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mercoledì 29 marzo 2023

Una notizia che nessuno si aspettava

 

RINASCERA’ A MILANO, IN CORSO VENEZIA,

IL GLORIOSO CIRCOLO DELLA STAMPA

 

Il compito è stato affidato

dall’Associazione Lombarda

dei Giornalisti a Giuseppe 

Gallizzi, che del sodalizio è

stato per ben undici anni

presidente. 

A giudicare dalle iniziative

da lui realizzate all’epoca in

cui ha pilotato la “casa dei

giornalisti”, manterrà ancora

alto il suo prestigio. 

 

Franco Presicci

Nicotera Marina

Una bella notizia, che naturalmente accogliamo con piacere: a Giuseppe Gallizzi, già caporedattore centrale del quotidiano di via Solferino, “Il Corriere della Sera” - dove venne assunto nel ’65, dopo essere stato interpellato mentre si godeva il sole sulla spiaggia della sua città, Nicotera Marina - è stato affidato il delicato compito di ridare vita al mitico Circolo della Stampa. Che spense le luci dopo alterne vicende, passando dalla storica sede di corso Venezia 16, palazzo Serbelloni, dove ai suoi tempi si accasò Napoleone, a Palazzo Bocconi, a pochi passi di distanza.

Gallizzi con Montanelli


 

 

Cardinale Martini

 

 

 

 

 

Del Circolo Gallizzi era stato presidente dal 2002 al 2013, e già dai primi giorni si era dimostrato pilota esperto e volenteroso, continuando a fare dell’istituzione un centro di cultura, con mostre d’arte, presentazioni di libri, conferenze, e convegni, dibattiti e altro, con la partecipazione di personalità molto prestigiose e autorevoli.

Uomo socievole, affabile, preparato, giornalista di notevoli capacità, rispettato e stimato, al “suo” Circolo ricevette uomini dello spettacolo, tra cui, più volte, Alberto Sordi, mostri sacri della carta stampata come Enzo Biagi, Indro Montanelli, Ugo Stille, che diresse “Il Corriere” e quando andava a Palazzo Serbelloni si fermava a pranzo, amando tra l’altro il risotto alla milanese cucinato dal famoso “chef” Guzzon; uomini di chiesa, come il cardinale Carlo Maria Martini e tantissimi altri.

Punzi al Circolo della Stampa di Milano

Ricordo una serata in cui vennero celebrati i 700 anni di Martina Franca (grazie al professor Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), che ebbe anche fra il pubblico rappresentanti della città dei trulli e del belcanto (il Festival della Valle d’Itria), tra cui l’ex sindaco e presidente della rassegna nota in tutto il mondo, Franco Punzi, don Franco Semeraro, rettore della Basilica di San Martino e membri del Rotary Club di Merate: una serata affollata con la gente che debordava nelle sale vicine.
Abbascià costruisce la scuola in Kenya

Ricordo anche una mattina in cui, in occasione della nascita di un quotidiano, tra gli altri fece il suo intervento il compianto Dino Abbascià, il re dell’ortofrutta che per primo importò preziosità esotiche e costruì con le sue mani una scuola per bambini in Kenya. Nel suo studio a Palazzo Serbelloni Gallizzi, nella veste di presidente, realizzò dunque idee che tenevano viva la tradizione del Circolo, quella per esempio di Ferruccio Lanfranchi, ai tempi autorevole capocronista del “Corsera”, al quale era stato assegnato il comando nell’assemblea del 21 novembre del ’49. Il Circolo esisteva almeno nel nome già prima di quella data, ma evidentemente la sede non era quella che rispondeva ai desideri dei soci; e allora per il sodalizio si cercò un’altra sistemazione, trasferendolo in un locale, dove poi si insediò il night-club ”Embassy”. Lanfranchi si propose degli obiettivi: oltre a fare del Circolo la dimora dei colleghi, in cui si conoscessero tutti e fraternizzassero anche con i pubblicisti… ospitare attività che fossero all’altezza del luogo. E queste furono frenetiche, sempre curate con attenzione al prestigio.

Giuseppe Gallizzi,Paolo Mieli e Sergio Stimolo
Per esempio, la casa dei giornalisti accolse in pompa magna personalità come Luigi Einaudi e la moglie Ida; Alcide De Gasperi, il sindaco di Milano Cassinis, Alberto Pirelli, il presidente Giovanni Gronchi, l’avvocato Gianni Agnelli per un incontro con Andrea Purgatori e Vittorio Feltri, anch’essi corrieristi, Ugo Stille, allora sulla plancia del “Corriere”, Ivanhoe Fraizzoli e signora… La lista è lunga, anzi lunghissima. Si ricordano i balli con cavalieri in smoking e dame elegantissime, regine della danza, come Evi Zamperini Pucci, moglie di un ammiraglio ed esperta d’”ikebana”, l’arte giapponese di disporre i fiori; le cene, gli spettacoli con i clown’s con il “pomodoro” rosso sulla punta del naso per divertire i bambini, figli dei soci. E poi la befana dei giornalisti... In tempi molto più recenti la festa del cronista, una quindicina di giorni prima di Natale, organizzata da colleghi del “Corriere della Sera”, “in primis” Paolo Chiarelli, che invitava anche gli stati maggiori della Guardia di Finanza, dell’Arma dei Carabinieri, il questore, il capo della Mobile, magistrati, tra i quali il sostituto procuratore della Repubblica Francesco Di Maggio, le cui requisitorie erano lezioni di diritto incastonate in un patrimonio di profonda cultura generale ...
 
Corso Venezia
Manifestazioni memorabili con le luci che si spegnevano oltre mezzanotte, come in uno spettacolo condotto da Gerardo Placido, fratello di Michele, e ispirato da Dino Tedesco, collega galantuomo del “Corriere”, conoscitore anche del mondo della ribalta. Gallizzi nel 2002 l’aveva ereditata, questa tradizione, e l’aveva proseguita, approvando, sostenendo, incoraggiando congressi, conferenze-stampa di grandi aziende, eventi culturali, illustrazioni di volumi fotografici sui paesaggi più affascinanti e luminosi del nostro Paese, come quella sugli ulivi saraceni, contorti, a volte dalle forme barocche, genuflessi come in preghiera, con “ombrelli” ampi che cambiano colore quando spira forte il vento; alberi dallo zoccolo duro, come li definisce Carlo Castellaneta nel libro “Una città per due”. Gallizzi ricevette porporati e politici, per esempio Silvio Berlusconi e Romano Prodi, quando erano a capo del Governo; dette alle stampe un periodico, che esponeva progetti, informava sulla vita del Circolo e sugli avvenimenti in programma. Ha gestito il Circolo come fosse un’azienda che amministrava un milione di euro. Non è poco.
 
