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mercoledì 27 maggio 2020

Il fascino del Naviglio Grande


Vinicio Zacchelli al lavoro

A POCO A POCO GLI ARTIGIANI

SE NE SONO ANDATI ALTROVE


L’incontro con Vinicio Zacchetti,
autore di opere di grande valore.
Fece un reggiseno in argento
dorato e una cintura destinati a
una sfilata di Krizia, la sovrana
dell’eleganza.








Franco Presicci

“Due sono le città in cui vivono gli abitanti di Milano – parole di Giuseppe Pontiggia, scrittore, critico letterario, docente universitario - una è quella in cui si muovono sempre più a fatica, frastornati dai rumori, bloccati dal traffico, soffocati dallo smog, tentando percorsi di guerra sui marciapiedi gremiti di automobili.

Naviglio Grande
L’altra è la Milano dei navigli, sognata nel miraggio di una nostalgia visionaria”. Il poeta Alfonso Gatto, i navigli, li definisce “strade d’acqua silente, con odore di terra, di carreggiate, di verdura… Per la città, al colore dei Navigli, sorgono i fanali”. Per Paul Nicholls, “il naviglio è sempre stato un elemento allo stesso tempo confine e collante, che divideva e contemporaneamente univa Milano, e i pittori che vi abitavano non potevano ignorarlo, perché fu non soltanto un motivo affascinante dai molteplici colori, ma anche un motivo strutturale ispiratore della loro vita artistica”. Fu proprio uno di questi pittori, Guido Bertuzzi, ad accompagnarmi la prima visita, negli anni 70, al Naviglio Grande, dove scoprii sull’alzaia e sulla ripa, opposta, botteghe e bottegucce di artigiani anche nei cotili: dal lucidatore al verniciatore a fuoco, al “ferrascitt”, valente artigiano del ferro battuto, alla maestra dei vetri colorati, al calzolaio con il deschetto, al fabbro, all’argentiere…

Cortile del Centro dell'Incisione
Vinicio l'argentiere
Bertuzzi fermò una anziana “sciura” con i capelli bianchi un po’ scarmigliati e le chiese che cosa ricordasse della vecchia Milano; e quella: “Ho ancora nelle orecchie il rumore delle bombe che nel ’43 cadevano sulla città, facendo a pezzi palazzi e monumenti, la Scala, la Galleria… ”. Non disse altro, e riprese il passo spedito verso il signor Colombo, che stava lucidando una tomaia. Mi presentò anche la “sciura” Elvira Radice, ultranovantenne - che a suo tempo aveva venduto la lisciva alle lavandaie inginocchiate sotto la tettoia - che invece mi regalò soltanto un sorriso dolce e amabile. Superando il “pont de preja”, arrivammo alla galleria d’arte di Romualdo Caldarini, pittore che negli anni Ottanta, morto Aldo Cortina, sarà il presidente della mostra a cielo aperto di via Bagutta; e al Centro dell’Incisione di Gigi Pedroli, cantautore e incisore di altissimo livello, soffermandoci davanti al laboratorio del corniciaio Vitali, che usava anche la tavolozza; e davanti al grande negozio, famosissimo, di divise militari e janserie, di Graziana e Paolo Martin. Era un giorno feriale, eppure incontravamo tanta gente, che entrava e usciva dagli androni degli stabili, alcuni che lamentando che gli affitti delle case s’impennavano progettavano di traslocare.

Servizio televisivo di Presicci dal Naviglio Grande
Ci tornai tante altre volte sul Naviglio Grande, soprattutto nelle grandi occasioni, in cui indossava il gran pavese e si riempiva di bancarelle; e ancora per la mostra dell’antiquariato, dove si trova di tutto, dai tubi dei vecchi lumi a petrolio ai mobili, alle puntine per gli antichi grammofoni, che altrove sono soltanto un ricordo, al calamaio anni 50, al braciere, che a Milano si chiama “brasèr”… Poi il Comune istituì la Festa del Naviglio e io ci tornai con entusiasmo, accompagnato dalla telecamera di Tele Monte Penice e dal suo operatore. Erano giornate memorabili, affollatissime, con i cortili e i ponti incorniciati di fiori, e le imbarcazioni che slittavano sull’acqua, che scorre da Tornavento alla darsena. I barconi? Uno degli ultimi fu quello trasformato in per me in… studio televisivo per commentare la festa.
Diretta Tv con Presicci sul Maviglio Grande
La traversata che chiuse una pagina di storia del Ticinello la fece quello targato 6L 60-43, il 31 marzo 1979, con un carico di sabbia. Nessuno tributò onori a questi “sciori” della Fabbrica del Duomo, “senza fantesch e senza maggiordomm”, come scriveva il poeta Armando Brocchieri. Smisero di navigare senza squilli di tromba. Con lo scorrere del tempo, con i barconi, sono spariti anche gli artigiani. Chi è diventato vecchio e ha chiuso l’attività; chi si è trasferito altrove... Ma qualcuno è rimasto, legatissimo a quest’aria “un po’ ‘canaille’ che agisce ancora oggi come motivo di fascino, quel sapore da ‘Casco d’oro’, che è rimasto attaccato ai muri”, come scrive Carlo Castellaneta nel suo libro “I Navigli”. Uno, in una mia passeggiata del novembre del 2006, lo scovai, grazie al mio amico Gigi Pedroli, che da qui, con il suo Centro dell’incisione, non si è mai mosso.

