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mercoledì 27 luglio 2016

Nuova edizione dello sceneggiato televisivo IL “MEDICO IN FAMIGLIA” CON PARROCO IL MESSIA



                                                                                   
 

In onda in autunno vedremo il martinese Benvenuto in tonaca nera con nonno Libero.

Il fotografo poeta non cavalcherà la sua amata bici, ma avrà cura delle anime.

Avrà sicuramente successo come in “Braccialetti rossi”.








Franco Presicci


Quando due anni fa alla masseria “Il cappotto” di Laterza, dopo la dotta conferenza sul pane confezionato in quella città tenuta dal professor Francesco Lenoci, gli cedettero il microfono, il Messia scatenò risate fragorose, recitando la sua sapida poesia sul capocollo di Martina.

Messia tra pane e frise
Vado a visitarlo nel suo studio per brevi chiacchierate. Non si sofferma sui suoi versi né sulle tantissime immagini che portano la sua firma; ma sulla bicicletta, che è una sua compagna da sempre. La lascia parcheggiata sul marciapiedi, ed è il segnale che Ben è lì dentro. Quando Nico Blasi, direttore della rivista “Umanesimo della pietra” organizza la ciclopasseggiata del plenilunio d’agosto diretta a una delle masserie di Martina, Ben non manca mai, anche perchè poco prima della partenza legge i propri versi ispirati all’evento. La pedalata, che ogni anno vanta numerosi partecipanti, non comincia senza questo rito. Ben è un protagonista, questo onore gli è dovuto.
Benvenuto Messia
Credo non avesse avuto bisogno di provare e riprovare i toni, le cadenze, i gesti, le espressioni del viso, le pause per ottenere quel risultato. Tutto spontaneo. “’U capecùdde” è un’opera d’arte, che, con tutto il rispetto per l’architettura rurale che ci ospitava e per l’accoglienza riservata agli invitati dai padroni di casa, Ben meritava uno spazio ampio e ambìto: l’Arcimboldi di Milano o l’Orfeo di Taranto. Già quando parla, conversa o scherza Benvenuto è un attore di talento. E, se non parla, ci pensano i suoi occhi, i suoi sguardi, i suoi atteggiamenti a rendere chiaro il suo pensiero. Piccolo e argentato, sottile come ferro filato per le lunghe corse in bicicletta attraverso le vie di Martina, e non solo, serio, serissimo quando è il caso, la battuta sempre pronta, garbata e mai banale, azzeccata e spassosa, ti coinvolge, ti trascina, ti strappa alla malinconia e ti consegna alla beata serenità. Il suo motto è: “Pegghiàmel’a rrìse”. Suvvìa, Benvenuto, ripeti la tua galoppata poetica sull’”imperatore”, la cui alcova è spesso disertata dalla consorte, come dire?, capricciosa. Se non gradisce, non te la regala, questa gioia; ma se lo stuzzichi, lo stimoli, lo incalzi, forse quella proprio no, non te la rappresenta; ma ne sforna un’altra magari improvvisata.
A destra: B. Messia
Le idee gli vengono come le ciliegie, fluiscono come l’acqua di un ruscello: non fa fatica a cogliere la parola giusta, i suoi versi galoppano, hanno ritmo, le sue rime non sono mai forzate. Il professor Lenoci, invitandolo a una sua serata letteraria ancora una volta nell’oasi de “Il cappotto”, in cui tra l’altro sopravvivono esemplari della civiltà contadina (un carretto azzoppato, un arcolaio…), all’ultimo momento gli aveva chiesto una composizione in lingua.
Messia e Einstein
Lui l’aveva scritta e poi con l’aria della vittima rassegnata confidò che il parto era sicuramente infelice, “perché è il dialetto il terreno sul quale mi cimento... per il Messia l’italiano è fatto di pietre, buche, dislivelli: ardua è l’impresa che il professore mi ha affidato. Io ci ho provato, ma questa volta il Messia il miracolo non lo ha fatto”. Mentiva spudoratamente, e gli applausi arrivarono in paese. Benvenuto Messia è un mattatore: da solo riuscirebbe a reggere uno spettacolo intero.
Messia (a destra) in Braccialetti rossi
I registi che lo hanno chiamato per piccole parti anche alla Tivù, in “Braccialetti rossi”, ne “Il medico in famiglia” …non lo hanno capito, o non lo hanno mai visto all’opera, questo martinese vulcanico, che merita almeno una parte da comprimario, se non proprio da protagonista. Chi lo ha visto recitare ama anche il suo modo di giocare con il nome. Si diverte, trastulla, dissolve le ore che si passano con lui. A un prete che rideva a crepapelle disse: “Si ricordi che io sono il Messia”. E quello per un riflesso pauloviano si stava inginocchiando. Non conoscevo la “vis” poetica di Ben. Lo ascoltai per la prima volta una decina di anni fa nei confortevoli trulli di Oronzo Carbotti, cultore delle tradizioni di Martina. Trasse dalla tasca un foglio e, seduto sul divano, ci deliziò con un parto arguto e ironico. Una novità, dunque, una primizia, un regalo fatto a due amici. Da allora lo cerco, il Messia, e lui, se gli va, la grazia me la fa, interpretando con timbri, cadenze professionali.
Benvenuto Messia a Laterza
Chissà perché non si è offerto da piccolo alla macchina da presa. Ne avrebbe fatta, di strada. Ma si è rifatto con la sua bici da corsa. Nella città dei trulli e del Festival non c’è nessuno pronto a giurare di averlo visto qualche volta a piedi o in auto, neppure per lunghi percorsi. Portò la figlia all’altare sul telaio, il giorno del matrimonio; e si accodava ai professionisti del pedale quando da Martina passava il Giro d’Italia, senza sentirsi Bartali o Girardengo. Non sfigurerebbe nel “surplace” davanti a Enzo Sacchi e Antonio Maspes, uno più bravo dell’altro nel mantenersi a lungo in equilibrio sulla bicicletta ferma, concludendo le sfide alla pari. Insomma Ben, sulla “due ruote”, è un virtuoso, un asso, un equilibrista. Per lui la bicicletta è sport, arte, abilità, salute, oltre che metafora della vita, a dispetto di Bava Beccaris, commissario straordinario a Milano, che del velocipede aveva terrore, tanto che il 10 maggio del 1898, forse spinto dall’invidia per chi ci andava, vietò la circolazione a cicli, tricicli e tandem nell’intera provincia di Milano.
E dovettero obbedirgli, dato il tipo. Fortunato Ben, che è nato molto più tardi, altrimenti con quel divieto del generale, che nel maggio del ’98 fece sparare cannonate sulla folla, doveva appendere al chiodo quella sua dote e limitarsi ad ammirarla, con dolore. Ma di passione Ben ne aveva anche un’altra, ereditata dal padre, e continua ad alimentarla: la fotografia.

