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sabato 21 aprile 2018

I racconti dell’Arma dei Carabinieri






LA BORSEGGIATRICE DI SANTIAGO
CHE PILUCCAVA 2 MILIONI AL GIORNO
 
Calendario Carabinieri 2018
La storia del non vedente che, caduto

nel naviglio, fu salvato da un brigadiere.

Gli arresti degli assassini, dei boss, delle
 
mezze maniche della malandra.




 

Il busto eseguito dal pittore Paganini è tratto dal bellissimo volume “Cartoline storiche dei carabinieri”


                                                
 
Franco Presicci


L’ufficiale dei carabinieri mi stava seduto di fronte, al di là della scrivania, e sulle prime mi dette l’impressione di non gradire il flusso di domande che lo aspettavano, pur essendo affabile, cortese; ma dopo le prime battute mi ricredetti. Mi chiese, sorridente: “Sai che a Santiago del Cile c’è una universita’ del borseggio?”.
Posto di blocco dei Carabinieri 30 anni fa
Sì, ne ho parlato tempo fa in una delle puntate della trasmissione televisiva su Rai3, “Fuori Orario”, condotta da David Riondino. Ma la storia che vorrei raccontarti sicuramente non la conosci. Era l’ottobre dell’85 e, terminate le puntate della “Polizia racconta” sul ”Giorno”, il vicedirettore e capocronista, Guido Gerosa, mi suggerì di avviarne altre, raccogliendo ricordi, esperienze, considerazioni tra ufficiali e sottufficiali dell’Arma. Una mietitura sicuramente ricca e interessante. Dopo qualche giorno arrivò il “via libera”, ma a condizione che non facessi i nomi degli intervistati. Promisi, e mantengo la promessa ancora adesso. C’era un grande traffico in via Vincenzo Monti quando varcai la soglia della caserma, puntuale all’appuntamento con il comandante del nucleo radiomobile, un bell’uomo di Caserta, sposato, tre figli, colto, elegante nella sua divisa, grado di maggiore, 40 anni, da venti nell’Arma, tre a dicembre di servizio nella nostra città. Un appuntato mi annunciò, lui mi venne incontro e mi indicò una sedia. Appoggiai sulla scrivania un paio di fogli, impugnai la penna per prendere qualche appunto, e fermai lo sguardo verso un quadro raffigurante un carabiniere che estraeva un bambino dalle fiamme che azzannavano un edificio: forse una scena di Walter Molino su “La Domenica del Corriere”. 
La fiamma dei Carabinieri
Sorridendo, il maggiore mi anticipò con la domanda sulla scuola cilena, che formava i virtuosi del caschè, del gancio, dell’impettata. “Laureò anche una donna, che, arrivata poi nel nostro Paese, prese alloggio in un hotel di Genova e si mise a fare la pendolare tra la città ligure e Milano, dirottando a volte in altre località, dopo aver già operato a Udine, a Venezia, a Trieste… Era un’autentica ‘giocoliera’”. Ma siccome non tutte le ciambelle riescono col buco, accumulato un consistente malloppo, un giorno una pattuglia dei carabinieri la “bevve” e la portò nell’ufficio degli investigatori del nucleo radiomobile, ai quali snocciolò la sua storia. “A Santiago - cominciò - nei sobborghi è attiva una ‘facoltà’ del borseggio, dove il maestro impartisce meticolose lezioni teoriche prima di passare alla pratica. Da lui appresi l’arte di infilare con la massima leggerezza le mani nelle borse, stando attenta a non premere troppo sulle cerniere (“le dita devono essere ali di farfalla”); e imparai a conoscere tutti i tipi di borse, a bottoni o a serratura ad incastro”. Fu promossa e si mise a volare. “Ero in grado di intuire la sistemazione dei vani interni degli obiettivi prima di intraprendere il lavoro”.
Via Moscova
La donna, sulla quarantina, riferì questi ed altri particolari al comandante, che si mostrava interessato. “Non creda – aggiunse – che io sia contenta di aver scelto questo mestiere, che tra l’altro mi porta così lontana dalla famiglia. Ma non potevo esercitarne un altro. Era quello dei miei genitori, che mi hanno trasmesso anche loro qualche trucco... In Cile - aggiunse – i veterani sono gelosissimi dei loro metodi e li tramandano con orgoglio soltanto ai propri figli”. I suoi bersagli esclusivi erano le donne estasiate davanti ai negozi di abbigliamento (“sui tram e sui vagoni del metrò non sono mai salita”). Erano le prede più facilmente abbordabili: “Quando si fermano davanti a una vetrina e sognano di acquistare un capo elegante con tanto di firma celebrata per ben figurare in una serata importante, si distraggono completamente, si distaccano da ciò che le circonda. E’ quello il momento adatto per colpire”. Non le andava sempre bene, naturalmente. E se l’esplorazione della borsa non l’assicurava, rinunciava al colpo senza crucciarsi. Tanto alla fine della giornata il suo milione e mezzo, e anche di più, lo rimediava comunque. “Rubare in Italia – precisò – è uno scherzo da ragazzi”. Rivelò i suoi segreti dettagliando. Disse che preferiva agire da sola, non in batteria; che era una grande ammiratrice della bravura degli slavi (che tra l’altro nei loro “staff” impiegavano anche i minorenni, perché non soggetti alla legge penale: n.d.a.); e che aveva l’abitudine di arrotolare la refurtiva legandola con un nastro.
