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mercoledì 29 agosto 2018

Vito Plantone: un mito


GIRO’ MEZZO MONDO

Vito Plantone
A CACCIA DI CRIMINALI



Quando rilasciava interviste

non faceva mai i nomi dei

banditi che aveva arrestato.

Era inflessibile, scrupoloso,

intelligente, colto e uomo

di compagnia.





Franco Presicci



Nel 2018 ricorrono vent’anni dalla scomparsa del questore Vito Plantone e desidero ricordarlo, grazie a Michele Annese, che è alla guida di questa testata. Plantone è stato uno dei poliziotti più importanti e prestigiosi e un fedele servitore dello Stato.
Jovine, Plantone, Caracciolo
In una delle mie ultime interviste gli domandai: “Perché, quando lei parla con un giornalista, se accenna alla conclusione di una operazione non fa mai i nomi dei malacarne che nell’occasione furono arrestati? E la completezza dell’informazione?”. “Mi rendo conto. Però, se, raccontando fatti remoti, rivelassi l’identità delle persone, potrei fare danni. Quelle persone possono aver cambiato vita, avere figli che studiano o lavorano onestamente… e non sarebbe giusto esporli nuovamente alla curiosità della gente. Tra l’altro, tutti sanno che io ho sempre avuto rispetto anche di chi ha violato il codice penale. Ha sbagliato e deve pagare, non si discute, ma non essere sempre esposto alla berlina”. Vito Plantone era uno dei pilastri della questura. Taciturno, voce bassa a volte persino impercettibile, elegante nel modo di vestire e nel comportamento, colto, schietto, fiuto sottile. Aveva lavorato in via Fatebenfratelli, a Milano, con il mitico Mario Nardone, tra l’altro l’artefice della Volante; e assieme a Mario Jovine, poi diventato prefetto; a Ferdinando Oscuri, il maresciallo di ferro; Enzo Caracciolo; e ad altri “detectives” di notevole spessore; condotto grosse indagini e girato il mondo sulle tracce di trafficanti di droga. In un’altra intervista che gli feci nell’85 a Catanzaro, dove era questore, mi raccontò il viaggio che aveva fatto nel ‘71 in Italia per mettere in trappola il “clan”, guidato dal “boss” più famoso in Lombardia, che a Roma con i suoi “apostoli” (complici) aveva compiuto una rapina al furgone di un’azienda.
Oscuri, il questore Bonanno, Gino Cervi, Caracciolo, Plantone
Plantone sostò in diverse città, dove lo portavano indizi e segnalazioni; fece perquisizioni; sollecitò chi poteva sapere e osservava il più ostinato silenzio, magari per paura… Alla fine arrivò in un lussuoso albergo siciliano, dove, fingendosi turista, si fece accompagnare dal personale in una visita all’ambiente. Sul bordo della piscina vide il “boss”, il suo luogotenente e le loro donne; notò uno scatto e una mano che si allungava verso una pistola che era sul tavolino e non si scompose: “Se fossi in te, non lo farei”. Riempì il carniere e tornò in via Fatebenefratelli, in questura. Neppure allora mi volle fare i nomi, anche se sapeva che li conoscevo. Così era anche Mario Nardone, definito simpaticamente “il Gatto” per la sua abitudine di investigare da solo, realizzando risultati clamorosi, come la volta in cui, nelle vesti di un idraulico, acciuffò uno dei rapinatori più scatenati del tempo: in moto raggiungeva Milano con un suo “battitacchi”, faceva il colpo e se ne tornava gongolante al paesino. 

Da sinistra il questore Plantone e il prefetto Mario Jovine ai lati del generale in una cerimonia a Palermo






 Conoscevo anche la biografia di quei due, ma quando intervistai Nardone nella sua casa di via Tortona, mi sentii dire: “Niente nomi. I nomi appartengono al passato e non è nel mio stile sbandierarli. Dei cani che faticavano parecchio per raccogliere tartufi per i loro giornali Plantone aveva molta considerazione. Soprattutto per Arnaldo Giuliani del “Corriere della “Sera”. Lo aveva intercettato quando era ancora giovane e già ricco di talento. Ma anche a lui diceva che non gli piaceva fare favoritismi. I neristi lo aspettano anche fino a mezzanotte e oltre; e appena lo vedevano varcare la soglia della questura diretto a casa gli si assiepavano intorno. Lui li invitava al bar e magari in una delle osterie vicine (che allora si chiamavano trani, essendo gestite da immigrati della città pugliese), e distribuiva un po’ di colore, qualche particolare di contorno, ma mai una parola sul contenuto essenziale delle indagini in corso. Era intelligente, abile, metodico. Nel ’70 dal giornale ebbi l’incarico di scrivere una pagina su come freme di notte la città sotto la pelle; e chi più e meglio di lui – pensavo - poteva esaudire le mie curiosità. Bussai alla porta del suo ufficio; e mentre m’informava, lo interruppe una telefonata da una città del Sud; e dalle sue parole intuii che qualcosa di grave stava per accadere.
Mario Jovine nella sua casa di Bologna
Ma da lui nessuno spiraglio. Il giorno dopo in via Palmanova una banda fece una rapina da manuale a una banca, ma scattò la trappola disposta da Plantone e la combriccola venne impacchettata e trasferita a San Vittore. Quella telefonata comunicava che dei “duristi” erano partiti in macchina diretti a Milano e al “Poirot” era stato chiaro il motivo del movimento e l’obiettivo. Nell’aprile dell’80 una ventina di detenuti evasero da San Vittore. Come un lupo solitario Vito s’impegnò, con uomini fidati, nella caccia, mentre la moglie Emma pregava l’angelo custode che lo tenesse lontano dai pericoli. Uno dei fuggitivi non ci metteva molto a sparare. Aveva già sulla coscienza parecchi omicidi, raccontati poi in tre o quattro libri e in un film. Dopo qualche giorno la pellaccia, che per aprirsi la via verso piazza Filangieri aveva ferito due poliziotti penitenziari, e altri vennero acciuffati e riportati in cella. Tenterà altre fughe. Era una sorta di Vidocq, il re delle evasioni francesi, a cui venne poi dato il compito di fondare la gendarmeria. A Catanzaro non si trovava bene, perché la notte circolavano solo lui, il suo autista, un mago e un esercito di gatti. Me lo disse scherzando quando andai a trovarlo per un’intervista per “Il Giorno”. 

