Un presepe così suggestivo evoca quelli che
si facevano alla corte di Carlo III a Napoli, per il quale era la
moglie del sovrano ad occuparsi dell’abbigliamento. Dire bravi a
Manola e Gianluca è poca cosa. Meritano molto, molto di più. Il
presepe è la loro arte e lo fabbricano con devozione e passione.
Plasmano le figure, legate alla tradizione milanese e creano
l’ambiente.
Rami e rametti grondanti di neve circondano la grotta
della natività. Niente è scontato, in questo presepe, come negli
altri, migliaia di altri, di questi due artisti eccellenti, che nella
loro bottega di viale Certosa trascorrono le giornate a sagomare
Madonne e figure del presepe. “Mi meraviglio che io non abbia mai
saputo di questo laboratorio, che deve essere un luogo da favola. Amo
il presepe, da sempre; lo faccio in casa mia, ma questo è un'altra
cosa, mi esalta, mi trasmette gioia, mi ristora lo spirito. Andrò a
trovarli”, mi dice un signore anziano con il colbacco e un bastone
con il pomo a testa di upupa.
Una signora bassa, sottile, i capelli
argentati, il naso un po’ adunco, sembra rapita da questo
capolavoro, che comprende anche una ricostruzione del Duomo con la
piazza cosparsa di paglia con tante statuine, fra cui una venditrice
ambulante di panettoni e altri dolci. Svirgola lo sguardo verso una
figura che rappresenta un uomo con una brocca in spalla (forse piena
di vino) e vi si sofferma. “Che ve ne
pare?”, esclama il cronista curioso di conoscere il parere dei
visitatori. La stessa signora risponde senza distrarsi. “Stupendo.
Semplicemente stupendo. Vorrei trovare una parola che dicesse di più.
Tutte queste luci, questi abiti meravigliosi… Quella venditrice mi
fa venire in mente un libro in cui si dice che in un tempo molto
lontano in piazza Duomo c’era anche il venditore di polenta e che
ci vollero più ordinanze dell’autorità per farlo sloggiare. Ma
questo non c’entra niente con la singolarità di questo presepe..”.
E aggiunge: “Te piace ‘u presebbio?”, la domanda frequente che
Lucariello rivolge al figlio nella comedia di De Filippo “Natale in
casa Cupiello)”.
Al giovanotto il presepe non piaceva. E
continuava ad affermarlo, cocciuto e provocatore. Mi chiedo che cosa
avrebbe risposto di fronte a questa grandissima espressione
artistica. A me il presepe piace, ma questo che abbiamo di fronte è…
una cosa grande, come canterebbe Domenico Modugno”. La gente si
assiepa. Non tutti devono prendere o aspettano un treno, magari per
Canzo o per Como. Molti sono venuti apposta per vedere il presepe di
cui tutti parlano. Anche un vecchietto un po’ ricurvo, imbiancato,
che mi mostra un piccolo manifesto con la scritta: “Il presepe che
viene rappresentato nasce primariamente dall’opera di tutela,
valorizzazione storica dell’iconografia nella tipicità della
scuola milanese, della statuaria sacra e del presepe nel corso dei
secoli.
La bottega La Stele a Milano affianca un’opera di
conservazione e tutela e restauro di tale tipicità. Le figure
nascono in periodi differenti dei secoli scorsi da fine Settecento
giunti fino a oggi, poeticamente collocati in una Milano
limitatamente innevata. Sono la memoria storica, artistica,
devozionale di numerose generazioni che tutt’ora manteniamo vive.
La scena si sviluppano armonicamente fra il Settecento, Ottocento
Novecento milanese.