La via del Corriere
Quando fu beccata dai carabinieri del nucleo radiomobile di rotoli ne aveva una quindicina (un milione e 900 mila lire). A notare la sua manovra non era stata la vittima ma un passante. La “fisarmonica”, come la malandra definisce il portafoglio, aveva già preso il volo e una volta svuotato era stato gettato in un cestino portarifiuti. Nella caserma di via Vincenzo Mobile, durante il colloquio con l’ufficiale, garbato, ma inflessibile anche con chi delinque, lei, che pure doveva aspettarsi di essere “bevuta” un giorno l’altro, pianse; e fra le lacrime confidò la sua aspirazione: tornare un giorno a Santiago, aprire un negozio e prendersi cura dei suoi figli, che vedeva una volta all’anno. Storia interessante, comandante. Gliene saranno capitate da poter scrivere un’antologia. Chissà, forse un giorno, mentre si gode la pensione. “Non credo. Devo precisare che non sono soltanto i sudamericani a dedicarsi al borseggio. Abbiano arrestato libanesi e tunisini, abili anche in scippi e rapine”. Qual è l’età dei borseggiatori? “Un esempio.
L'insegna del Corriere
Di recente un uomo di 64 anni, scendendo dalla corriera in piazzale Cadorna e piegandosi su una delle sue valigie, è stato borseggiato da uno straniero di 58 anni. Un anziano signore, che aveva seguito la scena, ha gridato, il derubato ha inseguito il ladro, una pattuglia del radiomobile in perlustrazione è immediatamente intervenuta e il ‘giocoliere’ ha concluso il suo numero. Nonostante l’età, non aveva perduto la scaltrezza, la mano non si era appesantita. Naturalmente nei “carnieri” dei carabinieri non finivano (e non finiscono) soltanto lepri e uccelli di passo. Si ricordano le grandi operazioni antimafia condotte dai nuclei operativo e investigativo di via Moscova, dove ha sede la Legione (a due passi dal “Corriere” e dal ristorante Rigolo, frequentato, oltre che da rappresentanti dello spettacolo, della cultura e dell’industria, dai vip del quotidiano di via Solferino); l’arresto di pericolosi rapinatori, di fabbricanti di denaro falso, di sequestratori di persona, di assassini… Ricordo quando, nell’87, misero in trappola in un “residence” del Bresciano una specie di primula rossa, che scatenò un pomeriggio di fuoco.
Il famoso ristorante Rigolo
“Il nostro scopo è quello di prevenire e reprimere tutti i reati. Noi del radiomobile ogni sera mettiamo uomini in osservazione nelle strade maggiormente insidiate dalla malavita e spesso facciamo buona caccia anche nel campo del commercio dell’eroina. Qui stiamo assistendo ad un fenomeno nuovo: mentre prima quando portavamo in caserma giovani che spacciavano piccoli quantitativi di ‘polvere’ non c’era verso di farli parlare. Adesso invece sono sempre più numerosi coloro che spiattellano subito le generalità del fornitore. Vuole qualche cifra? In pochi mesi solo il nucleo radiomobile, per fatti di droga, ha arrestato 96 persone e sequestrato oltre 4 chili di sostanze stupefacenti. E’ il risultato di una buona organizzazione. La caserma di via Vincenzo Monti ha un organico di 400 uomini e dalle 8 alle 13.30 e dalle 15.30 alle 20 facciamo uscire fino a 30 Alfette”. Il maggiore sfogliò delle carte e intanto consultava la memoria, che tra l’altro elargiva fatti e figure che con la malandra non avevano nulla a che vedere. Così emerse il brigadiere del radiomobile che una sera percorrendo l’Alzaia Naviglio Grande con l’auto di servizio sentì una voce che invocava aiuto per una persona caduta in acqua. Il sottufficiale si tuffò e salvò la vittima: un cieco che vendeva i biglietti della lotteria sotto i portici di piazza Duomo. Trascorse del tempo e un giorno il brigadiere andò a trovarlo, e dopo essersi presentato acquistò nove biglietti di “Premiatissima”; per gratitudine ne ricevette uno in regalo. E con quello vinse 5 milioni, ai quali se ne aggiunsero altri 5 con il meccanismo della telefonata, per sorteggio, a casa. Il carabiniere si ripresentò dal non vedente e gli regalò un milione. Quando l’intervista giunse alla fine, il maggiore volle accompagnarmi fino al portone aperto su via Vincenzo Monti. Attraversammo la piazza d’armi e parlando esitai, ricordando le volte in cui avevo partecipato alle manifestazioni con i carabinieri a cavallo, compreso quella del saluto al colonnello Nobili nominato generale e destinato a Napoli.







lunedì 16 aprile 2018

Vita movimentata di uno chef


 
IL LECCESE ANTONIO CRETI’

DA UNA CUCINA ALL’ALTRA



Lo intervistai all’Hotel Quark
nel 2006; lo rividi all’opera
alla Fiera di Osnago in una
cena rinascimentale allestita
dall’inner Wheel International
con il Rotary Club di Merate,
e in una delle tante altre serate
di beneficenza negli stessi luoghi.
Fu Dino Abbascià a presentarmi
Cretì, persona gentile e generosa.