Ritratto di Gaetano Afeltra al Circolo
Amante della fotografia, ha, come detto, dato spazio a queste esposizioni e ha ripreso tutte le manifestazioni e gli appuntamenti con maestri del giornalismo (tra l’altro ha pubblicato “Eravamo in via Solferino” e “La scuola dei grandi maestri”, insieme a Vincenzo Sardelli: libri interessantissimi), con capitani d’industrie, dirigenti scolastici…, sotto lo sguardo di Gaetano Afeltra – già direttore del “Giorno” venuto dal quotidiano di Eugenio Torelli Viollier – che spazia in un ritratto appeso a una parete. Quando Gallizzi accettò l’incarico di presidente a Palazzo Serbelloni stava per andare in pensione, quindi si apprestava a lasciare la sua poltrona in via Solferino, forse con nostalgia, sentimento che non gli impedì di tenere il manubrio ben fermo. Fece di tutto per consolidare il Circolo, mantenendo alta e viva la sua importanza. Quando ci andavo, spesso con l’amico pittore Filippo Alto, che sognava una mostra in un angolo sontuoso di Palazzo Serbelloni, mi sentivo spaesato, data l’imponenza dell’ambiente. Una delle ultime volte ero stato invitato a collaborare a una delle imprese di una Fondazione con quartier generale a Martina Franca, che distribuisce libri da destinare alle carceri, alle scuole o alle biblioteche pubbliche, soprattutto delle periferie. Quella volta Piero Lotito del “Giorno” era stato premiato per un suo libro, “Il pugno immobile”, bello e interessante racconto in cui s’intrecciano fatti e stati d’animo degli anni del terrore. Adesso l’Associazione lombarda dei giornalisti ha assegnato a Gallizzi l’incombenza di fare risorgere il Circolo della Stampa. Lui si sta già muovendo, esplorando soprattutto la zona di Porta Venezia, dove per tantissimi anni ha signoreggiato l’emblema e l’orgoglio del giornalismo milanese e lombardo; e sta contattando persone in grado di aiutarlo a raggiungere il suo obiettivo. “Il Circolo deve rinascere in una località rilevante, secondo la tradizione, quindi la mia bussola mi porta verso corso Venezia”, mi ha detto nel corso di una breve conversazione che ho avuto con lui giorni fa”. Non gli ho fatto molte domande, avendo intuito che preferiva la discrezione, forse, dico forse, anche per ragioni apotropaiche. Penso che riuscirà nel suo intento, assecondando le aspirazioni dei colleghi che rimasero scioccati alla notizia della chiusura del Circolo, custode anche nell’assenza, di tante memorie. Come quella del grande Orio Vergani, papà del compianto Guido, l’occhio di Brera, nel momento in cui inaugurava la mostra nazionale di pittura del “Premio Tiziano”, nel ’51, anno in cui al Circolo si discusse anche sul melodramma verista italiano, in ricordo di Umberto Giordano; e quella, sempre nel ’60, di Dino Alfieri impegnato in un’intervista alla grande attrice Emma Gramatica. In seguito si svolse la cerimonia per la consegna a Marisa Del Frate del Premio ”Passerella Club” dalle mani di Carlo Dapporto. Probabilmente nel nuovo Circolo non ci saranno arazzi né affreschi sui soffitti né il ristorante con il risotto alla milanese preparato da Guzzon che tanto piaceva a Stille. La nuova residenza della cultura, delle esposizioni d’arte, dei dibattiti sarà la sede in cui non solo i giornalisti potranno riunirsi e scambiarsi idee…ma anche disquisire con ospiti illustri, affezionati al celebre luogo, che ha avuto, come abbiamo visto, giorni e serate da non dimenticare.






mercoledì 22 marzo 2023

Cavalli e cavalieri alla festa di San Marzano

PROTAGONISTA OLTRE ALLA FOLLA

L’ULIVO, IN ONORE DI SAN GIUSEPPE

 

Una festa memorabile in

provincia di Taranto, a cui

partecipano con tutto il

paese i centri vicini.

Una montagna di legna per

un enorme falò.

Occasione da prendere al

volo per un artista di 

talento: il fotografo 

Carmine La Fratta, autore di tutte le foto 

che pubblichiamo in questo articolo.


Franco Presicci

 
“Josce jè ffest/ la pupe alla fenestre/le surge a bballà/ e la iatte a cchecenà”. La vecchia filastrocca piomba nella mente mentre si snoda la sagra di San Marzano di San Giuseppe, il paese di 8000 abitanti: una folta comunità di profughi albanesi di rito greco-ortodosso, discendenti di quelli che nella prima metà del 1500 si rifugiarono in Puglia vicino a Taranto per sfuggire ai turchi che si erano impadroniti della loro terra.

Una sagra gremita, ordinata, movimentata, che rumoreggia, strilla, saltella, spruzza gioia nelle strade: adulti, giovani, ragazzi, uomini, donne: chi trascina grossi rami derivanti dalla potatura, frasche su carriole, su carri, carretti, sulle spalle, in braccio, su un trattore stracolmo, che avanza lento, spinto da quattro o cinque persone forzute... Un tripudio che fa accorrere spettatori anche dai centri vicini e qualcuno forse anche dall’Albania per assistere alla festa che inonda il paese con cumuli di rami, rametti, tronchi rinsecchiti, tra voci che s’intrecciano, si gonfiano, si diffondono, si spargono, assordano. E per l’occasione tutti partecipanti indossano i costumi tipici del loro Paese d’origine che ha come insegna l’aquila nera a due teste. Gli ultimi arrivi alla spicciolata si mettono in coda o s’infilano nel mezzo, Ai bordi non ci sono spettatori: tutti nella frotta, gai, simpatici, divertiti. Protagonista l’ulivo.

Una bella signora spinge una carrozzina con dentro un bimbo mezzo assonnato con un ramoscello in mano; una ragazza con una corona vegetale sulla testa; un giovane impugna una fronda come fosse uno scettro, un simbolo di vittoria, di conquista e invece è solo la testimonianza della sua partecipazione all’allegria collettiva; e ancora una donna con un sorriso comunicativo spalmato su tutto il volto; e un’altra bellezza, botticelliana, con un tronchetto ormai senza vita in braccio, come se quel pezzetto di legno le dovesse trasmettere energia o fosse un oggetto scaramantico. E’ difficile farsi largo in questa marea. Ognuno per sua scelta fa la sua parte: porta il peso, un frammento d’albero che ha deviato il suo corso verso il camino di casa sulle spalle o fascine di strome o “saramienti”.

