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mercoledì 26 settembre 2018

Al Trianon si esibì anche Totò


Aldo Fabrizi del grande scultore pugliese Federico Moccia

OFFRI’ LE SUE SCENE A MARINETTI

E A EDUARDO PER LA SUA “FILUMENA”


I genitori premiavano i loro figli con

un biglietto, costo 2 lire, per quel

teatro, nato nel 1905.


Il fascismo, che non amava i nomi stranieri,

lo fece ribattezzare “Mediolanum”.


Calcarono quel palcoscenico tutti

I grandi nomi dello spettacolo.




Franco Presicci

Quante stelle brillarono al Trianon, il teatro che stava in corso Vittorio Emanuele, fra l’Albergo Corso e la Galleria Tre Arti. Il Trianon, data di nascita 1905, ospitò tra l’altro il Teatro milanese di Cletto Arrighi (al secolo Carlo Righetti di professione avvocato) ed era molto frequentato da giovani benestanti, attirati dagli spettacoli, in dialetto (“el barchett de Boffalora”, per fare un esempio, andato in scena nel novembre 1870), dai balletti e dalle riviste. Filippo Tommaso Marinetti lo utilizzò per le sue opere futuriste (aveva fatto pubblicate sul “Figaro”, il 20 febbraio del 1909 il testo del primo manifesto del movimento da lui inventato) ed Eduardo De Filippo per la prima rappresentazione milanese di “Filumena Marturano”.

Piero Mazzarella con Presicci
Nel 1938 il Trianon venne ribattezzato Mediolanum per volere del regime, che non amava i nomi stranieri. Nel ’43 venne distrutto dalle bombe come tutto il corso Vittorio Emanuele; e nel ’54 la facciata, ricca di vedute di ispirazione floreale, fu incorporata in una costruzione di Lorenzo e Giovanni Muzio in via San Paolo, poi piazza Liberty. Dopo la paura degli ordigni che gli aerei sganciavano dal cielo, le rinunce, i sacrifici, i milanesi si scossero, presi da una gran voglia di rifarsi, di cantare, ballare; e sorsero le sale in cui si potevano scatenare: la Sirenella in via Rovello; la Taverna Ferrario in via Meravigli… Nel ’48 rinacque il carnevale ambrosiano; comparirono i “nights”, come il Marocco, l’Astoria, il Maxime, la Porta d’Oro… Il Trianon, ormai Mediolanum, era in concorrenza con il Nuovo, l’Odeon per accaparrarsi le grandi compagnie di Erminio Macario, Wanda Osiris, Carlo Dapporto, Renato Rascel, Nino Taranto… Nuto Navarrini, milanese, che avendo esordito giovanissimo come primo comico e in dieci anni mietuto successi con le compagini Lombardo, Maresca, Regini… interpretò e mise in scena tra l’altro oltre cento operette in Compagnia con Isa Bluette, facendo esplodere risate nelle platee.
Piazza San Fedele

Poi si eclissò per un breve periodo, ma era troppo innamorato di Milano per restare assente a lungo. Così un giorno pensò bene di andare a divertire nuovamente i milanesi al Trianon, già ribattezzato Mediolanum. Al Trianon arrivò poi una regina: Anna Fougez, nome d’arte di Annina Pappacena Laganà, nata a Taranto da una famiglia molto nota e abbiente, occhi neri, neo sulla guancia destra, elegantissima, eccentrica fra le luci della ribalta, forte, superba, volontà ferrea, sicura di sé, al di sopra di tutte, comprese Isa Bluette e Lydia Jhonson, stelle anche loro al Trianon. La seconda si presentava in frac dorato, un cilindro di strass e le unghie in rosso pompeiano. La Fougez raccoglieva consensi. “Una grande signora che canta canzoni ammantate di ermellino”, secondo il principe Umberto di Savoia; “La Clitemnestra di Marechiaro”, per Guido da Verona; “Entusiasmò le platee non solo con il fascino della voce e l’eleganza, ma anche con la grazie e la signorilità che la distinguevano”, per Eligio Possenti, autore e critico teatrale (suo “Milano a teatro ieri e oggi”), dal ’29 al ’64 direttore de “La Domenica del Corriere”. Per lei nel 1919 E. A. Mario, al secolo Giovanni Ermete Gaeta, poeta, che molto doveva a un cliente disattento che, avendo dimenticato nella bottega del padre un violino, gli aveva dato involontariamente l’occasione d’imparare a suonarlo, scrisse “Vipera”, forse ispirato dal braccialetto d’oro a forma di serpe che la “star” portava al braccio.