Franco Presicci
 
Aldo Fabrizi(scultore F.Moccia)
Lo chef Cretì in gita a Martina F.

Al “Charlymax” ogni tanto entrava in cucina Aldo Fabrizi, il bonario attore di cinema e di teatro, regista, sceneggiatore, poeta e produttore, che alle architetture culinarie dedicava anche saporosi versi (“Si se magnasse solo pastasciutta, sarebbe veramente ‘na bellezza…”). “Amava mostrare come calava gli spaghetti nell’acqua – mi raccontò il giorno in cui lo intervistati lo “chef” Antonio Cretì - li teneva in pugno sospesi sulla pentola, quindi allentava la stretta e li lasciava cadere”. Si divertiva, l’antagonista di Totò in “Guardie e ladri”, alla vista di quegli “steli” che prima di affondare si allargavano come quelli delle rose in un vaso dal becco troppo largo. Cretì, oggi ottantunenne, di Ortelle, paese della provincia di Lecce, quasi si commosse al ricordo di quel pacioccone ricco di simpatia che faceva ridere migliaia di spettatori. Di cose da dire ne aveva tante: “Al Griso” di via Fabio Filzi, dopo la chiusura delle prime edizioni, venivano giornalisti di tutte le testate milanesi. Ma anche attori, musicisti, presentatori: Gorni Kramer, Pino Calvi, Mike Bongiono; e i campioni della Mille Miglia”, perché il titolare, Volpi, aveva fatto parte dell’organizzazione della corsa soppressa nel ’57.
da sinistra: Nico Blasi e Dely Giuliani Gatti
La sera in cui Duilio Loi vinse a Milano nel ’60 il campionato del mondo dei ‘welters junior’ i nostri tavoli vennero presi d’assalto”. E continuava, mentre sul suo viso da orientale si disegnava un sorriso gioioso: “Feci l’inaugurazione del ‘Charlymax’, in via Marconi 2, primo tentativo a Milano di ristorante notturno, apertura alle 21, e sono stato poi ‘chef’ all’Hotel Panorama Golf di Gignese”, piccolo paese a metà strada fra Stresa e il Mottarone, che vanta il Museo dell’Ombrello, in omaggio ai tanti ombrellai che, nati qui, si sparsero non solo in Lombardia ad aggiustare manici e stecche. “Lì conobbi Gianni Agus e Mario Soldati, che scriveva le sue splendide pagine e si diceva affascinato da questo albergo in mezzo alla natura e con le persiane verdi affacciate sul lago”.Nello stesso hotel Cretì incontrò Maner Lualdi, giornalista e uomo dalla personalità poliedrica (aviatore, capospedizione, nel ’48, del raid Milano-Buens Ayres con l’”Angelo dei bimbi”; e nel ’67 del raid della Fratellanza e della Pace Roma- Pechino), e Gianni Mazzocchi, l’ideatore di “Quattroruote” e promotore del primo raduno di auto d’epoca in partenza da Stresa. E sempre lì deliziò il palato di Wanda Osiris. Erano gli anni in cui la Wandissima, esaltata da Rascel, Bramieri, Dapporto… cantava “Ti parlerò d’amor”, “Sentimental”…, di D’Anzi. La storia di questo eminente “chef” è ricca di tappe.
Cretì e Abbascià.
“Concluso, nel ’57, il ginnasio a Maglie, presi il treno per Milano. Alla stazione Centrale mi sentii spaesato. Poi un giorno un amico di mio fratello Luigi mi disse; ‘Vuoi lavorare? Vieni con me a Pavia’. Cominciai come aiutante di cucina e mi appassionai all’arte culinaria. Il passo successivo: capopartita. In quella veste passai al ‘Tantalo’ in via Silvio Pellico, a Milano: quindi al Savini, il tempio dei profumi caro a Gaetano Afeltra, che nel suo interessantissimo libro “Milano amore mio” gli ha riservato pagine affettuose, definendolo ristorante che straripa un po’ nella Galleria stessa, estate e inverno, con il suo ‘dehors’ a vetri, secondo un certo gusto parigino… La visita a Milano senza questa sosta nel suo più famoso ristorante sembrerebbe incompleta: il viaggio stesso manchevole in qualcosa di sottile ma essenziale… Se Anche l’Italia ha avuto la sua Bèlle Epoque”, a Milano è nata qui, a due passi dalla Scala …”. Ed elencava alcune delle grandi personalità assidue a quelle sale, da Marco Praga a D’Annunzio, da Giacosa a Pirandello, da Ojetti a Toscanini, alla Duse, alla Gramatica, a Chaplin… Nel ’43 il Savini fu sbriciolato dalle bombe, ma il 26 dicembre del ’50 era già restituito alla città esattamente come prima. Merito di Angelo Pozzi, che il Comune premiò con una medaglia d’oro”. Mi si perdoni la digressione. “Al Savini – m’interruppe con garbo e opportunamente Cretì – c’era un’attenzione particolare per i classici della cucina locale: il risotto alla milanese, al salto, l’ossobuco in gremolata… al quale Angelo Pozzi intitolò un club (‘Ossorum foratorum’)”.
Serata rinascimentale.
