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mercoledì 24 febbraio 2021

Il “Corriere del Giorno” di Taranto

 

 

Via d'Aquino - Taranto
UNA TESTATA CHE NON MUORE

NEL RICORDO DI CHI L’HA 

AMATA

Ha avuto tanti momenti brutti, ma

i suoi giornalisti, valenti e

coraggiosi, si sono sempre battuti

per tenerla in vita.

C’è chi spera nella resurrezione.

 

 

 

Vincenzo Petrocelli al centro,Presicci a destra
Il secondo da destra Tani Curi

 

 

 

Franco Presicci

Non avevo ancora diciotto anni e pensavo alla professione di giornalista. Quando all’università di Bari scelsi giurisprudenza non sognavo le aule della pretura e del tribunale. Scrivevo, ma non osavo mostrare le pagine   inchiostrate a qualcuno che potesse darmi un giudizio.

Una domenica all’angolo tra via Nettuno, dove abitavo, e la Dante crollò un palazzo appena costruito. Gli inquilini furono salvati dal capomastro, che, vedendo una crepa aprirsi ed allargarsi in una parete della sua cucina, sfrecciò fino all’ultimo piano urlando “Uscite, scappate, mettetevi in salvo!”, rischiando la vita.

Clemente Salvaggio a sin.
Non sapendo nulla della vita nei giornali, pensai che essendo un giorno festivo, al “Corriere del Giorno”, il quotidiano locale, uscito la prima volta il 6 aprile del ’47, non potessero aver saputo nulla del disastro; e così il lunedì mattina andai in piazza Garibaldi, dove in uno dei locali al piano terra del palazzo del tribunale e del liceo classico “Archita”, c’era la sede del giornale; salii i quatto o cinque scalini, sistemati subito dopo la soglia e mi trovai di fronte all’ufficio del direttore, che era Giovanni Acquaviva, un uomo sorridente e incoraggiante. “Entra, entra”, mi disse, vedendomi titubante. Gli raccontai ciò che avevo visto, i dialoghi che avevo avuto con le persone che, rimaste senza casa, erano alloggiate nelle aule della scuola elementare “Acanfora”, che fronteggiava proprio lo stabile frantumato, e lui mi ascoltò attentamente.

Scuola Acanfora
Quando terminai, mi disse che loro sapevano tutto, perché, anche se era domenica quando era avvenuto il fatto, il cronista di turno aveva già riempito il suo taccuino. E aggiunse che se avevo voglia di collaborare potevo cominciare con le lettere al direttore.

Lo feci e dalle lettere, dopo qualche tempo, passai a un piccolo “pezzo” lungo quanto una biro. Intanto frequentavo la redazione, che passò in via Mazzini, quasi di fronte al cinema Paisiello e alla targa con parole del poeta venosino Orazio posta in un’aiuola.

 

Targa in viale Mazzini
 

 

 

E conobbi tanti redattori bravissimi e cordiali: Domenico Casulli, di cui ricordo l’immagine degli “ombrelli che fiorirono durante una manifestazione affollatissima” (lasciò il giornale per fare l’avvocato); Peppe Ventrelli, che si occupava di sport; Vincenzo Petrocelli, che era capo redattore già nel ’65, e passo dopo passo guidò diverse redazioni, dalla cronaca alle province, alle pagine nazionali, a quelle culturali; Franco De Gennaro, uno dei fondatori della testata, che, pur essendo in plancia, scriveva anche lui di sport e senza peli sulla lingua (alla fine di un derby Taranto-Bari i tifosi danneggiarono le auto degli ospiti; la stessa cosa avvenne nella città consorella, e De Gennaro titolò i suoi articoli con “Cretinismo numero 1” e “Cretinismo numero 2”). Era era brusco, severo, ma generoso e disponibile.

Peluso e Mandese

Al “Corriere” conobbi anche Narciso Bino (poi reclutato dalla Rai); Domenico Attanasio, che si occupava di cronaca nera; Pino Catapano, Silvano Trevisani, Paolo Aquaro e Clemente Salvaggio, che aveva lasciato “Mercoledì Sport”, dove furoreggiava con articoli anche in piena pagina e titoli sparati su più colonne, per entrare al “Corriere”, del quale in seguito divenne direttore.

Concreto e di poche parole Nino Bixio Lomartire, nato a Ostuni, ma tarantino d’elezione, autore di diversi libri sulla Marina militare e di economia (“L’Arsenale M.M. di Taranto”; “Taranto, Progetto ‘80”, “Navi e bugie”, “La Fiera del Mare”; “Taranto: uno sviluppo amaro”), che gli fecero vincere un Premio in ricordo di Nunzio Schena e gli fu consegnato dalla figlia dell’editore e da Nuove Proposte in una cerimonia alla caserma della Marina di San Vito.

Strada intitolata a Schena dal Comune di Fasano
Vidi poche volte Nicola Caputo, a cui si devono volumi preziosi, come “Taranto com’era”, “L’anima incappucciata; Pasquale Scardillo, rispettabile firma delle pagine sportive: lo frequentai assiduamente a Milano, dove era stato assunto dalla Rizzoli e come collaboratore prima dal quotidiano del pomeriggio “Corriere Lombardo” e poi dal “Corriere della Sera”.