I carrettieri con i cavalli, quanti cavalli, a passo d’uomo, robusti, forti, gradevoli, muscolosi, qualcuno quasi gualdrappato, mansueti, che si lasciano addobbare secondo il gusto del padrone, con veli costellati di foglie d’ulivo dalla faccia argentea, quella che il vento evidenzia quando scuote la pianta; cavalli che passeggiano con le briglie tenute da conduttori a piedi; cavalli forse consapevoli di partecipare, anche loro, alla baldoria; cavalli che s’inginocchiano davanti alla statua del Santo, san Giuseppe, il giorno della processione. Lì un traino trasporta una massa di fronde con i rami cascanti che nascondono il mezzo, di cui si vedono soltanto le ruote, dappresso cavalieri in sella che salutano il simulacro del Santo appostato di fronte, dall’altra parte della strada. Un ragazzino, forse di Locorotondo, spaesato e suggestionato dall’evento, va recitando un brano di una filastrocca dedicata ad un altro santo: “Sande Rocche jè fìgghie de ‘nu rignande, jere fangiulle acquando se ne andò/ un giorno volse andaje al cambesande/ le muerte a ccore a ccorre resuscitò”. Il papà, sorridente e anche commosso, lo scuote amorevolmente, lo accarezza, gli porge un tralcio e lui se lo infila sull’orecchio. E’ la gloria dell’ulivo, gli abitanti del paese lo trasportano come in trionfo, rami sciolti o affastellati. Ogni tanto si apre qualche slargo, che subito si riempie di gente che procede “lento pede”, come passeggiando, via via raggiunta da altri e lo struscio s’infoltisce, si spande. 

Che festa! Un momento, sta arrivando un altro veicolo agricolo: anche quello s’intravede fra la massa di rami che gli hanno messo addosso. Un gruppo di giovani tiene le fascine sul capo o le tira con una corda, e canticchiano. Tutto questo folklore, questa voglia di allontanare per due giorni i pensieri brutti, le ansie, le preoccupazioni, comunica gaudio, attira., avvince, coinvolge. Sono contento di essere qui tra loro”, mi confida un turista che sembra uscito da un quadro con aspetti di caccia inglese. “Mi piace vederli, lì sparpagliati, qui assiepati, mattatori, con gli ulivi tagliati dalla pianta e indossati come mantelli, copricapo, decorazione”. Improvvisamente scorgo quel grande cacciatore d’immagini, artista dell’obiettivo fotografico, sempre presente ai flussi di folla: Carmine La Fratta, nell’atto di farsi largo sgattaiolando fra la ressa. Poco importa al cacciatore che deve captare queste scene dai teatro, le più belle, le più significative, testimonianze magistrali e preziose di una grande vicenda. Il cacciatore è curioso, vuole stare dentro le cose, si è informato sulla genesi della sagra, la stessa da sempre, e informa a sua volta, a richiesta. Le radici della ricorrenza sono molto lontane. Deriverebbero da un episodio accaduto nel 1866. Prima di quella data la gente accendeva dei fuocherelli in onore di San Giuseppe; un anno ci fu una carestia e decise di tenersi la legna per sé, per cucinare e scaldarsi. Secondo la leggenda, il Santo si offese e la notte si scatenò un fortissimo temporale che sradicò moltissimi ulivi. Allora, con la convinzione che bisognasse riparare, si realizzò un unico corposo falò sul largo Monte con i rami ottenuti con la potatura donati dai proprietari dei campi. Il fuoco fu visto anche nei paesi limitrofi e sicuramente lo vide anche san Giuseppe, data l’altezza in cui è assiso. 

Nel 1866, le autorità deliberarono l’aggiunta al nome di San Marzano quello di San Giuseppe, che in virtù del mestiere da lui esercitato nella vita terrena protegge i falegnami e gli ebanisti, i carpentieri; e, come padre putativo di Gesù, i papà. E queste categorie erano presenti alla festa con le mogli elegantemente agghindate per la circostanza: con frasche, fiocchi, intrecci di ulivo. C’era anche un vecchietto con la zappa, emblema della fatica sulle zolle per rendere fertile la terra, per curare le viti, per potare gli alberi, tra cui, appunto, l’ulivo, albero sacro, millenario, colmo di storia e di storie da raccontare. E forse le racconterebbe se conoscessimo il suo linguaggio. Pianta dignitosa e forte, dallo zoccolo possente, come dice lo scrittore Carlo Castellaneta nel suo libro “Una città per due”. Ah, dimenticavo, c’è anche chi suona l’organetto, che allargando e stringendo il mantice ispira passi di danza. Ci sono anche momenti di emozione, soprattutto quando si osservano i volti in lacrime di signore devote, mentre sfila il Santo sulle vie Regina Margherita, Roma, piazza Milite Ignoto, corso Umberto, via Cavour, Vittorio Emanuele, Diaz, Federico II, Zona scarico.


Attimi toccanti quando il prete sparge acqua santa con l’aspersorio sulla folla, che si genuflette al passaggio del simulacro di San Giuseppe, portato in spalla, tenendo mucchietti di rami d’ulivo ai piedi. E s’inginocchia anche i cavalli, creando un “coup de thèatre”.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pianta meravigliosa, l’ulivo, teste dei momenti più drammatici dell’esistenza di Gesù. Nelle “Laudi” Gabriele d’Annunzio, il Vate, il poeta, il comandante che nel 1919 entrò a Fiume con 2600 legionari, dice: “Fratelli ulivi che fan di santità pallidi i clivi”. 
E qualcuno rievoca la frase dei venditori ambulanti che vendevano i loro prodotti: “Io vo gridando tutto il giorno a l’oglio com’è la sera le gambe mi doglio”. E leggendo Plutarco - biografo, scrittore, filosofo, influenzato dalle idee di Platone - nato all’ombra del Partenone – restiamo affascinati all’acclamazione di Cesare che proclama di aver procurato a Roma tanta terra da poterci ricavare quintali e quintali di litri d’olio. Ai tempi dell’Impero l’ulivo godè della massima diffusione. Quando si fa sera l’entusiasmo della festa si attenua; l’atmosfera della festa si placa. Al termine della messa il parroco benedice la legna. E la tradizione delle tavolate? Ecco, questa si deve all’usanza di preparare banchetti da offrire ai poveri e ai forestieri nei giorni della festa, il 18 e 19 marzo, in ricordo dell’ospitalità data alla Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto. E in ricordo dell’Ultima Cena vengono messe in tavola tredici pietanze, meno la carne per riguardo al momento quaresimale. La mattina del 19 marzo, prima della processione, vengono approntate le “mattre”, tavolieri in legno con piatti tipici locali, benedetti e distribuiti ai poveri. Non c’è che dire, una sagra sentita e attesa, in un paese pugliese della provincia di Taranto abitato, come detto, dai discendenti dei profughi albanesi. La festa di San Marzano di San Giuseppe è da tenere viva nella memoria, anche come uno spettacolo avvincente, oltre che come evento religioso.












mercoledì 15 marzo 2023

Un ricordo dell’incassatore Renato Cortielllo

TRASCORSE UNA VITA TRA I GIOIELLI

E ORE ALLA SCALA E ALL’ARCIMBOLDI

 

Cortiello e la moglie alla Scala
Lo incontrai la prima volta in via Piatti nel suo piccolo e riposante laboratorio.