Una vita dunque trascorsa fra i fornelli. Come responsabile dei servizi di ristorazione (mense e simposi) della Farmitalia (che faceva almeno un convito al mese di medici, chimici da ogni parte del mondo) e della Montedison; consulente nell’ambito della ristorazione collettiva all’Atm e non solo. Al suo attivo anche organizzazione e direzione di corsi di formazione e aggiornamento per addetti alle cucine degli ospedali e delle refezioni scolastiche e dei Comuni… Al famoso Hotel Gallia, in piazza Duca d’Aosta, contribuì, per la Federazione Cuochi, all’allestimento della finale italiana del concorso culinario “Gran Prix Taitinger”. Al Grand Hotel di Stoccolma guidò l’èquipe di cucina per la settimana del made in Italy. Ha diretto il periodico “Il Cuoco”, organo della Federazione italiana del settore; e per 9 anni è stato presidente dell’Unione Cuochi lombardi. Mi sintetizzò la sua biografia con umiltà, quasi con il timore di apparire troppo loquace. Gli domandai notizie sulle abitudini culinarie dei meneghini negli anni 60”; e mi rispose ponderando le parole: “Al Tantalo verso mezzanotte mangiavano, accomodati sul sedile alto vicino al bancone, il risotto con il ‘messicano’, involtino di carne macinata. Oppure il ‘fogliolo’, trippa in umido alla milanese. Poi cominciò l’era dei panini, in un bar di piazza Beccaria.
Gli ospiti
Da Scoffoni, in via Victor Hugo, si servivano wurstel con crauti. Alla ‘Crote Piemonteise’ si andava per degustare salumi crudi o cotechino bagnato con vino delle Langhe. Allora sui menu dei ristoranti campeggiavano le definizioni classiche dei vari piatti e tutti si attenevano agli ingredienti previsti dalla ricetta. La differenza era data dalla materia prima e dall’abilità del cuoco. Oggi domina un’eccessiva improvvisazione nella mescolanza degli ingredienti non sempre dovuta a un equilibrio ragionato e di conseguenza si usano definizioni lunghe e fantasiose…”. Era un pomeriggio del 2006, a un pranzo all’Hotel Quark, quando l’indimenticabile Dino Abbascià, tra l’altro vicepresidente dell’Unione del Commercio, mi presentò Antonio Cretì. “E’ un personaggio interessante, io lo stimo molto”. Lo rividi in azione un mese dopo a una cena rinascimentale allestita dall’Inner Wheel International e dal Rotary di Merate, alla Fiera di Osnago (l'ex presidentessa gentilmente ha fornito alcune foto.N.d.R.): una scenografia curata in ogni dettaglio) spettacolare per l’abbondanza e l’elaborazione delle pietanze, oltre che per il servizio. Il menu, per essere in tema la lista cibaria, realizzata appunto dal maestro Cretì sulla base di ricette del noto cuoco Mastro Martino, che visse nel 1450. Eccola: insalata di cappone, capperi e uvetta (“capone bono vol essere allesso”, predicava l’illustre gastronomo); capi di latte con pepe; fette di mozzarella cosparse leggermente di zucchero di canna e foglioline di menta; offelle di pesce: filetto e polpa di pesce, burro, vino bianco, mandorle, uvetta, maggiorana, prezzemolo, farina bianca, pepe, uova e zafferano (“Queste si soglion friggere e cotte parranno pesce”); bocconcini di torta di cipolle; crostini di pane nero con lardo e piccole cialde di miele nucato; salame Brianza; minestre di lenticchie, farro e broccoletti verdi; carrè di porco allo spiedo con cipolline cotte nella ghiottella. Il pesce aveva un ruolo rilevante nell’arte culinaria rinascimentale e l’insalata non mancava mai sulle mense dei toscani e degli italiani in genere, che per la verdura avevano una vera passione. Da sottolineare che non era una serata gastronomica fine a se stessa, con costumi, che, forniti da una nota sartoria milanese, ricordavano Bartolomeo Scappi, che nella metà del Cinquecento fu capocuoco nel palazzo pontificio (scrisse anche un trattato autorevole).
Fragnelli al lavoro
L’ambientazione, ispirata a Bona Sforza, figlia di Isabella d’Aragona e di Gian Galeazzo, duca di Milano, era stata creata per raccogliere fondi da destinare alla costruzione a Sololo, in Kenia, di un villaggio per l’accoglienza e l’educazione di bambini resi orfani dal flagello dell’Aids. In un’altra cena, sempre a scopo di beneficenza (l’ampliamento del villaggio San Francesco, asilo per l’infanzia abbandonata a Meru, ancora in Kenia), intonata ai giorni nostri, fu un altro pugliese a distinguersi, preparando in diretta, con momenti d’involontario spettacolo, le mozzarelle da servire subito in tavola: il maestro casaro di Martina Franca Silvestro Fragnelli, coadiuvato dalla moglie Dora. In quell’occasione Paolo Centrone, direttore del Park Hotel San Michele della città dei trulli e del Festival della Valle d’Itria, aveva generosamente mandato tutto il ben di Dio dalla sua città. Antonio Cretì, quella volta, non regnava in cucina, ma era seduto fra gli oltre 350 ospiti, che apprezzavano l’atmosfera cordiale, oltre all’ottima qualità dei piatti. Ogni tanto osservava compiaciuto quelli che per curiosità osavano fare capolino tra i fornelli. Spense il via-vai lo storico Nico Blasi, illustrando le varie portate, le loro origini e le loro caratteristiche, concludendo con accenni al capocollo di Martina, salume particolarmente gradevole e profumato, di produzione antica, gradito ovunque. Una manifestazione all’insegna della Puglia, definita la California italiana. Rividi Cretì qualche anno dopo a Martina Franca, dove venne a trovarmi in campagna. Conosceva la Valle d’Itria, ma mi chiese di accompagnarlo su quel terrazzo che consente la vista delle case a punta e bianche come il latte: gli amati trulli. In questi giorni qualcuno lo ha intercettato qua e là, in questo labirinto chiassoso, che è Milano.