Viene rappresentata sia dalla tipologia delle
statue stesse sia dai fondali che si susseguono come quinte teatrali,
raffigurando angoli della vecchia Milano”: vicolo dei Lavandai, che
scivola dall’alzaia Naviglio Grande, le case di ringhiera, i
cortili, i tetti a capannone, i comignoli, i ponti, le chiese, le
chiatte, “el barchett de Boffalora”, “el gand e legn”… “Sì
– interviene uno smilzo dall’aspetto professorale – con
l’immigrazione nel nostro presepe arrivarono due figure tipicamente
napoletane: il pizzaiolo, per esempio”. Saranno arrivate dopo il
1929, quando la pizza entrò in città al ristorante Santa Rita, a
due passi da piazza San Fedele, dove aveva sede la questura. Infatti i
primi appassionati furono i poliziotti meridionali. I milanesi
impiegarono un po’ di tempo prima di avvicinarsi a quel “disco,
scoprendo che era una delizia per il palato. L’amalfitano
Gaetano Afeltra, mito del nostro giornalismo, che dalla plancia del
“Corriere d’Informazione” passò a quella del “Giorno”, in
uno dei suoi libri, “Milano, amore mio”, in cui dedicava anche
pagine sulla pizza nel capoluogo lombardo, di fronte a questo presepe
sarebbe rimasto incantato. E la mia amica Dely Gatti, martinese a
Merate, avrebbe certamente voluto una di quelle statuine di Manola e
Gianluca per la sua numerosa collezione, dal momento che quando le ha
viste su Facebook, postate da me, mi ha subito contattato. C’è anche
poesia nel presepe di Manola e Gianluca. Sono maestri anche della
luce, oltre che dell’ambientazione. I presepi li fanno con il
cuore; le “sentono”, le loro opere, le vivono. Le loro figure
sono espressive, autentiche negli atteggiamenti, sembrano avere vita.
Mi piacerebbe sapere quante case milanesi abbiano lavandaie,
guardastelle, ambulanti, Re Magi, pastori, greggi usciti dalla
bottega “La Stele”. “Più di quante tu non riesca ad
immaginare”, mi dice Gianluca, che del presepe sa tutto, la storia,
i luoghi in cui è più diffuso, gli artigiani esperti del settore
negli anni andati… Tu sicuramente quando sei arrivato a Milano
pensavi che qui a Natale si facesse soltanto l’albero. Invece la
festa si celebrava anche con il presepe, qualcuno dotato persino di
‘carillon’”. Beh, un modesto presepe con quello strumento lo
posseggo anch’io. E posso dire che quando gli dò la corda, il
suono mi fa sognare. Il presepe è anche sogno, magia. A proposito,
lo scenario esposto alla stazione Cadorna resterà fino al 6 gennaio,
per la gioia di grandi e piccini. E’ Natale, la festa più bella
dell’anno. Il 2020 e i nostri giorni ci preoccupano per la
pandemia, perle vite che si spengono, una preghiera per quel Bambino
che emette i suoi vagiti nella grotta ci potrebbe aiutare.
Un’altra impresa di Goffredo Palmerini: un volume di 376 pagine,
“Mosaico di voci- storie di rinascita e di speranza”: un’armonia di
situazioni, avvenimenti, incontri, dibattiti, convegni, ritratti di
personalità, descrizione efficaci di ambienti, cronache ed altro.
Paganica (L'Aquila), chiesa del Castello e sullo sfondo il Gran Sasso
Goffredo Palmerini
Goffredo ha la capacità di accompagnare chi legge in ciò che lui ha visto, coinvolgendolo, emozionandolo, stimolando la sua attenzione, informandolo scrupolosamente.
Il suo stile fluido, spontaneo, godibile; i temi interessanti, il modo di raccontare rendono avvincente la lettura. Le tessere sono numerose, ma Palmerini conosce l’arte di metterle insieme, una accanto all’altra, stimolando a tenere il libro aperto, dando all’”interlocutore” l’impressione di essere “dentro” i fatti narrati. Le pagine di questo autore sensibile e delicato insomma hanno il pregio della chiarezza e della semplicità, senza ombra di retorica. Saranno stati questi per esempio, i motivi per cui Mario Daniele, un grande imprenditore formatosi nella propria fucina, arrivando ad altissimi livelli, ottenendo anche compiti diplomatici, volle che a snocciolare la propria vita fosse proprio Goffredo. Abruzzese come Palmerini, simboleggia il sogno americano compiuto. E’ anche per queste sue virtù che ogni “uscita” di Goffredo Palmerini smuove investigatori letterari, giornalisti della carta stampata e della televisione, non solo italiani: lettori accaniti….
