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mercoledì 24 febbraio 2016

Dopo tante lotte combattute dall’artista De Cerce



IN VIA BAGUTTA A MILANO

OGNI ANNO SI CELEBRA IL TRIONFO DELLE TAVOLOZZE


Ingresso del ristorante Bagutta
Dal ’64 vi si svolgono affollate mostre all’aperto, con quadri anche sulla facciata del ristorante dei Pepori, che come il suo prestigioso Premio letterario fondato nel ’26 da Orio Vergani ha lo stesso nome della via. Molti dei vincitori del riconoscimento sfilano in “Primi piani” di Domenico Porzio, scrittore tarantino, che scoprì fra i primi le qualità dell’argentino Borges, traducendone le opere.

Franco Presicci

Mario Pepori del ristorante Bagutta
Ero a Milano da qualche anno, quando un pomeriggio decisi di fare un salto in via Bagutta, spinto dal ricordo delle battaglie che Bruno De Cerce e un gruppo di suoi collaboratori avevano affrontato per fare di quella piccola arteria la sede di una collettiva d’arte all’aperto da ripetersi due volte l’anno. La burocrazia recalcitrava e loro la incalzavano, scendendo in strada, distribuendo volantini, esibendo cartelloni con le scritte: “La città del miracolo economico non aiuta gli artisti”; “Il nostro sogno è la via Bagutta”… Un giorno organizzarono un “sit-in” per impedire la circolazione, intervenne la polizia e si portò di peso De Cerce in questura, viaggio che suggerì al pittore spaziale l’idea d’indossare durante le tenzoni una casacca da ergastolano, con il numero 40 bene in vista sul petto. Il duello, iniziato negli anni 50, calamitò l’attenzione dei giornali non soltanto milanesi e della televisione. L’Amministrazione comunale alla fine cedette, e l’assessore alla Viabilità Valentini, il 25 ottobre del ’64, tagliò il nastro inaugurale della prima esposizione (circa duecento partecipanti), fra una moltitudine di visitatori e l’esibizione della Banda di Gaggiano. De Cerce, molisano a Milano dal ’58, barba alla Carlo Marx, voce sottile, un po’ burbero, si godeva la conquista assieme al suo piccolo esercito e ad Aldo Cortina, già allievo di Filippo De Pisis e titolare della libreria universitaria di fronte alla Statale.
Fu un giorno di festa, nonostante la pioggia che benediva le opere e il vento che gonfiava lo striscione steso tra finestre dirimpettaie sul vicolo Baguttino, quasi un simbolo della vittoria. I taccuini dei cronisti si riempivano di notizie su De Cerce,
dalla sua prima personale nel ’63 allestita nel Salone Nucleare della Fiera di Milano alla estemporanea da lui allestita per un centinaio di pittori al Teatro Tenda di Gassman, in piazza Vetra, alla personale nella Galleria “Il Cavallino”, su invito del mercante Cardazzo… Una biografia densa. “Il Giorno” ha sempre seguito le vicende di via Bagutta, dove si torna volentieri quando paesaggi, nature morte, figure, fantasie surreali, futuriste…sfollano. Facendo avanti e indietro in quest’atmosfera romantica si pensa magari a Carlo Porta; e si ha l’impressione di avvertire il rumore dei passi di tanti personaggi importanti che frequentarono (altri lo frequentano oggi) ristorante dei Pepori al civico 14,  dove la sera dell’11 novembre 1926 a Orio Vergani, penna illustre del giornalismo italiano, venne l’idea del Premio letterario Bagutta (che è anche il nome del prestigioso ritrovo gastronomico che da allora continua ad ospitarlo), negli anni vinto da Soldati, Montanelli, Repaci, Gadda, Brancati, Primo Levi, Marotta…Al parto collaborarono Riccardo Bacchelli, Adolfo Franci, Paolo Monelli, Gino Scarpa, Mario Vellani-Marchi…. Insomma, da una parte i pittori; dall’altra i grandi scrittori. Anche Piero Mandrillo, intellettuale di alto bordo e critico severo (a Pulsano, suo paese natale, gli hanno dedicato la biblioteca e a Taranto, dove viveva, a suo tempo lo hanno degnamente commemorato) amava percorrere via Bagutta e altre strade storiche. Veniva spesso a Milano. Ci venne con la troupe” di Tv Taranto anche nel ’76 per una serata di pugliesi al Centro informazioni d’arte, a Brera. Ogni volta cercava la bellezza discreta, quasi schiva, della città. 