La galleria
Nel mondo sfolgorante dello spettacolo la Fougez ebbe una sola amica, Mistinguette, attrice e cantante francese, che aveva fatto il suo debutto con grande successo nel 1895 al Casino de Paris, dopo aver svolto l’attività di venditrice di fiori in un ristorante, cantando ballate popolari. La “vedette” tarantina ballava il tango con Thano e il bolero con Dapporto. La gente impazziva per lei, che allora cantava al San Martino e Gino Franzi al Trianon. Al di fuori delle luci della ribalta aveva amici di altissimo livello, tra cui Coco Chanel. Non dimenticò mai Taranto. Nel ’40 fu nella sua città, applaudita al Teatro Orfeo, che s’illuminava per le recite dei più grandi nomi del teatro (Elsa Merlini, Emma Gramatica, Eduardo, Calibri…); e a Taranto volle essere sepolta. Al Trianon giunsero lo “chansonnier” fiorentino Odoardo Spadaro, grande personalità del Caffè-concerto, fantasista e imitatore, per la sua eleganza e simpatia comparato a Maurice Chevalier, e protagonista nel varietà dal 1918 nella Sala Umberto di Roma; e la danzatrice Lucia Maiorano. E Ettore Petrolini, che nel 1915, già rientrato dagli Stati Uniti, formò una sua Compagnia e rappresentò riviste, commedie, farse. Amante della satira mordace, improvvisatore, irraggiungibile nelle sue macchiette, geniale, creatore di tipi che i suoi “fans” ricordano ancora, da Gastone a sor Capanna, a Fortunello…
Piazza Scala  nel 1850 circa (Raccolta Bertarelli)

Nel 1908, al rientro dagli Stati Uniti, dette vita a spettacoli sfavillanti, svegliando i critici che lo avevano ignorato. Il Trianon fu un teatro ambito anche da tanti artisti provenienti dall’avanspettacolo, che lo consideravano un trampolino di lancio, una referenza di prim’ordine. Nel 1909, il grande Totò, che desiderava vedere almeno una volta seduto in prima fila Cesare Zavattini, non sapendo che lo scrittore e sceneggiatore andava molto spesso ad ammirare il suo Pinocchio, assieme a Salvatore Quasimodo, Raffaele Carrieri, Leonida Repaci… Il principe della risata, com’era definito Totò, confidò il suo cruccio in un incontro all’Hotel Plaza a Gaetano Afeltra. “Noi siamo gente di varietà - proseguì l’attore – da noi i professori non vengono; Renato Simoni non viene, non abbiamo la critica del ‘Corriere…’”.
Guido Lopez
Il giornalista dal “curriculum eccellente (tra l’altro direttore del “Corriere d’Informazione”, vice del “Corriere” e direttore del “Giorno”, amico di tanti personaggi, a cominciare da Indro Montanelli) riferì lo sfogo in uno dei suoi tanti “amarcord” l’11 luglio ’86 sul quotidiano di via Solferino, dove ricostruiva i giorni della sua infanzia ad Amalfi, seguiti da molti lettori del quotidiano. Da Martina Franca un “fan” ultrasettantenne, maturità classica e già collaboratore del sindaco Ulderico Motolese, gli mandò in regalo un trullo in terracotta e “don” Gaetano, che conosceva e applicava le buone maniere, dal suo studio all’ultimo piano del Palazzo dell’Informazione in piazza Cavour gli rispose con un biglietto che il martinese conservava come una reliquia. Il dopo-Trianon, fra suoni e canti, buffet freddo, caffetteria, champagne si svolgeva in una sala circolare sottostante: il Pavillon Dorè, che aveva un telefono bianco su ogni tavolo. Nel locale, dove suonò il piano dal ’37 al ’41, Giovanni D’Ani, autore de “O mia bela Madunnina”.
Presicci,Caselli, Walter Chiari
Da giugno a settembre i meneghini potevano, accomodarsi nel Trianon-giardino, dove nel 1911 Peppino Villani propose la canzone “Nimì Tirabusciò”. Nel ’38, come detto, il Trianon divenne Mediolanum e avviò le carriere di Walter Chiari e di Ugo Tognazzi. Nel ’51 ecco le sorelle Diana, Pinuccia e Lisetta Nava in una rivista che aveva come comici ai primi passi Gino Bramieri (che da ragazzo inventava scene comiche nei ricoveri antiaerei milanesi e esordì con Macario nel ’49 in “Votate per Venere”), Raffaele Pisu e Gianni Caiafa. Dopo Navarrini fu il turno di Gennaro Pasquariello, asso napoletano del Cafè-chantant e del varietà, oltre che macchiettista acclamato in tutti i teatri d’Europa, dopo essersi affermato ai primi del Novecento al Margherita di Napoli. Non mancò Nino Taranto con “Venticello del Sud”, oltre agli attori milanesi, tra i quali Anna Carena, Emilio Rinaldi e la Compagnia Ambrosiana con “La ciacera che gh’e in gir”, di Zambaldi. ”Pettenet (pettinati) “che te meni al Trianon”, dicevano i padri ai figli. Il Trianon nel corso degli anni è stato una meta preferita di tante persone e anche di intellettuali, per le riviste scritte da autori famosi, come Giovanni Manca, che nei suoi disegni per il “Corriere dei Piccoli” attingeva dalla vita quotidiana. Al Trianon si potevano incontrare personaggi come Campigli, Marino Marini… Quando i genitori volevano premiare i figli diciottenni regalavano loro il biglietto del Trianon, costo 2 lire. E spesso li accompagnavano. Quando il fascismo impose agli amministratori di cambiare nome al teatro, molti milanesi ebbero una stretta al cuore. Nome a parte, il Trianon, diventato Mediolanum, continuò la sua attività ricca e prestigiosa.






venerdì 14 settembre 2018

Quanti caffè nei secoli a Milano!