mercoledì 11 aprile 2018

Antonio Pagnozzi, poliziotto esemplare


Il prefetto Antonio Pagnozzi con Franco Presicci
INVENTO’ IL LAVORO DI

GRUPPO CONTRO UNA MALA

AGGUERRITA

Capo della Digos, poi della Mobile e della Criminalpol,

s’impegnò nella lotta contro i sequestri di persona e liberò molte vittime, utilizzando anche la fantasia.

Diresse operazioni importanti, arrestando criminali di grosso calibro.

Da anni è in pensione.




Franco Presicci


Quando era capo della squadra Mobile, nell’anticamera regnava l’appuntato Spina, rigoroso, attento, puntiglioso. Teneva a bada i cronisti più giovani, indisciplinati, che tentavano di anticipare l’ora della conferenza-stampa, bussando alla porta del capo. Spina era un’ottima persona, parlava sottovoce, non perdeva mai la calma, e se appariva un funzionario si alzava in piedi di scatto.
Il prefetto Antonio Pagnozzi
Il capo era Antonio Pagnozzi, gentiluomo prima che grande poliziotto, acuto, esperto, cortese, e lo trattava quasi come uno di famiglia. Giunta poi per Spina il giorno della pensione, durante il brindisi di saluto, gli consigliò di armarsi di una cinepresa e di peregrinare per le vie di Milano alla ricerca di bellezze da riprendere. L’ex appuntato utilizzò il consiglio, e ogni tanto tornava in questura e, a richiesta, raccontava sinteticamente e a salti gli angoli che aveva immortalato. Antonio Pagnozzi non era, e non è, come quelle persone che, conquistata una poltrona, impugnano lo scettro e prendono le distanze. No, disponibile e alla mano, non ha mai scelto gli amici fra le gerarchie, fingendo con gli altri. Piacevole il suo accento, del paese in cui è nato, Cervinara, provincia di Avellino, il cui nome, secondo la leggenda, è dettato da un altare eretto dai Romani in onore di Cerere, la dea delle messi. Non si negava mai; e, se poteva raccontare tratti di un’indagine delicata, lo faceva con molta prudenza, limitandosi a pochi particolari, resistendo con un sorriso all’insistenza di Giancarlo Rizza, il “nerista” esperto e attento del quotidiano “Il Giorno”.
Il cronista Giancarlo Rizza
Pagnozzi con Enzo Caracciolo
E non si citava mai: il risultato l’avevano ottenuto i suoi uomini. Lo intervistai l’11 agosto dell’85, un caldo che spaccava le pietre, nel suo ufficio alla Criminalpol, in piazza San Sepolcro, al piano terra, subito a sinistra dopo l’androne (al piano superiore aveva sede il primo distretto). In quell’edificio il 23 marzo del ’19 si tenne la riunione per la fondazione del Fascio milanese di combattimento, diretto da Mussolini, che quella riunione aveva convocato, da Ferruccio Vecchi…. Pagnozzi mi ricevette con molta cordialità, com’era ed è suo costume, e dopo le prime battute sulla nostra vita quotidiana, affrontò spontaneamente gli argomenti della conversazione. “Gli anni Sessanta furono caratterizzati da un profondo cambiamento nell’ambito della malavita. La polizia non doveva più fare i conti soltanto con i clan che agivano a Milano e nell’hinterland, senza legami con cosche e ‘ndrine’: doveva combattere vere e proprie multinazionali del crimine. Dalla Sicilia erano saliti quassù personaggi spietati, capaci di gestire l’organizzazione con criteri manageriali. Si cominciavano a intravvedere consorterie con interessi complessi, che andavano dalla rapina –‘shock’ ai sequestri di persona. Per contrastarle, occorrevano metodi diversi. Non bastava più intrufolare il poliziotto coraggioso e abile nei viluppi del malaffare, affidare un’indagine a un singolo investigatore. Bisognava creare un’’equipe”. Fu dunque proprio lui, al vertice della Mobile per dieci anni dal ’73, a intuire la necessità del lavoro basato sulla collaborazione, scoprendo tra l’altro che la criminalità camminava con un ritmo più veloce di quello della polizia. Per lui la malandra era aprofessionale: intendendo dire operava su tanti fronti: la grande “dura”, la droga, lo sfruttamento della prostituzione, i rapimenti, il riciclaggio dei soldi sporchi... A questa virata si dovette cercare una risposta adeguata. E lo fece brillantemente. Ma il cambiamento non riguardava soltanto la criminalità. Anche la gente capovolse il suo modo di pensare: quando si accorse che la polizia non stava a guardare, che quindi meritava fiducia, abbandonò la politica di farsi i fatti propri, per paura e per cautela. Furono riviste alcune leggi, come quella sugli stupefacenti, che non punì più il tossicomane come tale; e quella sulla competenza territoriale dei tribunali in materia di sequestri di persona: prima di allora la competenza apparteneva all’autorità del luogo in cui lo stato di prigionia era cessato, consentendo ai rapitori di scegliersi eventualmente il giudice; da quel momento la sentenza spettava ai magistrati del luogo in cui il reato aveva avuto inizio. “Occupandoci di sequestri – ricordò il dirigente della Criminalpool – ci siamo fatti aiutare anche dalla fantasia, improvvisando trabocchetti, “escamotage”, con il sostegno appassionato di valenti magistrati”. Per indurre i sequestratori ad attenuare le pretese, fecero credere che i dipendenti dell’ostaggio erano scesi in sciopero per giorni e giorni, assottigliando quindi il suo patrimonio.