Cortile del laboratorio di Vinicio
“Vuoi incontrare uno degli ultimi artigiani del Naviglio Grande? Devi solo entrare nel cortile del civico 46”. Ed eccolo infatti: Vinicio Zacchetti, autore di reggiseni di rame per Krizia, la famosa stilista, tra le più illustri e note creatrici di moda; di un “flipper” di bronzo per la tomba di famiglia del titolare di una sala giochi… “Ho restaurato posaterie d’argento per famiglie altolocate, rifacendo le lame dei coltelli nel pieno rispetto delle caratteristiche dei vari stili – mi disse -. Ho avuto come clienti ‘star’ dello spettacolo sulle quali mantengo il dovuto riserbo”. Insistetti nel chiedergli qualche nome, ma mi rispose che non lo avrebbe fatto neanche sotto tortura.

Caldarini in una simpatica caricatura
Nella splendida casa di ringhiera che ospita il suo laboratorio aveva abitato un famosissimo attore del nostro cinema, ma anche su quel nome segreto assoluto. Vinicio era un po’ amareggiato per il fatto che il suo mestiere come altri era n via di estinzione. “Per fortuna con me collaborano mio figlio e la sua fidanzata, eredi a cui trasmettere la mia esperienza. Ma per molti altri la catena di è spezzata, essendo venuti a mancare anche gli spazi. Quando ho cominciato io, mi hanno affidato a un operaio anziano, che mi ha insegnato tutto ciò che poteva. Oggi un artigiano non se lo può più permettere”. “Sono sull’alzaia Naviglio Grande da più di quarant’anni e sono affezionato a questo cortile: Guardi com’è tenuto bene e ascolti il silenzio, che somiglia a quello di un chiostro”. E ricordò i personaggi di una volta. Per esempio, la donnina che alle 8 del mattino andava a svegliare la vicina con la scodella piena di caffellatte ancora caldo. E quelli che hanno suscitato alcune canzoni di Pedroli. “Ho fatto in tempo a conoscere il vero naviglio come quartiere popolare, con molti artigiani. In questo stesso cortile operavano almeno una dozzina di pellettieri, numerosi fabbri, pulitori, fonditori, falegnami.

Al centro Romualdo Caldarini
Mi vengono in mente due ‘martinitt’: uno incisore, l’altro cesellatore. A detta dei loro stessi colleghi, avevano le mani d’oro, erano i migliori d’Italia, realizzavano oggetti di altissimo livello artistico. Pensi: l’incisore riusciva a fare le ombre su una medaglia riproducente il volto di una persona preso da una foto”. Mentre parlavamo arrivò un cliente, che doveva ritirare una coppia di posate per insalata con le estremità in corno, che erano state sostituite. Esaminò il risultato, ringraziò soddisfatto e se ne andò. Vinicio riprese: “Ho cominciato all’Umanitaria, dove si tenevano corsi professionali per carrozziere, incassatore di pietre preziose, incisore, tipografo. Avevo vent’anni quando sono entrato come apprendista in una ditta di articoli da regalo in via Pietro Custodi. Poi ho seguito le mode del momento, impegnandomi col peltro, il rame, l’argento”. Terminato il servizio militare, si mi mise in proprio creando oggetti d’argento per ditte più grosse: vasi, zuccheriere, anfore, vassoi, cornici. Dopo qualche tempo quelle ditte smisero di ordinare il lavoro all’estero e lui proseguì per conto suo, costruendo i camini cesellati in rame per privati e insegne per negozi. Ha anche realizzato pregevoli soldatini di stagno per collezionisti. Molto richiesti anche dagli antiquari, “per i quali restauro oggetti di alta epoca”.

Soldatini di Vinicio
Vinicio Zacchetti era una figura molto nota non soltanto nella zona, dove tra l’altro era sempre presente al Mercatone dell’antiquariato, che si svolge l’ultima domenica di ogni mese, richiamando sull’alzaia e sulla ripa migliaia di persone provenienti anche da lontano (era frequentato anche da Nicola Quatela, che allora aveva un negozio di antiquariato a San Severo, 25 chilometri da Foggia). “Il Mercatone – m’informava Vinicio - parte da viale Gorizia e arriva sino al Ponte di via Valenza, un percorso di quasi due chilometri, con 400 espositori attentamente selezionati. Io osservavo gli attrezzi allineati diligentemente sui pannelli e sul bancone: una decina di martelli sagomati e adatti allo sbalzo; ferri da cesello che non sono in commercio e bisogna forgiarseli da sè; il cannello del gas con i vari dissodanti per eseguire le saldature; pinze e forbici per modellare la lastra d’argento… e vetrine piene di opere d’arte. “Una signora mi chiese di fare per lei un reggiseno in argento dorato e una cintura che gli si apparentava. Trascorso un anno, appresi da una rivista specializzata che l’indumento era comparso in un “defilé” di Krizia, al secolo Maria Mandelli, la stilista filosofa sovrana dell’eleganza, che aveva assunto il nomignolo da un dialogo di Platone sulla vanità della donna. Quello esercitato da Vinicio Zacchetti è un mestiere d’arte, a cui dovrebbe essere dedicato uno degli splendidi, interessantissimi volumi che la Fondazione delle Arti e dei Mestieri (creata da Franco Cologni, che è stato presidente mondiale della Cartier), ha dedicato all’orologiaio, al fotografo, al vignaiolo, all’incisore di monete… mestieri che “parlano di realtà lavorative dai contenuti culturali ed esistenziali di straordinaria attualità e originalità”.

mercoledì 20 maggio 2020

Alt alla festa di San Cataldo, il 10 maggio - Non si è svolta neanche la Settimana Santa

Perrone con Madonna del Carmine e San Cataldo

IL COLLEZIONISTA LUIGI

PERRONE INCOLONNA

IN CASA SUA LE STATUETTE

IN TERRACOTTA



A dispetto del “coronavirus”, escono dagli armadi con le porte in vetro, in cui vengono custoditi, il Patrono, confratelli, carabinieri,bande musicali… 

Spettatori dagli scaffali, fra trulli, alberi d’ulivo e grotte eseguite con le pietre emerse dalla terra durante l’aratura nella sua bella masseria di Crispiano, pastori, pecorelle, tanti Santi.