Ha scattato foto d’arte, con i suoi “clic” ha colto il cuore, l’anima di Martina: gli angoli più spettacolari, più incantevoli: la Valle d’Itria e i balconi spanciati; i forni a legna e filari di viti, facciate biancolatte, archi, portali, interni di chiese, lame di sole che tagliano una stradina o penetrano in una “’nchiostre”, il calzolaio con il deschetto, sopravvissuto al tempo e al progresso... E’ un cacciatore di immagini, un mago della luce. Ben la vive, la luce. Guardo spesso le sue immagini qua e là, su una rivista, su un libro, in un’esposizione, nella vetrina del suo studio in via Ceglie.
Come la vedi la tua Martina, Ben? Bella, unica, insuperabile, ineguagliabile. E’ bella davvero, Martina. A me piace anche quando sento la pioggia scrosciare sulle stradine in discesa. Bella anche quando s’imbianca, con i pennacchi sui comignoli e la panna sui balconi. La vedi poi nelle foto di Ben e ti sembrano pagine da favola. E’ magica, Martina. Qualche volta Ben l’impagina su Facebook. E gli sono grato. Mi inorgoglisce quando approva i miei “clic”, e mi sento come l’allievo elogiato dal docente che scrive con la luce. Poeta della luce. Con i versi allieta, ristora lo spirito; con la macchina fotografica documenta e crea emozioni. Ascoltarlo è “’nu prìesce”, un piacere.

mercoledì 20 luglio 2016

GIACINTO PELUSO, UN UOMO BUONO E GARBATO - STORICO SCRUPOLOSO E INFATICABILE

 Ha raccontato con passione fatti e figure della sua città

Giacinto Peluso e Nicola Mandese.



La sua memoria era limpida, inossidabile. Ha raccontato


tanti aspetti sconosciuti della Bimare, avvincendo il lettore


Tra i suoi libri, tutti interessanti “Taranto da un ponte all’altro”


pubblicato in elegante veste tipografica da Mandese





Franco Presicci





Piero Mandrillo, Alfredo Nunziato Majorano, Alfredo Lucifero Petrosillo, Diego Marturano, Nicola Caputo, Giacinto Peluso …Quanti tarantini nell’albo d’oro di questa città ricca di preziosità non solo paesaggistiche. Piero lo incontrai tante volte a Milano, e gli feci anche da guida in Galleria Vittorio Emanuele, dove si aprono il Savini, il Camparino, il Biffi …; in via Caminadella; in via Spadari, un tempo affollata di fabbricanti di sciabole; in via Orefici, che ospitò le botteghe dei battiloro… Ma soprattutto nei luoghi meno frequentati dai turisti, come i navigli, il vicolo dei Lavandai, che per il poeta Armando Brocchieri era una chiesa di artisti per tutti quegli “atelier” nei cortili, che sono anche tavolozze botaniche.