In viale Mazzini, la sede successiva del “Corriere”, incontrai Piero Mandrillo, professore d’italiano, scrittore dallo stile nobile, grandissima cultura, forte amore per il teatro (andò da Taranto a Firenze per assistere a una

 rappresentazione teatrale e poi in altre città),
giornalista, che oltre a scrivere sul “Corriere” conduceva dibattiti su TvTaranto (fu invitato dall’Università di Wellington per insegnare la nostra lingua); e a Milano intervistava l’autorevole critico letterario del “Giorno” Giuliano Gramigna; il Premio Nobel Eugenio Montale, nella sua casa in via Bigli; il poeta tarantino Raffaele Carrieri, che aveva abitava in via Borgonuovo... Spesso era ospite della figlia Maria Teresa a Monza, dove giocava con il nipotino e parlava di storia con il genero. Al suo arrivo alla stazione Centrale di Milano, trovava ad aspettarlo puntualmente il sottoscritto, in taxi andavamo a casa mia e durante il pranzo mi dava notizie di Taranto e degli amici che avevo laggiù. Una volta mi confidò che stava studiando la parola dialettale “chiudde”, pescatore, che assunse il significato di stolto e secondo Giacinto Peluso derivava da “ciurma”, rematori di una galera.


Mandrillo

Ricevevo “Il Corriere” a Milano e leggevo, oltre ai miei articoli (uno sul pittore foggiano Alberto Amorico, che aveva fatto il ritratto a Umberto Giordano sul letto di morte e dipingeva paesaggi straordinari; un altro sulla Milano di notte e altri sulla droga, sulla morte del grande pittore Filippo Alto e su quella di Giuseppe Pignataro, che a Taranto aveva lo studio nell’androne di uno stabile di via Di Palma ed era noto per aver contestato assieme ad altri il Premio Taranto, sporcando i muri della città con frasi come “Viva Raffaello e abbasso Cassinari”. Poi preferì trasferirsi a Milano.

Leggevo con tanto interesse anche i ritratti di Giacinto Peluso. Ne ha fatti tanti sulle pagine del “Corriere”, sui personaggi dei primi del ‘900; sui tempi del lume a petrolio; sulle processioni,sui luoghi, i fatti, gli usi e i costumi di una volta…

A proposito di fatti, mi preme svelarne uno che la dice lunga sulla bontà e la delicatezza di questo scrittore, che ho nel cuore: qualche giorno prima di morire mi mandò una sua opera pubblicata da Mandese, ”Taranto da un ponte all’altro”, accompagnato da una lettera e da un “ex libris” che aveva eseguito per me il pittore Salinari quando avevo diciannove anni e scrivevo anche su “Il Rostro” di Mario Sossi. Nella lettera aveva scritto: “Me lo regalasti tantissimi anni fa e come vedi l’ho conservato per oltre mezzo secolo. Adesso è meglio che lo tenga tu”. Dopo qualche giorno mi telefonò Nicola Mandese per avvertirmi che Giacinto non c’era più. Ci ha lasciato tanti volumi: “Ajère e òsce: alle radici del dialetto tarantino”, “Voci dell’isola”…

Riccardo Catacchio

Sono ancora molto legato al “Corriere del Giorno”, che è stato il cuore, l’anima di Taranto: confezionato ogni notte da giornalisti coraggiosi e appassionati, che nonostante le disavventure che il giornale ha dovuto affrontare, lo hanno coltivato con competenza e sacrificio. Quando scrissi il libro sulle cascine lombarde l’editore mi chiese una foto e una biografia di una quarantina di righe; gliene ne consegnai una decina con un accenno al mio rodaggio al “Corriere del Giorno”. Acquaviva lo recensì, sottolineando che ero emigrato a Milano, lavoravo al “Giorno” e non dimenticavo il quotidiano della Bimare.

Oltre ai giornalisti già citati, Tani Curi, che ritrovai poi al “Giorno” in via Fava, dov’era caporedattore e curava uno dei settimanali dedicati alla Lombardia; Franco Cigliola, del quale ho perduto le tracce; Rocco Tancredi; Riccardo Catacchio, già mio amico, che aveva fatto la scuola di giornalismo all’Università di Urbino, rettore Carlo Bo, e si meritò la carica di capocronista e poi quella di direttore; Roberto Crucillà, che si occupava delle cronache del Palazzo di Giustizia, quindi le corrispondenze di Silvia Laddomada da Crispiano, gli articoli di Michele Cristella.

Nelle mie rimpatriate non mancavo di fare un salto in via Di Palma, nella nuova residenza del “Corriere”: nel palazzo del cinema Odeon, al primo piano, e ogni volta mi ricordavo dei binari di scambio del tram che erano installati proprio di fronte (il mezzo sferragliava da Solito alla stazione). Lo seguivo ovunque, il “Corriere”, anche qua do traslocò in via Dante, ai Beni Stabili, e poi in piazza Maria Immacolata, a stretto contatto di gomito con la libreria Filippi, poi passata in corso Umberto.