Franco Ricci, ricercatore e docente canadese di origini italiane, in un suo articolo ha scritto che “Palmerini rappresenta una pietra miliare per lo sviluppo di un nuovo tipo di rapporto che non comprende solo il giornalismo come ‘reportage’, ma con i suoi scritti egli ha installato un utilizzo dell’informatica che abbraccia e mette in rete imprenditori e operai, studenti e professori, commercialisti e casalinghe, figli piccoli e grandi, appaltatori e pensionati in un nuovo modo virtuale ricco di relazioni vissute forsanche più intensamente perché accomunati attraverso l’immediatezza del messaggio e del sentimento”. Molti altri hanno scritto di lui, evidenziando le sue caratteristiche stilistiche e la sua volontà di andare in giro per il mondo alla ricerca di fontane da cui attingere acqua pura, persone disposte a rivelarsi, ad “offrirgli” il proprio vissuto non per fini esibizionistici ma per far conoscere gli scogli che un immigrato affronta in terra straniera.
Paganica, Palazzo Ducale e chiesa Madre
Un giro che ha realizzato tante volte e continua ancora a farlo, dalla sua Paganica a New York, a Sydney, da San Paolo del Brasile a Ottawa, da Buenos Ayres a Johannesburg, instancabile, curioso, avido di apprendere i sacrifici, gli ostacoli, compresi quelli della lingua e dell’ostilità dei locali superati con tenacia, intelligenza, passione, conquistando posizioni di grande livello o semplicemente un’esistenza sicura e tranquilla. Molti, ad esempio, non conoscevano John Fante, un grande scrittore di origine abruzzese, nato e vissuto negli stati Uniti, che dovette arrangiarsi in mille mestieri per poter vivere e scrivere e vedere venire alla luce il suo primo romanzo, “Aspetta primavera, Bandini”; e poi “Chiedi alla polvere” e tanti altri, in Italia pubblicati da Mondadori e da Einaudi., prima di raggiungere la fama anche come sceneggiatore e avere amici come Bukosvski e altri. Bene, tanti hanno intercettato il nome di Fante e del fratello Dan attraverso i libri di Goffredo Palmerini.
Benedetta Rinaldi (Rai) intervista Palmerini
Come hanno intercettato nelle sue pagine non solo persone con la medaglia sul petto e un cuore d’oro, ma anche gente comune, che lo scrittore plasma nelle sue pagine, sempre ricche di umanità. Pagine esemplari. Come quelle che compongono il suo nuovo libro: “Mosaico di Voci-storie di rinascita e di speranza”, pubblicato da One Group Edizioni. La presentazione è di Francesca La Marca, nata a Toronto da genitori italiani; e la prefazione di Liliana Biondi, nata a L’Aquila, già ricercatrice e docente di Critica Letteraria e Letteratura Comparata.
Benedetta Rinaldi
Di Palmerini la Biondi dice che è un osservatore attento, oltre che ambasciatore degli abruzzesi nel mondo; e parla “della vitalità dei suoi scritti giornalistici, ricchi di dati, tecniche, competenze, contenuti”. E aggiunge “che è … un ascoltatore attento, uno scrupoloso documentarista…”. Abile nelle interviste, Goffredo lascia spazio all’interlocutore, non prevarica, non si sovrappone, lascia che l’altro argomenti, precisi, chiarisca. Paziente e generoso, gentile e di poche parole, è uno scrittore e cronista virtuoso. Ecco alcuni capitoli di “Voci”: “A Paganica il tributo al poeta Nicola Enrico Biondi”; “Tesori dell’Arte Sacra aquilana in mostra al Forte di Bard”; “Il premio ‘La voce dei poeti’”, IV edizione; “La Basilicata rende onore al pittore Costantin Udroiu”; “A Castel del Monte premiati insigni emigrati abruzzesi”; “La piccola brigata porta in Canada il teatro aquilano”; “’L’Aquila nel libro di Tiziana Grassi su migranti. Intervista a don Dante Di Nardo”.
Goffredo Palmerini
Sono soltanto alcuni pezzi, che costituiscono questo bellissimo mosaico di voci, che ci offre Goffredo Palmerini Palmerini, volto da frate cappuccino, una barba cespugliosa, un sorriso dolce, amabile. Francesca La Marca lo inquadra come “persona che emerge da un nucleo solido di valori etici che si tramutano in un atteggiamento di comprensione e di disponibilità verso gli altri, di lealtà nei rapporti umani, in un modo sereno e rassicurante, direi sorridente, di intessere relazioni e di descrivere persone e vicende pubbliche e private”. Così l’ho intuito anni fa quando l’ho conosciuto nella sede di una banca di Millano, dove il professor Francesco Lenoci presentava un suo libro. Ci scambiammo poche parole, quanto bastava per leggere la generosità nei suoi occhi. Da allora ho divorato e recensito con piacere, quasi con gioia, le sue opere, credo una decina, dove si coglie amore per il prossimo, soddisfazione per le sue fatiche.