P.Mandrillo e F.Presicci sul naviglio
Piero non si accontentava di osservare: voleva anche sapere; e un giorno lo condussi dai pittori Guido Bertuzzi e Aldo Cortina, che tra l’altro era stato allievo di De Pisis, ed era sempre disposto, come Guido, a rispondere alle domande: Perché vicolo dei Lavandai, quando a lavare i panni erano le donne?. “Beh, non è che gli uomini se ne stessero con le mani in mano: ritiravano la roba per il bucato e la riportavano pulita; reclutavano i clienti…”. Le donne lavoravano anche d’inverno?. “Certo. Si difendevano dal freddo con qualche sorso”. 
Poi Piero telefonava a Raffaele Carrieri, e qualche volta andava da lui per una visita di cortesia o per un’intervista. Fu ricevuto anche da Eugenio Montale, nella sua abitazione in via Bigli; e da Giuliano Gramigna, nella sede del “Giorno” in via Fava. Con il grande critico letterario avevo confidenza e feci da tramite. Fui anche presente all’incontro; e nelle sue note sul “Corriere del Giorno” Piero m’incollò l’appellativo di psicopompo.
Di Petrosillo ancora oggi rileggo “’U travàgghie d’u màre”, “Chùdde”, “Bella cafona meje”… e altro; di Majorano “’A Sanda Mòneche”, “Zazzarèddere”…; di Marturano, oltre ai versi, “’U cuèrne de Marj’a canzìrre”, commedia in un atto che negli anni 50 venne rappresentata da un improvvisato gruppo di universitari al Circolo dei Marinai. Di Mandrillo ripasso il saggio sul “Carducci” e rivedo le trasmissioni su Tv Taranto. I libri di Peluso sono appilati sulla mia scrivania, e ogni tanto scorro le pagine sul pianino, su don Catàvete e dònna Pernìce… Lo ritrovo nel vocabolario di Gigante edito da Mandese, dove le sue spiegazioni sono, almeno per me, illuminanti.
Di quest’uomo ricco di umanità e di cultura ho molti ricordi.
Via Garibaldi vista dal mare
Un mezzogiorno, sul pullman che va a Solito, sentii una voce sparare il mio nome. Mi guardai attorno e notai una testa che cercava di sovrastare le altre. Mi avvicinai, salutai scavando nella memoria. Era un signore basso, pienotto, calvo, con un sorriso aperto. Sembrava contento di vedermi, ma chi era?. “Ti leggo sempre; sai? Sei infaticabile al ‘Giorno’. Spesso in prima pagina. Bravo…Quanti anni sono passati da quando lasciasti Taranto per trasferirti a Milano?”. Lo guardavo e cercavo un barlume, un guizzo, uno spunto. Pensò lui a spalancare il mio archivio: “E tu mi leggi sul ‘Corriere’?”. Bastò. “Certo che la leggo: lei insegna ai tarantini la loro storia; descrive figure antiche, interpreta, illustra le perle onomatopeiche del nostro dialetto, i suoi suoni... Professore, che piacere!”.
Quinta e fondale di teatro
Ero già in pensione, e continuavo a scrivere per il “Giorno”. Ogni settimana una mia pagina: i locali storici, i teatri, la vita milanese di Stendhal, il salotto letterario della contessa Maffei, i miei incontri con il presidente Pertini al Savini, al ristorante “Il Grissino”, in una casa privata… E gli sollecitai informazioni sulle vicende del lotto a Taranto ai primi del ‘900 per un articolo che mi accingevo a scrivere su questo gioco dal punto di vista demologico. Me ne dette subito una buona dose. Arrivammo alla fermata in fondo a via Cesare Battisti, proprio di fronte al luogo in cui ero atteso, m’invitò a casa sua per un caffè. E continuò il discorso, accennando alla ricevitoria che si trovava nella via Maggiore della città vecchia, in una sola stanza angusta semibuia del Palazzo De Santis, assiepata di gente che puntava sulle disgrazie, su una scazzottata, su un matrimonio, sui sogni… che l’addetto smorfiava. Scommettevano tutti, ricchi e poveri. Poi aggiunse che i numeri estratti venivano stampati su foglietti colorati nella tipografia Lodeserto, a Palazzo Galeota, e affidati, per la diffusione, ai ragazzi che lavoravano al mercato della frutta e verdura di piazza Fontana.
Piazza Fontana negli anni 20, da un libro di Peluso.
Gridavano “Tùtte le ruooote”, come, in tempi più recenti, Marche Polle, che, scarpinando, soprattutto in via D’Aquino nelle ore in cui l’andirivieni lievitava. Proponeva ‘”U panarjidde”, confezionato nella tipografia Leggieri, e incalzava, abbassando il tono, “A vuè ‘a schedìne?”. Peluso ne ha tracciato il profilo in uno dei suoi libri.
"A Duàne d'u pèsce".