Piero Mandrillo nel '76 a Milano intervista Antonio Baroni, il direttore del settimanale Il Milanese,   a destra Franco Presicci





 Quasi sempre in compagnia di un amico, che definiva psicopompo, attraversava corso Venezia, ammirando le facciate liberty dei palazzi; la Galleria, che gli faceva venire in mente Giuseppe Marotta (“L’oro di Napoli”, “A Milano non fa freddo”, “Mal di Galleria”…); i Navigli, cari ad Alfonso Gatto, a Gaetano Afeltra, a Carlo Castellaneta, al fotografo veneziano Fulvio Roiter… Andando a fare visita al poeta e critico d’arte Raffaele Carrieri, tarantino anche lui, si fermava all’angolo di via Manzoni con via Bigli, un budello aristocratico, in cui abitava Montale e nell’800 la contessa Maffei, celebre per il suo salotto culturale (nel febbraio del 1897 accolse anche Balzac, arrivato da Parigi); in via Morone, che prima di sfociare in piazza Belgioioso, che accolse i sospiri di Stendhal per la baronessa Matilde Viscontini, presenta casa Manzoni.
 Bagutta affollata
Domenico Porzio e il prof. Silvio Garattini
Un giorno, deviando da corso Buenos Aires in viale Tunisia, dove durante la Resistenza, in un paio di piccoli locali, c’era il covo di Sandro Pertini, entrò, seguito dall’amico, nella libreria di Nicola Partipilo, barese doc, sperando di potervi trovare “Barboni a Milano” del critico e storico musicale Giulio Confalonieri, che con i “clochard” passeggiava sottobraccio a Brera, non disdegnando un sorso con loro in osteria.
Piero soddisfaceva le sue curiosità estetiche e intervistava, per “Il Corriere del Giorno”, personaggi eminenti: Montale, Giuliano Gramigna, allora critico letterario al “Giorno”, lo stesso Carrieri e altri. Nella sua agenda c’era anche Domenico Porzio, ma dovette anticipare la partenza e non potè realizzare questo desiderio.
Alla Mondadori, all’epoca in via Bianca di Savoia, ad incontrare Porzio, che nella casa editrice era capo ufficio stampa e assistente del presidente Arnoldo, un po’ di tempo dopo andò l’amico, che venne ricevuto con una cortesia squisita. Invitato ad accomodarsi, si sentì dire che la sedia indicata era stata occupata da glutei eccellenti, appartenenti a Buzzati, Soldati, Bo, Bacchelli, Montale...Notizia piuttosto imbarazzante per natiche molto modeste. Giornalista, scrittore, critico letterario e d’arte, Porzio, nato a Taranto nel ’21 da famiglia napoletana, si era trasferito con i suoi sotto il Vesuvio, quindi a Milano, nel ’29. Laureatosi in medicina, aveva regalato il titolo al padre che lo voleva medico, rivelandogli che allo stetoscopio preferiva la carta stampata. L’aveva già fiutata al liceo cucinando con Oreste del Buono una rivista, “La giostra”.
Giuria del Premio Bagutta su una parete dell'omonimo ristorante
E una volta consacrato nella professione, con lo stesso Del Buono creò “Quaderni milanesi”; con Marco Valsecchi le Edizioni di Uomo, e collaborò con i settimanali “Oggi”, sorto nel febbraio del ’39 anche grazie a lui, “Epoca” e “Panorama”. Curò antologie, la traduzione italiana di tutte le opere di Borges (fu uno dei primi nel nostro Paese a rivelarne la qualità); e scrisse numerosi libri, fra cui, nel ’76, “Primi Piani”, una galleria di ritratti: da Solzenicyn a Testori, Cassola, Kerouac, Guttuso, Eduardo, Pasolini, Paolo Grassi, Carla Fracci, Piero Chiara…con tanti particolari succosi, tra cui il motivo del disamore di Gianni Brera per Rivera e la passione di De Chirico per la cioccolata.
Porzio ha diverse doti – diceva Enzo Biagi - ma spicca per la sua grande capacità di ascoltare. E ascoltava a lungo Mario Soldati, che telefonava agli amici anche da New York per raccontare le sue giornate. Porzio era elegante, riservato, un signore. Non si sentiva un protagonista, ma un testimone, e non si sovrapponeva mai all’interlocutore. E’ morto a Cortina nel ‘90.





mercoledì 17 febbraio 2016

Brillante relazione de prof. Lenoci a Martina Franca - presentazione opera edita da Nuove Proposte Culturali


Per Serveco quanto fa uno più uno. . . .