Jovine e Plantone
 
Caracciolo e Plantone
Dopo un paio d’anni fu trasferito a Brescia, quindi a Palermo, dove era prefetto Mario Jovine, suo amico ed estimatore. Jovine, napoletano doc, suonava la chitarra, ma non se ne vantava. Anzi: “Pizzico le corde solo per divertimento”. Non era vero. Da capo della squadra Mobile a Milano, braccio destro Plantone in perfetta forma (della Mobile era stato anche vice) dovettero occuparsi di un’audacissima rapina a una famosa oreficeria nel salotto della città. Individuarono tutti gli autori, li neutralizzarono, li interrogarono, ma dovettero impegnarsi parecchio perché erano grossi calibri della “malandra” di provenienza marsigliese, quindi gente dalla scorza dura e solita a tenere la bocca cucita. Soprattutto uno.
Per Vito Plantone la criminalità non aveva segreti. In testa aveva nomi, cognomi, soprannomi, indirizzi di abitazioni e covi, e in caso di bisogno sapeva dove andare a pescare. Svolse a Milano quasi tutta la sua attività professionale. Fu anche dirigente di distretti e commissariati, dove lasciò un grande ricordo. Ebbi l’idea di una serata in cui era previsto un premio per lui e l’ispettore Armando Sales, il cui commissariato era competente per il territorio in cui si svolgeva la manifestazione (la galleria “Prospettive d’arte” di via Carlo Torre, in zona Naviglio Grande), invitato ad entrare, rispose che per rispetto lo avrebbe fatto soltanto al seguito del questore Vito Plantone. 
Plantone con l'attrice Annamaria Rizzoli fra questori e vicequestori
Quando il commendatore arrivò ebbe inizio la cerimonia, durante la quale tenne il discorso Arnaldo Giuliani, ai tempi capocronista del quotidiano di via Solferino. Plantone era nato a Noci, bella cittadina in terra di Bari. “Un giorno ti porterò al mio paese e ti mostrerò la bellezza del suo centro storico: ordinato, pulito, silenzioso, più riposante di quello di Martina. E ti farò gustare le mozzarelle, che non sono seconde alle altre”. Era innamorato della sua “culla”, delle masserie, dello “struscio”, dove incontrava i suoi concittadini, orgogliosi di passeggiare con lui. Qualcuno gli chiedeva del suo ultimo colpo che aveva meritato spazio sui giornali e passaggi in televisione e lui dribblava: “I giornali esagerano”. Lo vedevo spesso a Milano, soprattutto dopo la pensione. Oltre che poliziotto attento, inflessibile, scrupoloso era un uomo di compagnia. Se era libero, non diceva mai di no ad una delle nostre riunioni. E se si scivolava nelle barzellette, tirava fuori le sue, esilaranti, recitandole con una verve da fare invidia al simpaticissimo Walter Chiari. Serio, baffetti ben curati, alto, sorrisi appena abbozzati, quando era con gli amici cambiava registro. A Leggiuno, in provincia di Como, dove aveva una casa, seduti sul balcone, catturò la mia attenzione per una decina di minuti per farmi scoprire alla fine che era una storiella spiritosa. Organizzavamo cene in casa, con gli immancabili Costantino Muscau, inviato speciale del “Corriere”; il pittore Filippo Alto, barese e meneghino; il questore Enzo Caracciolo; il prefetto Francesco Colucci… E lui invocava il peperoncino piccante da spargere sulla pasta con i ceci o sugli spaghetti col sugo. Poi in tavola compariva la “’nduria”, e la tagliava a piccoli pezzi e con una cura che si riserva agli oggetti preziosi. Una sera mi parlò delle cicerchie e si meravigliò della mia ignoranza in materia, prendendomi a lungo per i fondelli, sostenuto soprattutto da Alto, buontempone come pochi. A Noci invitava gli amici più cari, e dopo le tavolate li portava in giro per far loro apprezzare il paesaggio. Trascorremmo una serata splendida in campagna da suo cognato, Lino Colucci, già dirigente scolastico nato a Martina, un gentiluomo di vecchio stampo, e da sua moglie Isa, professoressa di scienze. Mise sul “barbecue” chili di “fegatini”, mentre i fratelli, le nipoti, le cognate, la moglie Emma gustavano il profumo di pietanze gustosissime. Erano sempre lieti i convegni allestiti da Vito, un poliziotto esemplare, ma dal cuore grande quanto un transatlantico. Una notte assieme all’ispettore Scaffidi m’invitò al night “Marocco”; e notai l’accoglienza fervorosa che gli tributarono. Quella dovuta al “re delle notti milanesi”. Ha lasciato un vuoto in chi gli ha voluto bene.

















mercoledì 8 agosto 2018

Da Parma a Milano con una dote di cultura


Leonida Villani
 


NEI LIBRI DI LEONIDA VILLANI

UNA MESSE DI STORIA MINORE


Di giorno l’autore faceva il capo ufficio

stampa del Comune di Milano, la sera

scriveva: I suoi testi furono pubblicati

dalla casa editrice di Nicola Partipilo,
 
specializzata in pubblicazioni su Milano.