 

Lo zio era un grande pittore napoletano, che esponeva alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma.


 

Franco Presicci

Milano ha vie che prendono il nome dai mestieri che vi si esercitavano. Nelle vie Armorari e Spadari si aprivano i laboratori degli armaioli; nella via Speronari quelli dei fabbricanti di usberghi, elmi, fibbie... Tra questi artigiani, alcuni erano molto più bravi degli altri, tanto che ci sono stati tramandati i nomi. Per esempio Antonio Biancardi, ritenuto il migliore; e Ferrante Bellini, maestro della brunitura, lo stesso. Scelgo fra i tanti maestri, che occupavano anche le vie vicine. I cittadini li indicavano scherzosamente come canaglia, a causa del tipo di lavoro che li impegnava. In tempi lontani questi lavoratori convogliamo in associazioni che li proteggevano, tra l’altro assicurando un notevole sviluppo al loro commercio. Non ricordo se piazza dei Mercanti, centro d’incontri d’affari, comprendesse anche i loro prodotti. 

Via Piatti

Via Piatti può far credere che vi si creassero oggetti destinati a tavole imbandite. Si chiama invece così per una famiglia nobile milanese che vi abitava al civico 4, che penso fosse quello in cui stava di casa un galantuomo che si chiamava Enzo Tortora, presentatore simpatico e piacevolissimo e giornalista dallo stile elevato e dalla cultura sconfinata. Queste “lingue” d’asfalto erano e sono traverse della lunghissima via Torino, che si avvia da piazza del Duomo per concludersi in via Cesare Correnti, dove, anche lì, un tempo c’erano virtuosi del ferro. Erano quasi silenziose e tranquile. All’epoca, in via Cesare Correnti sorgeva una Pusterla detta appunto dei Fabbri con un arco su cui era scolpita una donna con il petto nudo e il capo che sosteneva tre piccole torri merlate con incise alcune lettere.

Renato e Ersilia
Cortiello con sua moglie Ersilia
 
 
 
 
 
 
 
Quando esploravo le vie di Milano, le più interessanti, che aggiungevano capitoli alla cronaca che volevo raccontare, in via Piatti trascorsi molte, intrattenendomi nei varti laboratori: Iginio Balla e suo figlio, orafi; Gabriele Conti, tagliatore di pietre; Claudio Locardi, incassatore; Marco Inzaghi, orefice con il figlio e il genero… e Renato Cortiello, un incassatore prestigioso che incassò la pietra centrale sull’anello di papa GiovanniXXIII.
 
Il portone del laboratorio di Cortiello
Cortiello, purtroppo spento da quel killer assatanato etichettato covid, era nipote di Mario Cortiello, che, nato a San Sebastiano al Vesuvio, partecipò ripetutamente alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma. Renato non lo diceva mai a nessuno per il suo carattere schivo e per niente disposto a vantarsi dei blasoni degli altri. Gli bastava il suo, che gli derivava dal carattere e dalla precisione delle opere che realizzava.


Uomo amabile, rispettoso, di poche parole, un sorriso appena accennato, ma significativo, appassionato di musica lirica, frequentatore con la moglie Ersilia della Scala e del Teatro Arcimboldi, all’epoca del nostro incontro aveva 65 anni. Era un artista autentico e una persona perbene. Era nato a Clusone, in provincia di Bergamo da genitori napoletani, ma da una vita a Milano. Faceva, ripeto, l’incassatore di pietre preziose e lavorava in un piccolo ambiente, dove sembrava di essere in una sacrestia, data la pace che vi regnava. Mi disse subito: “Il mio è un mestiere che ha ormai pochi rappresentanti ed è destinato a scomparire perché i giovani non vogliono più farlo. Chi volesse imparare dovrebbe entrare in una bottega e rimanerci almeno tre anni senza percepire uno stipendio: il maestro artigiano non è in grado di assicurarlo. E i giovani hanno fretta, non hanno alcuna voglia di aspettare”. Parlava piano, sottovoce, senza gesticolare, quasi obbedendo all’esortazione dei francesi: “Non accompagnate il gesto alla parola”. Stetti ad ascoltarlo senza fare domande, perché mi piaceva il suo modo di porgersi. Avvertivo nelle sue parole un pizzico di commozione, avvicinandosi il giorno della pensione. “Provo gioia nell’osservare l’oggetto finito, pronto per essere indossato dal cliente”.

Cortiello al lavoro
Gli piaceva moltissimo il suo mestiere. “Che non si può fare se non si ha la passione. Soltanto la passione può farti stare seduto per ore e ore con la testa china su un anello o un bracciale. L’incassatore deve avere anche un’ottima vista”. In piedi dietro il banco, io acculato di fronte a lui, nelle pause pensavo di essere in compagnia di una persona saggia e schietta, oltre ad un artista eccellente. Era mezzogiorno e mi era passata la voglia di andare in una vicina trattoria a consumare il pasto: Cortiello mi trasmetteva serenità e volevo prolungare il più possibile l’incontro. Apparteneva ad una dinastia d’incassatori: il nonno, il padre, i cugini: tutti nello stesso settore.
Cortiello giovane

 

Lui aveva cominciato da ragazzo a prendere dimestichezza con quel’arte. “Avevo una gran voglia d’imparare e non contavo i giorni che mi separavano dalle feste, dalle ferie, dalle domeniche. Il mestiere mi assorbiva, mi dava soddisfazione, gioia. Quando si presenterà il giorno della pensione, sarò sicuramente amareggiato, mi prenderà la nostalgia di questa via, di questo indirizzo, di questo laboratorio, dove viene a trovarmi mia moglie Ersilia, che ormai anche lei, a furia di guardare, osservare i movimenti delle mie mani, conosce un po’ i meccanismi di questo impegno e i sentimenti che m’ispirano. Una domanda era d’obbligo e gliela posi: “Chi è stato il suo maestro?”. E lui rispose prontamente: “Giuseppe Conti, via Cesare Correnti 37, e Giampiero Lazzerini, via Dogana 3. Montavano pietre per De Vecchi di via Montenapoleone, per Sala di via Rovello (adesso ha cambiato sede), per Dessi e Roveda, via Unione 2. Tutti orefici importanti che creavano gioielli su idee del cliente.