Crispiano, 11 febbraio 2016

Brillante relazione del prof. Lenoci rivolta ad un numeroso pubblico intervenuto nella sala consiliare del Comune di Martina Franca.
Da dx: Eva Milella, Francesco Lenoci e Franco Ancona
Nella circostanza è stato presentato il libro edito da Nuove Proposte Culturali, “Uno più uno fa tre
, scritto dal giornalista Massimiliano Martucci. Il volume racconta la storia dell’impresa Serveco, attraverso le voci dei protagonisti, una storia atipica, di due imprenditori “difettosi” (Pierino Chirulli e Carmelo Marangi) , capaci di guardare lontano e scegliere in ogni momento quale passo giusto da compiere.
Un racconto arricchito di spunti personali, di riflessioni, di immagini che fanno diventare la storia dell’impresa, fondata nel 1987, un piccolo manuale per chi ha voglia di mettersi in gioco e di intraprendere non solo un'attività di servizi ambientali, ma anche realizzare un modello di azienda fondato sulla valorizzazione delle persone e dell’innovazione. All’incontro, organizzato dalla Fondazione Nuove Proposte, hanno partecipato anche il sindaco di Martina Franca Franco Ancona, il fondatore di “Nuove Proposte Culturali” Elio Michele Greco e la presidente di Arti Puglia Eva Milella. Il prof. Francesco Lenoci, meritevole della pubblicazione della relazione che segue, è docente dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ma svolge un' attività parallela al suo impegno universitario. Una vera e propria missione la sua quella di portare in giro per l’Italia il “Discorso ai giovani nel nome di don Tonino Bello”,  il compianto presule originario del Salento fondatore di Pax Christi che forse per primo ha parlato dei giovani come di una generazione tradita, la più colpita dalla crisi, dalla disoccupazione, dalla recessione. “Il vero problema è la disoccupazione giovanile”, dice Lenoci, quando parla di don Tonino Bello.  A lui il Comune di Martina Franca ha conferito, meritatamente, l'onorificenza del Patriae Decus.

Michele Annese


Per Serveco quanto fa uno più uno. . . .

(F. Lenoci) Cosa fa un professore universitario? . . .Due cose: spiega oppure interroga.
Cosa ho fatto l’ultima volta che ho parlato a Martina Franca (il 30 dicembre 2015 presso il Salotto culturale di Palazzo Recupero)?. . . .Ho spiegato. Quindi adesso, presso la Sala Consiliare del Palazzo Ducale, mi tocca interrogare.
Una domanda facile, considerando che molti di voi sono miei amici su Facebook e, quindi, hanno visto le foto che ho postato. Dov’ero ieri sera alle 20,00?. . . .Ero presso la sede di Serveco a Montemesola.
Una domanda facile. Qual è l’oggetto sociale di Serveco? . . . .La custodia del Creato.
Una domanda difficilissima. Cosa dice l’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco con riguardo alla Custodia del Creato?
Se lo sguardo percorre le regioni del nostro pianeta, ci si accorge subito che l’umanità ha deluso l’attesa divina”. (Cfr. Laudato Si’ 61).
Dove voglio arrivare?. . . .Voglio arrivare a dire che l’attività svolta da Serveco è di fondamentale importanza.
Una domanda facilissima. Quanto fa uno più uno? . . . .Fa due.
Una domanda facile. Per Serveco quanto fa uno più uno?. . . . Fa tre (come recita il titolo del Libro di Massimiliano Martucci edito da Edizioni Nuove Proposte).
UNO + UNO FA TRE