Stetti ad ascoltarlo con interesse e ammirazione. Parlava con la stessa semplicità e chiarezza che trovo nei suoi libri. Poi mi accompagnò alla porta promettendomi di spedirmi a Milano il suo prezioso “Taranto da un ponte all’altro”, che stava per essere sfornato da Mandese, in veste elegante e con tante fotografie d’epoca (ne mostriamo due, autorizzati dallo stesso editore). Mantenne la promessa; e io gli restituii l’unica copia dell’edizione di molti anni prima (credo del ’32) che mi aveva dato in prestito. Il pacchetto conteneva anche una sorpresa: una xilografia fattami dal pittore e fotografo Salinari come premio dell’attenzione che riservavo ai suoi quadri, quando avevo 19 anni.

Mar Piccolo
Ne regalai, con dedica, un esemplare a Giacinto Peluso; e lui dopo 50 anni me la restituiva. Non capivo la ragione del gesto e la frase contenuta in un biglietto: “Adesso è meglio che lo tenga tu. L’ho conservata per tutto quel tempo”. Mesi dopo mi chiamò Nicola Mandese per avvisarmi che Giacinto Peluso non c’era più. Taranto e i tarantini perdevano una voce importante. Io una persona che mi era stata sempre cara. Ho ancora in mente i saggi consigli che mi ha somministrato, quando ero giovane.
Uomo colto, generoso, affabile, Peluso ha descritto fatti e personaggi, luoghi e tradizioni con dovizia di dettagli. Ha fatto conoscere la storia e le leggende della nostra “culla”. E lo ha fatto in uno stile garbato, avvincente, limpido. Invoglia il lettore a lasciarsi prendere per mano in questi suoi viaggi in una Taranto dissolta.
Vecchio tram vicino al Municipio, da un libro di Peluso
Quella, per esempio, del lume a petrolio, oggetto sconosciuto ai giovani: “’A gazzettèlle”, ’u bècche, ’u tùbbe, ’u lumecìne’?...Ce so’?”. “E ce jè ‘a buttìglie d’u petrolie?”. Si teneva di scorta nell’eventualità che la fiammella si spegnesse. Il combustibile si vendeva ovunque, soprattutto nei negozi dei carbonai. E se il becco andava in frantumi, ci pensava “’u conzalùme”, l’uomo che passava sottocasa ogni giorno cantilenando per avvertire le massaie.
Nicola Mandese
Nel 1925 arrivò la luce elettrica e il lume a petrolio, titolo di un libro di Cesare Giulio Viola, venne messo da parte. Oggi è oggetto da collezione.
Non sbiadisce nella mia memoria la figura di questo scrittore prolifico ed egregio. Una mattina lo incontrai nella libreria Filippi, in piazza Maria Immacolata, e all’uscita mi invitò a fare due passi. Passammo davanti alla Casa del libro, oggi inserita nell’elenco delle librerie storiche, sfiorammo la Sem, proseguimmo per piazza del Carmine. E camminando mi impartì una brevissima lezione sul volto perduto della nostra città.
Scoprii che il severo professore di francese aveva un cuore d’oro. Da Milano ebbi spesso la tentazione di telefonargli, e più volte impugnai la cornetta, riponendola subito, per il timore di disturbare. Ma di lui abbiamo parlato tante volte con Nicola Mandese, che gli era così vicino. E ne parliamo ancora, nelle mie rimpatriate.


mercoledì 13 luglio 2016

I viaggi sulla Michelangelo e sulla Raffaello



LA NAVE MICHELANGELO


Le giornate fra divertimenti e riposo. Le manifestazioni come “La dama dello zodiaco”. I pranzi, i balli, le cene i dolci fra sculture di ghiaccio. Gli spettacoli del grande Enrico Simonetti.
Una traversata con Raffaella Carrà e il Mago Waldner, titolare di una rubrica su “Grazia”.

I motori si spensero nel ’75 suscitando tanta malinconia.