Uno fu presentato da Piero Mazzarella





Franco Presicci
Nei libri di Leonida Villani si mietono notizie, aneddoti, curiosità, credenze popolari... Così in “Sapessi come strano conoscere Milano”, edito tanti anni fa dalla Celip, con un intervento di Enzo Jannacci. Era ormai sepolto in un archivio il gesto di un tale, Massazio da Vigolzone, vandalo o poco dotato mentalmente, che nel 1247 sfregiò con un coltello il volto della Madonna ritratto sulla facciata della chiesetta di San Satiro, adagiata dall’876 in via Torino, già allora molto frequentata. La Madonna sanguinò, e quando il fatto divenne di dominio pubblico fu grande l’indignazione dei fedeli e della cittadinanza milanese tutta, e non solo; e per quelle lacrime si gridò al miracolo.
Nel '60, Presicci, Villani, Galli, Bassetti
Villani, giornalista e scrittore egregio, che, trasferitosi a Milano da Parma, dove aveva lavorato nel quotidiano più antico condotto da Baldassarre Molossi, assunse negli anni ’60 l’incarico di capo ufficio stampa del Comune. Erano i tempi dell’assessore Piero Bassetti, con il quale collaborava anche Giancarlo Galli, poi direttore de “Il Lombardo”. Villani era uno studioso e amava spigolare nella storia e nelle storie della città. Cerca e ricerca, prendeva nota, faceva le ore piccole e riempiva cartelle che poi diventavano libri, oggi quasi introvabili. Qualcuno voleva sapere chi fosse “el Beltramm de la gippa”, la maschera meneghina più remota, che, nata alla fine del ‘500 a Gaggiano sul Naviglio, aveva come compagna Beltramina, fiorita nei pressi della darsena di Porta Ticinese, allora Laghetto di Sant’Eustorgio? Villani aveva dato la risposta, descrivendo efficacemente i personaggi. Mauto Bikincammer, apprezzato incisore di origine svizzera, avvezzo a randellare di notte gli austriacanti, e una volta, sostenuto dalla Compagnia della Teppa, con la quale aveva una certa familiarità, buttò nel naviglio di via Senato la garitta con la sentinella. Altra tessera del mosaico, i vespasiani, che a Milano si trovavano ovunque. Furono installati in seguito a una decisione della giunta comunale nell’agosto del 1862.
Piazza Duomo in un dipinto di Salvatore Corvaya
I cittadini accolsero con favore la novità, e il 24 gennaio di otto anni dopo la stessa giunta promosse un ente per l’utilizzo del prodotto di quei luoghi intitolati all’imperatore romano che nel 70 dopo Cristo li aveva tassati. Il proposito degli amministratori meneghini fu presto accantonato e quelle strutture, in ferro e a forma ovale, smantellate. Le pagine di Leonida Villani dunque arricchiscono chi è avido di notizie. I ciclisti, per esempio – riferisce l’autore - costituivano un problema per loro mania della velocità, tanto da essere soprannominati “arrotini impazziti”. Il termine non doveva far piacere agli interessati; di più il provvedimento adottato nel 1893, che vietava loro di circolare nella cerchia dei navigli e anni dopo di pedalare senza un attestato di idoneità alla guida e di superare la velocità delle carrozze, che era di 12 chilometri orari. E a proposito di carrozze era assolutamente vietato “somministrare il fieno ai cavalli sulla pubblica via, rimanendo tollerato soltanto il fornire loro la biada racchiusa in sacchetto che non appoggi a terra”. E vogliano parlare degli antesignani? Prontissimo, Villani. In ogni tempo Milano ne ha avuti tanti. Uno fu il fotografo Italo Pacchioni, accasato a Porta Genova, che nel 1896 sui bastioni piazzò un baraccone, in cui con pochi centesimi si poteva assistere alle prime immagini in movimento: il cinema! La milanese Rosina Ferrario fu la prima donna a prendere, nel giugno del 1913, il brevetto di pilota d’aerei. Un mese dopo la seguì la concittadina Gabriella Anderloni. In molte zone della città spandevano odori stuzzicanti le taverne. Attorno al Cordusio ce n’erano parecchie. Tra queste, l’Osteria della Luna”, che rifocillò Renzo Tramaglino; e poco distante il forno manzoniano.
Libro di Villani
Via Dante nacque su consiglio di Napoleone Bonaparte: doveva permettere la vista del Castello da piazza Cordusio, simboleggiando, il maniero, la grandezza di Milano, la Milano di Gaitan Crespi, “poetta, studiòs della lènga meneghina e ambrosianon de coeur e de caratter”, vissuto nell’odierna via Santa Maria Podone, nel cantone delle Cinque vie. Le opere di Leonida Villani sono una decina. “Le piazze di Milano”, “Milano e Milano” (con Luigi Turolla), “Vivere Milano”, “Alla ricerca di Milano”, “Leonardo a Milano”, “Una Milano mai vista (con Gino Bramieri)”… Questo volume venne presentato in un elegante ristorante meneghino dalle parti del Corvetto (da una vasca vigilavano due piccoli coccodrilli) dal grande attore di cinema e di teatro Piero Mazzarella, che ricordiamo anche nel ruolo di Peppon nel “Nost Milan”, il brumista che uccide l’amante della figlia nel testo di Bertolazzi. Mazzarella era una figura carissima ai meneghini, che non dimenticano la sua attività al Teatro Gerolamo, dove rispolverò e tenne viva la tradizione milanese. In quella serata Piero elogiò il lavoro di Leonida e si complimentò con lui per l’amore che nei suoi volumi rivelava per Milano, pur non essendovi nato (del resto anche lui era un immigrato, avendo avuto la culla a Vercelli nel 1928). “La tua – disse, tra l’altro, Piero rivolgendosi a Villani – è davvero una Milano mai vista e neppure immaginata, o una Milano che c’è ma che noi non vediamo, che sfugge alla nostra attenzione, anche perchè camminiamo correndo.
Mazzarella, Villani, Presicci
Una Milano meravigliosa, riservata, pudica, che non ama mostrare la sua bellezza”. Piaceva a Mazzarella come Villani presentava Milano, con racconti brevi ma avvincenti. Esempio, i comignoli a pagoda di uno palazzo in corso Venezia che nessuno osserva, perché occorre stare attenti al traffico, quindi alla propria incolumità. I comignoli, aggiunge, hanno un capo indiscusso, un re, che si trova sul tetto della prima casa a sinistra di via Laghetto. Purtroppo, a uno sprovveduto è venuto in mente di
Fontana di p.zza San Babila, a destra corso Venezia
umiliarlo, deturpandolo, mimetizzarlo rivestendolo di cemento, ignaro della sua struttura in cotto fatto. E’ solo l’ignoranza che suggerisce certi interventi o il demonio? No, risponde giustamente Villani. Fra il diavolo e il milanese non c’è molta simpatia. Loro non si sono mai affidati a lui o ai fantasmi. Eppure il Maligno si è sempre dato da fare per mettere in trappola soprattutto le personalità più notevoli, come Ambrogio, il quale, stufo di essere tampinato un giorno afferrò tra collo e coda il molestatore e lo scaraventò fuori della chiesa. Un affresco ricorda l’episodio. E si arriva alla contessa Giulia Samoyloff, nipote del conte Pahlen, nipote “degli strangolatori dello zar Paolo I e del conte Stravonshy, ultimo della famiglia da cui uscì Caterina I, consorte di Pietro il Grande. Giulia approdò a Milano, dove non fu accolta con simpatia. Era elegante, bellissima, sensuale, stravagante e faceva colpo su molti patrizi. Ma lei preferiva i suoi cagnolini, al punto che quando un Fido venne a mancare gli organizzò un solenne funerale seguito dal resto del…canile.
Piazzale Loreto alla fine dell'800
La nobildonna, che amava immergersi ogni mattina in una vasca piena di latte, organizzava continuamente ricevimenti, nel suo palazzo in via Borgonuovo. Mazzarella sfoderò anche un po’ della sua proverbiale ironia suscitando l’ilarità dei presenti; e quando gli fu fatto dono di un pacchettino contenente un orologio, rimproverò con bonomia gli organizzatori per l’oggetto dato per ringraziando del suo incomodo: troppo bello e costoso rispetto a quello modesto, di poche lire che lui avrebbe gradito per la sua collezione.
Alla manifestazione parteciparono autorità civili e militari e moltissimi giornalisti delle televisioni e della carta stampata, compreso Giulio Nascimbeni, biografo di Montale, e Luciano Visintin, già direttore de “Il Corriere dei Piccoli” e autore di vari libri su Milano e poeta (“Il breviario dei pensieri cattivi”, concepito in dialetto milanese). Di Visintin era l’introduzione di un altro volume di Leonida Villani, ”Le piazze di Milano”. “Che cos’è una piazza?”. Risposta: “Il più delle volte vuol dire una chiesa, un campanile”. Ma è anche un punto in cui convergono strade e in cui si raccolgono persone, che esprimono opinioni, polemizzano, urlano. La piazza – ogni paese ne ha una, è difficile trovare un paese senza la piazza – è anche il luogo dove il popolo fa la voce grossa, si ribella, protesta; dove si svolgono feste, si concludono cortei, processioni. A volte nella piazza si fa la storia, la politica, e anche teatro e musica. La piazza può cambiare faccia, farsi il belletto o lasciarsi andare, ingrandirsi o rimpicciolirsi. Leonida Villani è scomparso da parecchi anni. E sono scomparsi anche Visintin e il grande Nascimbeni, critico letterario del “Corriere della Sera”.