Una domanda difficile. Perché per Serveco uno più uno fa tre?
Vi segnalo la risposta che dà Vito Manzari nella prefazione del Libro: “Penso che il binomio tra Pierino Chirulli e Carmelo Marangi (l’intuito, la creatività, la sfrontatezza, la voglia di approfondire di Pierino; il metodo, la determinazione, l’approccio ingegneristico, la testardaggine di Carmelo) hanno creato una chimica, una magia, che hanno attratto persone oneste, che hanno votato la loro vita a quello che facevano”. (Cfr. pag. 14).
È una bella risposta, che merita il mio e il vostro applauso.
Complimenti Serveco.
Una domanda difficilissima, resa ancora più complicata dall’ultima frase dell’ultima pagina del Libro: “Per i due ragazzi del 1960 (Pierino e Carmelo) uno più uno ha fatto, sempre, almeno tre”. (Cfr. pag. 153).
È la classica domanda che, in caso di risposta corretta, fa aggiungere al trenta la lode. Quanto dovrebbe fare per Serveco uno più uno?
Chi dice tre, chi dice almeno tre, chi dice più di tre? . . . . Votate per alzata di mano.
Per addivenire alla risposta corretta, devo raccontarvi una storia.
A seguito della crisi finanziaria, economica e ambientale viviamo in un’epoca in cui si è avverato ciò che un timido ed eccentrico docente di matematica pura aveva previsto nel 1896, nel libro “Attraverso lo specchio”. In precedenza aveva scritto “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Il suo nome è Lewis Carroll.
Nel Regno della Regina Rossa per mantenere il proprio posto, occorreva . . . . come adesso . . . . correre a più non posso; per andare da qualche altra parte, occorreva . . . . come adesso . . . . correre almeno il doppio”.
Che cosa significa?. . . .Significa che, se Serveco vuole mantenere il proprio posto, uno più uno deve fare tre (deve correre a più non posso).
Significa che, se Serveco vuole crescere, uno più uno deve fare almeno tre? . . . .no, no . . . .no. Uno più uno deve fare almeno quattro (deve correre almeno il doppio).
UNO + UNO DEVE FARE ALMENO QUATTRO
Cosa deve fare Serveco per riuscire a correre almeno il doppio? . . . .Due mosse.
La prima mossa è il raddoppio dei capitali. Fino a questo momento, Serveco ne ha gestiti tre di capitali: il capitale umano, il capitale organizzativo e il capitale relazionale.
Alla gestione di questi tre capitali deve aggiungere quella di altri tre: il capitale finanziario, il capitale materiale e infrastrutturale e il capitale naturale.
La seconda mossa per Serveco è di continuare a fare ciò che emerge da tutte le pagine del Libro: continuare a progettare insieme, continuare a osare insieme, continuare a sacrificarsi insieme.
Gruppo Finsea
È ciò che mi piace definire “la logica della staffetta”. La staffetta è quella gara meravigliosa (sto pensando alla 4x100 metri in atletica leggera) che consente a quattro atleti normali di battere quattro campioni. Ci possono riuscire perché ciò che conta è far viaggiare veloce il testimone e per farlo occorre, soprattutto, essere affiatati nei cambi: un frazionista deve cominciare a correre prima che arrivi l’altro e quest’ultimo deve arrivare alla giusta distanza dal primo. Il frazionista che riceve il cambio non deve mai girarsi a guardare il compagno che sta arrivando. Deve solo correre allungando un braccio all’indietro.
Se è, però, vero che quattro frazionisti affiatati possono battere quattro campioni, è anche vero che se cade per terra il testimone . . . .non perde il frazionista che ha commesso l’errore . . . .ma perde l’intera squadra.
Ciò che consente alle imprese di avere successo (oltre ai sei capitali prima menzionati) è la staffetta, che deve avvenire: tra grandi e ragazzi; tra uomini e donne di buona volontà.
Io ho dedicato tanti anni della mia vita allo studio delle imprese.
So di una sola impresa in Italia, che ha sempre chiuso i bilanci in utile e che ha distribuito almeno un dividendo tutti gli anni.
Alla Convention per i 25 anni di quell’impresa, nel palazzo dello sport di Pesaro sono stati installati a beneficio dei 10.000 presenti due maxi schermi.
Sul primo maxi schermo è apparsa una frase, accolta da un applauso: “Se vuoi andare veloce, devi correre da solo”.
E poi c’è stato un boato. Cos’era successo? Sull’altro maxi schermo era apparsa la seguente frase: “Ma se vuoi andare ancora più veloce e ancora più lontano, devi correre insieme agli altri”.
La logica della staffetta non è un’utopia; la logica della staffetta è ciò che consente alle imprese di avere un successo duraturo.
VERSO IL QUATTRO
Da sx: Martucci, Chirulli e Marangi, Greco, Milella,  Lenoci e  Ancona  
Mi avvio alle conclusioni.
Come ne veniamo fuori da un mondo in cui gli antichi valori sono andati giù, in cui il mare ha inghiottito le boe, sicure e galleggianti, cui attraccavamo le imbarcazioni in pericolo?
Secondo don Tonino Bello non basta più enunciare la speranza: occorre organizzarla. Sottoscrivo, sottoscrivo. . . .sottoscrivo, indicando nei giovani capaci di dar vita ad attività imprenditoriali, come Pierino e Carmelo, la punta più avanzata di organizzatori della speranza.
A Pierino e Carmelo, e a quanti proveranno a fare lo stesso percorso imprenditoriale, oltre ai complimenti, rivolgo i pensieri di don Tonino Bello:
Chi spera non fugge: cammina . . . .corre . . . .danza.
Cambia la storia, non la subisce.
Costruisce il futuro, non lo attende soltanto.
Ha la grinta del lottatore, non la rassegnazione di chi disarma.
Ha la passione del veggente, non l’aria avvilita di chi si lascia andare.
Ricerca la solidarietà con gli altri viandanti, non la gloria del navigatore solitario”. 
Concludo.
Voglio fare un regalo a Pierino Chirulli e Carmelo Marangi. Ad una condizione. Che mi promettano di postare questo regalo all’ingresso della Biblioteca di Serveco. Promettete?. . . .Si. Ecco il regalo. La più bella definizione di attività imprenditoriale. . . . di sempre.
L’attività imprenditoriale è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti.
L’attività imprenditoriale può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune”. (Cfr. Laudato si’129).