Franco Presicci





Superba, signorile, imponente, magnifica, la Michelangelo, come la sua gemella Raffaello. avvolgeva subito i viaggiatori in un’atmosfera di serenità. Mi emozionavo ogni volta appena messo piede sul barcarizzo; e poi quando la banda intonava l’inno di Mameli per salutare la partenza.
Visita alla nave
Di solito si lasciava il porto di Genova al mattino, dopo aver passato la notte all’hotel Principe. E già lì incontravo gli amici che avrebbero condiviso l’avventura con me: Liliano Modena, addetto alla custodia e alla distribuzione dei “gadget”; il pittore Fed Ferrari, autore di un enorme ritratto della moglie del presidente della Repubblica, donna Vittoria Leone; il fotografo ufficiale di bordo Gianfranco Barabino; Adriano Bet, capufficio stampa della Società “Italia” di navigazione... L’incontro era una festa, a cui partecipavano l’avvocato Paolo Zucchi di Pavia, o il mago Waldner, che scriveva su “Grazia”. Conobbi le attrici Erica Blanc, Diana Torrieri, Solvi Stubing…; e poi Raffaella Carrà e Gianni Boncompagni; Alfredo Pigna, giornalista del “Corriere”, direttore della “Tribuna illustrata”, conduttore televisivo esperto di sci alpino, sceneggiatore (”Il fischio al naso”, nel ’67, di e con Ugo Tognazzi…), amico di Dino Buzzati.
Alfredo Pigna (al centro) e Presicci a sinistra ballano
Alto, simpatico, pronto alla battuta, Pigna fu protagonista di una scena imbarazzante che lui rese divertente: a una bellissima ragazza si slacciarono le bretelline del vestito e lui, con provvidenziale tempismo, le si parò di fronte, nascondendola agli sguardi, e rassicurò i presenti: “Ho evitato due gol”. Era con noi la moglie del vice di Bet, Bonfiglioli, una signora fine e deliziosa.
Ping-pong sulla Michelangelo







Le giornate sulla Michelangelo e sulla Raffaello trascorrevano in fretta con i tanti passatempi che gli animatori offrivano. E chi non voleva essere coinvolto, per esempio, dal tiro al piattello poteva scegliere fra i tuffi in piscina, le passeggiate sui ponti, le visite ai quadri disposti nel vestibolo, nei saloni delle feste, nella veranda-bar, nella sala da gioco e di lettura, nella sala da pranzo, nelle gallerie di collegamento: opere di Turcato, Santomaso, Dova, Fiume, Usellini, Omiccioli, Tosi…; e sculture di Calvelli, Alfieri…sulla Michelangelo; e, sull’altro transatlantico, un”Estate in Sicilia” di Sciltian, , un”Odalisca” di Cantatore, “Il paracadute” di Usellini…
Giochi sulla Michelangelo
In ogni traversata, una manifestazione, seguitissima: la “Signora del mare”, la “Dama dello zodiaco”… L’11 maggio del ’73 sulla Raffaello vinse il “collare di Nettuno” la bella e bionda tedesca Ute Marrè, innamorata del nostro Paese. A consegnarle il premio, mentre la nave andava beccheggiando verso Cannes, il comandante Narciso Fossati e la grande Diana Torrieri. Io rimasi un po’ deluso, essendomi battuto affinchè il riconoscimento andasse all’attrice teatrale, tanto che un membro della giurìa mi accusò, benevolmente, di averlo fatto per interesse in quanto addetto stampa dell’iniziativa. Comunque, l’attrice mi premiò facendomi leggere alcune sue poesie ancora in bozza.
Da sx: F. Presicci-A. Bet-i premiati Margaret Boeri e Enrico Simonetti