La passione dei fermodellisti


Roberto Trionfini

I TRENINI ECCITANO
LA NOSTRA FANTASIA





I collezionisti sono sempre alla
ricerca degli esemplari più ambiti.
Emozionante vedere un convoglio
che viaggia su un intreccio di binari
attraversando un paesaggio creato
con sapienza su un plastico multiplo




Franco Presicci
Il fermodellismo è quasi contemporaneo delle strade ferrate. Il primo a costruirne in Italia fu Ferdinando II: la Napoli-Portici, inaugurata il 29 settembre del 1839 e entrata in funzione il 4 ottobre.
Locomotiva a vapore
Alla cerimonia parteciparono tutte le più alte autorità e registrò un solo inconveniente: la signora Cottrau, figlia del capo dipartimento del ministero dell’Interno Felice Cerillo, durante il viaggio di ritorno venne presa dai dolori del parto. Locomotori e carrozze, marmotte, scambi, segnali, binari … cominciarono ad essere costruiti subito dopo, ed esplose il collezionismo del settore. Che si è presto diffuso dappertutto, e in ogni strato scoiale. Nessun mezzo di locomozione ha avuto tanti seguaci. Il treno di per sé è affascinante; le stazioni affollate di viaggiatori o di gente che aspetta gli arrivi, pensiline, passaggi a livello, torri… danno sempre un’emozione. Una locomotiva a vapore, ormai parcheggiata definitivamente su un binario morto in uno scalo, desta ricordi lontani e se esposta in un museo riceve visite continue. I raccoglitori di trenini si riuniscono in associazioni bene organizzate, in cui danno e ricevono consigli.
Arienti a destra
A dimostrazione di questa disponibilità a stare insieme, ecco Il Brogliaccio del compianto Vito Arienti, di Lissone, grande collezionista di tarocchi storici, di “press-papier”… con tipografia nello stesso centro, dove stampava vecchi esemplari che andavano anche in Giappone, elenca 38 sodalizi (affiliati alla Federazione Fermodellisti Italiani con sede nel Museo della Scienza e della Tecnica di Milano) nelle grandi e piccole località, tra cui Carpi e Ponteranica in provincia di Bergamo. Il Brogliaccio venne pubblicato tantissimi anni fa, forse nel ’70, e non è stato mai aggiornato, anche perché Arienti, persona precisa, attenta, scrupolosa, gentiluomo, oltre che generosa, anni dopo è deceduto. Ci sono stati anche capi di Stato che hanno avuto la passione dei trenini e dei plastici su cui farli correre attraverso paesaggi ben costruiti, addirittura fischiando, con l’intervento di un registratore molto piccolo. Un tale aveva collocato il suo plastico nel box al posto dell’auto, e ogni tanto accendeva la spina e lo vedeva in azione. Un altro aveva praticato dei “passaggi” sotto le pareti delle stanze, all’altezza dello zoccolo, per consentire ai suoi treni un percorso più lungo e tortuodo. Tutti, papà, nonni, nipoti, subiscono la “magia” dei treni, di quelli veri e di quelli in miniatura. Molti i plastici se li realizzano da soli, dal circuito semplice, una sola linea, con uno scambio; o con più linee con le locomotive che s’incrociano, viaggiano parallele, s’inseguono, s’imbucano in gallerie di argilla o di gesso; affrontano sopraelevate, ponti. Ci sono plastici a due o tre piani con strade alberate, effetti speciali. In qualche posto c’è un tracciato lungo decine di metri sul quale chiunque può collocare i propri convogli e metterli in movimento.
Trenini di Trionfini
E’ sempre una gioia osservare questi modellini che circolano tra panorami allestiti sapientemente. Non soltanto quelli fabbricati dalla Lima o dalla Rivarossi o della Merklin, che nel 1920 mise in commercio un capolavoro subito ambito dai collezionisti: il vagone-letto curato in ogni minimo particolare. Anni fa ho conosciuto un fabbricante che in un paesino vicino Milano aveva un piccolo laboratorio in cui eseguiva locomotori francesi, inglesi, italiani… lunghi una trentina di centimetri e alte circa 15. Erano gioielli che purtroppo costavano parecchio, ma i clienti non gli mancavano. Ho avuto modo di visitare alcuni collezionisti di trenini. Un professionista aveva un intero appartamento abitato da oltre 40 mila soldatini di piombo di ogni provenienza; e ina slocale, in una grande teca, trenini di diverse dimensioni. Nel gennaio del 2008, incontrai Roberto Trionfini, che mi ricevette in una sala molto piccola con un tavolo, una credenza, un divano e tanti trenini parcheggiati in una vetrina e su mensole (altri conservati accuratamente in scatole sotto il letto per colpa dello spazio).
Locomotiva a vapore e vagoni