 



AL BORSINARI IL BECCARIA ESPLOSE

                                                  PER UN INTERLOCUTORE OSTINATO



I Caffè della Peppina e della Cecchina furono resuscitati allo “Zecchino d’Oro” di Bologna.

Al Caffè dei Servi sedevano gli attori della Compagnia Ferravilla, che
ripassavano la parte da recitare nel vicino Teatro Milanese. 

Un buon caffè gustato al momento giusto può mutarci l’umore.

Il Savini in Galleria

 
Franco Presicci

Si va al caffè per bere una tazzina o una bibita o sedersi a un tavolo, magari nel retro, e chiacchierare con gli amici; e, se all’esterno c’è il campo, ben venga una partita a bocce. “Ci vediamo al caffè Miami”, il vecchio Zucca”; o al “Cova”. Sono frasi ricorrenti.
Bar Taveggia
Non si può più dire: “A mezzogiorno ti aspetto al Taveggia”, perché il locale, fastoso, origini che risalivano alla seconda metà dell’800, una clientela eccellente, da Wally Toscanini a Carla Fracci, a Maria Callas, Renata Tebaldi, al feldmaresciallo Radetzky, “ostaggio” del panettone, ha chiuso da tempo i battenti. L’ultima volta che ci andai il prefetto Ferrante presentava un libro di immagini di masserie pugliesi di Angelo Golizia. Tra il Settecento e il Novecento al caffè si potevano anche ascoltare conversazioni tessute da gruppi di intellettuali accomodati in un angolo semibuio, tra volute di fumo. A volte quegli scambi di idee si arroventavano, perchè chi non vuole essere contraddetto c’è sempre, e in qualche caso volò anche uno schiaffo. Nei caffè è passata la storia. Per esempio al Cova, sorto nel 1817, trovarono appoggio i patrioti delle Cinque Giornate di Milano, nel 1848. Anche la cronaca ventilava nei caffè, come fossero agenzie di stampa. Se accadeva qualche episodio clamoroso e si voleva conoscerlo nei contorni bastava avvicinarsi al bancone.

Caffè moderno
Al Caffè del Duomo – riferisce Sandro Pantanida – al tramonto del 1847 un docente di fisica, Giovanni Cantoni, scrisse e lo dettò al dottor Piero Secondi un manifesto che suggeriva agli italiani di non fumare, per colpire il monopolio austriaco. Il locale aveva fatto la sua comparsa nel 1840 nella corsia del Duomo, per opera di Antonio Pogliaghi. Su un paio di tavoli c’erano sempre mucchi di giornali, il “Lombardo”, il “Pungolo” L’Opinione”, “La Cicala politica”, che i clienti leggevano avidamente, tanto che i perditempo, notando quelle teste chine sui fogli, avevano ribattezzato il luogo “Caffè dell’emicrania” e “Caffè dei matti”. Caratteristica di certi caffè era il silenzio: si ordinava gesticolando e allo stesso modo si comunicava il conto. Gli avventori giocavano a dama o a scacchi oppure a “calabragh”, che il Dossi giudicò più stupido della tombola e dell’oca. Nel 1764 Pietro Verri, che spinse il Beccaria a scrivere “Dei delitti e delle pene” e usava incontrarsi con gli amici e gli avversari al Rebecchino; “e nelle più frequentate brasere (bracieri: n.d.a.) di Milano”, ebbe l’idea del periodico “Il Caffè” al Demetrio, in piazza Duomo, prendendo come modelli i fogli inglesi di Steele e Addison. Famoso nella Milano del Settecento, il Demetrio, “il cui braciere fu attizzato financo dall’abate Parini” (parola di Alberto Lorenzi), ospitava quasi tutti i soci dell’Accademia dei Pegni, intellettuali progressisti, Sebastiano Franci, Luigi Lambertenghi, Beccaria e lo stesso Verri, che elogiava quelle caffetterie, capaci di preparare un “caffè vero, verissimo di Levante e profumato col legno di Aloe”. Anche qui erano sparsi giornali molto in voga, tra cui “Le novelle politiche”.