Il 2 ottobre dell’anno successivo venne eletta “dama dello zodiaco, sulla Michelangelo in rotta da Casablanca a Genova, Margaret Boeri, bulgara direttrice di una clinica. Lei si presentò con un bellissimo abito ispirato appunto all’astrologia, imponendosi per la figura avvenente. Dopo la cerimonia nel grande teatro si esibì il maestro Enrico Simonetti, che da un mese non toccava terra. In estate aveva mietuto un notevole successo in uno “show” televisivo, quindi era salito a bordo e invaghitosi della vita che vi si conduceva aveva deciso di navigare a lungo.
Non mi lasciai sfuggire l’occasione. Appena abbassarono il sipario, gli chiesi un appuntamento, e me lo concesse. Avevamo stabilito un buon rapporto da quando su un treno traballante eravamo andati insieme da Casablanca a Marrakesch, dove fummo assediati da una miriade di ambulanti di barracani e oggetti di artigianato locale.
Su un ponte della nave
Ci rivedemmo il giorno successivo alle dieci sotto il fumaiolo della nave. Cominciò parlando del suo maestro e delle sue raccomandazioni: “Il contadino che la domenica va in piazza ad ascoltare la banda deve capire ciò che cosa si suona; altrimenti a che serve allestire una cassa armonica? Sarebbe soltanto folklore e basta”. Lui non l’aveva mai dimenticato. E dopo i consensi ottenuti nei teatri, alla televisione e alla radio contava di ritirarsi nella sua Alassio e di aprire una scuola destinata ai giovani desiderosi di conoscere la musica in maniera corretta. “Ho detto informazione, non formazione musicale”, precisò. Il Comune gli aveva già messo a disposizione ciò che occorreva. Gli sollecitai un giudizio sui musicisti come Gaslini, che andavano a suonare nelle fabbriche; e mi rispose che li apprezzava molto. “Con loro la musica arriva direttamente al cuore della gente”. In altri Paesi, aggiunse, i giovani imparano sin da piccoli ad ascoltare la musica, quindi sanno a che serve uno strumento, la sua storia, com’è nato il suono. Parlava piano, con qualche cadenza romanesca, con un’affabilità sincera. Il suo era un discorso rettilineo, Raccontava senza costellazioni enfatiche il suo “Simonetti show” di 146 puntate con un successo strepitoso in Brasile, dove aveva soggiornato dal ’52 al ’61.
E.Simonetti e F.Presicci sulla nave
In Italia aveva trionfato con lo “show” “Excelsior”. In un western, del ’68, “Non cantare spara”, aveva lavorato con Mina. Il punto più alto lo raggiungerà nel ’75 con la musica composta per lo sceneggiato “Gamma”. Era uomo di ottime letture (Berto, Cassola, Ginzburg, Saviane, Pavese, libri scientifici, di fantascienza…). Schivava i dialoghi banali, i luoghi comuni, i giudizi superficiali, approssimativi; i discorsi che si diluiscono in mille rivoli senza conclusioni. “Mi viene la tentazione di creare un club dei matti, degli stralunati. Ne troverei dappertutto”. Si teneva lontano dagli ambienti degli artisti, non gli piaceva starsene seduto al caffè. Nella vita era come in tivù, senza storture divistiche. Aveva il gesto discreto, il sorriso cordiale. Una sua virtù? “Non esco mai dal mio orto”. In quei giorni gli era stato proposto un film con Edwige Fenech, ma il progetto non lo entusiasmava. “Se ho accettato di fare televisione l’ho fatto solo per rivalutare il pianoforte, per valorizzare la musica”. Doveva la sua amicizia con la tastiera alla nonna: lei cantava le romanze e lui l’accompagnava. Aveva sette o otto anni.
Erano quasi le 13, quando terminammo la conversazione. Ci aspettavano in sala da pranzo, che trovammo già al completo. La cena iniziava alle 21. E c’era quasi sempre chi compiva gli anni. Allora andava in scena un rito esaltante: si spegnevano le luci, dalla cucina sbucava un corteo di camerieri, ciascuno con una torta illuminata sul palmo della mano, mentre esplodeva un coro di auguri.
Ettore Colombin chef della Michelangelo
Lo “chef” Ettore Colombin si godeva la scena dalla soglia del suo regno. Dopo, chi a ballare sulla pista del salone delle feste (“Florence”, sulla Michelangelo; “Veneziana, progettata dagli architetti Attilio ed Emilio La Padula, sulla Raffaello); chi a una sfilata di moda; chi al bar a sorseggiare un drink. Il ganimede si pavoneggiava sulla scia di uno “Chanel numerò cinq” e smaltiva la sconfitta in un tango argentino. A mezzanotte ancora tavole imbandite: ricco “self-service” con ogni bendidio, compresi dolci monumentali fra architetture di ghiaccio.
Le ore erano dunque piene in questi sontuosi palazzi galleggianti. Trascorrevano veloci tra divertimenti e riposo, facendo bene allo spirito e alla salute. Io nella tipografia di bordo facevo anche un giornale, con la cronaca delle serate, le interviste ai passeggeri, alle personalità, al comandante, le curiosità, le foto che mi dava Barabino…. Peccato che nel ’75 questi gioielli del mare dovettero smettere il servizio. Dopo appena dieci anni di vita. Non le dimenticherò mai, soprattutto la Michelangelo, sulla quale viaggiai più spesso, ospite della Società di piazza De’ Ferrari, l’armatrice. La Michelangelo era lunga quasi 275 metri, larga 31; stazza lorda 45.911 tonnellate, 22 meno dell’altra, ricettività di 1775 passeggeri. Le dissi addio con tanta malinconia. Con la loro scomparsa finì un’epoca.






























mercoledì 6 luglio 2016

Una volta i ragazzi giocavano in strada






'A levòrie, archivio fotogafico di Nicola Giudetti.
ERANO I TEMPI

 “D’A LEVORIE”

E DELLA PALLA DI PEZZA







La Befana aveva le scarpe rotte e il sacco vuoto

Durante le feste, nelle piazze si issava l’albero

della cuccagna. Nei quartieri si accendevano i

falò per San Giuseppe e per il funerale di Carnevale

Nelle case si ballava con il grammofono a tromba.