Pensai subito ai treni della mia adolescenza e alla piattaforma girevole della stazione di Martina Franca, in parte ancora in vista e da anni in attesa di essere ripristinata come testimonianza storica: la sua funzione era quella di consentire ai convogli che provenivano da Taranto di rigirarsi e tornare indietro. Roberto Trionfini, che porta orgogliosamente un paio di baffi alla Francesco Giuseppe, 72 anni, alto e in carne, infilò i guanti, prese a uno a uno i suoi preziosi esemplari, li allineò sul tavolo e li descrisse. ”Perché i guanti?”. “Per evitare di lasciare impronte. Sono pezzi delicati e mi dispiace sporcarli. La collezione comprende modelli italiani, svizzeri, austriaci, e una motrice Reno della Virginia & Truckee, ricavata da una foto a corredo di un articolo sul Far West, pubblicata dalla rivista ‘Life’. Questo trenino l’ho eseguito negli anni Cinquanta in legno, alluminio e cartoncino”. Trionfini era tagliatore grafico in una tipografia e non avendo molti soldi a disposizione trovava difficoltà a nutrire la sua passione. Così cominciò a fare da sé con i mezzi a disposizione.
Minideposito ferroviario
Una sua prima riproduzione elaborata nel 1989 in occasione dei 150 anni delle Ferrovie italiane: una Bayard del 1839 che correva sulla tratta Napoli-Granatello di Portici, anticipando di un anno la Milano-Monza, a cui seguì la Milano-Treviglio. Ci mostrò poi una locomotiva a vapore E 3/3 in servizio turistico sulla Val Morea; due che circolavano nella Repubblica Democratica Tedesca; una A 3/5 delle Ferrovie del Giura svizzero,” inaugurata prima che le stesse ferrovie diventassero federali”; e un gingillo della tranvia Milano-Luino. “Con l’età della pensione mi è balenata l’idea di realizzare locomotive in cartoncino nero: partendo da una fotografia dell’originale, effettuo il disegno delle varie parti e le assemblo rigorosamente in scala”. Non era dunque un collezionista. “Il mio è un hobby meraviglioso. Leggo molto sulla storia dei trasporti, sule caratteristiche di una motrice, sulle varie Compagnie ferroviarie…”. Lo seguivo con attenzione mentre parlava del rapido tedesco “Rheinpfeil” con cupola belvedere; del “Mistral”, che viaggiava tra Parigi e Lione; dell’automotrice diesel ALn 668 e del18.616, che partiva da Stanberg diretto a Monaco, attaccato al tender mediante un gancio corto che garantiva le distanze ridotte anche nelle curve.
Massimo Albertini
Stavo per salutarlo, quando si sentì il fischio di un treno, proveniente dalla vicina stazione di Lambrate. Infine Trionfini mi disse che aveva collaborato all’esecuzione del plastico dell’Afi, Amici ferrovia Italia, 8 metri per 2, iniziato nel ’92 e concluso l’anno successivo; che con suo figlio partecipava alle manifestazioni organizzate in Sassonia e in Turingia, a bordo di convogli trainati da locomotive a vapore storiche; che aveva 20 anni quando con i risparmi riuscì ad acquistare una piccola motrice e due carri ferroviari della Rivarossi; che avrebbe voluto avere una riproduzione dell’Orient Espress Parigi-Vienna-Istanbul, desiderio non concretizzato per le sue finanze che non glielo permettevano. Qualcuno ha scritto che i collezionisti non giocano con i trenini, ma sono degli studiosi dei trasporti su rotaia. Comunque i modellini ferroviari sono di una bellezza e di una precisione straordinaria. Il catalogo del costruttore Carette, nel 1856, ne dà la dimostrazione. Capolavori la vaporiera della North Eastern Railway Co., che costava 10 sterline; la stazione ferroviaria del 1914 della Marklin; e i il vagone-letto della stessa Marklin, con la carrozza ristorante, nella quale era stato firmato, l’11 novembre del 1918 a Compiègne, l’atto di resa della Germania. Modelli ricercatissimi dai collezionisti, disposti, se hanno molto denaro, ad affrontare qualunque spesa, pur di entrarne in possesso; e cercano anche tipi in esclusiva. Massimo Alberini riferisce che nel 1908 un maragià, uso a far viaggiare i trenini della sua magione, si assicurò una grande e sfarzosa rete ferroviaria di notevoli dimensioni. Pazzie che contraddistinguono questo mondo in ogni settore: figurine, cartoline illustrate, soldatini di carta e di piombo, cavatappi… I treni, veri e in miniatura, attraggono in modo particolare, fanno sognare. Eccita la fantasia un convoglio che in un plastico esce da una galleria o da un deposito con rondò e ponte girevole., o che viene trainato da una macchina di manovra per essere immesso sul binario di partenza. Una confessione: è inimmaginabile il tempo che trascorro alla stazione di Martina Franca a osservare i treni di una volta parcheggiati su un binario morto e quelli che arrivano da Taranto e da Bari. Sulla linea di Lecce cinquant’anni fa, viaggiai con la Littorina.