Nato in via Margherita, nello stabile con le colonne.

 








Franco Presicci
Il killer invisibile non ha avuto rispetto neppure per San Cataldo. Per colpa sua quest’anno le celebrazioni in onore del patrono, di solito sfarzose, sono state ridotte al minimo, procurando un grande dispiacere ai cataldiani. Che hanno messo da parte quel pizzico di risentimento causato dalla convinzione che il Santo abbia qualche predilezione per i forestieri. Me lo ha ricordato l’amico ultranovantenne che vive a Martina e l’ho invitato a tener presente che anche l’interessato è di un altro Paese e che, se pure avesse qualche debolezza del genere, un’attenuante gli andrebbe riconosciuta.
San Cataldo in varie dimensioni

E ho sottolineato che secondo un’antica credenza, l’incarico di venire a Taranto per evangelizzarla gli venne assegnato direttamente da Gesù durante un incontro a Gerusalemme, e mi pare che lo svolga con equità, nonostante l’oltraggio subito l’1 dicembre del 1983, quando gli portarono via,
Esemplari di San Giuseppe e di confratelli
furtivamente, dal Cappellone della sua Basilica il proprio simulacro d’argento. Quindi, semmai, a tenere il muso, dovrebbe essere lui. Comunque, questo sentimento degli abitanti della Bimare è annacquato, perché se si chiede a “‘nu cuzzarùle” o a “‘nu pescatòre” della città vecchia, o a un insegnante o a un arsenalotto del borgo, se condivida quella diceria, risponde di no, come un altro mio amico, già operaio dell’Ilva, che, subito dopo il pensionamento, si é trasferito nella città dei trulli, per respirare aria migliore.

Luigi Perrone
Salutandolo, sono riandato agli anni scorsi, in cui la festa, non essendoci il “coronavirus”, era tutt’altra cosa: moltitudine di luci e fuochi d’artificio; coperte che una volta, a sentire l’esimio scrittore Giacinto Peluso, dovevano essere quelle del matrimonio, e tappeti multicolori stesi sui balconi disseminati di lampadine accese; luminarie nelle strade; un corteo lunghissimo di autorità civili e militari, confraternite, bande, preti, monsignori, “perdùne”: una scenografia spettacolare con il Castello Aragonese in gran pavese, i due mari, il ponte di ferro illuminati, le barche private, della Marina Militare della Capitaneria di porto e dei carabinieri affollate… “Le mègghie fèste pe’ Sàn Catàvete nuèstre”, con commenti e interviste di Angelo Caputo, intervallate da rievocazioni storiche (ruolo prima svolto da un altro Caputo, Nicola). Pilucchiamo qualche notizia nel volume di Giacinto Peluso “Taranto, da un ponte all’altro”: un tempo non era difficile vedere un San Cataldo in miniatura, acquistato su un banchetto, portato in spalla su un’assicella, il giorno dopo i festeggiamenti, da quattro ragazzini seguiti da tantissimi altri che soffiavano nel fischietto in terracotta incollato sul deretano o sul polpaccio di un rappresentante della Benemerita.

San Cataldo e Madonne
Chi ha i capelli imbiancati e la
pelle increspata forse queste scene le ha ancora in mente; e per quanto riguarda i presunti favoritismi del protettore risponde con benevolenza: “Accussì se dìce, p’amòre ca le crestiàne no tènene nìente da penzàre”. E scivolando ancora una volta sul furto sacrilego: “Malevìerme chìdde ca l’hònn’arrubbàte. A malèrve nò nge se sècche majie, mmàr’a nùje”. Insisto. La sera del 1983 – interviene Nicola Caputo nelle sue esaurienti pagine su San Cataldo - al Circolo sottufficiali della Marina militare, alla Rampa Leonardo da Vinci, era in corso l’anteprima del documentario sulla Settimana Santa realizzato dalla Rai, con il commento dei riti tarantini affidato all’antropologo Alfonso Di Nola.

Armadio con il patrono, trulli e altre statuette
La sala era insolitamente strapiena; sulla città cadeva una pioggia rabbiosa agitata da un vento gelido e nella Basilica dedicata al protettore nel borgo antico le “mallatrùne” compivano la loro opera malefica, lasciando i cittadini, quando la notizia si diffuse, angosciati e sdegnati. Quell’episodio è ancora vivo nel cuore della gente, perchè San Cataldo è molto amato, al punto che quelli che sono andati a lavorare altrove tornano per solennizzare il suo “compleanno”, portandosi poi con sé la statuetta acquistata dall’ambulante, possibilmente la più bella, quella sagomata meglio, non importa se più costosa. E’ vero Luigi? “. ”E’ vero, sì”. Luigi Perrone, 72 anni, tarantino, nato in via Regina Margherita 25, nel palazzo con le colonne, in cui abitava Franco Zoppo, ottimo docente di lettere e autore del bellissimo romanzo “Belmonte” e di un altro scritto in lingua provenzale, è un collezionista di riproduzioni in miniatura di santi in argilla cotta in forno. “Ho Santa Rita, San Giuseppe, i Santi Cosimo e Damiano, di cui era devota mia nonna Carolina, Sant’Antonio, San Pio, “perdùne”, carabinieri con il fischietto sul posteriore, trulli, chierichetti e tanti altri, oltre alla processione della Settimana Santa della congrega del Carmine.
Confratelli della Settimana Santa



Li ho comperati la maggior parte a Taranto durante le feste patronali o ai mercati e alle fiere, alcune a Lecce, altre a San Gregorio Armeno e altre ancora nel quartiere delle ceramiche di Grottaglie, da dove viene il mio San Ciro, protettore di quella città, che fu la “culla” di mia madre, Giuseppina Eugenia, per cui io ho mezzo sangue grottagliese”.  A lasciarlo parlare sull’argomento Perrone proseguirebbe con la velocità della corriera che va da Martina a Taranto. E io lo ascolterei con attenzione senza interromperlo. Ma ogni tanto devo farlo, perché prendo nota del suo racconto e non voglio perderne una parola.