Franco Presicci


Quando ero ragazzo avevo il campo-giochi davanti a casa (in via Nettuno, tra via Dante e piazza Messapia): un marciapiedi largo e sterrato, con un muretto di tufo mezzo smozzicato su un lato.
Gli stabili della via erano bassi: al massimo due piani. C’era solo un esercizio, la tabaccheria di don Damiano, e un calzolaio con il deschetto, mest’Andonie, che non ci sopportava per il chiasso che facevamo giocando alla livoria. Che cominciava dopo aver segnato “’a menàte”, il limite da cui si lanciavano le palle d’acciaio, tentando d’infilarle “gnìndr’a scìgghie”: cerchio di ferro del diametro di sei o sette centimetri dotato di una specie di chiodo che si conficcava nel terreno a una decina di metri dal punto di partenza; e se si mancava il bersaglio, lo si raggiungeva spingendo la boccia con la paletta. Per aggiudicarsi due punti in una botta sola, bisognava colpire, con la propria, quella dell’altro, facendole superare la “menata” al grido di “Càpe, ce mandène jè fàtte”, volendo dire che, se il “proiettile” toccava un piede, il premio era assegnato anche se non era stata superata la linea di demarcazione.
'A ròzzele.
vevamo anche gli spettatori: “’na decìne de uagnùne e ‘ngòrchie grànne”. Il numero lievitava con le donne affacciate ai balconi, che quando noi sloggiavamo, verso le 19, dirottavano l’attenzione sui passanti, snocciolando critiche sul loro modo di camminare, sui vestiti che indossavano, sui gesti, i tic…. La signora che fumava per strada era una novità, quindi un buon argomento da commentare; quella che addentava un pezzetto di pane “no’nge ‘u tène ‘u tàule a ccàse, pròbbie mmìenz’a stràte addà scè’ mangiànne?”. Molti avevano il soprannome. Lo zio di un mio coetaneo era “Cemenère”, “p’u sìchere” sempre stretto fra le labbra; una cinquantenne bassa e magra, “vacandìe”, claudicante, “mènza meròdde”, e non capivo perché, avendo saputo che “meròdde” in dialetto sta per cervello.
Piazza Messapia.
Un diciassettenne mingherlino, “cùrt’e màle cavàte”, era “’u malacàrne””, perché improvvisava scherzi non sempre divertenti, come quella volta che fece “avenè’ ‘a frève” a un ottantenne di passaggio. “’U panarìedde” aveva legato un filo a un portafoglio malridotto, reggendo fra le dita l’altro capo; il malcapitato vide la custodia e si piegò per prenderla; l’altro tirò piano il filo, il vecchietto attribuì il movimento al ventaccio che spirava da un paio di giorni e insistette. Così fino a quando il trucco non fu smascherato, scatenando tuoni e saette. Allora i palloni erano una rarità, e noi ci ingegnavamo facendo “’a pàlle de pèzze”, un po’ di stracci arrotondati con una corda. Era da poco finita la guerra, le famiglie avevano le tasche vuote e quindi anche “’u spezzidde”, la lippa, era di nostra produzione.
'U spezzìedde, foto di Taranto ha due mari.
Era un gioco molto in voga: stando “indr’o ‘ndurnìedde” tracciato per terra, si batteva “cu ‘a màzze” su uno dei lati affusolati “d’u spezzìdde“, che si teneva nella mano sinistra, per farlo finire il più lontano possibile. “’U ‘turnìedde’ si svolgeva anche in casa”: con il gesso tracciavamo sul pavimento un cerchio, dove, per vincere, bisognava far entrare le monete scagliate dalla “menàte”. “A spaccaghiangàte”, invece, le monete si lanciavano in alto cercando di farle atterrare su un mattone prestabilito. Anche qui, se si falliva, si ripeteva la manovra con un dito. Noi ci servivamo dei bottoni; e io, come altri, li razziavo, tanto che una volta il nonno, avendone perso uno, rimase con la brachetta ventilata finchè la nonna con affanno non trovò il sostituto.
'U currùchele gire.
 