“Gaffe” nel carnevale dell’81


LINGUACCIUTA D’ACCORDO MA BACUCCA PROPRIO NO


Carnevale pugliese
Per offesa ricevuta, le “sabette”
 
organizzarono un sit-in sotto la
 
sede de “Il Giorno” pretendendo
 
le scuse. A risolvere il problema
 
fu la promessa di un mercoledì da

trascorrere con loro in allegria

da un cronista in una sala

di Radio Meneghina, in via Monte

di Pietà, a Milano.





Franco Presicci

Per il dizionario milanese-italiano di Cletto Arrighi la sabetta è una pettegola; e aggiunge “ona casa piènna de sabett”, traducendo, in senso buono, un cianaio. E giacchè questa è la caratteristica della signora, lei non se la prende se la si definisce così. Ma se si dice che è vecchia, oltre che linguacciuta, esplode. Nell’81 una giovanissima e carina praticante giornalista, venticinquenne, venne incaricata dal capocronista di comporre un articoletto di appoggio sul corteo del carnevale; e lei, senza alcuna malizia, si lasciò andare sostenendo che a chiudere in piazza del Duomo la fila di maschere e figure stravaganti fonti di coriandoli e stelle filanti erano le vecchie e ciarliere sabette della Pucci.

Piazza Duomo
Non l’avesse mai fatto. All’ingresso del quotidiano si presentò una delegazione di quarantenni graziose, che in quattro e quattr’otto organizzarono un sit-in, per protestare contro l’offesa ricevuta. La più decisa urlava: “Chiacchierone va bene: è una vita che ci assegnano questa etichetta, e magari anche legittima, ma bacucche no”. E spiegava chi erano le sabette di Maria Pia Arcangelli, la brillante attrice del film “La vita agra” con Ugo Tognazzi; da anni pilastro della trasmissione radiofonica “”Ciciarem un cicinin”, con Liliana Feldmann ed Evelina Sironi”; interprete al Piccolo Teatro con Piero Mazzarella…; e guida delle sabette, gruppo creato da Radio Meneghina nell’ambito del Circolo Ambrosiano. Avvertito il movimento dal quarto piano, dov’era la cronaca de “il Giorno, in via Fava 20, Palazzo dell’Eni, scesi giù nel cortile e cercai di spegnere il fuoco. Ma loro erano decise a continuare la lotta.
Allora promisi che sarei andato un mercoledì, giorno in cui si riunivano in un salone di Radio Meneghina, fondata dal giornalista e scrittore Tullio Barbato (già caporedattore del quotidiano del pomeriggio “La Notte”, in via Monte di Pietà); e la Pucci permettendo, mi sarei intrattenuto piacevolmente con loro, raccontando poi l’incontro sul giornale. La proposta fu accettata e il campo sgombrato. Un paio di settimane dopo una del gruppo mi telefonò e mi fissò l’appuntamento. “Alle 14, noi ci riuniamo a quell’ora. L’aspettiamo”. E al momento stabilito bussavo alla porta. Fui accolto con applausi, qualcuna venne a stringermi la mano gridando “evviva”, qualche altra a battermi la mano sulla spalla, mentre la Pucci mi invitava sulla pedana, offrendomi il microfono, che non aveva la mia simpatia.

L'attrice Anna Maria Arcangeli
L’attrice intuì, riafferrò il …cono di gelato e cominciò a descrivere l’attività che le sabette svolgevano in quelle riunioni: commentavano gli avvenimenti quotidiani, parlavano di Milano e delle sue bellezze, della polemica suscitata dal progetto di alcuni ingegneri di aprire parcheggi sotto il Naviglio Grande (avevano anche invitato i cronisti a Ginevra per mostrare un’opera realizzata in quella città)… Poi prese il sopravvento il tema del carnevale da poco trascorso, caratterizzato dalle imprese di manipoli di bulli che avevano lanciato arance armate con lamette da barba contro i figuranti e gli spettatori. “Bene ha fatto il giornalista Tullio Barbato, che, ricevuto l’incarico dall’assessore Paride Accetti di garantire la sicurezza del carnevale, aveva affidato la vigilanza a gruppi spontanei, tra cui i “Semper alegher”, i “Brioschi”, i “Brioschini”, che animavano le feste milanesi.
I sorveglianti si erano mostrati all’altezza, tanto da inseguire due “cecchini”, bloccandoli in piazza Diaz, dove sorge il monumento raffigurante la fiamma dei carabinieri. La Pucci, ottima “vun de ca’, sostenne l’argomento, molto sentito fra le sue predilette, che erano informate anche sul piano storico. Un ricordò: “I cortei della fine del Cinquecento, che sotto gli Spagnoli si tenevano in corso di Porta Romana, con donne e uomini vestiti da nobili del tempo o da Pierrot o da Fata Morgana, non erano rischiosi e dai carri allegorici le maschere lanciavano confetti. In virtù del detto “Semel in anno licet insavire” la gente folleggiava ma senza provocare danni”.

Gianduja dal  libro de La Spiga
Piccola storia del Carnevale de La Spiga
Nelle case, anche in quelle patrizie, si aprivano le danze regolate da maestri del settore, come
Cesare de’ Negri, noto e richiesto nelle corti d’Europa.
La Società del Giardino, un circolo esclusivo ancora oggi attivo, che tra i suoi soci contava anche Carlo Porta, organizzava serate danzanti meravigliose; e folle di commedianti affluivano anche da fuori per allestire spettacoli in piazza o in baracche messe su per l’occasione. A volte esageravano in volgarità, ma niente di più. Nel 1560 prese piede la Badia dei Meneghini, che provvedeva particolarmente all’arricchimento dei carri allegorici: vi successe spiritosamente l’Accademia dei Facchini della       Val di Blenio, idea del pittore e poeta Gian Paolo Lomazzo. Alla metà del Settecento fecero la loro comparsa nel carnevale la Compagnia dei Foghetti e le maschere-ritratto. La Pucci incoraggiava la discussione, l’incrementava, l’approfondiva. Dal carnevale si passò alle barzellette, mai insulse o scontate o impudiche. La Pucci disse le sue; e alla fine riuscì a coinvolgere anche me, che di storielle avevo un serbatoio pieno. L’aria nella sala era effervescente. Le sabette erano brillanti, spiritose, con una grande voglia di trascorrere il loro mercoledì in allegria. Ascoltai volentieri quella che parlava della pavana, ballo tipico dell’età barocca molto in voga anticamente anche a Milano, che poteva costare parecchio alle “madame” che incappavano in cavalieri abili a far involare dai loro vestiti gli ornamenti d’oro. Comunque, sotto la dominazione spagnola il carnevale milanese registrò il massimò fulgore.