Il prefetto Jovine,i questori Plantone e Caracciolo,lo scrittore Olivieri e il prefetto Pagnozzi
”Un mattino alle 3, in piena nebbia e al buio, con il giudice De Liguori, facemmo un sopralluogo in uno spazio di quasi 400 chilometri per individuare i punti nevralgici in cui sistemare le nostre pedine sull’itinerario indicato dai banditi per il pagamento del riscatto”. Pagnozzi ebbe un attimo di esitazione, si passò una mano sul mento, si guardò attorno come se non volesse farsi sentire da qualcuno indaffarato in un ufficio attiguo, ma in effetti per non farsi sopraffare dalla commozione, e riprese: “Fui colpito dallo stato pietoso in cui trovammo l’industriale… rapito il 18 aprile del ’78. Legato su un letto, stremato, con evidenti lividi, che rivelavano le percosse subite dal carceriere, quando i familiari davano l’impressione di temporeggiare. Mi chiese un caffè e io glielo preparai con un bricco trovato nella prigione. Abbiamo visto dei sequestrati con le lacrime impastate con la sporcizia e la cera colata nelle orecchie perché non sentissero”.
A.Serra,A.Pagnozzi,E.Caracciolo
Pagnozzi parlava affabilmente, a volte tenendo a freno l’emozione, soprattutto quando accennò al produttore cinematografico che, catturato l’11 gennaio del ’77 da mafia e ‘ndrangheta, rimase un anno e mezzo nelle mani dei malviventi. Fu uno di questi sequestri ad ispirare grosse operazioni che assestarono una sventola alla criminalità. “A creare notevoli problemi fu il sequestro, nell’ottobre del ’74, del figlio di un famoso imprenditore. Con i genitori, con i quali concretizzammo un rapporto di reciproco aiu, condividemmo le ansie, le tensioni facendo di tutto perchè il ragazzo venisse restituito alla famiglia. Come avvenne”. I ricordi spesso suscitano angosce, perché tra un fatto e l’altro emergono anche figure di poliziotti che hanno lasciato la vita in questa lotta senza confini e senza limiti di tempo. “Dolori a parte, sono contento del lavoro che ho svolto”.
Prima di entrare in polizia era stato ufficiale dell’Aeronautica contravvenendo ai desideri dei genitori. Aveva ancora nelle orecchie le parole del padre veterinario: “In cielo non ci sono taverne”, che è poi un detto popolare. Comunque, il figlio di Cervinara, sposato, lungimirante, ricco di umanità, nella sua lunga carriera ha mietuto successi di cui non mena mai vanto, nemmeno oggi, che si gode la pensione nella sua casa in via…. Per un periodo aveva diretto la Digos, con un faticoso impegno contro le brigate rosse, individuando fra l’altro il covo di via Subiaco.
E.Caracciolo, Pagnozzi, F.Colucci
Il maresciallo Oscuri a destra
Non dimentico la sua espressione che si sciolse in pianto l’8 gennaio del 1980, davanti ai corpi dei tre poliziotti del commissariato Ticinese uccisi sotto il ponte di via Schievano. Erano il vicebrigadiere Rocco Santoro, l’appuntato Antonio Cestari, l’agente Michele Tatulli, che guidava l’auto in servizio di prevenzione e vigilanza davanti alle scuole del quartiere. Qualche sera prima in un ristorante di piazza Sant’Eustorgio avevano partecipato a una cena con i colleghi del commissariato di via Tabacchi; e io ho sempre in mente il volto di Santoro, ragazzone di solito gioviale, spiritoso, di ottima compagnia: sembrava che presentisse la tragedia che stava per compiersi per mano barbara e vigliacca. Che pena al pensiero che proprio quella mattina Cestari era rientrato dalla convalescenza dopo un infarto, non ascoltando la moglie e i colleghi, tra cui l’ispettore Armando Sales, che gli avevano consigliato di rimanere a casa ancora per qualche giorno. Ricordo il figlio piccolo che in piedi su una sedia, passando l’indice sul vetro della finestra annebbiato per il freddo, tracciava segni incrociati e cerchi concentrici, con gli occhi smarriti; mentre la mamma tratteneva le lacrime di fronte al vicequestore Gaetano Antonacci e all’ispettore Sales. Dopo essere stato promosso questore, destinazione Cosenza, Genova…, Antonio Pagnozzi è diventato prefetto, carica tenuta fino alla pensione. E’ tanto tempo che non lo vedo e non lo sento. Ma ho notizie le mieto dal suo collega Francesco Colucci, che mantiene rapporti con tutti quelli che hanno lavorato in via Fatebenefratelli e vivo il ricordo di quelli, come Mario Jovine, Vito Plantone, Enzo Caracciolo, Mario Nardone, i marescialli Oscuri e Giannattasio…, che non ci sono più.