Renato Cortiello
Poi ho lavorato anche con i fratelli Chiaravalli, in via Valpetrosa, che hanno orafi intenti a realizzare oggetti per le famiglie nobili di Milano. Conti intuì che io ero adatto. Non distraeva mai gli occhi da me. Mi controllava anche per vedere se ero onesto: accennava al posto in cui teneva i soldi o ricorreva ad altri espedienti. Chi lavora nel nostro campo deve essere corretto; altrimenti va a casa”. “Ha mai montato pietre per persone note?”. “Sono venute da me la marchesa Chiaravalle, per montare uno smeraldo importante; la mamma dell’attore Alberto Lionello; l’attrice Edi Angelillo, per montare un topazio su un anello. Su un altro anello ho incastonato un diamante taglio smeraldo, per la moglie del regista Silvio Soldini. Gabriele Conti mi incaricò di fissare la pietra centrale su un anello appartenuto al Papa che mandava i saluti ai bambini attraverso i genitori. Ho montato un “solitaire” su un anello della moglie del maestro Bonocore…”. “Quali sono gli attrezzi che usa?” “I bulini, che hanno varie forme, la maggior parte elettrici. Prima con i trapani si allarga la sede per inserire la pietra sul monile; con il bulino mezzo tondo si fa la sede più profonda e la si adatta, formando uno scalino dove la pietra deve poggiare”. “Quando andrà in pensione che cosa farà?”. “Coltiverò altre passioni: la musica, il teatro. Passerò la vita, in teatro”.
 
Le dita dell'artista
“Le piace viaggiare?”. “Sì parecchio. Andiamo spesso in Spagna”. “Milano le piace?”. “E’ una bella città. L’ho percorsa a piedi con la guida rossa del Touring, chiedendo ai custodi di farmi ammirare i giardini interni dei cortili, che sono una meraviglia, e ai parroci gli organi, le sacrestie”. “Quali sono gli angoli di Milano che l’attraggono maggiormente?”. “Piazza Belgioioso, dedicata a Cristina, bellissima nobildonna milanese; la Galleria Vittorio Emanuele, il salotto meneghino; i palazzi con le facciate Liberty di corso Venezia; piazza dei Mercanti, una delle più interessanti e gradevoli della città. Ho trascorso la giovinezza al parco di via Palestro, l’antica contrada Isara, che il popolo chiamava Riser. M’interessa leggere le cose che riguardano Milano, il motivo per cui una via, una piazza portano quel nome. Giacchè ci sono, aggiungo che sono stato cantore nel coro del Seminario San Camillo De Lellis, con il quale negli anni 50 partecipai al congresso internazionale dei cori di Parigi”. “Qualche ricordo d’infanzia?”. “Con mia madre ascoltavo le commedie alla radio; e se mi capitava di addormentarmi, la mattina dopo appena sveglio le chiedevo com’era andata a finire la storia”. A proposito di teatri, un pomeriggio mi invitò all’Arcimboldi per assistere alla Tosca e lo inondai di domande sull’opera. Con Renato Cortiello ero diventato amico: un’amicizia vera, sincera, come quella che mi legava al maratoneta Cesare Isabelli. Poi il primo se l’è portato via il covid; il secondo i postumi di quel cecchino che ha seminato lutti dappertutto impiegando molto tempo per placarsi.







martedì 7 marzo 2023

Ricordi di pellegrinaggi meneghini

Via Albricci
DA VIA ALBRICCI A LARGO RICHINI

I PERCORSI DI RENATO OLIVIERI


Al Derby Club si incontravamo i Gufi,

Valter Valdi, Charles Trenet, Umberto

Bindi, il tarantino Teo Teocoli…In via

Pantano aveva lo studio il grande Attilio

Alfieri; in via Chiossetto il laboratorio

Il ceramista Giuseppe Rossicone.




 

 

Franco Presicci

Non so più quanti chilometri ho macinato andando in giro per Milano. Uscivo da casa alle 8 del mattino, inforcavo la mia “Graziella” e pedalavo. Al rosso dei semafori mi fermavo e osservavo la gente che andava sempre di fretta come fosse in ritardo ad un appuntamento. Mi davano fastidio i ciclisti che per evitare il traffico facevano zig zag sui marciapiedi e quelli che al verde attraversavano sulle strisce “lento pede”, come in una scampagnata, ed erano ancora lì quando sul congegno cambiava il colore. 

Attilio Alfieri
Era il ’76 e, nella veste di collaboratore, scrivevo sul “Il Milanese”, periodico dalle alterne vicende: voluto da Arnoldo Mondadori, aveva spento le luci, poi le aveva riaccese sotto la guida del mitico Angelo Rozzoni, severo e imparziale vicedirettore de “Il Giorno” andato in pensione; chiuso nuovamente, riprese ossigeno con Antonio Baroni, già pilota, se ricordo bene, di “Confidenze”. Fu proprio lui a darmi l’incarico di fare il pellegrino per Milano per descrivere le curiosità, la storia, la vita quotidiana, le caratteristiche delle vie. L’idea mi entusiasmò, e cominciai a pedalare. Prima fermata, vicolo dei Lavandai, dove visitai gli studi dei pittori Bertuzzi, Spampinato, Sarik (Riccardo Saladfin), Angelo Cottino e altri, e conversai con Carletto eletto sindaco del vicolo per la cura che aveva per il ricciolo d’acqua che lo attraversava, conservando memoria delle lavandaie che si sfiancavano con le ginocchia sugli “inginocchiatoi” di pietra che si susseguono sotto la tettoia. Mi innamorai di quello scampolo in terra battuta. E quando Bertuzzi preparò una cartella di acqueforti, la mandò alla stamperia con la mia presentazione. E volle che fossi sempre io, terrone impenitente, a descrivere i cortili fioriti, il Naviglio Grande, gli spazzacamini, le ringhiere, “el ricciulin”. La seconda meta fu la Cassina de’ pomm”, che si affaccia sulla Martesana, canale che oggi scorre per tutta la via Melchiorre Gioia. La Cascina ha vissuto brandelli di storia milanese, ha ospitato ai suoi tavoli Carlo Porta, gli innamorati in cerca di poesia, le famiglie che facevano gite fuori porta, ascoltando il brontolio del naviglio che forse non desiderava essere infossato. Quando arrivavo al giornale, il direttore mi chiedeva dove sarei infilato la volta successiva. Diceva proprio così, quando aveva voglia di scherzare, cancellando per un momento l’espressione accigliata.
Laboratorio di Rossicone

“Farò un salto in via Chiosetto e mi ‘’infilerò’ nel laboratorio di quel grande ceramista. che è Giuseppe Rossicone, abruzzese di Scanno, a curiosare nella sala più spaziosa, dove ha il torchio, due forni e due o tre tavoli con tante sculture allineate: faraglioni, multipli, figure… Sicuramente vi incontrerò qualcuno dei frequentatori: Evi Zamperini, una bellissima signora esperta di ikebana; o Ernesto Treccani o Ibrahim Kodra, Attilio Alfieri, Remo Brindisi e altri, pittori che collaboravano con lui. Di rado m’imbattevo lì in ilippo Alto, che era di Bari e dipingeva Milano ma anche la Puglia, da Martina Franca a Locorotondo, a Cisternino, ad Alberobello. Per me Filippo era un vichingo per l’altezza e i capelli biondi. Evy ci chiedeva: “Secondo voi, Milano è bella?”. “Certo che è bella. Lo dice anche Guido Piovene vel suo ‘Viaggio in Italia’, e lo dice anche Maurizio Cucchi, poeta, consulente letterario, traduttore di Lamartine, Flaubert, Stendhal…, innamorato di Milano come altri. Molti la considerano una donna ‘d’anta’ che conserva ancora tutto il suo splendore.