La Galleria
Probabilmente al Biffi, data di nascita 15 settembre 1867, in Galleria Vittorio Emanuele, nel 1878 Tranquillo Cremona disegnò la prima testata del “Guerin Meschino – come ridevano i milanesi”. Al Caffè Ristorante Savini, già Birreria Stocker, anch’esso in Galleria e contemporaneo del Biffi, erano di casa Filippo Tommaso Marinetti, l’inventore del Futurismo; uomini di affari, scrittori, compositori, tra cui Marco Praga, Mascagni, Giordano, Toscanini, Toti Dal Monte, Emma Gramatica, Maria Callas, Cremona, Guido da Verona, Renato Simoni… Non era ammesso che i commensali vi si presentassero senza giacca. I caffè praticati da maestri del pennello, dello scalpello, della penna, mattatori del palcoscenico, giornalisti erano numerosi. Tra questi il Cambiasi, superbo dirimpetto al tempio della lirica e per questo denominato il “Caffè del Teatro alla Scala”. Qui un gruppo di monelli durante i moti schernirono un monaco che passava spedito; il religioso si voltò e pronto rispose: “Il governo ci lascia vivere per accompagnare gli scapestrati alla ghigliottina”.
Il caffè in un dipinto
In piazza della Scala era aperto anche il “Caffè dell’Orto”, fiancheggiato dal “Caffè delle Sirene”, che cambiò il nome in “Caffè dei virtuosi”, per il fatto che era preferito dagli artisti. Per i cittadini comuni era il caffè dei pompieri, per colpa di certi coristi scaligeri, che essendo sempre a corto di quattrini si accendevano il sigaro con gli zolfanelli dei baristi (una dozzina 12 soldi). A quanto pare tra queste cuccume Domenico Barbaja, già sguattero in una bottiglieria e poi gestore dei ridotti di vari teatri, Scala compresa, inventò la barbajata (panna, caffè e cioccolata). Il Caffè dei Virtuosi, che mandava le sue prelibatezze con i nomi dei cantanti celebri ai palchi scaligeri, entrò poi in competizione con il Caffè dell’Accademia, che luccicava in contrada Santa Margherita 1134, mèta di Emilio Praga… e dei soci dell’Accademia dei Filodrammatici. Assiduo anche Stendhal, goloso di rosoli e di sorbetti, che considerava divini; e il giramondo Tommaso Solera, che quando rientrava a Milano amava raccontare le sue esperienze e i Paesi che aveva visitato. I primi affezionali, all’alba dell’Ottocento, furono molti funzionari di polizia, per cui il locale venne soprannominato “Pavè des espions”, quindi venne scoperto dagli operatori di borsa, che in seguito dirottarono verso il “Caffè della Borsa”. Nella stessa contrada erano accese le luci del Caffè della Fenice, anch’esso ritrovo di poliziotti e dipendenti statali, che abitavano o lavoravano nei paraggi. All’American Bar, già Caffè Europa, all’angolo di via Passerella, Francesco Pozzi, che allora guidava il “Guerin Meschino”, riceveva i suoi redattori.

Caffè Vecchia Brera
Su corso Francesco II, oggi Vittorio Emanuele, erano aperti il Caffè dell’Orologio e il Caffè dei Servi, dove sedevano gli attori della Compagnia Ferravilla, intenti a ripassare la parte da recitare nel vicino Teatro Milanese. A pochi passi sorgevano il Caffè Due Colonne e il Caffè Greco, uno dei più antichi di Milano, essendo stato inaugurato nel 1832, e noto per la sua brasera, più grande di quelle accese in inverno in tanti altri esercizi. Al Borsinari, nell’omonima via, il Beccaria esplose contro un interlocutore irriducibile, scuotendo l’ambiente. Il Caffè della Peppina e il Caffè della Cecchina sono tornati famosi grazie alla canzone cantata a suo tempo allo “Zecchino d’Oro” di Bologna. Anche loro – parole di Otto Cima – ebbero parte nelle agitazioni patriottiche. Mai visto nei caffè Carlo Porta, che preferiva qualche osteria. Ma la sua assenza era colmata dalla declamazione dei suoi versi, che immancabili “fans” proponevano agli avventori. I caffè milanesi, letterarie o no, erano dunque un’infinità.
L'ingresso della Galleria









Le vetrine del Caffè Gnocchi, frequentato dagli Scapigliati e da Giuseppe Rovani, l’autore di “Cento anni”, brillavano, quanto il prestigioso, ricco di specchi e luci, Camparino, che, succeduto al Campari, dette impulso alla moda dell’aperitivo, nella Galleria Vittorio Emanuele, grandissima, spettacolare, lunga 200 metri, tra piazza della Scala e piazza Duomo. Credo non ci sia persona, che, in visita a Milano, non sia mai stata in Galleria per ammirare i suoi caffè e i suoi negozi storici. Il caffè, bevanda sorseggiata anche da Napoleone Bonaparte per tenersi sveglio, ha ispirato tantissimi artisti. Da ammirare “Conversazione familiare” di Bruno Longhi; “Colazione in giardino” di Giuseppe De Nittis; “Ritratto di Becca Benso”, di Achille Funi; “La famiglia del pittore”, di Mario Tozzi; “Il Pergolato” di Silvestro Lega…, quadri inclusi in una ricca, interessantissima pubblicazione con prefazione del gastronomo ed esperto di musica leggera Vincenzo Buonassisi, edita anni fa dal Centro Luigi Lavazza per gli studi le ricerche sul caffè. L’opera contiene testi godibili, interessanti e molto informati che raccontano anche nei dettagli ogni aspetto del caffè (“Il caffè e “l’amore”, “Il caffè e l’intellettuale”, “Il caffè e le casalinghe”…). In un capitolo si ricorda che “il caffè sia come luogo sia come bevanda fa parte della nostra vita quotidiana”. Un caffè preso al momento giusto può cambiarci l’umore. Il caffè ha legami con la satira politica... Il caffè ci inebria con il suo profumo.


















giovedì 13 settembre 2018

La sagra del peperoncino di San Simone


MUSICHE E TANTE LUCI
PER SUA ALTEZZA REALE

Il festeggiato ha ricambiato
esaltando piatti prelibati, come
la fagiolata di Simeone Rodio,
docente all’istituto alberghiero
di Crispiano. Il pubblico è stato
numerosissimo e soddisfatto.