Il pittore Daddario al centro
Fu sul cinema Odeon che una sera Vincenzo Petrocelli, dopo che gli avevo riferito la notizia di una specie di rivolta che c’era stata al festival dei baffi di Grottaglie (motivo: la giuria quasi tutta al femminile era accusata di aver votato un greco per la prestanza fisica e non per l’eccellenza del pelo), senza dirmi niente aggiunse fra le trasmissioni del giorno dopo di TvTaranto (con quell’antenna credo che il giornale avesse rapporti) “La rivolta dei baffi” condotta da me.  Io mi schermii e lui rispose: “Se non lo fai, che amico sei?”. E fu la prima volta che misi piede in una televisione. Quella sera ci fu il diluvio e arrivai nello studio fradicio di pioggia. Più fortunati gli ospiti, arrivati prima, tra cui un bidello che aveva il viso sommerso in baffi e barba a sciarpa, che curava meticolosamente. Così anche l’impiegato che i baffi li aveva alla moschettiera: venivano ripresi non da un fotografo, ma da due bravissimi pittori, Raffaele Daddario e Benedetto D’Amicis. Serata divertente, almeno per me e per Clemente Salvaggio, che qualche giorno dopo, tornato dalle ferie, aveva visto la registrazione e aveva riso a crepapelle, per la stravaganza delle barbe e per le mie domande garbatamente impertinenti.

Salvaggio è il sesto da destra

Nel suo ufficio, Vincenzo Petrocelli mi fece conoscere anche Giuseppe Francobandiera, direttore del circolo culturale dell’Italsider, insediato nella masseria Vaccarella, e altre personalità, come Franco Zoppo, che insegnava latino e greco al liceo “Archita” e dopo qualche anno pubblicò l’ottimo romanzo “Belmonte”.

Quando appresi la brutta notizia che la voce di Taranto si era spenta, trattenni a stento le lacrime. Mi vennero in mente le figure che lo avevano nutrito, amandolo: Petrocelli, De Gennaro e gli altri; le sere che in cui disertavo via D’Aquino per andare a sentire il respiro del “Corriere” e l’odore del piombo; per incontrare gli amici, tra cui il Giuseppe Barbalucca, medico pediatra con un laboratorio di analisi in via Mignogna e giornalista pubblicista con una scrivania al “Corriere”. A volte ripercorro con la memoria quei giorni lontani, e mi pare di averla ancora tra le mani, la testata fondata, come detto, il 6 aprile del ’47 da Franco De Gennaro, Egidio Stagno (fu direttore generale del “Corriere della Sera”), Franco Ferrajolo, Giovanni Acquaviva. Anche le cose più belle muoiono.


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mercoledì 17 febbraio 2021

E’ dI Taranto e ha girato il mondo

Nicola Martinucci

IL TENORE NICOLA MARTINUCCI

DETTO L’EREDE DI TITO SCHIPA

 

Nella sua città natale sospirava il

Teatro lirico, ma le promesse a

volte sono come farfalle. Il primo

a pronosticargli un bell’avvenire

fu il tenore Mario Del Monaco,

altro colosso di ieri, dalla figura

imponente.

 


Franco Presicci

Un critico lo definì l’erede di Tito Schipa. Ma già era “l’usignolo di Lecce”, il cui talento musicale era stato avvertito fin dalla scuola elementare, dove era detto “Titù”, piccoletto. Tito Schipa, il cui nome era esploso con il “Don Giovanni” e il “Barbiere di Sibilia”, era considerato uno dei maggiori cantanti del secolo scorso; e Nicola Martinucci, sentendosi esaltare così, quasi era in imbarazzo, dato il suo carattere semplice e timido.

Giuseppe Zecchillo

Di lui il baritono Giuseppe Zecchillo, che non aveva peli sulla lingua, mi aveva detto che Nicola Martinucci era un vero grande artista, meritevole del successo che andava ottenendo ovunque si esibisse, in Italia e all’estero. Zecchillo era un personaggio molto noto, per la sua brillante carriera, per le sue proteste dal loggione della Scala e per le strade di Milano, che occupavano ampio spazio in tutti i giornali, dato il personaggio, che tra l’altro aveva fondato il sindacato della categoria. Faceva anche suggestivi quadri con la pasta ripassata con la porporina, che lui definiva quadri in oro Zecchillo ed era informato di tutto. Io andavo a trovarlo spesso nel suo studio in via Fiori Chiari, a Brera (che fu del suo amico Piero Manzoni, l’artista che aveva anticipato l’arte povera concettuale) e lo ascoltavo mentre parlava anche al telefono di teatro lirico e di pittori. Non parlava mai a vuoto, non si lasciava mai andare a facili giudizi, nel bene e nel male. Per cui, se affermava la sua stima per Nicola Martinucci si poteva mettere la mano sul fuoco. Mi fece domande su Martinucci anche la sera in cui decise di concedere il proprio studio per la mostra di un graffitaio importante, e allo scopo fece liberare il locale del piano terra. A un certo punto mi invitò a seguirlo al bar dell’angolo, che frequentava quotidianamente per offrire un caffè o una bibita agli amici che andavano a fargli visita.

Nicola Martinucci

“Tu lo hai conosciuto Martinucci?” Risposi di sì. “Lo sai che è tuo concittadino?”. “Sì, so che è nato a Taranto e che è una persona alla mano. Ti dirò di più: a Taranto va spesso e a Milano abita in una villa in viale Lunigiana, quasi addossata alla Cassa di Risparmio delle Province Lombarde”. “E non vi siete mai incontrati?”. “Sì, una volta, per pochi minuti”. E siccome Giuseppe era una persona curiosa, mi domandò se ne sapessi di più. Non sapevo altro, solo che era amico del vicequestore Filippo Ninno, di Taranto anche lui, poliziotto acuto, indagatore tenace, apprezzato anche per aver liberato dalla droga la zona che gli era stata affidata (per la cronaca, lo avevano soprannominato “ispettore Callaghan) e, da capo della squadra mobile, risolto delitti clamorosi. Il caso poi mi fece nuovamente incontrare Nicola a Taranto, dove mi parlò di una sua “tournèe” in Spagna. Un agosto venne a trovarmi nella mia casa di Martina, nel centro storico, dove le case sono fondali di teatro e i vicoli luoghi di conversazione tra le donne che stando sulla soglia del proprio basso lavorano a maglia o sorvegliano un banchetto di fichi da seccare al sole (di solito lo si fa in campagna), e mi porto nella sua splendida villa che guarda il mare. 