Piazza Belgioioso
Cucchi scrisse che Milano è la città ideale per andare a passeggio. “Non ti aggredisce, non ti stuzzica molesta con l’esibizione delle sue meraviglie. Ti lascia camminare in pace libero e trasognato”. Lo dice in un bellissimo libro intitolato “La traversata di Milano”. Io facevo quella traversata con gioia. Quando mi trovavo in via Lanzone o in via Caminadella o in via Pantano, dove aveva lo studio Attilio Alfieri, grande artista e uomo dal carattere scostante ,ma generoso, mi sembrava di essere nel regno del silenzio e della tranquillità. In piazza Diaz, dove troneggia il monumento al carabiniere, mi fermai a parlare con Carlo Pampanesi davanti al chiosco in cui vendeva stampe e libri della vecchia Milano. Una persona alla mano, che mi catturò con i suoi racconti sulla città e i suoi ricordi di tenace socialista che aveva conosciuto Parri e dava del tu a Ugo (La Malfa).
 
Via Laghetto
 
Mi parlò di un suo libro, “I miserabili di Milano”, che aveva un intero capitolo sulle proprie esperienze di “picul” (garzone) all’”Osteria del Marco” in via Laghetto, dove c’era l’ultimo negozio di carbonaio. Con questo vagabondaggio appresi tante cose. Per esempio, che il laghetto era stato scavato ne1388, all’epoca di Galeazzo Visconti, e serviva per lo scarico dei blocchi di marmo bianco-rosso che veniva da Candoglia per la Fabbrica del Duomo e di rosso da Baveno per l’ospedale. Con il passare del tempo l’acqua del laghetto si era fatta stagnante, costituiva un pericolo per il vicino ospedale e per la gente del quartiere, e Francesco Giuseppe – dicevano alcuni – prese la decisione di… tapparlo. Un giorno, il 26 gennaio del 1857, l’imperatore in visita all’ospedale si affacciò a una finestra per vedere le condizioni di quelle acque destinate ad essere nascoste. Gli operai addetti allo scarico del marmo, i “tencin” (ai quali fu dedicata una statua in bronzo, poi collocata nella chiesa di Santo Stefano), erano angosciati: per racimolare qualche soldo in più trasportavano anche legna e carbone. Ogni strada una storia. In largo Richini, che è anche titolo di un libro del noto giallista Renato Olivieri, comparve Attilio Alfieri, elegante con il suo cappotto grigio e il suo cappello scuro. Era diretto allo studio: “Hai visto la targa sulla facciata del palazzo di via Pantano di fronte al 17? Rammenda che lì nacque l’illustre matematica, filosofa, teologa e benefattrice Gaetana Agnesi”. “Sì, ho anche ammirato il cortile del tuo ‘ateloier’. “Le colonne sono del XVI secolo, i capitelli hanno targhe con la forma di testa di cavallo… Una volta questo era un convento.
 
Scorcio di via Laghetto
Durante la peste vi furono ricoverati gli ammalati perché il Lazzaretto era stracolmo”. Uscii da via Pantano ed eccomi in via Larga. Di fronte svetta la Torre Velasca, che appare come un pugno enorme, non minaccioso, non simbolo di forza e di potere, ma piuttosto di amicizia, di solidarietà. Attraversai via Albricci, dove i o stabile quasi all’angolo con piazza Missori abitò un famoso “boss” a suo tempo allontanato dagli Stati Uniti come indesiderabile, per mafia. Il bravissimo collega de “Il Corriere della Sera”, Fabio Mantica, incaricato dal capocronista Franco Di Bella (che diventerà direttore), lo aveva scovato e incalzato per intervistarlo. E dire che il personaggio in questione – mi raccontò il maresciallo Giannattasio – quando veniva convocato in questura non rispondeva ad alcuna domanda. Il motivo? Negli Stati Uniti finì nei guai perché, interpellato, credo dall’Fbi, sbagliò il girono della sua data di nascita. Da via Albricci saltai in piazza Missori e da lì in via Fieno, uno schizzo tracciato da un pittore dal pennello veloce. Il nome fu ispirato da un antico mercato di paglia e fieno. In questa via è legato un ricordo che oggi mi fa sorridere. Ero a Milano da un mese e un conoscente poi diventato amico, Giorgio Caiati, ferrarese, ottimo ragazzo che lavorava a “La Notte”, quotidiano del pomeriggio, mi presentò al direttore di un mensile, che aveva la sede proprio nell’ex mercato. Era un tipo strano. Anziano, testardo, brontolone, diffidente, pretendeva che le lettere venissero copiate da uno scartafaccio che ne conteneva almeno 200. E mi faceva seguire da una giovanissima impiegata farfallina per controllare la mia obbedienza.
 
Via Dante
Gli chiesi l’autorizzazione, telefonai a Taranto a Luigi Flauret, critico d’arte che aveva scritto tra l’altro un interessante opuscolo, “Il paesaggio pugliese di Raffaele Spizzico”, lo pregai di stendere un articolo di un paio di pagine sulla Biennale di Venezia; impaginai un lunga pezzo sul libro di Giovanni Acquaviva, “La nuova terra”, sulla riforma agraria in Basilicata; buttai giù qualche “pezzo” senza firma: cercai a fatica delle foto e completai il giornale che un altro aveva lasciato a metà andandosene accaldato, dopo un’estenuante discussione con il capo, che cavillava su ogni cosa.
 