Grotta di pietra
I collezionisti mi piacciono, anche quelli che raccolgono cavatappi e bottoni, soldatini di piombo, di carta e di plastica, treni in miniatura, cartoline di Taranto anche di cento anni fa e più (che qua e là mostrano i tram che percorrono la ringhiera, via Di Palma, dove, di fronte allo stabile che ospitava il cinema Odeon, c’erano i binari di scambio, via Leonida, piazza Ramellini, via Battisti e oltre fino alle sette palazzine, a Solito)… Le effigie di Luigi Perrone, che tra l’altro è titolare della masseria Lupoli in territorio di Crispiano, con le stalle, i locali per i lavoranti, la chiesetta con un grande crocifisso sulla sinistra dell’ingresso, il campanile, il museo della civiltà contadina, mi attirano molto di più.
Processione
E, se qualche volta si ferma per lasciare libera la mia penna, che pure è lesta e lascia sul foglio segni a zampa di gallina, sono io ad incalzarlo.“Com’è nato questo tuo patrimonio fatto di simulacri, tutti in terracotta? “Mio padre aveva un presepe con grotta e casette in sughero con tanti elementi (anche quelli in terracotta) e un San Cataldo sul trono circondato da quattro puttini. Quindi il nucleo iniziale l’ho ereditato. In seguito io ho allungato la serie. La passione per i presepi è nata dal fatto che quando ero piccolo la rappresentazione natalizia la si faceva in casa con riguardo a tutti particolari.
Poi, negli anni, siccome in campagna durante l’aratura spuntano molte pietre di ogni dimensione, che sono un ostacolo al lavoro del contadino, ho cominciato a pensare che quelle piccole fatte in un certo modo, con un aspetto tipico o che comunque mi dicevano qualcosa, una volta pulite e unite in forma compiuta, potevano essere trasformate in un atto d’amore. Ed ecco le mie capanne, che naturalmente dovevano essere abitate; e così ho raccolto vari personaggi, ‘in primis’ la Madonna, San Giuseppe, il bue, l’asinello e il Bambinello”.
Al centro i Santi Cosma e Damiano
“L’impulso ad acquistarli è sorto quasi senza che me ne accorgessi; poi l’impulso è diventato passione”. “Dove conservi tutti questi elementi?”. “In armadi a vetri. Ho San Cataldo con gli abiti argentei e San Cataldo con paramenti policromi (celeste, rosa antico, giallo ocra, bianco), forse l’abbigliamento che indossava quando era vescovo in Irlanda. Su altre mensole sono schierati ulivi secolari dalle forme più strane, simili a quelli che popolano gli oliveti secolari di Lupoli, pastori con il gregge, che si vedono meno spesso nella vita reale nelle strade di campagna, mentre non si vedono più gli asini se non nei luoghi di allevamento”. Sono davvero tante, le sue “sculturine”, messe assieme negli ultimi 40 anni. Ovunque andasse, se c’era in una vetrina un santo, se lo faceva incartare. I suoi bambinelli non sa quanti siano. “Mi capita di avere diversi doppioni di alcune statue”. Nella realtà – informa Perrone - la processione del Santo è accompagnata da tutte le confraternite dell’arcidiocesi di Taranto; nella mia, soltanto da quelle di San Domenico e del Carmine, perché non posseggo le altre”. E mi sottopone un video prodotto nella sua abitazione, seguito dalle note della marcia sinfonica “Mosè” di Rossini, che accresce l’atmosfera e l’emozione di chi l’osserva. “E’ il mio modo di onorare San Cataldo nel periodo del coronavirus, che ha mutato lo svolgimento delle nostre tradizioni, compresa la Settimana Santa”. Lo dice con rammarico, anche perché il suo terzo nome è Cataldo, da quello del bisnonno, nato nell’800. Provo rammarico anch’io nel vedere nel filmato una statuetta del Santo portata per mare su un’imbarcazione della Guardia Costiera con la sola presenza dell’arcivescovo e dell’equipaggio. Quel filmato l’ho visto e rivisto più volte, ascoltando la preghiera del prelato mentre lo scafo attraversava il canale navigabile diretto a Mar Grande, dopo il lancio in acqua di una corona, nel tratto vicino alla discesa Vasto. “Luigi, sei devoto di San Cataldo?”. “Certo. Tra l’altro io mi chiamo come lui”. Sempre misurato, spontaneo, Luigi, intelligente, colto, gentile, simpatico, disponibile. Quando la conversazione era agli sgoccioli, ho pensato ai numerosi attrezzi agricoli sistemati nei saloni del museo della civiltà contadina, nella masseria Lupoli, e descritti in un libro confezionato dal padre di Luigi, Edmondo, con dettagliate didascalie: quasi una storia; e alla struttura della masseria, ai suoi tetti, a un vecchio carretto parcheggiato in un angolo dell’ampio cortile, che fece resuscitare la mia adolescenza. Un luogo tenuto con cura e con amore, come dice anche il direttore di “Minerva News” Michele Annese, a dispetto del tempo che fugge.








mercoledì 13 maggio 2020

Com’erano una volta le Tre Carrare

Via Nettuno angolo via D'Alò Alfieri


ABITAVO IN VIA NETTUNO

TRANQUILLA E SILENZIOSA

Conoscevo proprio tutti gli abitanti:
da “Segarone”, sempre con un “siluro”
tra le labbra, a “Menza meròdde, alta
un metro e cinquanta, alla “contessa”,
moglie di un vetturino. “Mest Fiorènze”
aveva la falegnameria nell’androne del
suo stabile; “mest’Andonie” in un locale
di fianco. Oggi la strada ha cambiato faccia.