Filippo Ninni
 
Mi regalò una cassetta con alcune sue interpretazioni, che prestai al mio amico Vito Plantone, suo ammiratore. Ci promettendo di vederci ancora; e mantenni la parola, non mancando di sedermi tra il pubblico la sera in cui il palcoscenico del teatro “La Pineta” tenne a battesimo la figlia in veste di presentatrice. Poi il caso decide, gli impegni ci distraggono e i contatti con le persone si perdono. Ma la stima, l’affetto restano. Una delle volte in cui passammo qualche ora insieme, nel giugno del 2001, Nicola mi raccontò un po’ della sua vita. Naturalmente dietro mia sollecitazione. E io ho piacere nel riferirla.
 
La turista e il pescatore

Quando aveva pochi anni, tornando a casa dalla scuola, si sedeva sul marciapiede di fronte a una villetta, dove un melomane ascoltava per ore, ad alto volume, la voce di Beniamino Gigli, altro grande tenore del secolo. Nicola rimaneva incantato, memorizzando tutte quelle arie, che poi canticchiava, meravigliando amici, parenti e conoscenti. A casa lo aspettavano per il pranzo, ma non si davano pensiero, sapendo dove andarlo a cercare. “Bella la tua storia, ancora più bella per il modo con cui la racconti”, gli dissi. E lui continuava, come fosse un nonno intento a intrattenere il nipotino con i piedi sulla pedana del braciere nelle fredde giornate della Taranto di una volta (oggi i termosifoni hanno liquefatto il romanticismo). “Mio padre e miei fratelli avevano un’officina all’Hotel Delfino in viale Virgilio (adesso è in viale Magna Grecia) e sembrava che anch’io dovessi per sempre battere il martello sull’incudine o tenere il ferro sul fuoco, limitandomi ad ascoltare le opere o a cantarle in un piccolo teatro di periferia, nel tempo libero”.

Chiesa di San Domenico
Mar Piccolo
Ma il destino, e la sua bravura, stavano per aprirgli un’altra strada. “Scese a Taranto Mario Del Monaco, in cartellone alla ‘Pineta’, un teatro all’aperto che si trovava nella Villa Peripato. Il famoso tenore, una voce dalla potenza non comune e dalla figura imponente, andò ad alloggiare proprio al Delfino e il pomeriggio faceva i soliti quattro passi sul viale che oltrepassa vecchi stabilimenti balneari (Praia a Mare, Lido Bruno… e si spinge fino a San Vito”. Martinucci, allora venticinquenne, lo osservava trepidante e non aveva il coraggio di avvicinarlo. Fu uno zio, fratello di sua madre, a fare il grande passo. Del Monaco non si negò. Anzi lo accolse con grande affabilità e gli suggerì di cantare un’aria. Sia pure timidamente, Nicola eseguì, cavandosela molto bene. “Bravo, molto bravo, hai davanti a te un ottimo avvenire”, predisse il signore della ribalta. Nicola non esitò: abbandonò bicornie, punzoni, calibri e preselle e si mise a studiare alacremente. 
Il Palazzo del Governo
E per lui cominciarono le soddisfazioni, seguite dai trionfi in Italia e negli Stati Uniti, in India, in Australia, in Spagna, in Germania, ovunque, Al “Regio” di Torino ne “I Pagliacci” di Leoncavallo, opera che esprime un felice binomio tra musica ed evento drammatico, aveva interpretato Canio, personaggio perseguitato dal sospetto che il gobbo Tonio concupisca sua moglie Nedda, che però tresca con Silvio, ricco proprietario della zona. La regia di Franco Zeffirelli, che aveva già diretto Martinucci quattro anni prima alla Scala. “Nel tempio della Lirica, la Scala – ricordò Nicola- ho cantato dodici opere; l’anno scorso nell’”Adriana Lecouvreur” di Cilea. E Canio con Muti. In quei panni mi trovo magnificamente”. Nell’84 aveva inaugurato la stagione con “Turandot” per la regia dello stesso Zeffirelli e la direzione di Lorin Maazel. E aveva molti altri impegni in programma: allo “Sferisterio” di Macerata; in Egitto, un Paese che aveva nel cuore, non soltanto per le Piramidi. I suoi pezzi forti, l’”Aida, “Turandot”, “La Cavalleria Rusticana”, “I Pagliacci”. Non potevo non tentare di snidare i suoi sogni nel cassetto. Uno in particolare: creare a Taranto un grande Teatro dell’Opera. Nicola Martinucci, che l’anno successivo sarebbe stato Mario Cavaradossi in “Tosca”, all’Arena di Verona, ama Taranto profondamente. Se lo si invita ad elencare i luoghi di Taranto che predilige va a nozze.
 