mercoledì 4 aprile 2018

ALBERTO LORENZI, UNA PENNA IRONICA E GARBATA


 
NEI SUOI LIBRI RIVIVE LA MILANO SPARITA

CON I SUOI PERSONAGGI E LA SUA ANIMA

In un suo volume ha raccontato il mondo
 
del varietà, con le sue luci e le sue figure

più celebri, da Anna Fougèz a Isa Bluette,

a Milly, a Piero Mazzarella, ai De Filippo…
 
con profonda competenza.

E in “Milano un secolo”, i teatri, i caffè

letterari noti, gli artisti, i divertimenti,

le passeggiate e tantissimo altro.





Franco Presicci

La libreria di Nicola Partipilo, in viale Tunisia al 4, a Milano, un tiro di schioppo dai locali in cui durante la seconda guerra mondiale Sandro Pertini aveva l’ufficio,
Nicola Partipilo
era affollata più del solito; e il titolare correva su e giù perché tra l’altro mancava un commesso, quello che più di ogni altro sapeva dove pescare senza esitazione il titolo richiesto. Seduto a gambe incrociate in un angolo appartato, vicino alla macchinetta dalla quale gocciolava il caffè, un signore di una certa età, ben vestito, una borsa di pelle fra le mani, lo sguardo fisso alla strada inquadrata dalla vetrina di fronte, quel poco che di essa si poteva vedere, dati i libri allineati o collocati uno sull’altro a mo’ di fisarmonica. Quando la siepe si sfoltì, Partipilo mi presentò l’ospite, che si alzò quasi di scatto e mi strinse la mano quasi in una morsa, mentre gli lampeggiava un sorriso largo e dolce.
Era Alberto Lorenzi, lo scrittore della Milano che non c’è più: case di ringhiera dall’aria di borgo antico, come in corso San Gottardo o in via Borsieri; la Pusterla dei Fabbri, che ai primi del ‘900 fu sacrificata al cambiamento fra accese polemiche in consiglio comunale; il gelataio con il carrettino con il muso a forma d’aquila sormontato da una tenda dai bordi fatti a onde... Quella Milano Alberto Lorenzi l’ha descritta nei suoi libri, come “Milano un secolo”, Bramante editrice, ottobre 1965,, un libro da leggere ma anche da vedere: “l’oste delle polpette” in un’illustrazione del Gonin; un’opera di Emilio Longoni; “La piscinina”, proveniente dalla Raccolta Guenzani di Gallarate; di Romano di Massa, “Verdi al Caffè Cova” attorniato da gentiluomini con “papillon” e signore con il cappello adornato con piume di cigno; di Angelo Inganni Piazza del Duomo con qualche banchetto carico di merce da vendere; la bella figura di Anselmo Ronchetti, calzolaio dantista, che riceveva nel suo laboratorio tutti i letterati più noti del suo tempo, che se dovevano protestare per un ritardo nella consegna delle calzature lo facevano in poesia, imitando Carlo Porta.
Quel giorno, anno 1988, era in uscita “I segreti del varietà”, in cui Lorenzi ripercorreva la storia di questa forma di spettacolo, con i suoi momenti spumeggianti, gli “sketches” frizzanti, le ballerine con gonne vaporose e cappelli come code di scoiattolo, i rappresentanti più famosi, come Guido e Giorgio De Rege, Walter Chiari, Totò, Renato Rascel, Josehine Baker, Ciccio Ingrassia e Franco Franchi con Daniela Goggi, Macario, Petrolini, Silvana Pampanini, Gennaro Pasquariello, Elvira Donnarumma, che cominciò a spiegare la sua voce nei locali di Napoli con un successo poi coltivato e intensificato all’Olimpia di Roma…E Edoardo Ferravilla, il comico più acclamato del teatro meneghino, amato persino dalla mala pronta a servirgli la bibita quando lo intercettavano nei suoi giri notturni. Padre dell’applauditissima maschera di Tecoppa, così ribattezzata dagli appassionati in virtù del suo intercalare: ”Dio te coppa!”, tradotto “Dio ti fulmini!”, suscitava un vero spasso e ovazioni in platea. Lessi il volume con interesse, divertendomi e ammirando, oltre allo stile dell’autore, tutte le curiosità e le stelle sparse nelle 172 pagine.
Anna Fougez