Franco Presicci

Via Nettuno, a Taranto, una volta era periferia: a un centinaio di metri dall’orto di mèsta Rònze, dove mia madre mi mandava ad acquistare “’a gnète” (la bietola). Chi aveva voglia di spingersi più in là ”, poteva ammirare ”’a ‘ngègne, la noria, congegno mosso da un cavallo bendato e usato per sollevare l’acqua dal pozzo. Era collocata al centro di un altro orto, quello del signor Capone, un uomo alto, massiccio, rispettoso.

Istituto  Augusto Righi
Io ero un moccioso, quindi curioso di tutto ciò che c’era o avveniva in quel piccolo mondo antico: fa parte di un libro scritto nella mia memoria, dove spiccano, nonostante i 74 anni trascorsi, fatti e personaggi. La contessa, per esempio, bassina, un po’ in carne, socievole, abbigliamento ricercato. Nessuno sapeva se fosse davvero di nobile lignaggio (e a chi poteva interessare?), certo è che attorno a quel titolo ronzavano vespe e zanzare, che non consideravano le autentiche virtù della persona.
Se chiudo gli occhi, e la nostalgia m’induce a farlo spesso, rivedo a uno a uno tutti gli abitanti, soprattutto don Damiano, titolare del tabacchino, che mi aveva incaricato di sorvegliare le ante della porta per impedire ai ragazzini discoli di farle sbattere, dopo aver contato fino a tre a voce bassa, spingendole con forza. Compenso, una caramella. Di fianco a questo negozio abitava una famiglia numerosa: sei figli, di cui due maschi.

Via Nettuno
Margherita, la più bella. Il papà, che indossava sempre un borsalino scuro a tesa larga, aveva fatto parte della milizia per guadagnarsi il pane, ma non aveva mai procurato problemi a nessuno, anzi; e un tale, vantando idee, confuse e aggressive, opposte alle sue, lo bollava come fascista. Il pomeriggio alle 4 la moglie del brav’uomo si sedeva fuori del portone e parlava con chiunque vi si fermasse, specie Gilda, che abitava al secondo piano del palazzo di fronte e aveva un marito, Osvaldo, che pur avendo fatto soltanto un paio d’anni alla scuola per ragionieri insegnava, ottimamente, matematica a un ragazzo del liceo scientifico.
In questo androne aveva il banco il falegname “mèst Fiorènze”, che quando piallava o raspava riempiva il locale di “farfùgghie” e “serràzze” (sottilissime falde di legno espulse dalla feritoia dell’attrezzo e segatura). Ma siccome lui era il padrone dello stabile, nessuno protestava; a parte sua moglie Adelaide, che teneva molto alla pulizia. Quando mèst Fiorènze smetteva di lavorare, lasciava tutti gli strumenti in un angolo, e il giorno dopo li trovava tutti dove li aveva deposti.

Stabile di via Nettuno
Noi abitavamo al civico 10 e tra questo numero e quello del falegname c’era un localino in cui faticava ”mèst’Andònie”, il calzolaio con il deschetto, che quando si alzava rovesciava il contenitore dei chiodini (le “semenzelle”) e se la prendeva con il mondo intero: gli urli arrivavano fino alle scuole elementari Acanfora, in via Dante, perpendicolare di via Nettuno. Per me nutriva un’antipatia speciale: quando il nonno mi spediva da lui con un paio di scarpe da risuolare, mi trattava con modi bruschi, se non bellicosi. Il motivo derivava dal fatto che tempo addietro quattro o cinque ragazzi irrequieti gli avevano fatto uno scherzo consegnandogli un fagottino che avvolgeva non scarpe ma pietre. Giuro: ero innocente, ma tutto ciò che accadeva nella strada era colpa mia, perché avevo i capelli ricci, mi chiamavano “rezzetjìdde” ed era facile individuarmi. “Ci hà’ stàte?”. “”U rezzetijdde”, e andavano a protestare dal mio vecchietto, che era un bell’uomo, aveva i baffetti bianchi ed era elegante, oltre che comprensivo e intelligente.

La Chiesa del Sacro Cuore
Una volta ero colpevole davvero: detti un calcio a un cavolo di cappuccio caduto da qualche borsa della spesa, mandando in frantumi il vetro di una finestra; ma la feci franca. Pensai che il mio santo in paradiso qualche volta si svegliasse.
Nel quartiere,le Tre Carrare, tutti conoscevano la signora Magenga, che abitava al primo piano del numero 16. Faceva le iniezioni con mano leggera; e se qualcuno aveva un foruncolo ricorreva a lei anche di notte. Invano ho cercato di ricordare il nome della levatrice che mi fece venire al mondo. Era piccolina, ormai un po’ ricurva e di poche parole. Non ci siamo mai parlati; la vedevo passare sempre con la sua borsa in mano, a passo svelto. Ho in mente un nome: Vestita, ma era lei o una mia maestra della prima elementare che passò come una meteora? Al 12 si apriva il negozio di articoli elettrici di Quatraro, il cui figlio, Gennarino, alla maggiore età, si dedicò anche lui a riduttori di corrente, voltimetri e lampadine. Dirimpetto stava il palazzo dei Belloni, il cui nipote diventò un maestro del violino.