Ibrahim Kodra
Anch’io feci lo stesso. Nelle mie peregrinazioni percorsi più volte via Francesco Sforza, per vedere lo storico e celebre Caffè Taveggia, che, sorto nel 1909, vanta una lunga storia, oltre ad aver ricevuto personalità come Wally Toscanini, Carla Fracci…; e cercare il convento eretto nel 1614 e dopo 14anni affiancato dallo stabile detto la Ruota, per essere dotato di una piccola apertura utilizzata dalle mamme che per necessità o altro affidavano ad altri i loro bambini. A Milano dunque non ci si annoia. Se si decide di fare una camminata, sono tantissime le cose da vedere: monumenti, vetrine, teatri, parchi, il liberty, il rococò di certi palazzi patrizi, la Galleria, la Scala, il Castello… Milano è città antica e qua e là si scoprono gioielli. Milano è la città della cultura, della moda, degli affari, dello spettacolo. Quando nacque l’”Intra’s Derby Club”, ci andavo assiduamente, per ascoltare Umberto Bindi, l’autore de “il nostro concerto”; Valter Valdi, i Gufi, Gianfranco Funari, Daisy Lumini, Charles Trenet, Teo Teocoli, tarantino di via Dante… sbirciando fra gli spettatori Giorgio Gaber, Paolo Stoppa, Lina Morelli, che schizzavo su “La Gazzetta di Mantova” e citavo nelle cronache sul quotidiano “l’Italia”. Ho nostalgia di quei percorsi. Di via Torino, che fino a via Cesare Correnti si lascia a destra e a sinistra piccole vene che hanno mille storie da raccontare; e d via Piatti, per esempio, dove abitava il grande e indimenticato Enzo Tortora e scoprivo bravissimi battiloro. Vi passai mezza giornata per visitarli tutti, accolto con vera cortesia. Era il ’74, circa 50 anni fa.





mercoledì 1 marzo 2023

E’ scomparso Franco Punzi

UOMO ESEMPLARE, CORDIALE, UMANO 

PORTO’ IL FESTIVAL AI MASSIMI LIVELLI

 

                  Foto di Cataldo Albano
Punzi e Sergio Escobar


 

 


Sgomento a Martina e, in tutta la Puglia.

Già presidente del “Valle d’Itria”, poi al vertice della Fondazione “Paolo Grassi”, stimato ovunque per l’impegno, lo zelo, la passione, la competenza, che spinsero sempre la sua attività.
 
Punzi era anche un grande comunicatore e fece del Festival un evento mondiale.
 
Una grande perdita per la cultura.
 

Franco Presicci

Quando il 10 gennaio 2006, per impulso del professor Francesco Lenoci, nella sala Montanelli del Circolo della Stampa, a Milano, furono festeggiati i 700 anni della città di Martina Franca, Dino Abbascià era in Kenya. 

Punzi e Lenoci
Quando seppe dell’iniziativa del docente universitario, che si fece in quattro per dare al compleanno la massina partecipazione e solennità, il grande imprenditore ortofrutticolo salì sul primo aereo e rientrò in Italia. L’amore per la terra di Paolo Grassi anche in Abbascià era forte, almeno quanto quella per la sua Bisceglie. Non c’era occasione che non lo stimolasse a venire in Puglia. Martina lo attirava, seduceva e incantava. A spingerlo era anche l’amicizia per Franco Punzi e la stima per il ruolo che rappresentava nel Festival della Valle d’Itria e per l’impegno, la passione che impiegava per renderlo sempre più importante, sempre più seguito, sempre più apprezzato ovunque.

 

Punzi al Circolo della Stampa di Milano

 Chi è stato vicino a Punzi in tutti questi anni lo sapeva, come lo sapeva Mario Rossano, che ad ogni edizione della sagra arrivava tempo prima in piazza Roma con tutta la sua “troupe” della televisione barese e realizzava quotidianamente servizi esaltanti. Nel luglio del ’99 pubblicò anche un libro: ”Miracolo a Martina: i venticinque anni del Festival della Valle d‘Itria”, chiedendosi già nelle prime pagine: “Come fa questo Festival a sopravvivere a se stesso, ogni anno rigenerato, ogni anno più vivo e interessante?”. Viveva grazie a uomini che sapevano tenere il timone del veliero; alla loro volontà, ai loro sforzi, alla loro abilità, alla loro saggezza; alla collaborazione costante di tutto lo “staff”, ripeteva Punzi, schivo a presentarsi come colui che da solo azionava il motore che si muoveva bene oleato, superando le difficoltà, i problemi che ogni anno si imponevano. Comunque lui era in plancia. E il festival cresceva, si arricchiva, si diffondeva sempre di più, acclamato dappertutto, “grazie alla fiducia accordata a Rodolfo Celletti – aggiungeva Rossano - e alla capacità che ha Franco Punzi di far maturare attorno al Centro artistico alcune personalità di giovani a divenire quadri dirigenti della manifestazione…” Ai giovani Punzi dedicava tantissima attenzione: a quelli che già calcavano il palcoscenico e a quelli che si preparavano con tenacia a conquistarlo.

Punzi a Milano

Ogni anno ne parlava a Milano, nel corso dell’illustrazione del cartellone, di fronte al pubblico, sempre numeroso e attento, interessato; e ai critici consacrati, che poi scendevano a Martina da ogni parte per assistere alle opere in programma, mai rappresentate ai giorni nostri. Nel capoluogo lombardo, Franco Punzi era molto conosciuto e accolto come un principe. La sala a destra del cortile del Piccolo Teatro, che si apre dopo l’ingresso, il giorno della presentazione, era sempre zeppa di giornalisti, melomani, musicisti, cantanti anche celebri, fotografi, curiosi. Tutti ascoltavano Punzi che parlava a braccio per primo e con parole semplici, scorrevoli, sentite, spontanee, che descrivevano il Festival, le sue varie epoche, da Celletti a Segalini, da Triola a Schwarz, le opere che dovevano andare in scena a Palazzo Ducale o in altre ribalte della Puglia; elogiava quelli che agivano dietro le quinte, passando poi a parlare di Martina, una città incantevole, la città del belcanto, della luce, dell’ospitalità, delle case incappucciate, della terra rossa. 

 

Punzi ed Escobar
“Il fascino del Festival si lega al binomio musica-ambiente. Un poeta si cimenterebbe sulla misteriosa sintonia tra pietre e note; sinfonie e slarghi improvvisi fra pareti calcinate, musica lieve aerea e fughe di panciuti balconi affacciati a curiosare fra gente che faceva lo struscio…” (ancora parole di Rossano); balconi grondanti di fiori, altane come giardini pensili (n.d.a.). Lo rileggo, il giornalista Mario Rossano, che fu amico di Punzi e del pittore Filippo Alto, barese come lui e come lui infuocato di Puglia.
 