Il Ponte
Oltre a viale Virgilio, dove cantò davanti a Del Monaco (che aveva mezzi vocali eccezionali, era ritenuto uno dei maggiori interpreti di Otello e amava anche la pittura e la scultura), viale Magna Grecia, che da vasta pianura erbosa si era trasformata in una fungaia di palazzi e di negozi, con la concattedrale di Giò Ponti, la cui facciata ricorda la rete dei pescatori; e la città vecchia, Mar Piccolo, la dogana, piazza Fontana e il ponte di pietra; la chiesa di San Domenico, la ringhiera e il profumo del mare, il Castello Aragonese e il ponte girevole, i tramonti. Insomma le bellezze di Taranto, che affascinano chiunque venga a visitare la città. “Non si può dimenticare Taranto. Anche se sei lontano te la porti dentro e aspetti con ansia il momento del ritorno. Passò una bellissima giovane dai capelli color antracite e mormorò: “Anna Fougez, che entrava in scena con un braccialetto a forma di vipera”… “Vipera, vipera,/ sul braccio di colei/ che distrugge tutti i sogni miei”.


sabato 6 febbraio 2021

In un colloquio con Antonio Sirtori

Antonio Sirtori
IL FASCINO, IL SILENZIO, LA PACE DI UNA CASCINA LOMBARDA

 

Il ricordo delle fatiche; degli

uomini addetti ai vari compiti: il

cavallante il mungitore, il caporale.

Il ruolo delle donne; i giochi; le

feste.


 

Franco Presicci

Appena superato l’ingresso della cascina Sirtori, a Rovagnasco, a due passi da Segrate, in compagnia del mio amico Pietro Carrideo, che con il suo taxi ha passato la vita ad attraversare in lungo e in largo Milano, ci venne incontro Antonio, il proprietario, appoggiandosi ad un bastone. 

Cascina sul Naviglio Grande
Copricapo di lana in testa, giaccone marrone, guanti di lavoro turchesi, alto, sull’ottantina, un’espressione seria, rispose sottovoce al nostro saluto e ci scortò subito in un giro per i vari ambienti, parlandoci della storia della cascina. Poi si appoggiò ad un trattore, che ancora, qualche volta, guidava e non per sfizio e lanciò uno sguardo al cielo che prometteva pioggia. Poi scucì un sorriso, ci mostrò vari attrezzi, che tradivano gli anni, si fermò davanti alla legnaia, ripetè il sorriso, contenuto ma non forzato, e snidò un certo orgoglio per quella collezione che testimoniava giorni di fatica. La vita in cascina non era, e non è, facile: sveglia prima dell’alba e ritorno a casa al tramonto. E’ la storia del rapporto dell’uomo con la terra. Osservando un congegno arrugginito e un avanzo di spandifieno, pensai a Renzo Travaglino, vittima come Lucia di Don Rodrigo nei “Promessi Sposi”, che scarpinando per la seconda volta per raggiungere Milano, sostò nei pressi del quartiere Greco, dove trovò accoglienza proprio in una cascina. Era il 23 aprile del 2010, quando con Pietro, di Torremaggiore, nel Foggiano, figlio di un carrettaio, di cui ama descrivere il lavoro dal bosco ceduo al carretto rifinito. Una giornata grigia e fredda. Antonio si era equipaggiato a dovere e sembrava non averne. I suoi occhi suggerivano il suo piacere di conversare, ma al caldo. In cucina.

Cascine lungo il Naviglio
Oltrepassata la soglia, seduti attorno a un tavolo tra l’odore della minestra nella pentola, chiese alla moglie, Bambina, di preparare il caffè; e lei, pronta, appoggiò la cuccuma sul fornello. Troneggiando di fronte a me, Antonio cominciò a rispondere a tutte le domande: non solo le mie, ma anche quelle di Pietro, uomo curioso e informato, che avendo smaltito l’adolescenza e la giovinezza nel suo paese natale, la cui storia ha a che fare con il Monastero Torrae Majoris, aveva messo il naso in tutte le botteghe artigiane e nei campi in cui lavoravano alcuni parenti. Bambini ascoltava i discorsi del marito e garbatamente integrava, arricchiva, completava, rendendo più ricco il racconto. Antonio si appassionava, rivelando una memoria lucida, incoraggiata da quella di Pietro; e io mietevo dall’uno e dall’altro. Intanto fumava il caffè nelle tazze, accompagnato dai biscottini che Bambina incoraggiava ad assaporare, senza perdere il filo della discussione e colmando i vuoti che il marito lasciava.