Franco Presicci

Ogni anno, puntuale, ritorna a San Simone, Crispiano, sua altezza reale il peperoncino. Ed è una gioia per le migliaia di fans, che aspettano i primi di settembre per fargli onore. II festeggiato ricambia deliziando tutti i tipi di piatti forniti nelle serate del suo trionfo.
Gran folla alla sagra del peperoncino
La gente fa la ronda tra la chiesa dell’arcangelo Michele e l’inizio di via Martellotta, gustando una frisella con un pizzico di “habanero”, che si pavoneggia appeso sulle bancarelle bello nel suo colore verde pallido e la sua forma di lanterna; o di tabasco, che, portato nel 1868 in America da un reduce dalla guerra in Messico, forse prende il nome da un fiume che scorre in quella zona. Da noi l’uso del pepe rosso è diffuso ovunque, lo si sparge sul gelato, lo si lascia cadere nel caffè. Fa la sua figura anche la grappa al peperoncino.
Lo stand del prof. Biagi
Peperoncino in mostra






Occorre però moderazione, per evitare inconvenienti come quelli snocciolati alla sagra da una sorta di “cow boy” texano: una coppia venne invitata da amici lucani, che scodellarono con orgoglio spaghetti al sugo con tanto peperoncino, che gli ospiti invocarono i pompieri. In casa di un affermato professionista pugliese a Milano la signora servì la pasta con i ceci e uno dei commensali richiese il peperoncino; con l’indice e il pollice pescò dall’ampolla un “cornetto” intero e se lo mise in bocca senza scomporsi; un altro ospite volle imitarlo e gli si incendiò il palato. Su fatti del genere c’era anche chi intratteneva i vicini seduti su un muretto, elencando quasi tutte le virtù della spezie, che tra l’altro potenzierebbe gli amplessi.
Prof. Massimo Biagi
Il peperoncino ha moltissimi seguaci, e anche a loro si deve il successo che ottiene San Simone in ogni edizione. Fino a qualche anno fa approdava da Pisa in questa contrada un famoso esperto della materia: il docente universitario Massimo Biagi, che montava nel suo stand un tavolo con una quarantina di contenitori colmi di peperoncini multicolori, che davamo l’impressione di una lunga tavolozza. Biagi, che è morto e al posto del suo capannone ce n’è un altro, alle persone che lo sollecitavano dava spiegazioni sulla pianta e presentava quelle che aveva inventato egli stesso. Richiesto, accennava anche alla storia del “francisello”, come lo chiamano in Basilicata, di cui sono state trovate tracce del tipo “Chile tepin” nel 7500 a. C. Sentiamo ancora la voce bassa e pacata dell’illustre maestro, che riferì anche una leggenda, una delle tante che riguardano l’argomento. Quella del dio Tezcatlipoca che si presentò alla sua futura sposa travestito da venditore di spezie indemoniate. Insomma, frequentando la “Sagra d’u diavulicchie ascquande” cispianese, ci si diverte, assaggiando pietanze “firmate” da cuochi
Franco Mirabello
fantasiosi e famosi.

Lo chef Simeone Rodio





 