Punzi nel cortile del Piccolo

Ogni anno avevo il piacere e l’onore di ricevere una telefonata da Franco Punzi: “Vieni al ‘Piccolo’ per il Festival?”, mi domandava dopo il saluto. Un privilegio, ricevere l’invito personalmente da lui. E poi mi domandava: “Lenoci viene? E Abbascià?. E gli amici dell’Associazione regionale pugliesi?”. “Vengono, tranquillo”. Quando si trattava di Martina, Abbascià afferrava il volante e partiva. Spiccò sotto il portico della campagna di Antonio Marangi in occasione di una festa del grande “chef”, famoso anche per aver cucinato addirittura per capi di Stato, per Kissinger e diverse per celebrità dello spettacolo. Incrociai il biscegliese di Milano, allora psicopompo dell’Airp, in una cerimonia allestita da don Franco Semeraro nella Basilica di San Martino, dove si era trascinato dietro buona parte del sodalizio pugliese della terra del Porta e di Meneghin e Cecca. Martina era bella anche per Pierluigi Pizzi, che in un’intervista per “Il Giorno”, qualche mese prima della sua regia di “Medea” alla Scala, mi confidò che lui quando era in quest’oasi di dolcezza camminava con il naso all’insù per scoprire le architetture descritte da Cesare Brandi. Era bella per Carlo Castellaneta. “I trulli con le cupole di zucchero; gli ulivi dallo zoccolo possente, muretti a secco e un vibrare di cicale ci accolsero come preludio”. La Martina che Franco Punzi osannava a Milano, anche quando gli ospiti si accalcavano attorno al tavolo del “buffet”, con vassoi di capocollo e mozzarelle, taralli e altre delizie. 

Escobar, Punzi, Tria

“Sergio, ti aspettiamo a Martina”, incalzava il suo amico Escobar, direttore del Piccolo Teatro. Quando arrivavo a Martina per le vacanze tra amici schietti ed affezionati, andavo sempre nell’ufficio di Franco per brevi conversazioni. Brevi non perchè lui mi licenziasse dopo poche battute per essere ingolfato di carte da evadere o assillato dalle telefonate. Ero io che temevo di rubargli tempo prezioso. Franco Punzi era di una gentilezza squisita, unica. Ricordo il giorno in cui un giornalista che si occupava di auto voleva stabilire un aggancio pubblicitario tra cilindrate e Festival. Gli rispose di no con determinatezza ma con eleganza, e all’insistenza urticante dell’interlocutore continuò a dire di no con pazienza e stile. Una sera assistevo in piedi all’opera (non ricordo quale), lui se ne accorse e andò a prendermi personalmente una sedia da un ufficio. Era premuroso con tutti. 

Intervento di Punzi al Piccolo di Milano
Lo era stato da sindaco e lo era da presidente del Festival e poi della Fondazione “Paolo Grassi”. Franco Punzi era con tutte le sue forze sostenitore del Festival della Valle d'Itria; forse non dormiva la notte per il pensiero del Festival che veleggiava tra problemi da risolvere subito, con diligenza ed esperienza. Era l’anima del Festival, Punzi, il pilastro. Negli ultimi anni aveva riversato tutto se stesso sul Festival, abituato com’era a infondere le sue energie, la sua intelligenza nei compiti che svolgeva, felice d’impregnare di musica le estati della sua Martina, della sua adorata Martina. Una figura altissima, quella di Franco Punzi, che ha stimolato e sostenuto la cultura musicale non solo nella sua città, che un anno fu teatro di “Giochi senza frontiere”. Grazie anche alla sua attività il Festival ha superato i nostri confini e ha sviluppato il suo prestigio nel mondo. Neppure Alessandro Caroli, gentiluomo coltissimo e autore di libri pregevoli, se lo sarebbe forse aspettato.
Punzi premia Escobar
Fu lui ad avere l’idea del Festival e a costruirne le basi. Se non ricordo male, nel libro “Musica in Valle d’Itria - Come nasce un grande Festival” (all’epoca presentato da Giuseppe Giacovazzo), in cui riassume la storia del “Valle d’Itria”, rinverdisce un episodio toccante: affacciato con la mamma al parapetto che fa spaziare lo sguardo sulla valle benedetta da Dio, lei gli disse: “Devi creare una cosa bella come questa”. Che cosa c’è di più bello della musica? La musica: universale, coinvolgente. Era il ’75. Punzi, sindaco, lo affiancò. Punzi dunque è stato per tantissimi anni in plancia con ardore e coraggio (quarantadue anni per la precisione), ottenendo numerosi riconoscimenti, fra cui la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica come benemerito dell’arte e della cultura; la nomina a commendatore al merito della Repubblica italiana; il premio Asterisco, nel 2003, assegnato dall’omonima Associazione ai concittadini che hanno fatto onore alla città oltre le sue porte, il Sigillo Martiniano… Punzi ha avuto molte virtù. E le ha sempre dimostrate, tanto che Paolo Grassi - fondatore con Giorgio Strehler del Piccolo Teatro di Milano, sovrintendente della Scala e poi della Rai, - lo sostenne, incoraggiandolo.
 
Franco Punzi
Punzi divenne presidente di Italiafestival, di Telemusica, dell’Associazione italiana dei consigli comunali e regionali d’Europa... Grande mediatore e comunicatore, era nato il 4 aprile del 1935: era quindi sulla soglia dei 90 anni, vissuti con la musica nel cuore. Caro Franco Punzi. “Ti assicuro, verrò al Festival. E verrò a salutarti”. Le ultime volte ci andai sorretto dal bastone. In un’occasione a piedi per due chilometri dalla stazione Nord a via Rovello, perché era iniziato lo sciopero dei tram. Non gli importava che si parlasse di lui. Gioiva senza darlo a vedere quando leggeva sul “Corriere della Sera” gli articoli di Paolo Isotta, critico musicale, musicologo, scrittore, docente universitario; e anche quelli di Anita Preti sul “Quotidiano” di Lecce. Grande, Franco. Se qualcuno seminava zizania, e c’è sempre chi ha tempo da perdere, lui fingeva di non avvedersene. Nel 2009 morì la moglie, Giuseppina Camassa, che curava la sartoria del Festival e lo accompagnava a Milano quando vi si doveva presentare il cartellone del Festival. Per lui fu il crollo. Si sentiva solo. Struggente dolore tornare a casa e trovare soltanto il silenzio. Grande, Franco. Profonde la sua umanità e la sua perspicacia. Forte il suo attaccamento alla magica Martina, alla città dall’aria riposante, dalle viti nane (Raffaele Carrieri) e le case a cono di gelato; dal borgo antico come teatro, con quinte e fondali; vicoli che s’intersecano, ’’’nchiostre” come oasi di pace, trilli di bimbi, voci di donne che manovrano i ferri per fare maglie con la svltezza di un pianista. “Non voglio commemorazioni. Ricordatemi per quello che ho fatto”: le sue ultime parole. Le parole di un uomo esemplare. Che ha creduto nei giovani, che hanno trovato nel Festival un trampolino di lancio. Gli diranno grazie?