 

“C’u currùchele”, la trottola a forma di pera con una punta di ferro all’apice, me la cavavo bene. Gli si avvolgeva attorno una corda, “’u cuènze”, che si tirava forte tenendo l’altro capo tra il mignolo e l’anulare; la corda si srotolava e “’u currùchele” girava; lo si faceva “salire” sul palmo della stessa mano sbattendolo poi contro l’altro. Il vincitore “azzugnàve” lo strumento del perdente, che con il tempo per i buchi subiti veniva escluso dalle competizioni. “A scarecabòmbe” alcuni si mettevano in fila piegati ad angolo retto e gli altri correndo li scavalcavano poggiando le mani sulla loro schiena, come quando gli indiani schizzano sul cavallo nei “western”. Ricordo “Manuè zò zò”. Due squadre: i ragazzi dell’una prendevano la rincorsa e si mettevano a cavalcioni sugli altri urlando: “Manuè, pèse ‘u chùmme?” (e “’u chiùmme no’nge pesavè”, per orgoglio). Altri si divertivano con la fionda, “’u tirammòlle”, mirando alle rondini.
Le scuole Acanfora.
Non le colpivano mai, eppure ad ogni lancio un peana: “Hàgghie pegghiàte ‘’a còde!”; “je pe’ pìcche no’ge l’hàgghie azzeccàte!”… Altri ancora preferivano “’u cingh’e mmìenze”; “’a mòrre”; “’u nìgghie-nìgghie”; “’u ’nzicca parète”, “’a stàcchie”, “bbòtt’e fùsce”… Noi a volte “’u scarecauarrìle”. I più spericolati maneggiavano “u carbùre”: scavavano una buca di una decina di centimetri, vi collocavano un pezzo di quel composto al centro; poi vi alloggiavano “’na buàtte” con l’apertura rovesciata dopo aver fatto un foro sulla parte esposta della stessa; vi avvicinavano un fiammifero a legna e il barattolo decollava. Mi regalarono un cerchio più grande della ruota di una bici e io, imprimendogli il movimento con una piccola mazza, gli correvo dietro facendo più volte il giro dell’isolato. Spesso gareggiavo con i compagni: la spuntava chi riusciva a tenerlo in piedi più a lungo.
Via Nettuno.
Gioco di abilità era quello “de le cìnghe pètre”: se ne mandava in alto una e se ne prendeva un’altra in tempo per afferrare la prima mentre ricadeva; e così via. Il passatempo delle ragazzine era “’a cambàne”. “Mosca cieca” vedeva maschi e femmine insieme: uno faccia al muro contava fino a dieci, il resto della compagnia si nascondeva finchè non era scovato. E poi c’erano giochi per i più piccoli; e altri per i grandi, come “patrùne e sòtte”, in cui il secondo proponeva al primo se tizio poteva sorseggiare mezzo bicchiere e quello approvava o negava, motivando. “Patrù’ - addumannàve ‘u sòtte’ davanti a un bottiglione di vino – Memìne po’ bbèvere ddò’ dìscete?”. ”Nòne, Memìne jè mangiapàne a trademìende: je accussènd’a fa’ bbèver’a Necòle, ca jè ‘nu galandòme”. Alla fine “vùne se ‘mburracciàve e ‘n’òtre rumanève all’assùtte”. E le mogli accoglievano con il randello l’ubriaco e con sorrisi chi non aveva assaggiato neppure un sorso ed era stato travolto da una valanga di insulti e di calunnie. Erano i tempi del grammofono a tromba, “d’u strecatùre”, “de l’asciucapànne”, del calamaio di terracotta, dei pennini con forme diverse, “de l’assucanghiòstre”, delle bottigliette di gazosa con la pallina di vetro,“d’u brustelatùre d’u cafèje”,
'U brustulatùre d'u cafèje.
“d’u macenìne”, “d’a speretière”, “d’a fracère”, d’a tagghiòle pe’ le sùrce”, “d’u scarfalìette”. Per le strade passava l’uomo che suonava il pianino agendo su una manovella, mentre una sua assistente ordinava al pappagallo di pescare per il cliente fra tanti foglietti colorati il “pianèta della fortuna con i numeri del lotto”. I ficcanaso gridavano al vetturino in transito “Alè, alè alè, ‘u uagnòne ste’ rète” e subito schioccava la frusta contro il portoghese. La Befana aveva le scarpe rotte e il sacco vuoto. Entrò in casa mia, non per il camino, che non c’era, e depose su una panca un anno un Pinocchio di legno e un altro cinque soldatini di piombo. Poi perdette l’indirizzo. Erano anche i tempi in cui in piazza Marconi nelle feste issavano l’albero della cuccagna; e io ritenevo ingiusto che i primi scalatori facessero tanta fatica inutile per vedere l’ultimo arrivato conquistare con una certa facilità la vetta arraffando salami, vini e formaggi. Mi spiegarono che era tutto previsto e che a porte chiuse “spartèvene suèzze”, in parti uguali. L’albero della cuccagna era uno spettacolo affollato e atteso. Una festa anche i falò che si appiccavano a San Giuseppe e per il funerale di carnevale. Per noi anche quei roghi erano un gioco.