Palazzo Serbelloni
Meneghino
















Tutte le strade echeggiavano di schiamazzi, sotto una pioggia di coriandoli, percorse da maschere, da carri allegorici; e addirittura, per iniziativa dell’autorità, venne allargata una vietta per consentire ai carri un passaggio più agevole. All’epoca erano di moda i giochi, detti “di sorte e de fortuna”, ossia giochi di società, e giochi d’azzardo, vietati tassativamente, con pene severe per i trasgressori. Una norma recitava: “Nessuno osi e si attenti a giocare al zarro né ad alcun gioco delle tavolette o alla biscazza o alla reginetta…”. Nei secoli XII e XIII si organizzavano giostre come nei tempi precedenti. Non mancavano le esagerazioni: dai balconi e dai carri allegorici partivano uova marce, a volte riempite di liquido puzzolente. Molto atteso il veglione dei giornalisti imparentato con quello della Famiglia Artistica. Nel 1909 al Teatro di via Larga, dove la baldoria si svolgeva, i cronisti inventarono il “Veglion menabon”, per il quale poi vollero la Scala, che tra mille dispute venne concessa considerando lo scopo benefico della manifestazione gioiosa.

Una sabetta conquistò il microfono e rese onore al Meneghino, un personaggio da molti ritenuto una creatura di Carlo Maria Maggi, autore di commedie dialettali. Meneghino era un servo ingenuo, disponibile, virtuoso. Non sciocco, come qualcuno lo ha definito. In principio era “single”; successivamente gli fu data una compagna: Cecca. Una coppia affiatata, non logorata dal passare degli anni, presente in molte occasioni, non solo a carnevale (li si vede primeggiare anche a gennaio per la festa dei re Magi). Una sabetta avrebbe voluto portarla a quella riunione, ma non ci riuscì, perché Meneghin e Cecca avevano un altro impegno. Dopo alcuni mesi una domenica andai a Monte Stella, la collina di Milano alta 170 metri, fatta con le macerie delle case e degli edifici, della Galleria, dei teatri distrutti, Scala compresa, dai bombardamenti aerei durante il secondo conflitto, e popolato di alberi tra viali che consentono passeggiate salutari. Era in atto la messa a dimora di altre piante e vidi parecchie sabette che collaboravano all’evento con altri cittadini, non ignari del fatto che la montagnola porta il nome della figlia scomparsa dell’autore del progetto, l’architetto Piero Bottoni. Monte Stella fu la prima collina verde di Milano. Poi ne sono sorte altre: per esempio alla Bicocca e a San Siro, oltre a quelle meno imponenti sparse in altri punti della città.









mercoledì 1 agosto 2018

I fantasmi sono ancora tra noi?


Edmondo Capecelatro
 

IL MONACIELLO E’ SBARCATO
 
ALLA CHETICHELLA A MILANO?


Le credenze popolari non muoiono
mai. Eppure, per Domenico Porzio,
fantasmi, spettri e altri esseri quassù
non hanno diritto di cittadinanza.