Tra queste la fagiolata ardente, apprezzatissima da tutti, di Simeone Rodio, un re della cucina, docente alla scuola alberghiera di Crispiano. I punti di ristoro qui sono decine. Gli stand dispensano, oltre al piatto di fagioli cucinato a regola d’arte, polpette, orecchiette, gulasch e tanti altri alimenti, sempre esaltati dal peperoncino. Qualche anno fa a questo protagonista indiscusso fu riservato il palcoscenico, messo su nella piazzetta, sul quale abili parrucchiere inventarono originali architetture tra i capelli di deliziose fanciulle. Era prevista anche una sfilata, ma un manolesta la fece naufragare rubando tutti gli ornamenti, corolle e quant’altro, che erano stati depositati dietro le quinte.
Tutti al lavoro, compreso il presidente(a destra)
E la sorpresa ideata dagli organizzatori della sagra, gli “Amici da Sempre”, suscitò non poca amarezza, soprattutto in Alfredo De Lucreziis, che della compagnia, composta anche dalle mogli, figli e nipoti, è un po’ l’anima. Anche lui presentava uno stand, ben arredato con peperoncini pendenti come orecchini o con gli steli calati in grossi vasi e in “capase”. Quest’anno la sagra, giunta alla XIX edizione, ha registrato un’affluenza straordinaria; file interminabili, siepi umane difficili da solcare, e tanti numeri: Franco Mirabello, partner del virtuoso della fisarmonica Vito Santoro, assente per indisposizione, cantava pizzicando le corde della chitarra; Michele Serio, autore di serigrafie, scattava “foto piccanti” a visitatori che i suoi assistenti trasformavano in peperoncini giganti; la vinicola Luccarelli offriva assaggi di vino prelibato.
Fotografie piccanti di Michele Serio
Che si poteva fare di più per solennizzare il “capsicum” che entusiasma i cuochi e i gastronomi, compreso, a suo tempo, l’informatissimo e autorevole Vincenzo Buonassisi. A loro pensano tanti discepoli improvvisati, che a Crispiano trovano il terreno adatto per esibirsi. “Il peperoncino è il pepe dei poveri, anche perché chi lo ama se lo può coltivare sul balcone di casa” – pontificava un tale corpacciuto, capo potato al massimo, pancia penzolante, barba da frate cappuccino, continuando: “Si chiama anche pepe d’India, da cui viene l’espressione abruzzese ‘Pepedigne’”. Teneva una vera e propria lezione peripatetica al suo seguito e accennava a Ettore Luini, ufficiale lucano della Guardia di Finanza, profondo conoscitore delle qualità del peperoncino, e tenace sostenitore delle sue virtù terapeutiche. E concludeva che una buona spaghettata a mezzanotte è un vero toccasana per la salute. Michele Annese, già segretario generale della Comunità Montana pugliese e direttore della biblioteca “Carlo Natale”, che grazie a lui e ai suoi collaboratori, era una fucina d’iniziative nuove e interessanti, come lo è adesso l’Università del Tempo Libero e del Sapere da lui fondata, passeggiava salutando gli amici e osservando le varie scene di questo teatro indimenticabile.
Il cestaio Antimo Calò
Improvvisamente dalla folla è sbucato il cestaio Antimo Calò di Uggiano Montefusco, Comune di Manduria, che per un momento aveva disertato il suo banco acquartierato vicino a una chiesetta antica per abbracciarlo; tornando subito a intrecciare fusti di lentischio per confezionare i suoi “panari”, attorniato da spettatori curiosi del suo lavoro. La sagra “d’u diavulicchie ascquande” è un appuntamento atteso, e gli interessati arrivano a frotte da ogni parte della Puglia, in particolare da Martina, da Taranto, da Grottaglie, da Montemesola, e anche da Bari per rendere omaggio al peperoncino, passione di Ugo Tognazzi (si ricordano le sue “penne infuriate”) e di Aldo Fabrizi, il bravissimo attore comico che inseguiva Totò, di professione ladro nella finzione cinematografica di “Guardie e ladri”. E innaffiati di peperoncino saranno stati anche gli spaghetti che Alberto Sordi divora in un film, dove pare interpreti un personaggio invaghito degli Stati Uniti. Anche tanti uomini politici di casa nostra e di Paesi lontani da noi impazziscono per il peperoncino.
Se non siamo in errore il chi chien, origini asiatiche, allettava il palato di Mao Tsè-tung. “Lo sai che a Diamante, in provincia di Cosenza, dove si svolge il “Peperoncino Festival” di respiro nazionale, esiste l’Accademia italiana del peperoncino per approfondire e diffondere la cultura del “diavoletto”, immigrato in Italia grazie a Cristoforo Colombo?, domandava ad un’altra una signora slanciata, capelli bianchi raccolti sulla nuca, andamento signorile. L’ interlocutrice era al corrente anche di altre attività dell’Accademia, che si preoccupa di far conoscere le vicende, le caratteristiche dei diversi tipi di questo frutto che genera allegria, di cui a abbiamo testimonianza personale visitando quasi dalla sua nascita la manifestazione allestita con sapienza dagli “Amici da sempre”. Fu Michele Annese ad invogliarci la prima volta, mentre ammiravamo uno splendido presepe di grandi dimensioni che gli stessi avevano costruito con quintali di biscotti scaduti. Da quella volta anche noi come gli altri aspettiamo con ansia i primi di settembre.
La Cantina
Ricordiamo che qualche anno fa il tempo minacciava pioggia (ne era già caduta a catinelle) ma c’erano coraggiosi che avevano raggiunto San Simone con gli ombrelli. All’ora stabilita il cielo si rasserenò e la sagra potè aprirsi senza timori. Al peperoncino, che nutre l’entusiasmo di chi sta ai fornelli con il cappello bianco, si ispirano orefici-artisti per creare gioielli a forma di corno, che, oltre a rappresentare un vanto per le signore in società, all’occorrenza possono assumere una funzione apotropaica, per chi ci crede. Anche la poesia, in lingua, in dialetto romano, abruzzese… parla di peperoncino. Ecco la prima quartina di un sonetto di Berto Lembo: “Io m’aricordo che, da ragazzino, / nun stavo fermo manco per un seconno / tanto che me diceva, pòro nonno / “Ma c’hai magnato er peperoncino?”. Intanto abbiamo cercato di sapere quale “diavolicchio” detenga il primo posto nella scala di Scoville. Anni fa il primato spettava all’habanero, originario dello Yucatan. A Oria gli è stata intestata la sede dell’Accademia. Ma quella posizione è traballante: a un campione succede subito un altro. L’habanero sfatò la leggenda che la più “incendiaria” fosse la Cayenna, poi sorpassata dalla Cayenna Golden. Una sagra variopinta, quella di Crispiano, ottimamente “confezionata”, ricca d’idee, rilassante. Purtroppo è durata soltanto due giorni. Quando hanno cominciato a spegnere le luci il pubblico si è sfoltito con malinconia, dandosi appuntamento all’anno prossimo. Alfredo De Lucreziis ha atteso che l’ultimo partecipante si dileguasse e poi è andato a dormire. Arrivederci al 2019.