Benedetta Rinaldi
Goffredo Palmerini è uomo colto, interessato a tutto ciò che avviene intono a lui e a raccontarlo nel pieno rispetto della realtà. Per questo seguo Goffredo, la cui giovialità mette a proprio agio chiunque lo avvicini. E apprezzo la sua scrittura, un campo ben seminato con tante vite vissute, con tante genialità che il nostro Paese ha donato ad altri. Palmerini è innamorato del mondo, ma anche della sua Paganica, L’Aquila, la regione esaltata da Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”. “Una luce già di montagna splende nelle vie de L’Aquila e penetrando anche nei vicoli più stretti dei quartieri vecchi porta uno scintillio nell’ombra. Dovunque si sente lo spazio.
L'aquila
Perciò L’Aquila è gaia”, quando il suo territorio non viene devastato da eventi sismici, producendo terrore fra gli abitanti. Anche su questi disastri a suo tempo Palmerini ha riempito pagine e pagine. Non poteva non farlo nel vedere la sua terra frantumata. E’ a L’Aquila che ha avuto la sua culla nel 1948; è in quella città, “somma di chiaroscuri, di forza e d’improvvisi bagliori”, come ha scritto qualcuno, con tocchi di eleganza, con i suoi monumenti, le sue chiese, tante,le piazze, i suoi Palazzi; la città con l’odore di zafferano, che Goffredo Palmerini si è formato, maturando la passione di andare da un capo all’altro del mondo per conoscere persone, cose, paesaggi, come dimostrano tra l’altro le numerose immagini che cattura. Oggi come ieri continua i suoi pellegrinaggi perché la sua sete di apprendere non si esaurisce. E scrive su giornali e riviste, non soltanto italiani. La sua firma compare sulle agenzie di stampa, su periodici e quotidiani a New York, in Brasile, in Canada, in Argentina. Goffredo Palmerini è cittadino del mondo, con la gomena ben collegata con l’Abruzzo.
Ovunque,
in Puglia o in Lombardia, in Sicilia o in Toscana,
a Napoli è già
ora di prepararsi per fare l’albero
o il presepe. I ragazzi aspettano i
Manola e Giuseppe
giocattoli il
nonno è pronto
per raccontare le favole
inventate al
momento,
mamme e nonne per
spianare la pasta per
i
dolci.
E’ festa grande: nasce
Gesù.
Franco
Presicci
In “Natale in casa Cupiello”, Concetta dice: “Io nun capisco che ‘o faie a ffà stu presebbio. Na casa nguaiata, denare ca se ne vanno, colla, pastori, puzza e pittura…”. Ma per Lucariello, il personaggio interpretato da Eduardo De Filippo,
Presepe in fieri di M. Sforza
Natale senza presepe non è Natale. Gli sembra un cattivo augurio. E ricorda il padre che quella scenografia la metteva in piedi per lui e per il fratello quando erano marmocchi. E cerca di convincere Concetta, la moglie, e il figlio Nennillo, che alla sua domanda “Te piace ‘u presebbio?, risponde sempre in modo sgarbato, guardandolo di traverso: “No, u presebbio nun me piace”. Ma Lucariello non si scoraggia, continua nella sua opera con pazienza e rammarico. Nella realtà il presepe non piace a tutti.
Albero realizzato dal presepista
Molti preferiscono, non solo al Nord, l’albero, che per loro fa più scena con tutte quelle luci multicolori; le palle rosse, bianche, versi, grandi e piccole, il puntale, che può rappresentare un angelo o un minuscolo abete imbiancato; i fili d’argento e la neve spruzzata con uno “spray” apposito oppure fatta con ovatta spezzettata: fiocchi grossi come cicchi di grandine. L’albero a volte occupa mezza stanza, ma anche il presepe, se c’è spazio, si può sviluppare parecchio, soprattutto se chi lo confeziona ama i personaggi mobili, come il calzolaio che muove il bussetto, il portatore d’acqua che succhia dalla fontana, il pastore che munge la mucca...