Franco Presicci

Nei commissariati, avamposti della polizia sul territorio, arrivano le richieste più assurde. “E’ scappato il mio pappagallo, si è piazzato su un albero di fronte alla mia casa e quittisce; se fate presto riuscite a riprenderlo”. “La polizia ha ben altri compiti; e se un volatile abbandona il trespolo ci penserà qualche altro. Comunque si rivolga al maresciallo”, le suggerì l’appuntato. Ma la donna, sui quaranta, snella, ben vestita, rimaneva inchiodata al mattone: “Se perdiamo altro tempo il mio Pasqualino prende altre strade; e chi lo trova più”. “Noi dobbiamo occuparci di quelli che violano il codice penale… “. “E allora venite ad acciuffare quel guardone che non mi lascia in pace: si affaccia alla finestra e tiene gli occhi sempre puntati verso la mia”. Fu la denuncia di un’altra signora qualche mese dopo. “E’, come potete capire, imbarazzante. Qualunque cosa io faccia, governi la cucina o sieda a tavola per pranzare, o mi spogli per mettermi a letto, lui è lì, con lo sguardo puntato verso di me. Liberatemi da quest’incubo”.
Capecelatro sulla scena
Piccola. sottile, un cascame di bambagia per capelli, si sfogò con il vicequestore Edmondo Capecelatro, che nelle ore libere dal lavoro scriveva, e scrive, libri e testi teatrali (interessantissimi i volumi su Totò, su Edoardo De Filippo e “Storia di una città attraverso la sua cucina”) e recitava, come oggi, con il Teatro degli Oziosi. “Dovete arrestarlo, quel bastardo!”. Era il novembre del ’79. Pochi giorni prima c’era stata la strage di Moncucco, nel ristorante “La strega”, nel quartiere Ticinese, otto persone ammazzate, di cui sei, compresa la cuoca, perché testimoni del delitto del principale e della compagna. Il dottor Capecelatro, napoletano purosangue, allora trentenne, sempre pronto ad esaudire le richieste dei cittadini, chiese nome, cognome e indirizzo del soggetto. “Ma è un cane, so che si chiama Black, ma i cani non hanno un cognome!”. Nello stesso commissariato, un tale entrò con una valigia e con tono altezzoso domandò: “Quando sbocciano le rose?”. “Che io sappia a maggio”, rispose sorpreso il piantone. E quello, aprendo il bagaglio, obiettò: “Allora mi spieghi perché mai questa è spuntata a gennaio”. Il sottufficiale allargò le braccia e confessò candidamente la propria ignoranza. Ma l’altro pretendeva una spiegazione, perché per lui quello era un problema. “Voi non dovete indagare? E allora indaghi: qui c’è qualcosa che non mi torna”. “Saranno i capricci del tempo”. “Sì, diamo sempre la colpa ai cambiamenti climatici”. Episodi surreali. Una volta in un libro l’indimenticabile scrittore Domenico Porzio asserì che a Milano i fantasmi non hanno diritto di cittadinanza: “Nonostante la sua lunga storia e le sue radici celtiche, streghe, folletti e a maggior ragione diavoli e spiriti non abitano volentieri in questa città.
Capecelatrro dopo lo spettacolo
Tradizioni e magie druidiche sopravvivono nei lontani circondari… I diavoli, i razionali milanesi li hanno tutti messi a vomitare l’acqua piovana tra le guglie del Duomo: per le strade, nelle botteghe davano fastidio…”. E La figura che alcuni secoli fa appariva di notte al Parco Sempione, adescava gli uomini di passaggio, li portava in una villetta vicina e alla fine del rapporto si sollevava il velo, rivelando un teschio al posto della faccia? Una credenza popolare. Allora erano diffuse parecchio e sturavano la fantasia. Il fantasma del parco, come era definito all’epoca questo essere lugubre, secondo la leggenda, operò per anni senza cambiare postazione. Leggende dunque.
Polizia al lavoro
Eppure un poliziotto una mattina ascoltò pazientemente il racconto di una matrona che ogni notte riceveva la visita di un fantasma in abito e cappuccio bianco, che se ne stava dapprima immobile, poi si agitava, danzava, scivolava con le braccia allargate da un punto all’altro. “Al termine di queste esibizioni se ne va attraversando il muro sempre alla stessa ora, lasciandomi con l’impressione di volermi prendere in giro. Qualche volta si fa accompagnare da altri e tutti assumono movenze da pattinatori sul ghiaccio. Sono arrabbiatissima, perché m’impediscono di dormire e creano disordine non solo in camera. Ma non ho paura”. L’uomo in divisa restò muto; e lei, intuendo la sua incredulità: “Ha mai sentito parlare di creature soprannaturali? Come ha fatto a meritare i gradi? Queste presenze non affollano soltanto i film e i romanzi gotici”. Frequentavo spesso e volentieri il dottor Capecelatro. Lo avevo conosciuto da commissario nell’estate dell’84 al commissariato Scalo Romana (oggi trasformato in “pub” con l’insegna evocativa “La Madama” e fornisce panini con i nomi degli elementi più famosi della criminalità organizzata del passato più recente).
Un'operazione di Polizia
Capecelatro ascolta la chitarra
Dirigente il vicequestore Enzo Sciscio, un buontempone di Stornara, in provincia di Foggia, severo nell’applicare la legge e investigatore di grande fiuto, dotato di sottile ironia, con il suo vice costituiva una coppia di ferro. A quel tempo nella zona viveva un famoso spacciatore di eroina, che nella sua vita aveva attraversato quasi tutto il codice penale. Da giovane, colto su un tram a praticare un borseggio, con una mossa da Rocambole si liberò del mastino e si catapultò dal tram, che era appena arrivato alla fermata. Con Sciscio e Capecelatro non aveva vita facile. Nell’80 lo arrestarono alle 5 del mattino: era uscito dalla sua abitazione, pur essendo agli arresti domiciliari, e rientrando nel cortile fiutò la trappola, tentò di disfarsi di un pacchetto, che finì nelle mani di uno dei “detectives”. Una pellaccia, che ne combinava di tutti colori. Altro che ectoplasmi, fattucchiere, maghi… Edmondo Capecelatro oggi è in pensione e fa anche l’avvocato forse con nostalgia per la caccia ai malfattori e per queste stranezze che gli ronzavano nelle orecchie. Un pomeriggio davanti a una tazza di caffè frugò nella memoria e pescò altri episodi. “Fui avvicinato da una signora al bar, mentre conversando con amici bevevo una bibita. E quella, senza neppure presentarsi, scaricò una valanga di contumelie contro una sua coinquilina che stava nell’appartamento sopra il suo.
Un'operazione di Polizia
“Vuole sapere che cosa fa? Versa la stricnina nel water, questa raggiunge il mio bagno e mi avvelena giorno dopo giorno”. Non aveva dubbi, e guai a contraddirla. “Quando le dissi che non potevo agire perchè mancavano le prove mi lanciò uno sguardo di fuoco, fece di scatto “dietrofront” e imboccò l’uscita sbraitando”. Insomma, a giudicare da questi fatti, sembra che il capoluogo lombardo fosse popolato di spettri e di persone con poteri straordinari. Le segnalazioni arrivavano anche al nostro giornale.
In una telefonata notturna, una vecchina dall’accento pugliese mischiato con il milanese mi rivelò di essere assediata dal “monaciello”, un folletto vestito da frate che, a dire degli adulti quando ero bambino, era insolente e molto molesto: durante la notte dava pizzicotti nelle parti molli alle ragazze, riempiendole di lividi e intrecciava loro le chiome. Non meno insopportabile di lui era l’”aurie”. La vecchietta mi spingeva indietro negli anni, all’epoca in cui in Puglia, in Basilicata… persino i puledri a detta dei nonni subivano queste angherie; e noi, ragazzini ingenui, stavamo a bocca aperta. Scherzando, risposi che forse il monaciello stava facendo una vacanza a Milano con l’intenzione di ritornare presto alla base, affrancandola dall’incubo; ma quella, alzando la voce: “Si è messo a cavalcioni sopra di me, mi ha tormentata con i pizzicotti e alla fine mi ha architettato i capelli alla Bo Derek”. Questo spiritello di cui si sono perse le tracce anche in gran parte del Sud doveva essere così informato della moda da ispirarsi a Mary Cathleen Collins, appunto l’attrice statunitense Bo Derek. Saltò la comunicazione: la mia interlocutrice notturna, che mi aveva chiamato altre volte non soltanto per storie di disturbatori del sonno, e si aspettava sicuramente più comprensione, si era irritata. Con mio dispiacere. Ectoplasmi, larve e folletti sono ancora fra noi? Spero proprio di no.