mercoledì 5 settembre 2018

Dove i nobili villeggiavano una volta


SI COSTRUIRONO “VILLE DI DELIZIA”


MAGNIFICHE IN ZONE SPETTACOLARI
 
Un barcone sul naviglio


Tra i luoghi preferiti la Brianza, dove
l’estate si trasferivano con tutta la
famiglia, servitù completa compresa.

 
Le “madame” ricevevano amiche e
conoscenti o curavano personalmente
le piante esotiche.


Negli interni, spaziosi,
figurazioni pittoriche alle pareti, sculture
sui mobili d’epoca.



Franco Presicci
A volte ci si chiede come e dove una volta trascorressero la villeggiatura i nobili milanesi. Sul Naviglio; lontano dalla città; lungo la Martesana, in una località che ristorasse lo spirito? Non tardarono a mettersi alla ricerca di uno spazio ameno, panoramico, collinare o pianeggiante che fosse, su cui costruire la loro dimora estiva che con la sua magnificenza significasse il potere e l’abbondanza, e che garantisse quella pace, quel silenzio selvaggio preferiti da Stendhal. Il fenomeno cominciò a propagarsi all’inizio del secolo XVII e proseguì fino all’alba del Novecento. Tra le mete preferite le alture della Brianza, nome di cui – scrisse Cesare Cantù, nato da quelle parti – non si conoscono “le origini né il significato né i limiti, sebbene i più la conterminino tra il Lambro, l’Adda, i monti della Valsassina e le ultime ondulazioni delle Prealpi, che muoiono a Usmate”.

Villa settecentesca ripresa da P. Orlandi a Cernusco
Queste dimore, non praticate d’inverno per il gran freddo, erano abitate d’estate da tutta la famiglia, servitù compresa. Ovunque ci fosse un angolo incantevole, che illuminasse lo sguardo e garantisse tranquillità fiorì un’architettura di grande raffinatezza e in qualche caso addirittura una piccola Versailles. Non si badava a spese, tanto i conti in banca dei signori era molto polposo; s’impegnavano pittori e scultori, grandi e modesti, celebri e sconosciuti, bravi e meno bravi, oltre agli architetti di fama: la villa doveva essere uno “status symbol”. Doveva suscitare invidia e ammirazione. Non doveva essere bella, ma bellissima, spettacolare, imponente, in armonia con il paesaggio circostante, che era ameno, ricco di alberi, di profumi, accompagnato - commentò Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”- anche dal canto degli uccelli e dalla nota del cuculo” che allietavano ancora di più le passeggiate, se si raggiungevano “i sentieri che vagano tra i greppi senza meta evidente, tra piccoli panorami che spariscono quando si entra nel folto dei castagni o delle robinie per riapparire poco dopo”. Viaggiatori e narratori italiani e stranieri non hanno risparmiato elogi a questi luoghi.

Il Ticinello
Per esempio a proposito delle acque manzoniane Johan Gorge Kolh annotava: “Il lago di Como non deve mancare in Paradiso, essendo impossibile che stia al mondo un lago che lo avanzi in bellezze naturali…”. E aggiungeva che era nel sogno di tutti gli europei di buon gusto non soltanto dei concittadini di Carlo Porta… “E quando nel 1826 furono varate imbarcazioni come ’Il Plinio’ (nome derivante dallo scrittore latino che sul lago di Como aveva avuto due ville), la località venne presa d’assalto”. Ma anche Torno, sulla riva interna del lago occidentale, dove nell’elegante villa “Pliniana” Rossini avrebbe composto una delle sue opere: “Tancredi”. Le dimore di villeggiatura che i signori si facevano costruire fuori Milano venivano dette “ville di delizia” e i proprietari amavano farle immortalare dalle tavolozze degli artisti, tra i quali il bresciano Angelo Inganni, che lavorò molto a Milano, dove fu allievo di Giovanni Migliara, da cui ereditò il gusto delle vedute; divenne celebre come illustratore della vita popolare meneghina e anche per le sue tele dedicate alla Milano ottocentesca (sue opere si trovano nel Museo di Milano).

Gita sul Ticinello
In queste ville, sorte nel Bergamasco, sull’Adda, sul Garda…, si svolgevano serate danzanti sfarzose, alle quali partecipava la crema della società. Chi aveva interessi culturali poteva rifugiarsi in una sala apposita per dedicarsi allo studio o alla lettura. E siccome le dimore erano abbracciate dal verde, che andava protetto e alimentato, venivano reclutati giardinieri virtuosi. Nel suo diario Goethe confessava che non voleva farsi sfuggire una meraviglia della natura, uno spettacolo incantevole…”. E descriveva anche la gente: “… vive la vita rilassata, non curante… prima di tutto le porte non hanno serrature, ma l’oste mi assicurò che potevo stare tranquillo anche se tutto il mio bagaglio fosse consistito in diamanti; in secondo luogo le finestre sono chiuse da carta oleata anziché da vetri; infine manca di una… comodità molto importante di modo che si è abbastanza prossimi allo stato di natura…”.