mercoledì 10 febbraio 2016

La dea bendata è volubile e capricciosa


I sogni al banco lotto finiscono presto

 

Molti giocatori credono nella protezione dell’aglio o del ferro di cavallo. Migliaia di storie vengono tradotte in numeri. Un signore anziano ebbe in sogno tre numeri dalla sorella, ma erano una bufala. Un muratore vinse 2 milioni, ma la moglie, per errore, aveva buttato via il biglietto.

 
Franco Presicci
Non avevo mai messo piede in un botteghino del lotto. Le notizie che avevo sull’argomento venivano da Luciano De Crescenzo e da Matilde Serao. Avevo anche letto “Le signorine del banco lotto”, nel volume “Vieni, c’è una strada nel Borgo”, di Nicola Caputo; e “Tùtte le ròte” di Giacinto Peluso; dal quale avevo appreso, fra
Bruno Dileonardo sulla soglia del suo bancolotto 
l’altro, che questa sfida alla fortuna all’inizio del secolo scorso a Taranto si chiamava “’a bonaficiàde”, le cui estrazioni venivano stampate su un bollettino nella tipografia Lodeserto a Palazzo Galeota e diffuse da ragazzi dai 10 ai 15 anni. Il giorno in cui l’età mi mandava in pensione confessai la mia ignoranza al direttore del giornale, dopo aver ascoltato la proposta di un contratto di collaborazione, che contemplava anche una serie di articoli sul lotto. Lui si disse convinto che me la sarei comunque cavata, visto che non mi stava chiedendo di trasformarmi in esperto in un settore ignoto a entrambi. E pensai che mi sarebbe piaciuto descrivere ambienti, personaggi, superstizioni, curiosità.... Mi misi subito all’opera, divorando libri, oltre a una tesi di laurea, ma soprattutto, da vecchio cronista che aveva mangiato panini e polvere per anni, cominciai a peregrinare da una ricevitoria all’altra, in periferia e in centro, ascoltando storie, osservando espressioni, atteggiamenti di persone che all’addetto comunicavano le combinazioni con voce bassissima, perché, se i vicini le captavano, la dea bendata poteva prendersela a male; e altre che, per lo stesso motivo, le passavano scritti su un foglietto. Ricordo anche i giorni febbrili, nel ’95, della latitanza del “4” sulla ruota di Genova e le code, che s’ingrossavano ogni settimana e le somme che attraversavano gli sportelli. Seppi che in quel periodo una contessa bruciò una decina di milioni e un barbone due.
Titolo de "Il Giorno"
Ho conosciuto tanti patiti del lotto: chi lo considerava addirittura una fede e chi invece una droga. Chi giocava da una vita senza vincere mai; chi continuava ad affidarsi alle giocate ereditate dal padre; chi le ricavava dalle targhe delle auto o dalla rubrica telefonica; chi si ispirava alle date delle nascite e dei matrimoni, alle liti, all’aereo precipitato, al palazzo polverizzato…C’era chi consultava sistematicamente la Smorfia, libro sacro in questo pianeta, e chi sosteneva di averla tutta in testa. E’ a quella che chiedeva aiuto l’impiegata quarantenne che sognava di giacere con l’idraulico o il macellaio, sottoponendo poi l’interpretazione al titolare del botteghino, che confermava o correggeva. Nell’estate ’96, in ferie a Martina Franca, per allargare il mio orizzonte, già ampio per le telefonate che facevo in altre città, volli farmi un giro per i paesi vicini. In uno di questi la titolare di un banco lotto, esile, imbiancata ma ancora dotata di un certo fascino, da sessant’anni nel campo, mi raccontò di un muratore che consegnando il biglietto alla moglie le aveva detto di buttar via il vecchio e quella per errore fece il contrario mandando in fumo 2 milioni.
Ma mi avrebbe tenuto nascosta per pudore una chicca, se non l’avesse stimolata una sua ex collaboratrice. Così mi venne delineata una donna fresca, alta, bella, bionda, forestiera, che avendo sognato un amplesso con un amico la pregò di darle un’imbeccata, vincendo 60 milioni.
Ebbe l’imprudenza di riferire a chi aveva condiviso con lei l’alcova onirica, e quello accampò il diritto di avere la metà della vincita, perché a suo dire anche lui aveva fatto la sua parte. “Ma rimase a bocca asciutta”. Sembrava la trama di una commedia di Eduardo.