Cascina Linterno
Gentile, premurosa, perfetta padrona di casa, rimarcava che Antonio aveva compiuto con amore il suo lavoro, nonostante fosse duro e quasi senza sosta. Mi venivano in mente le mansioni svolte dai lavoranti nelle cascine, a corte chiusa o a corte aperta, dove i dipendenti fissi ottenevano in cambio poche lire e un piatto di minestra; gli obbligati, che accorrevano quando si aveva bisogno, cioè almeno sei mesi all’anno, guadagnavano un po’ meno degli avventizi, che però venivano scaricati appena la loro prestazione non serviva più. Ed erano alcuni di questi che, dovendo assicurare un piatto di polenta alla famiglia, s’intruppavano in bande di briganti, alle quali erano molto utili conoscendo bene i luoghi. Pietro, sempre attento e interessato, ricordava i vari settori delle cascine: la stalla, il cotile, il fienile, l’abitazione del proprietario, la “giazzera”, dove si teneva il ghiaccio… Antonio taceva per pochi minuti, e poi riprendeva la parola, rispolverando l’avvicendarsi dei fatti e dei personaggi della sua struttura agricola, cominciando dal nonno, il primo della dinastia a mettervi piede, da affittuario. I nipoti, cresciuti in un mondo fatto di giochi semplici, che finivano presto perché i bambini dovevano dare una mano agli adulti e imparare a fare tutte le cose che servono per mandare avanti un complesso così fatto, l’acquistarono. Dunque, anche i ragazzi lavoravano tanto e giocavano poco: qualche partita a bocce; le feste, ma soltanto da una quindicina d’anni, ospitate nel cortile, “perché un po’ di vivacità non guasta”.

Risaie alla Cascina Malnido di Lamdriano(PV)
Ma per il resto la cascina è un posto – ribadì Antonio – in cui ci si sfianca dalla mattina alla sera; e quando si è finito ci si siede a tavola tutti insieme, genitori, figli, fratelli e cognati, a onorare la cazzoeula e il minestrone alla milanese confezionati dalla “mater familias”, cuoca provetta. Antonio parlava piano, con voce bassa, come avesse timore di annoiare. Poi si alzò e ci invitò a seguirlo sotto il portico, dove un falegname stava sistemando una tavola nelle branche di una morsa. Si rivolse a Pietro, tutto preso dal lavoro del Geppetto, e disse, dandogli del tu – “vedo che conosci bene il mondo delle cascine”. E Pietro rispose che gli era sempre piaciuto il paesaggio rurale, le sue architetture, l’attività sia pure pesante che la terra richiede”. “Antonio, lei è contento di abitare in una cascina? gli domandai. “Certo che sono contento. C’è tranquillità e si ha l’impressione di essere in un altro mondo. E poi ci sono i miei ricordi”. Guardò nuovamente in alto e tese la mano per raccogliere poche gocce di pioggia, che “è benedizione”. Lo incalzai, visto che non si sottraeva. E declinò la data di nascita della cascina. “Fu edificata dai Cavalieri di Malta, appartenne al conte Berra, titolare di un terreno vastissimo, che andava fino a via Palmanova, a Milano. Sono notizie che vengono da un documento antico. Come ho già detto il primo a venire in cascina fu mio nonno, Carlo, con i suoi tre figli, tra cui mio padre. Il nonno era affittuario; in seguito io e i miei cugini, Carlo, Pietro e Giovanni, la comprammo.

Pietro Carrideo
La casa padronale è adesso monumento nazionale”. Lui dovrebbe essere a risposo, ma non è capace di starsene con le mani in mano. Qualche volta gli viene la voglia di salire sul trattore e lo fa. “Da ragazzo passavo le giornate tra i libri di scuola e il lavoro. A 9 o 10 anni curavo le bestie insieme ai miei fratelli. Ci toccava anche raccogliere il fieno rimasto a terra mentre gli adulti lo caricavano sul carretto. Poi questa incombenza passò a noi”. E i giochi? “Abbandonati verso i 7 anni. Quali erano? La lippa, saltacavallo, nascondino... I lavoratori della cascina erano il ‘casèe, che depositava il formaggio nella ‘giazzera’, che conteneva il ghiaccio; il lattaio; il ‘campèe, che irrigava la terra, “il caporale, il cavallante, che governava gli animali, i mungitori. Questi ultimi, che cominciavano alle 5 del mattino, curavano le mucche, lavando loro anche le tette, se no addio latte. Vicino alla cascina stavano il maniscalco e il falegname che costruiva i carri. Coltivavamo il grano, il riso, il mais. Per la trebbiatura gli operai venivano da fuori e noi davamo loro una mano. Quando non avevamo i trattori io guidavo l’aratro tirato dai cavalli”. Come passavate le serate? “Rientrato a casa, mi mettevo in ordine, cenavo con mia moglie e poi andavo a fare una partita a bocce con gli amici. 

Cascina
E, non per vantarmi, ho vinto belle coppe: e se le ho vinte vuol dire che forse ero bravo”. E poi c’erano le feste. “Quali feste? Solo da alcuni anni offriamo il cortile per la ricorrenza di San Vittore e per quella del quartiere. E devo dirle che lo facciamo molto volentieri”. E le donne? Facevano anche loro lavori per la cascina? “Le donne provvedevano ai figli e agli animali da cortile”. E naturalmente cucinavano. Nel ’52, dopo il matrimonio, “Bambina e io rimanemmo con i miei genitori, i miei fratelli, i miei cognati. Cucinava mia madre, che tra i fornelli era un’artista. I piatti che apprezzavamo di più erano la cazzoeula, la polenta con i salamini, il risotto, il minestrone alla milanese, la minestra di ceci con tempia di maiale. Adesso in cascina siamo rimasti io e Bambina e stiamo bene insieme”. Nostalgia dei vecchi tempi? “Non tanta. 