Scuola Acanfora
I nomignoli si sprecavano. Una donna gentile, premurosa, sui cinquanta, era “Mènza meròdde” a causa dell’altezza (un metro e cinquanta); un’altra “Cap’a ‘na còste”, per via del collo appena appena reclinato a sinistra; un fumatore benestante, panciuto, aria da padrone del vapore, sempre con un “siluro” tra le labbra: “Segaròne”… A ribattezzare le persone erano due chiacchierone che dopo le 5 si affacciavano al balcone, al primo piano, e osservavano i passanti. Se una ragazza usciva verso le 21 con il fidanzato, fioriva il commento: “Chissà dove va quella a quest’ora?”. Quando rincasava, un paio d’ore dopo: “Bah, ci sàpe?. ‘A màmme, nìende dice?”. Una specie di damigiana anzianotta che parlava seminando dicerie era “Lènga lònghe”; un trentenne sempre pronto alla burla, “Cegghiòne”i… La signora Gina, alta, capillare, faccia angolosa, tacchi alti, sedicente sosia della Lollobrigida, sapientona senza succo, era “’a Grannezzòse”. Insomma, ce n’era per tutti. “Uèlìne” (forse il diminutivo di Emanuele) era uno dai modi sbrigativi, pane al pane e vino al vino, sempre calmo e prudente: un birbantello con una pallonata gli ruppe un vetro, lui andò dal padre e gli presentò il conto senza fiatare. In strada si faceva vedere pochissimo e per gli altri era in clausura.

Piazza Messapia

Statua della Madonna in piazza Messapia





















Il marciapiede di fronte alle persiane della nonna era molto largo e in terra battuta: il luogo ideale per giocare alla “livoria”, allora molto diffusa in ogni quartiere, e anche nella città vecchia: occorrevano due sfere d’acciaio (ricavate dai cuscinetti dei camion americani), due palette che le spingevano, perché non si dovevano mai toccare con le mani, e un cerchio di ferro sostenuto da una sorta di chiodo che si conficcava nel terreno: per realizzare il punto le sfere dovevano attraversare il cerchio, che in dialetto era “’a scìgghie”.


Se la palla di uno dei giocatori si trovava verso “’a menàte” (la linea dalla quale partiva il gioco), l’altro con la propria poteva fare due punti se riusciva a colpirla. Ma doveva dire: “Cape, ce mandène jè fàtte”. Senza volermi dare le arie, io in questo gioco ero abbastanza bravo. Altri passatempi, “’u spezzìdde” (la lippa), praticato anche a Milano in piazza della Vetra; “’u turnìedde”, che si faceva con un cerchio segnato per terra... Spesso da via Dante sbucava “’u ‘nghiappacane” “c’u chiàppe e ‘a carrettèlle” e tutti noi ragazzi ci davamo da fare per salvare l’amico “vagabondo”, facendo sbarramento attorno a lui.
In occasione delle feste, in piazza Marconi (cinque o sei isolati da via Nettuno), sede del mercato, separato da via Dante da “’u mònde de le vàcche”, dove adesso c’è l’ospedale Santissima Annunziata, s’innalzava l’albero della cuccagna: la gente arrivava dappertutto per vedere i giovanotti che si affannavano per guadagnare la cima, da cui pendevano salsicce, provoloni, bottiglie di vino, e quello che arrivava all’ultimo momento, si inerpicava senza molta difficoltà e arraffava il ben di Dio.

Via Nettuno
Io dicevo che era un’ingiustizia con quell’asso pigliatutto che scavalcava gli altri. Ci sono voluti anni per sentirmi spiegare che era tutto organizzato (i primi, salendo e scivolando, dovevano solo togliere il grasso dal palo, agevolando la scalata del… vincitore). Poi il mercato si è trasferito alla caserma Fadini, in via Leonida, nei pressi dell’Arsenale, e per comperare arance, verdura e “lambasciùne” bisogna passare attraverso corridoi di auto rumorose e a volte prepotenti.
Le Tre Carrare non sono più periferia, non finiscono più in via Giovan Giovine. Via Nettuno, pur conservando un’atmosfera popolare, ha visto abbattere modesti caseggiati e costruire palazzi di cinque o sei piani. In via Dante, dopo via Giovan Giovine, la campagna è scomparsa sotto edifici moderni, come i Beni Stabili, poco prima di viale Magna Grecia, che allora era una prateria (la prima costruzione fu la clinica Vestita), dove ogni tanto passava una bicicletta.

Via Nettuno
Via Nettuno la ripercorro a piedi nelle mie brevi rimpatriate, attraversando piazza Messapia, oggi alberata e dominata dalla statua della Madonna e proseguendo fin dove una volta la strada era troncata dai campi, poi fagocitati dalla caserma dei vigili del fuoco. Tornando sui miei passi, appostandomi sulla soglia del civico 10, rivedo, sull’angolo con via Dalò Alfieri la salumeria “d’a francaveddèse”, da noi frequentata per comperare l’olio; il negozio di Quatraro (la signora sulla soglia ad intrecciare discorsi con chi andava o veniva dalla piazza); la piccola casa recintata della famigliola il cui figlio amava il “tip tap” e mostrava a tutti le scarpe con le placchette metalliche… E rivedo “Bbecchemmuse”, lo spilungone a cui colava sempre il naso; la famigliola che gli impertinenti chiamavano “Brutos”, dall’insegna del complesso musicale noto negli anni Sessanta; Rocco, un ragazzo d’oro, magro come un fuscello, malaticcio, che in un baleno faceva le divisioni, le somme, le sottrazioni, le moltiplicazioni e le radici quadrate più complicate, senza toccare carta e penna.
La “mia” via Nettuno non c’è più. Come non c’è più viale Venezia, allora una prateria e oggi con il nome di viale Magna Grecia è ricca di giganti di cemento, tra baccano e confusione. Ah, ricordo il vecchio che mi raccontò della “Mano Nera” che secondo lui usciva a mezzanotte dalle parti di “mèsta Rònce”. Certamente una balla o una credenza popolare: Taranto non era New York, dove la “Mano Nera” c’era veramente, combattuta nei primi del ‘900 dal più famoso poliziotto della Grande Mela Giuseppe Petrosino.