In due o tre ore l’albero può essere completato, mentre il presepe richiede più tempo: occorre sistemare l’ossatura, sulla quale modellare le strade, le grotte, i sentieri, i passaggi, i ponti, le arcate, collocare le figure: il guardastelle, i Re Magi, gli animali, gli zampognari, che nel presepe non mancano mai mancare, quindi l’illuminazione anche degli interni, soprattutto di quello che ospita il Bambinello. Chi non ha mai realizzato un presepe non immagina la gioia che crea il manufatto in chi lo monta. C’è chi si sente partecipe del paesaggio, addirittura dell’Evento. Lo vive, il presepe, si sente parte del contesto che va creando.
Particolare di presepe
Il presepe è magia, spettacolo, fiaba. Il presepe affascina, coinvolge, dà serenità. Il presepe più dell’albero porta l’atmosfera del Natale, che si respira già dal giorno della festa dell’Immacolata e per alcuni anche prima. I personaggi che popolano il presepe sembrano veri a chi li ama: il panettiere, la lavandaia, il vecchietto con la lucerna nella mano alzata, la ragazza che governa il cortile pieno di galline, conigli, ochette, il fabbro, il suonatore che si diletta fuori da una taverna. Il presepe ha i suoi simboli. Il fuoco indica il tempo che trascorre; il ponte la rinascita dell’uomo, la luce la fede… Il presepe incanta. Più è ricco di statuine e di altri elementi è più attira. A proposito di statuite una volta nel presepe milanese, e in genere lombardo, non c’erano il pescivendolo e il pizzaiolo.
Presepe in sughero
Il secondo arrivò, immagino, dopo il 1929, quando in un ristorante vicino a piazza San Fedele sbarcò la pizza. Manola Artuso, una signora che a 5 anni già si affaccendava con i presepi, poi diplomandos a Brera in pittura, è maestra dii presepi d’arte. Ha cominciato da sola, nel suo negozio “La Stele” di viale Certosa, in seguito ha proseguito con il suo compagno Gianluca Giuseppe Seregni, che dopo aver frequentato una scuola d’arte si è specializzato in scultura e restauro: discende da una famiglia di artisti che già nel 1200 restauravano chiese e facevano figure per il presepe. Oltre che bravissimi, Manola e Giuseppe sono entusiasti del loro lavoro.
Presepe in fieri di M. Sforza
Giuseppe è preparatissimo nella storia del presepe e ricorda bene una bottega di via Copernico e l’artista, Confalonieri, che produceva figure per il presepe in punta di cartapesta. Manola riferisce che si procurò vecchi modelli del presepe bergamasco e li utilizza per fare le statuine. “Dai miei ricordi – commenta - posso dire che a Milano il presepe è stato sempre presente, magari a fianco dell’albero di Natale. E non solo a Milano”. Tanto che a Dalmine, vicino a Bergamo, c’è un Museo del Presepe, che espone oltre 800 esemplari, uno più bello dell’altro. Vi si ammirano il presepe napoletano, quello sardo, con i pastori che si riposano tenendo il cappuccio che si piega sul capo; quello che viene dalla Puglia, dove la Natività a volte è ambientata in un trullo, quello siciliano…
In Lombardia molti presepi rappresentano una cascina con i personaggi principali nella stalla e pomodori, aglio, cipolla che pendono dalla. Si ricorda il presepe allestito da Mario Matallanzo nel Centro Commerciale di viale Sarca, a Milano. In Lombardia, nel Bergamasco, nel Bresciano e altrove prolificano le associazioni di presepisti” e mi dicono che da qualche parte hanno edificato un presepe di 600 metri. Il presepe nasce soprattutto per i piccoli, che in alcuni casi collaborano procurando il muschio, l’erba, i rami di pino, quando l’autore non è fornito del materiale sintetico che serve per il verde, per il terreno, per gli alberi, per la neve, per i sassolini… La maggior parte dei bambini adora il presepe, mi raccontava Matarazzo, della Casa del presepe di Taranto, che di allestimenti, assieme a suo padre, ne ha costruiti tanti, e ha anche insegnato ad altri a farne.