Mucche in cascina
Quando spopolammo la stalla (i giovani non erano interessati) io e un mio cugino versammo lacrime. Eravamo molto affezionati alle mucche, e non soltanto noi. Una aveva poppe abbondanti e dava più latte delle altre. Aveva anche corna superbe, bellissime. E per questo la chiamavo Belarma”. Insomma per Antonio la cascina è tutto: nido, guscio, rifugio, conforto. Il rumore delle auto arriva molto attenuato, la pace è salva, e salvo il silenzio. Il silenzio adorato da Francesco Petrarca, che visse per nove anni alla Cascina Linterno, a Baggio, Milano. Qualcuno ha scritto che la casa è il prodotto di una storia. La cascina non fa eccezione. La cascina, con i suoi fermenti di vita e di lavoro, è la testimonianza di sudore e sacrifici, di ricerca di nuove risorse per ricavare il meglio dalle zolle. Salutando Antonio Sirtori mi venne in mente il dipinto di Giovanni Segantini raffigurante la donna con il bambino tra le braccia in una stalla vicino al bue.
















mercoledì 3 febbraio 2021

In pista all’Arena con 600 elementi

 

BUFFALO BILL FECE RIVIVERE

L’EPOPEA DEL GRANDE WEST


Il suo circo fece il giro del mondo.

Vi si esibivano Toro Seduto, capo

dei Sioux, coraggioso e dotato di

intelligenza politica; Alce Nero;

Calamity Jane e Annie Oaklei,

infallibile tiratrice; cow-boys,

indiani, cavalli, diligenze assaltate

da banditi spietati. Fu a Milano e

a Verona.

 < FOTO DEL DOTTOR PEPPINO BRUNO>

      

"Medaglia per l'Expo nell'anno in cui si esibì

Cody a Milano (Coll. Peppino Bruno-dentista e fotografo)    

 Franco Presicci

“Buffalo Bill a Milano? Bah!.Quando?        In che anno?                                             

Ogni tanto ne sento una nuova. Buffalo Bill a Milano… Sarà venuto come turista, come tanti, ma all’epoca si viaggiava a bordo di piroscafi, o bastimenti, e ci volevano mesi per concludere il percorso”. Captai questo frammento di conversazione tanti anni fa, mentre passavo davanti alla saletta dei telefonisti, al secondo piano del mio giornale, il giorno della strage di Moncucco (otto persone ammazzate, di cui sette perché possibili testimoni). William Frederick Cody a Milano c’era stato per davvero, con il suo spettacolo “Buffalo Bill West Show”, e si era esibito all’Arena riportando un successo clamoroso.