mercoledì 6 maggio 2020

Un dentista appassionato di fotografia


 


CATTURA GLI ANGOLI PIU’ SUGGESTIVI

E I PERSONAGGI PIU’ NOTI DI MILANO


Il dottor Peppino Bruno cominciò ad
esplorare la città da quando, ragazzo,
accompagnava la mamma a fare la
spesa al Verziere. Prima foto due gocce
d’acqua appese ad un filo spinato. 



(Foto di Peppino BRUNO)











Franco Presicci

Milano è una città fotogenica e c’è chi l’ha percorsa in lungo e in largo per riprenderla; ha attraversato le sue vie e le piazze storiche (Bigli, Moroni, Belgioioso, Borgospesso, Lanzone …); si è fermato davanti ai suoi monumenti; è entrato nei suoi cortili prestigiosi, sorvegliati da persone spesso cipigliose, e puntando l’obiettivo ha provato una vera emozione. Ho conosciuto la presidente di un’alta corte che se ne andava in giro con una piccola macchina fotografica a caccia di immagini e di personaggi particolari.
Pirellone
Il mio amico Peppino Bruno, medico dentista con studio in via Lorenteggio, angolo piazza Bolivar, uomo colto, simpatico, spiritoso, nelle ore libere dal lavoro, a piedi o in sella alla bicicletta, percorre la città e ne scopre gli aspetti più suggestivi, “rientrando a casa con una soddisfazione che non puoi immaginare”. Non solo le strade, ma anche l’interno delle chiese, le facciate dei palazzi patrizzi, le strutture ultramoderne come quelle di piazza Gae Aulenti, le stazioni ferroviarie, le masse che intasano Milano il Primo Maggio, il XXV Aprile… E le gallerie d’arte in occasione di una grande mostra. E le Stramilano, la maratona dei cinquantamila, dove di scatti se ne possono fare a josa, soprattutto a concorrenti stravaganti immersi in quel fiume umano, che per mezza giornata porto allegria, applaudito da migliaia di spettatori attestati sui marciapiedi. Peppino Bruno la sua Milano non so dove la tenga ben custodita, ma qualche giorno prima che quel maledetto cecchino che chiamano “coronavirus” cominciasse a colpire tanta gente, me ne ha mostrato una parte soffermandosi su ogni veduta senza fare commenti. Era evidente la sua gelosia per questi suoi preziosi rettangoli di carta. Certo che per dedicare tante ore a questi scatti, che immortalano luoghi che possono cambiare; e infatti tanti, come le Varesine, la faccia l’hanno mutata: erano un ampio spazio che ospitava circhi come quelli di Liana o Moira Orfei e grandi giostre e oggi è sotterrato sotto grattacieli dalle  forme ardite.
     