E mi ritrovai di fronte alla memorabile figura di Anna Fougez, che per 40 anni fu la regina della ribalta italiana. Grandissima Anna. Nata a Taranto, all’anagrafe Anna Pappacena Laganà, famiglia nota e ricca, il papà con la passione dell’archeologia, brillò per la prima volta sul palco a 8 anni e a 15 a fianco di Petrolini. Amica di Mistinguette e di Trilussa, ballava il bolero con Dapporto. Capelli scuri, asciutta, elegantissima, superba, si presentava con un bracciale d’oro con la sagoma di una vipera. Non aveva rivali: né Isa Bluette né Lydia Johnson; teneva testa alla Wandissima e a Milly. Legata alla sua città, vi tornava ogni anno per esibirsi al Teatro Orfeo; e a Taranto volle essere sepolta. Si spense nel settembre del ’66. Recensii il libro sul quotidiano “Il Giorno”, e Lorenzi per gratitudine volle regalarmi a tutt’i costi una perla rara, “Vecchie osterie milanesi” di Luigi Medici, primo volume di rievocazioni di questi ritrovi, successivamente ridato alle stampe dalla Libreria Milanese. Lo incontrai ancora, sempre da Partipilo (libraio fornitissimo e uomo disponibile, generoso, intelligente, patito di Milano nonostante le sue origini baresi). Scrittore delicato, dai modi gentili, rispettosissimo, galantuomo autentico, ogni volta che veniva sollecitavo, Lorenzi descriveva vita e opere dei mattatori più eminenti, tra cui Gino Bramieri o Piero Mazzarella, che riscosse i suoi primi successi al Gerolamo, luogo sacro del teatro dialettale meneghino, che la sera del 9 aprile del ’58 ospitò l’Opera del Pupo” con Eduardo De Filippo e “Pulcinella” con lo stesso Eduardo nei panni della celeberrima maschera.
Dina Galli e Ferravilla (Nino Besozzi)
La Centrale di Milano nel 1906
Eduardo poi ripercorse un po’ la sua carriera di attore e autore sin dai i tempi in cui era in Compagnia con i fratelli Peppino e Titina.
Il Gerolamo mi era molto caro, anche perchè nel ’63 vi avevo ammirato per la prima volta Mazzarella nella commedia “El zio matt”, e sentito cantare “Milly”, che nel ’25 aveva cominciato nell’avanspettacolo e nella rivista, quindi era stata soubrette con Odoardo Spadaro, Isa Bluette, e recitato con i fratelli De Filippo; aveva avuto successo negli Stati Uniti, e, rientrata in Italia, brillò in “Opera da tre soldi” al Piccolo Teatro di via Rovello; e poi con Enzo Jannacci e Tino Carraro…. Ricordo tante pagine di Lorenzi: sulle feste da ballo di una volta; sui cinema, sulle cartoline a colori della serie “Se a Milano ci fosse il mare”; sui “tranway”; sui biglietti d’invito strettamente personali inviati a reverendissimi signori alla fine dell’800 e all’alba del ‘900 per le celebrazioni al circolo “Promessi Sposi”; su certe stradine storiche, come via Lanzone e via Caminadella; sulla Pasticceria Marchesi in corso Magenta, dove il feldmaresciallo Radetzky andava a comperare i “bignè”; sui Caffè ottocenteschi, “della Peppina” o il “Cova” o il “Cambiasi”, dove sulla soglia alcuni sconsiderati si presero gioco di un monaco che li gelò senza scomporsi: “Il governo ci lascia vivere per poter accompagnare i giovani scapestrati alla ghigliottina”.
Piazza Scala nel 1850 circa (Raccolta Bertarelli)
Pagine ricche di dettagli e di garbata ironia”. Ricordo le riscoperte che Lorenzi faceva della vecchia piazza d’Armi, dove “el Granida” vendeva bibite e organizzava gare ciclistiche con ripetute corse intorno al vasto slargo che serviva per le esercitazioni militari; della banda del Tirazza che suonava in via Passerella o nelle taverne; degli aerostati che nel 1900 si alzavano dall’Arena; del “banchin del lott”, che stava in via Montenapoleone; della famosa grandinata del 13 giugno 1874, che alle 16,30 mandò in frantumi i vetri della Galleria Vittorio Emanuele. “A quei tempi la città contava 30 mila malfattori; numerosi evasi dal carcere, molti furti, molte rapine che sottraevano tranquillità alla gente, che temeva le combriccole criminali”, come quelli della “scopola”; o i “locch”, una lega che, pantaloni attillati, scarpe a punta e acco alto, bazzicava piazza Vetra. Ho ancora nelle orecchie i versi di una canzone che suggeriva a una bella fanciulla di non andare in sposa a un “magnan”, il pentolaio, “ch’el rangia i pignatt de tutta Milan”, facendo vita magra. Ai “magnan” era intitolata un’osteria nella via omonima, attaccata a Palazzo Marino, sempre gremita di fidanzati reduci dal municipio dove si erano scambiati il consenso con il seguito di testimoni. Alberto Lorenzi, già Conservatore alle Raccolte d’arte del Comune di Milano, era molto stimato per la profonda cultura, la puntualità, l’impegno, l’amore per Milano sparita, di cui andava rispolverando fatti, figure, luoghi, storie. Di quella Milano era innamorato anche Orio Vergani, grandissimo giornalista che a soli 26 anni era stato chiamato da Ugo Ojetti al “Corriere della Sera“, tempio in cui per anni lavorò anche il figlio Guido, nutrito a sua volta di una profonda, vera passione per la città di Carlo Porta.