In un bar fuori della Puglia qualche cliente puntava su “visite” notturne di “aùre” e “munacijdde” a sorelle, figlie e nipoti. Obiettai che questi folletti erano un prodotto della fantasia popolare e l’interlocutore mostrò di non gradire: “Proprio a mia zia è capitato, e non tanto tempo fa, di trovare nella stalla, con la criniera e la coda intrecciate, la giumenta acquistata due giorni prima”. Mi venne in mente l’omino con gli occhiali alla Cavour che nell’hinterland milanese affermava di avere contatti con “Ciappin”, lo spiritello lombardo che “mi appare quando sono fra le braccia di Morfeo”. A Milano, nei pressi della stazione Centrale, mi venne presentato un tipo “superprotetto” da oggetti apotropaici. Basso, esile, occhi d’antracite, testa pelata, elegante, a capo di una piccolissima azienda, mi accompagnò nel suo ufficio, pieno di collane e grappoli di aglio appesi; corni di ogni dimensione; ferri di cavallo tutti con sette buchi, “quanti devono essere per assicurare il massimo della garanzia”; ciocche di peperoncino piccante, che a suo dire, somigliando nella forma e nel colore all’amuleto, facevano lo stesso effetto. “Io sono sempre corazzato. Uno spicchio d’aglio me lo porto in tasca quando vado a tentare la sorte”. “Vince?”. “Qualche volta”. Somme corrispondenti al prezzo di una cena in una modesta trattoria, ma lui sperava nel colpo grosso.Un signore di 85 anni, legato più al gioco che al cibo, da tempo supplicava la sorella deceduta di dargli un segnale. Lo ricevette e giocò per sei mesi un terno sulla ruota di Bari senza mai prendere una lira. Diceva, disperato, che forse aveva capito male o la parente si era sbagliata. Andò diversamente a una casalinga che dormendo aveva visto il marito morire con i funghi: vinse 9 milioni; ma il coniuge se ne andò davvero dopo tre mesi. Un napoletano giurava di essere stato un “positivo” fino a quando non commise l’errore di mettersi in coppia con uno negativo. “Prima o poi l’errore mi verrà perdonato”.
Bruno Dileonardo
La superstizione è cocciuta. In alcune ricevitorie ogni mattina dovevano raccogliere il sale cosparso negli angoli da chi considerava il condimento un antidoto contro il malocchio. Un tale dallo sguardo obliquo si fermava sulla soglia ed esaminava i presenti: se qualcuno gli sembrava sospetto, correva dal tabaccaio di fianco, si riforniva e neutralizzava il mattone diventato “scalognato”.
Bruno Dileonardo, del banco lotto di via Borsieri, chiuso da qualche anno, è stato il mio primo maestro nella materia. E lui, come altri suoi colleghi, mi informava che la stragrande maggioranza degli scommettitori è fortunatamente immune da queste credenze. E si tiene lontana dagli “assistiti”, sentii dire in un altro luogo: “Chi sono costoro?”. Figure che suggeriscono i numeri in cambio di un caffè. “Escono?” Domanda ingenua. I numeri sono viscidi come l’anguilla.Quanti episodi ho scoperto in questi pellegrinaggi! E quante scene ho visto!. Come quella della vecchietta arzilla e autoritaria, che, esprimendosi in dialetto, azzardava 100 mila lire con il “trapano” (da tradurre rapido) arrivato in ritardo, e il “timone”, inteso come tumore. Ne ha sentite a josa Santo Pantaleone, protettore del banco lotto (nato a Genova nel 1576), che Balzac definì l’oppio della miseria e donna Matilde il grande sogno di felicità che il popolo di Napoli fa ogni settimana. Non solo quello di Napoli, aggiungo.

mercoledì 3 febbraio 2016

IL MARESCIALLO OSCURI UN LUPO SOLITARIO


Lavorò in questura a Milano con il mitico Mario Nardone


Ferdinando Oscuri

Appena arrivava la notizia di un misfatto, partiva, sapendo dove andare a pescare. Conosceva molto bene il mondo della malavita meneghina e le tecniche delle singole pellacce.