Il pubblico si scatenò, il boato degli applausi arrivò verosimilmente sino a via Rovello, vicino al Teatro Strehler, e oltre. Se ne parlò per mesi e anche di più, con strascichi negli anni seguenti. Su una parete esterna dell’Arena campeggiò il manifesto che coglieva Buffalo Bill a cavallo fin quando la pioggia e il vento non lo ridussero a una bandiera di carta lacera e con i pezzi sventolanti. Alcune vecchie cronache riferiscono che spesso si notavano cittadini fermi davanti all’entrata e confessavano d’immaginare lo spettacolo che non avevano potuto vedere per il prezzo, per loro troppo caro, del biglietto. Per i meneghini Buffalo Bill divenne “l’eroe di Milano”. Per ben due volte (1890 e 1906) lo videro all’Arena compiere “mirabilia” in sella al suo cavallo, con il suo pizzetto alla Napoleone III: dominatore della scena, con 600 elementi, tra cui indiani e cow-boys veri, cosacchi, destrieri della prateria, alci… registrando per sette giorni il tutto esaurito.
Sul suo elegante quadrupede, di nome Brigham, un tenace e spedito Appaoolosa, galoppava a briglia sciolta, eseguiva volteggi, piroettava, sparava anche a testa in giù rasentando il terreno con il suo fucile, uno “Springfield calibro 50 da lui battezzato “Lucrezia Borgia”. Uno spettacolo che eccitava, entusiasmava, emozionava con brani di battaglie famose: quella di Little Big Horn, per esempio, si proprio quella (1876), in cui perse la vita il generale George Armstrong Custer, che capiva gli indiani – ha scritto Stanley Vestal – perché come loro amava la gloria. Ecco un altro conflitto, con soldati, sioux, cheyenne, apache, pellirosse. Chi stava sugli spalti s’immedesimava, gesticolava, incitava, magari infastidendo il vicino, più attento, ma moderato. Sfilava il vecchio West, con le diligenze assaltate dalle bande e le postazioni militari assediate, gli scontri, le cavalcate, le imboscate, le sparatorie, gli scalpi mostrati con orgoglio e con gridi di vittoria, rodei, parate di animali, corse di pony express (all’età di 18 anni Cody era stato uno dei corrieri a cavallo della categoria). Tutto questo andava in scena dal !883, grazie, ripeto, a Buffalo Bill, che lo portò in giro per il mondo.
In Omaha, impresario Barnum, era stato reclutato anche Alce Nero, guerriero, taumaturgo e profondamente religioso; Calamity Iane; l’infallibile tiratrice Annie Oakley; Toro Seduto, Tatanka Yotanka, il grande capo, il campione dei Sioux Huntpapa e dei Cheyenne, nato nel 1831 nel Nord Dakota in una famiglia di guerrieri, capo valoroso e carismatico, dotato di intelligenza, di capacità politiche… nel ’70 alla testa con Cavallo Pazzo della lotta indiana contro i bianchi lanciati alla conquista dei giacimenti auriferi sulle Colline Nere; protagonista di grandi successi e poi obiettivo di critiche partigiane, che lo accusarono tra l’altro di ostacolare il processo di civilizzazione (perché difendeva la sua terra in cui vivevano anche donne e bambini sotto i tipì). Catturato, fu ucciso. I ragazzi – riferisce anche Alberto Lorenzi - tempo dopo, ogni settimana affollavano le edicole chiedendo le dispense sulle imprese del mitico cacciatore di bisonti, oltre che staffetta della cavalleria, illustrate da Tancredi Scarpelli e date alle stampe della casa editrice Nerbini. Qualche adulto s’incaponì ad imitare la bravura di Buffalo Bill e nel 1894 s’impegnò in un’accanita gara al Trotter, dalle parti della cascina Pozzobonella, in via Doria, dalle parti della stazione Centrale. Suo avversario, Romolo Bruni, un ragioniere soprannominato il “diavolo nero” per le sue volate e per la maglia che indossava. La competizione, tre ore per tre giorni, imponeva una condizione iniqua: attribuiva al cosiddetto Buffalo Bill il privilegio di cambiare cavalcatura (e fece ben dieci volte, aiutato da un brumista travestito da comanche, che gli teneva pronti i quadrupedi) e quindi l’altro, in bicicletta, correva svantaggiato.
Vinse la furbizia (e vinse anche in altre edizioni). Con il passare degli anni si scoprì che quel Cody era un sosia: quello vero, che tante pubblicazioni diffuse in America al costo di 10 cent esaltavano come “re della frontiera”, in quei giorni era accampato con il suo tendone a Brooklyn, all’Ambrose Park”. Fiorirono anche le leggende. Secondo una di queste, Buffalo Bill a Milano s’invaghì di una fanciulla, e per questa passione vi soggiornò vari mesi, progettando l’apertura di una trattoria a Niguarda, zona tranquilla che, qua e là, ha ancora oggi angoli di totale tranquillità, come via Cicerone, piazza Belloveso, via Passerini, via Pallanzone… Il personaggio non era Cody, ma semplicemente un cow-boy del suo “cast”. Le “tournèe” negli Stati Uniti, in Europa, compresa quella di Milano, a Wlliam Frederick Cody fecero guadagnare molto denaro. Gliene arrivò anche dalle 11 stagioni delle rappresentazioni teatrali: “Sout of the Plains”, dove ebbe anche Wild Bill Hichok, il principe dei pistoleri. Morì in misera nel 1917. Era nato in una fattoria delll’Jowa, a Le Claire, nel 26 febbraio 1846. Era diventato famoso dopo uno scontro con il capo indiano ”Mano gialla”. Nel 1863 si era arruolato nel 7° Cavalleggeri del Kansas, prendendo parte alla Guerra di successione americana. Divenne Buffalo Bill dopo aver vinto una gara per la cacia al bisonte. Ricevette la medaglia d’oro del Congresso, il più prestigioso riconoscimento militare degli Stati Uniti. La prima tappa del circo nel nostro Paese era stata Verona.
Nella città dei Montecchi e dei Capuleti, di Romeo e Giulietta, Cody si era esibito la prima volta nel 1890, avendo come ammiratore un personaggio d’eccezione: Emilio Salgari, il notissimo autore di tanti romanzi d’avventura (“I pirati della Malesia”, “il Corsaro Nero”…), veronese del 1863, che, allora molto giovane, scriveva come collaboratore sul quotidiano del luogo, l’”Arena”, ancora oggi degnamente in edicola. Anche su questa tappa c’è molto da dire, soprattutto a proposito di Emilio Salgari, il quale per tutta la permanenza del colonnello Bill Cody in città non lo perse mai di vista: lo seguiva ovunque, contava i passi, annotava gli incontri, le parole, i gesti, con tutti i dettagli.
Cronista scrupoloso, attento. Tra i due si stabilì una certa familiarità, tanto che l’ex postiglione di diligenze e corriere del Pony express, cacciatore di bisonti per fornire carne ai lavoratori che costruivano le ferrovie del West, guida dell’esercito americano nelle guerre contro gli indiani divenuto circense, gli consentì, in una scena, di viaggiare nella diligenza inseguita da bellicosi pellirosse che scoccavano frecce da tutte le parti, creando “suspence” fra il pubblico assiepato nell’anfiteatro. Simulazioni bene architettate come quelle che oggi vediamo nei film con John Wayne, al secolo Marion Robert Morrison. Lo spettacolo non era al livello di un kolossal di Cecil de Mille, ma i giornali ne parlavano non soltanto come una novità. Lo stesso Salgari apprezzava talmente Cody, che lo inserì nel suo romanzo “La regina del campo d’oro”. Dello show di Cody scrisse che era uno spettacolo vero, reale raffigurante i quadri più interessanti della vita selvaggia del grande Ovest, con gli usi e costumi di quelle popolazioni. Ovunque si esibisse, Cody calamitava un grande apprezzamento da parte degli spettatori, che lo consideravano un mito. Il suo circo, con tutti quei numeri che evocavano pagine di storia, faceva sognare. E forse nessuno in quel sogno vedeva le ingiustizie perpetrate contro pellirosse, sioux, navajo, capo Giuseppe e i Nez Perce…Il circo di Buffalo Bill anche a Verona arrivò con un treno di cinque vagoni lungo quasi un chilometro, e nell’Arena, in grado di ospitare 12 mila persone. in poche ore gli addetti innalzarono il tendone.