Presepe da completare
Presepe artigianale
Il professor Raffaele D’Addario, che era pittore e aveva lavorato come scenografo a Cinecittà, aveva appreso l’arte da loro. Io ho visto validissimi artigiani intenti a sagomare natività, pastori, greggi, asinelli, buoi, mulini, forni, pozzi, usando cartapesta, terracotta, resina, gesso, eccetera. A Grottaglie un ceramista fa in terracotta figure alte quasi due centimetri, utilizzate per creare la prospettiva del presepe. I materiali impiegati sono tanti. Il sughero è uno di questi: non ha bisogno di spatole per imprimergli l’effetto delle parti rocciose. Si deve sapere accostare con sapienza i vari pezzi e poi coprire le giunture con carta da pacco immersa nella colla di farina. Nel presepe del Seicento si amava conseguire effetti scenografici, forse ispirati dal Barocco. A Napoli Ferdinando IV aveva ereditato la passione per il presepe dal padre e faceva confezionare pastori vestiti con costumi del regno seguiti da personaggi illustri. Il re Carlo III, grande appassionato del presepe, lo preparava con notevole cura assieme alla moglie, che curava l’abbigliamento, lussuoso.
I rilievi erano fatti in sughero. La locanda fece la sua apparizione nell’impianto presepiale con tutti i suoi contenuti durante il trionfo del Barocco. Naturalmente ci sono presepi poveri e presepi ricchi; presepi fatti con arte e presepi edificati alla bell’e meglio, senza un progetto iniziale. In questi casi bastano delle stecche di legno ruvido, fogli di giornale o per pacchi immersi nella creta diluita in acqua e un lavoro con le mani per non avere un risultato piatto. Oltre che per il presepe i bambini aspettano il Natale per avere i giocattoli. A proposito di balocchi in un suo libro, “Nostalgia di Milano”, uscito con Mondadori nel 1997, Carlo Castellaneta ricorda il tempo in cui Natale significava appunto giocattolo. “Anzi il Natale si identificava con i giocattoli. E la Rinascente (deve il nome a Gabriele d’Annunzio: n.d.a.) “era il tempio dove si officiavano i riti più fastosi.
Zampognari al centro incisione
Erano gli anni Venti e Trenta e i bambini nei giorni che precedevano il Grande Evento se ne stavano estasiati davanti alle vetrine ad ammirare il trenino elettrico che s’imbucava in una galleria e ne usciva fischiando. rifacendo pochi secondi dopo lo stesso percorso. I più ricchi non avevano problemi, visto che quel convoglio, se lo desideravano, sarebbe arrivato alla loro stazione; i più poveri potevano soltanto sognare e fare una scelta più modesta. Per i primi la mattina di Natale era trascorsa a vedere il papà che stabiliva circuiti, collocava gallerie, stazioni, passeggeri. Agli altri toccava giocare con il Pinocchio di legno o con il motociclista di latta. Da noi i regali non li portava quel Babbo grasso con il volto nascosto dietro una folta barba bianca, il vestito rosso e il berretto con il pon pon, ma la Befana, che poverina aveva un’età molto avanzata, le scarpe rotte, un abito nero e la scopa come mezzo di locomozione. Se devo dirla tutta, a me di regali non ne ha mai portati. Forse perchè non avevamo il camino e si diceva che la vecchia scendesse proprio da quella gola. Dove trovasse le forze per fare tutta quella strada e al buio non l’ho mai capito. Poi una notte mi svegliai e scoprii mio padre che metteva per mia sorella sul tavolo una camera da letto di legno fatto da mio zio, che era un falegname geniale, per poi stendere sulla parete manifesti con la scritta “Viva la Befana”. Ma un regalo lo avevo già avuto: un presepe allestito in modo rudimentale che inzaccherava il muro e le statuine fatte da mia madre, che aveva le mani d’oro. Lo facevano quasi tutti il presepe. I tempi erano magri e l’illuminazione era fatta con una semplice lampadina nascosta dietro un pino. Il presepe veniva smantellato un paio di giorni dopo l’Epifania e allora era necessario imbiancare la stanza. Anche se misero, quel presepe mi dava serenità. Non vedevo l’ora che a casa arrivasse la creta. Felice anche mio nonno che la sera della Vigilia ci raccontava le storie che s’inventava al momento. Mio nonno è un altro capitolo della mia vita. Un caposaldo, un mito. Lo avrei visto sul presepe a sistemare un ponte tra una roccia e un’altra. Il ponte è comunicazione, legame, abbraccio, ricerca dell’altro.