Porta Venezia
Le foto di Milano, di ieri e di oggi, di Peppino Bruno sono testimonianze di grande valore, oltre che opere d’arte. Sfogliando i suoi album intercettiamo il ristorante Bagutta nell’omonima via - che ospita anche la mostra annuale “en plein air” – dove la sera dell’11 novembre del ’26 Orio Vergani ed altri dieci ebbe l’idea di istituire un Premio, che negli anni è stato assegnato a Vincenzo Cardarelli, Giovanni Titta Rosa, Leonida Repaci. Carlo Emilio Gadda, Mario Soldati… “Ci andai per la presentazione di un libro, che si svolgeva nel giardino del locale, presenti Gae Aulenti, il critico d’arte Philippe Daverio ed altre personalità. In un’altra occasione fotografai la mostra di quadri “en plein air”, presieduta da Aldo Cortina, pittore delicato che aveva avuto come allievo De Pisic e titolare di una grande libreria davanti all’Università Statale. Ecco “el Tencitt”, il carbonaio con negozio in via Laghetto (sotterrato nel 1857, fu l’approdo dei barconi che trasportavano ogni sorta di merci, dai marmi di Candoglia per il Duomo al carbone).
Papa
Ed ecco la vecchia pasticceria Taveggia in via Visconti di Modrone, che, sorta nel 1909, fu frequentato da Wally Toscanini, Carla Fracci, Renata Tebaldi… Ed ecco il Savini, il Campari, il Biffi, l’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele… ”Peppino, c’è qualcuno che possa dire di conoscere Milano più di te?”. Non risponde, ma sorride. “So che hai anche conosciuto e fotografato tanti uomini di spicco: il baritono Giuseppe Zecchillo, che forse per ricambiare la cortesia di una foto ti regalò uno dei suoi quadri “cosmici” eseguiti con spaghetti, rigatoni, linguine indorati… “Sì, feci il ritratto a Zecchillo, che aveva lo studio in via Fiori Chiari e veniva detto il sindaco di Brera”. Quando per un incidente d’auto morì l’”antiquario” che ogni giorno si piazzava di fronte all’Accademia, Michele Lamantea, fu lui a invitare un violinista della Scala per suonare l’Ave Maria nella chiesa di San Marco. Lo amavano tutti, Michele, a Brera: arrivava il mattino verso le 10, apriva il suo negozio, che era un triciclo, si sedeva avendo in testa un cappello a cilindro e avaro di parole aspettava il cliente. Chiedo al mio cordialissimo interlocutore: “Lo hai fotografato, Lamantea”. “Certo che sì”. Mi sarei meravigliato, se mi avesse detto di no. Se si vuol fare un viaggio come si deve nella città del Porta, bisogna farsi accompagnare da lui. Un viaggio ideale, attraverso le sue immagini, che sono migliaia.
Bovisa
Ha conosciuto anche Guido Vergani, figlio di Orio e grande giornalista, oltre che scrittore elegante e persona di grande generosità. In “Gente di Brera” ha sintetizzato la storia del quartiere, descrivendo le personalità, da Salvatore Quasimodo a Gianni Dova, ad Aruro Carmassi, a Beniamino Dal Fabbro, a Giulio Confalonieri. che si sedettero ai tavoli del “Jamaica”, il caffè degli artisti. Ha conosciuto Angelo Merù, diventandone amico, il gioielliere di via Solferino. Era amico anche di Martini, che aveva il negozio di foto e ottica in via Galilei, di fronte alla vecchia sede de “La Gazzetta dello Sport” (altro amante della fotografia). Ha fotografato il ristorante Rigolo, in largo Treves, frequentato anche dai giornalisti del grande quotidiano e a suo tempo da Aldo Borrelli, che lo diresse da ’29 al ’43. Ha puntato l’obiettivo verso ciò che resta della Pusterla dei Fabbri, che venne demolita nel 1900. Ed emerge un’immagine di via De Amicis, precisamente dello stabile che fu una fabbrica di confetti, la cui facciata oggi presenta delle bambole appese, “per ricordare le vittime del femminicidio…
Via Torino
Dietro, una casa di ringhiera, che fu restaurata dall’ingegner Martino Colafemmina, nato ad Acquaviva delle Fonti”, tra l’altro una pasta d’uomo che a Milano era conosciuto e apprezzato. Le case di ringhiera sono un altro soggetto di questo eccellente fotografo. Ce ne sono tante, a Milano: in corso San Gottardo, l’Antico borgo dei formaggiai, in via Borsieri, all’Isola Garibaldi e anche nei pressi di piazza Belloveso, a Niguarda; sull’alzaia Naviglio Grande e sulla ripa. La gente stendeva un filo tra una balaustra e l’altra e vi stendeva i panni, ma soprattutto ci viveva in un clima di fratellanza e solidarietà. Peppino Bruno è nato a Milano, in piazza Medaglie d’oro. Ha cominciato a catturare immagini nel ’52, a Foppolo, in una giornata di pioggia: ad essere sorpresa proprio due gocce d’acqua che pendevano da un filo spinato. Un’altra foto può dare l’impressione di una riproduzione di un’opera di Mimmo Rotella, artista legato al Nouveau Realisme,; invece no: è ciò che resta su un muro dopo che questo maestro dell’immagine aveva fermato la mano di un addetto intercettato mentre grattava una bacheca. 
Feltrinelli
Torre Hadid
A trasmettergli l’arte fu il padre, funzionario del Credito Italiano di piazza Cordusio. Faceva foto con una vecchia Voiglander a lastra 6x9. “Ritraeva la nostra famiglia, i paesaggi, le prime Fiere campionarie. Tra le mie prime foto, un mulino a Chiaravalle. Oggi io fotografo Milano e le sue trasformazioni”. Mi piace ascoltarlo. Parla piano, chiaro e quando occorre con qualche bonaria battuta di spirito. Ha seguito un corso di fotografia con il maestro Ernesto Fantozzi. 

XXIV Maggio
Ha fatto alcuni reportages: uno sul quarantesimo di piazza Fontana. Fra i suoi clienti ha due vittime della strage. Se il soggetto gli interessa fa “clic” anche di notte. Fotografa quando ne sente il bisogno: il Duomo in “fisheye”; la Galleria Vittorio Emanuele da ogni lato; il nuovo grattacielo… E poi, ripeto, le persone note: Vito Liverani, dell’agenzia Omega; Giorgio Pastore, titolare del negozio Arzigozzovigleria”, che stava sul Naviglio Grande; Giorgio Streheler… Non lascia mai la macchina fotografica a casa, perché può sempre capitare l’occasione buona. Da ragazzo accompagnava la mamma a fare la spesa al vecchio verziere e lì sorprendeva i “verzeratt” e le persone che da loro acquistavano i pomodori e i carciofi. Si vede che ami Milano: “Questo sentimento lo esprimo attraverso le mie foto. Per farle, occorre scarpinare: ho trascorso serate a Brera per cogliere la gente a passeggio o seduta ai tavoli del Giamaica a chiacchierare; e il vecchio Lamantea che, seduto con espressione seria, le gambe accavallate tra i suoi lumi, i suo busti, i suoi “abat-jours”, sembrava una statua. “Milano è una città straordinaria: ogni angolo ha una caratteristica interessante per chi la vuole immortalare”. Di Milano Bruno adora i locali storici, i giardini, come quelli di via Palestro dedicati a Indro Montanelli… Ha bellissime foto dello zoo che stava in via Manin, entrata da piazza Cavour, con il lago dei cigni e il cavallino Rocky che portava a spasso i bambini tra i viali. Allo zoo fotografò l’elefantessa Bombay, che faceva l’equilibrista e quando riceveva in premio le caramelle dai mocciosi le scartava prima di mangiarle. E’ stato in tutto il mondo, sempre accompagnato dai suoi obiettivi. I suoi figli, Giacomo e Francesco, hanno ereditato la sua passione, dei viaggi e della fotografia.