Franco Presicci


“Questo Ercole della Mobile è un po’ Poirot”, titolò il quotidiano “Il Giorno” il 3 aprile dell’85. Infatti il maresciallo Ferdinando Oscuri, oltre a una figura possente, aveva un ottimo fiuto. In via Fatebenefratelli, già sede del Collegio Longone (eretto tra il 1838 e il 1842), dove la questura era stata trasferita dopo che l’edificio che la ospitava in piazza San Fedele era stato sbriciolato dal bombardamento del 16 agosto del ’43, approdò nel febbraio del ’46; e cominciò a lavorare con il mitico Mario Nardone, che un paio di anni fa è stato raccontato in uno sceneggiato televisivo. Vito Plantone e Mario Jovine, allora giovani commissari, dicevano che, come Nardone,Oscuri era un lupo solitario. Appena si aveva notizia di un misfatto, lui sfogliava il proprio archivio mentale, che conteneva i nomi dei caporioni e della manovalanza della malandra e i luoghi in cui andare a cercarli e si avviava. Se le porte a cui bussava non si aprivano, faceva un giro più lungo, e alla fine rientrava con il carniere pieno.
Ferdinando Oscuri e Mario Nardone
Non aveva paura di niente e di nessuno. Era severo, burbero, schietto, molto umano. Uno dei pilastri della polizia. Anche grazie a lui venne individuata la batteria che la mattina del 27 febbraio del ’58 aveva assaltato in via Osoppo un furgone della Banca Popolare, passando alla storia del crimine come quella che aveva realizzato la “rapina del secolo” per la perfezione del piano e per l’entità del bottino. Gli investigatori vennero illuminati dalla scoperta nel letto del canale Olona di due tute blu, indumento indossato dal commando nell’azione, e dopo intense ricerche accertarono pure che al colpo aveva partecipato un reduce della famigerata “banda Dovunque”, una delle prime del dopoguerra. Poi Oscuri, che era anche istruttore di lotta giapponese, e Nardone salirono a bordo del bastimento “Surriento” diretto in Venezuela, dove si era rifugiato il “droghiere”, appellativo di uno della “gang”. Ritrovammo l’Ercole della questura nel terribile pomeriggio del 25 settembre del ’67, quando Pietro Cavallero e i suoi tre complici, dopo una rapina all’agenzia di largo Zandonai del Banco di Napoli, per sfuggire alla cattura, spararono da una 1100 nera lanciata a 130 all’ora, provocando 4 morti e 20 feriti.
Oscuri parte con Nardone per il Venezuela
Una sera del settembre 1968 un apprendista tipografo di sedici anni con un fucile da caccia calibro 16, rubato poco prima nell’abitazione di un portinaio di Segrate, in una stradina campestre dalle parti del Parco Forlanini, fece fuoco contro una coppietta, uccidendo una persona e ferendone un’altra. Ispirato da una cartuccia di quell’arma,.di cui a Milano esistevano pochi esemplari, il poliziotto risalì all’autore del fattaccio, rinvenendo poi i pantaloni bagnati e le scarpe con fili d’erba sulla suola, nascosti nel bagno di casa pronti per essere lavati. Quel ricordo gli procurava ancora qualche emozione, e lo evitava. Ciononostante, una mattina nel cortile di via Fatebenefratelli, dove Ugo Tognazzi e Carlo Delle Piane stavano girando alcune scene del film tratto dal libro “Maledetto ferragosto” del giallista Renato Olivieri, per non farmi una scortesia, soddisfece la mia curiosità. “Ero a casa quando ricevetti la telefonata del dottor Enzo Caracciolo, allora capo della Mobile, che era già sul posto. Uscìi come un razzo, lo raggiunsi e mi accinsi a raccogliere le tessere per il mosaico”.
Oscuri, Plantone e Caracciolo
Poi, accompagnando il giovane in via Fatebenefratelli, fece di tutto per metterlo a suo agio, chiedendogli notizie del suo paese d’origine, della famiglia, degli amici, della sua storia di immigrato, del suo lavoro, “stando bene attento a non fargli capire di essere sospettato”. In ufficio continuò per un’oretta a fargli quel tipo di domande; e all’improvviso arrivò al dunque, ma sempre con tono amichevole. “Mo’ tu hai fatto questa sciocchezza, ma lo sai che hai lasciato sul posto il fucile carico in aperta campagna e qualcuno, anche un tuo familiare, potrebbe mettere un piede sopra, far partire un colpo e rimanere fulminato?”. L’aspirante artigiano sollevò la testa, lo guardò e chiese di essere portato dove aveva lasciato l’arma”. Erano passate soltanto 12 ore.