Il Presepe di Franco Presicci realizzato, con grande arte e raffinatezza, per far rivivere le tradizioni e lo spirito cristiano del Natale, a parenti e amici.
Natale de 'na vòte
Quànne stè’ p’arrevà’
Natàle
Je
me vète indra ‘na càse peccerèdde
‘a
canòsche, ‘a canòsche bbòne
Jè
quèdde addò hàgghie nàte e hàgghie cresciùte
‘nu
besciù, u nònne, stè’ cìtte cìtte
vecìn’a
fracère ca se stè’ stùte
me
mmìte ad azzettàrme apprìesse a ijdde
e
‘a vecchiarèdde me dìce:
“Aspiètte,
non te ne scè scènne
ca
mo’ hàgghia fa’ ‘na tèdde de taràdde
se
te ne vè’ m’a dìcere
ci
m’a pòrt‘o furne de mèst Petrine?”
Se
ijèdde no’nge respètt’a tradezziòne
le
pàre ca no’nge jè Natàle
e
vòle c’ama stà’ a tàule tùtt’aunìte
fìgghie,
nepùte, canàte, nòre
ad
assapurà le sanacchiutère cu l’anesìne
e
le carteddàte, màmme ce delìzzie
a
le furnìedde ‘a nònne jè ‘n’art’ste
All’andrasàtte
‘nu remòre indr’a l’àtrie me cutelèsce
e
m’addòne ca no’nge stòche abbunesìnne
indr’a
chìdde quàtte mùre
ma
a ‘n’òtra vànne, lundàne, a Melàne
‘mbrà
nègghie, frìdde, viendetrìne
e
‘a segnòre ca vòte le pèttele indr’a frezzòle
So’
le recuèrde ca me pòrtene da chìdde vànne
e
m’amarèsce ‘stu viàgge ca fàzze c’u penzìere
addò
no’nge stè’ cchiù ‘u Natàle de ‘na vòte
ànze,
no’nge stè cchiù nesciùne
quìdde
ca ve cònde vìve indr’a mamòrie
e
indr’o core
‘u
presèbbie c’attàneme arrangiàve
fòrse
p’amòre ca no tenève turnìse
‘u
nònne ca sciucàv’a scòpe cu zie Dionigge
nù’
ca uardàveme le càrte e lucculàveme
quanne
assèvene pepècchie e ‘u sètt’a pesellìne
le
fèmene indr’a cucìne facèvene òtre suruìzze
‘a
nònne assuttegghiàv’a pàste
mèndre
sus’a stràte ddò pastùre
cu
‘nu cappùcce ‘ngàpe
e
‘na càppe de pèdde de pècherèdde
sunàvene‘a
nuvène c’u ‘a ciaramèdde
Natàle
da puverijdde ère quìdde
sènza
capetùne e sènza panettòne
e
pùre, armèn‘u ggiùrne de ’sta Feste
‘a
chhiù bbèdde
tànda
pàce, grazzi’a Dje.
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GLI AUGURI DELLA REDAZIONE:
2008-PRESEPE DI SABBIA-"Amici da Sempre"
OGGI
SI FESTEGGIA L'IMMACOLATA CONCEZIONE DI MARIA VERGINE.
UNA VOLTA I
CRISPIANESI, FINITO IL MESE DEDICATO AI DEFUNTI, ATTENDEVANO L'8
DICEMBRE PER PREPARARE LE FESTE DI NATALE, CAPODANNO E DELL'EPIFANIA.
TANTE TRADIZIONI SONO CAMBIATE, IL CONSUMISMO E' PREVALSO, MA PER
FORTUNA IL SIGNIFICATO E LA VOGLIA DI VIVERE IL NATALE SECONDO I PROPRI
SENTIMENTI, SOPRAVVIVONO NONOSTANTE LE PREOCCUPAZIONI ECONOMICHE E DI
SALUTE CHE AFFLIGGONO POPOLAZIONI EUROPEE E MONDIALI. NON RESTA QUINDI
CHE AUSPICARE A TUTTI GLI AMICI DELL'"ASSOCIAZIONE MINERVA", AI
COLLABORATORI, GIORNALISTI E TECNICI DI REDAZIONE, UN SERENO NATALE E L'AUGURIO DI
RITROVARE DENTRO DI SE E NELLE PROPRIE FAMIGLIE LE GIOIE NATALIZIE.
Il direttore