Soste sul Naviglio
Anche sulle sponde del Naviglio Grande spuntarono questi autentici gioielli, visibili attraversando il canale su una barca a motore e non; a piedi o in bicicletta. Verso la metà dell’Ottocento il cosiddetto popolino prese le stesse vie; e vennero aperti alberghi, impiantate funicolari… La gente passava le giornate giocando a carte o a domino, leggendo il giornale o un libro, organizzando gite in barca o in carrozza; per qualche ricorrenza imbandiva le tavolate e poi dava il via alla musica e ai balli, con il conforto di un po’ d’ombra in un paesaggio rilassante e stupendo. Dopo essere stato sul Sacro Monte, nella zona famosa e celebrata per gli aspetti paesistici, panoramici, ambientali, Stendhal potè scrivere: “Una vista magnifica; al tramonto possiamo scorgere sette laghi: per cui si poteva percorrere l’intera Germania e l’intera Francia senza avere sensazioni simili. 

Cascina sul Ticinello
“Varese, la città-giardino, conosciuta e apprezzata come luogo di villeggiatura almeno dagli albori del Settecento, ha sempre tenuto alta la sua reputazione. Alla quale non sono mai stati insensibili i milanesi, che indipendentemente dalle parole di Henry Beyle, tanto innamorato della Lombardia e di Milano, che qui avrebbe voluto essere sepolto. L’amava dunque tanto più di un meneghino, che non ebbe neppure bisogno dell’annuncio, dato nel 1903 su una guida turistica, che Valtravaglia, “a mezzodì da Luino”, entrava a far parte dei centri residenziali del Verbano, perché già vi trascorreva in piena riservatezza le sue vacanze. Il turismo di massa muoveva i primi passi. Nelle zone attraversate dalle acque sorsero anche le cascine. D’inverno il proprietario se ne stava in città, pur avendo le sue attività nel contado, dove si trasferiva con moglie e figli appena scoppiava il caldo. E a beneficiare non era soltanto lo spirito, ma anche i polmoni. Veri e propri luoghi di villeggiatura molto frequentati quando incalzava la calura.

Lungo la Martesana
Sulla Martesana e sul Naviglio Grande i giovani si impegnavano in entusiasmanti e impegnative gare di nuoto, con barriere umane ad applaudire dalle sponde. Molto partecipata quella del 1913 da Corsico fino alla darsena, organizzata dai Canottieri Milano. I meno giovani solcavano il canale con la barchetta o dall’alzaia lanciavano in acqua la lenza per catturare qualche pesciolino più per sport che per la padella. Alberto Lorenzi informava che i nostri bisnonni, anche se avevano il denaro necessario per potersi permettere un meritato viaggio oltreconfine, soggiorni nei migliori alberghi e persino una circumnavigazione del globo su case galleggianti di lusso, erano soliti sedersi anche in pieno giorno al Savini, dopo aver fatto quattro passi in Galleria in compagnia, magari soffermandosi conversando nell’ottagono, fumando un sigaro “Virginia”. Insomma, ognuno aveva il suo modo di godersi l’estate: chi, come detto, in una fastosa “villa di delizia” (detta anche semplicemente “delizia”), dove tra l’altro negli eleganti saloni affrescati e dotati di figurazioni pittoriche alle pareti e sculture sui mobili d’epoca, le ”madame”, quando non si dedicavano alla cura delle rose, di ogni tipo, belle, sfolgoranti, ornamentali, sviluppate ad arco o attorcigliate ad una colonna o con i tralci fissati a un graticcio, rosse, gialle, bianche; o alle piante esotiche, che curavano con orgoglio personalmente escludendo i giardinieri, ricevevano amici e conoscenti ascoltando musica, o facendo quattro chiacchiere, o giocando a carte, mentre gli uomini con le stecche dalle punte incipriate tiravano le biglie sul tavolo verde del biliardo. Chi stava in ville modeste non si annoiava certo, ma aveva la sua maniera di svagarsi. Chi invece non si allontanava dalla città, come tanti fanno oggi, per mancanza di liquidi o di voglia di muoversi, andava all’Idroscalo, a fare il “pic-nic” o a ballare, o al Parco Sempione a godersi l’ombra degli alberi. Da qualche anno si è aggiunto il Parco Nord, grandissimo (spazia tra Milano, Bresso, Cusano Milanino, Cormano, Cinisello Balsamo, Novate Milanese, Sesto San Giovanni), ricco di viali alberati, distese erbose, orti molto ordinati, piste ciclabili, chioschi che servono bibite e gelati. Il Parco Nord, un’oasi per bimbi, mamme e papà, e i nonni, che alle panchine preferiscono i campi da bocce, protetti dagli ombrelli vegetali.