Sempre nel cortile della questura, a metà ottobre dell’84, Angelo Epaminonda, che dopo aver tenuto per anni le leve del comando del clan dei catanesi fra bische, coca e delitti, si era trasformato in collaboratore di giustizia, al termine di un “colloquio”, ammanettato, salutò con grande rispetto il sottufficiale, che poi mi disse: “Quando il ‘“tebano’ (nomignolo dovuto al cognome: n.d.a.), la notte del 29 settembre, cioè circa un mese fa, si è trovato sulla porta di casa il sostituto procuratore Francesco Di Maggio e il capo della Mobile Achille Serra,si è congratulato con loro per essere stati capaci di intrappolarlo usando la parola d’ordine”.
Amabilmente sollecitato, Oscuri, nato a San Ferdinando di Puglia il 24 gennaio del ’22 ed entrato in polizia il 27 maggio del ’41, se era in vena li lasciava fluire, i ricordi. Per esempio, brani dell’interrogatorio di Rina Fort, accusata di aver ucciso, il 30 novembre del ’46, in un piccolo appartamento di via San Gregorio 40, la moglie del proprio amante e i suoi tre figli (condannata all’ergastolo, negò fino alla morte di aver tolto la vita ai bambini).
Oscuri arresta un boss
Don Ferdinando (il titolo scaturiva dalla stima e dall’affetto) la prelevò sul posto di lavoro, un biscottificio in via Settembrini, e lei, anziché la sua pelliccia con la fodera sporca di sangue, tentò d’indossare il cappotto di una sua collega, che la bloccò. Lo si ascoltava volentieri. L’ultima volta mi sintetizzò le indagini svolte con un altro Maigret dell’epoca, Ludovico Reale, capo della Mobile, sulla “banda Dovunque”, il cui primo bersaglio fu un’oreficeria milanese di via Bigli, il 30 marzo del ’49. Ebbe vita breve. Venne sgominata nell’ottobre dopo molte rapine in diverse città, e con un intervallo così breve tra una “binta” e l’altra, da far pensare al dono dell’ubiquità.
A Oscuri e alle imprese di altri elementi di rilievo della “madama”, come il maresciallo Giannattasio, sono dedicate pagine in un libro ormai raro, “Italia nera” di Franco Di Bella, che, pubblicato nel 1960, parte dalle imprese di Salvatore Giuliano; di Bezzi e Barbieri e dell’Aprilia nera con cui nel ’45 terrorizzarono Milano; della rivolta di San Vittore iniziata il 21 aprile del ’46, giorno di Pasqua, e sedata qualche giorno dopo… Mi fu regalato da un grande cronista de “Il Corriere della Sera”: Arnaldo Giuliani, apprezzato anche per la sua scrittura elegante ed efficace, e per la sua disponibilità. Anche lui stimava molto Oscuri; e quando ci sentivamo o ci vedevamo davanti a un piatto di orecchiette con le cime di rapa, mi chiedeva spesso sue notizie. Poi Arnaldo, che al “Corriere” aveva fatto una carriera brillante (inviato, pilota della cronaca, commentatore), se n’è andato, dopo essere stato direttore de “Il Corriere Adriatico di Ancona, quindi capo redattore di “Chi”; e due anni fa il viaggio senza ritorno lo ha compiuto anche Ferdinando, a 92 anni. Durante la malattia gli ho fatto visita più volte, e senza che glielo chiedessi mi accennava alle sue giornate di caccia in Jugoslavia, in Kenya, in Spagna…; a sua moglie, che adorava: erta morta tanto tempo prima, creandogli un vuoto che lui non aveva mai voluto colmare.
Achille Serra e Francesco Colucci
Alla cerimonia funebre in chiesa c’erano centinaia di persone, tra poliziotti, giornalisti, amici ed estimatori. Il profilo di Nando tracciato dal presbiterio da Achille Serra, già prefetto di Roma (dopo essere stato prima direttore del Sco e poi al vertice della polizia milanese), commosse tutti: il questore Lucio Carluccio, venuto da Brescia; Filippi, da Pavia; Lucchese, questore del capoluogo lombardo prima di Serra; il prefetto Francesco Colucci, che da vicecapo della Mobile, aveva anche contribuito all’arresto, a Misiano di Rimini, nell’agosto dell’84, di due luogotenenti di Epaminonda; il vicequestore Fabiano, che un mese prima mi aveva pregato di seguirlo in via Stelvio, dove Oscuri abitava….Appena lo vide, il Poirot apulo-milanese sollevò il capo e sorridendo lo interpellò: “Allora? A quando la promozione?” Poi, rivolgendosi a me: “La madama ha perduto tanti pezzi importanti: Scrofani, Sciscio, Giannattasio, Plantone…A poco a poco finiamo tutti sulla stessa barca. Purtroppo la gente non ci pensa”. Salutandolo, gli promisi dei biscotti pugliesi fatti in casa, ma non feci in tempo.