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mercoledì 30 ottobre 2019

Viaggiare su rotaie è una gioia



IL FASCINO DEL TRENO ISPIRA

POETI, SCRITTORI E PITTORI

Foto Gabriele Lepore


La prima strada ferrata in Italia la Napoli-Portici.

Nel capoluogo lombardo già si susseguivano i progetti e nacque la Milano-Monza. 

La locomotiva a vapore
e il viaggio, organizzato dall’Aisaf, di “Un treno chiamato jazz” da Bari a
Martina Franca, nel 2015.







Franco Presicci
Ogni occasione per andare alla stazione ferroviaria per me è buona: amo vedere i convogli che arrivano, partono, la gente in attesa infastidita da un ritardo eccessivo, i bambini seduti sui bagagli che mangiano il panino contemplando i binari; chi proviene per la prima volta dal Sud ed è disorientato, perché al suo paese lo scalo non c’è o è piccolo quanto un plastico da modellismo. La stazione ha un suo fascino, suscita emozioni con ogni tipo di treno, vecchio o moderno. Mi attirava la locomotiva a vapore quando circolava e oggi, senza tradirla, avendo sempre nelle mie orecchie il suo fischio, quella con il muso affusolato come la carlinga di un aereo. La motrice che sbuffava è legata alla mia adolescenza: la prendevo per raggiungere da Taranto Martina, a far visita a uno zio che aveva la campagna sul Chiangaro. Gabriele Lepore, un giovane appassionato di ferrovie e trasporti, collaboratore per hobby di alcune testate del settore con articoli, video e foto (qualcuna l’ha generosamente concessa a noi), mi informa di un esemplare monumentato nella stazione Bari-Sud-Est, forse la più antica locomotiva a vapore originale preservata in Italia, data di nascita 1901, di fabbricazione belga, nome St. Leonard numero 6; e mi scatta la voglia di correre a vederla. 

L'orchestra del treno chiamato jazz a Martina F. (foto G.Lepore)
E’ stata in esercizio fino agli anni 60. Dalle mie parti la chiamavano “‘a Ciucculatère”, dal bricco che fischia mentre il caffè brontola. Ricordo l’eccezionale manifestazione, “Un treno chiamato jazz”, tragitto da Bari a Martina Franca, del primo agosto 2015 (seconda edizione 19 settembre), con orchestre che suonavano nei vagoni e una folla che aspettava sul marciapiede. A trainare il convoglio una motrice d’epoca, ma io mi aspettavo “’a Ciucculatère”. Comunque un grande avvenimento. Il treno è sogno. Non per niente tante persone appartenenti alle più diverse professioni creano plastici semplici o complicati, a uno o a più piani di circolazione. Mi hanno riferito di personaggi di spicco che trascorrono le ore libere a manovrare il treno in miniatura che si sono costruiti da sé con passione e competenza, dotandolo di uno scenario spettacolare. Incanta vedere il trenino attraversare ponti, gallerie, diramazioni, rispettando il linguaggio dei segnali. Certi modellisti riescono a riprodurre un’epoca con dovizia di particolari, con un’armonia di tanti elementi, compresi i sistemi di elettrificazione.

Vecchia locomotiva  St. Leonard numero 6 (foto G. Lepore)
Collezionismo a parte, il viaggio in treno è quasi una magia. Tra l’altro offre occasioni d’incontri, possibilità di comunicare. Ci si imbatte in chi ha voglia di confessarsi, di raccontare una delusione cocente, il naufragio di un amore; e chi non ha voglia di attaccare bottone, preferendo guardare il paesaggio dal finestrino o leggere il giornale o un libro di Umberto Eco; e chi se ne sta isolato con gli occhi chiusi, le braccia conserte, e tace magari ascoltando. Comunque, viaggiare in treno è entusiasmante. Nonostante le tante ore che occorrono per approdare a Taranto da Milano, scelgo il treno. Molti anni fa, nel capoluogo lombardo, appena messo piede in quella che si chiamava galleria del Transatlantico (perché aveva al centro una monumentale sagoma della Michelangelo, una delle regine del mare della Società “Italia” di navigazione”), provavo la gioia dell’inizio di un’avventura. Viaggiavo e viaggio di giorno per il piacere di vedere le cascine, le vie di campagna, le auto ferme al passaggio a livello, i campi coltivati, le case (qualcuna purtroppo diroccata), i trattori in movimento, gli alberi che scorrono a grande velocità. E poi il mare, vele, trabucchi, scafi, le onde che s’infrangono sulle rocce spumeggiando e si placano scivolando sulla rena. La velocità m’inebria. Scuote i ricordi. Ecco le prime corse in una carrozza di terza classe (soprannominata carro bestiame) tirata dalla “Ciucculatere” dalla bimare alla città in cui Guido Piovene ammirava il più bel barocco pugliese. 

Piattaforma girevole
Giunta a destinazione, scaricati i viaggiatori, il gigante di colore nero si sistemava sulla piattaforma girevole per cambiare il senso di marcia. Da allora sono passati circa 75 anni. Quella piattaforma è semisepolta sotto ciuffi d’erba, consentendo la vista di pezzi di lamiera arrugginita. Prima o poi la restaureranno – si dice – concedendola allo sguardo di tutti come testimonianza storica. La storia appunto. La prima strada ferrata in Italia, come molti sanno, fu la Napoli-Portici, doppio binario, 7,25 chilometri, battezzata il 26 settembre del 1839 e entrata in servizio il 4 ottobre (regnava Ferdinando II). L’avvenimento fece esultare tutta la città e fu segnato da un lieto evento: la figlia del capo dipartimento al ministero dell’Interno, Felice Cerillo, durante il viaggio di ritorno fu colta dai dolori del parto. Una curiosità: il re aveva vietato che sulle sue ferrovie si praticassero “pertusi”, cioè gallerie, nel timore che il buio facilitasse attività immorali. La rivoluzione nei trasporti non poteva prendere di sorpresa Milano, dove già da tempo si susseguivano le idee – informava Francesco Ogliari, docente universitario, autore di centinaia di volumi sull’argomento, già presidente del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano e creatore del Museo europeo dei trasporti all’aria aperta a Ranco. 

Un nuovo treno (foto di G. Lepore)
Nel 1838 la Holzhmmer di Bolzano ottenne la concessione per la “costruzione di una strada a rotaie di ferro dal capoluogo lombardo a Monza; nel ’39 il privilegio implicò una ditta viennese e il tratto ferroviario, lungo circa 13 chilometri a binario unico, fu terminato in pochi mesi. A tirare i vagoni la locomotiva a vapore “Lombardia”. Il viaggio inaugurale partì da Monza all’una del 17 agosto del 1840, con a bordo tra gli altri l’arciduca Ranieri, vicerè del Lombardo-Veneto, la consorte, i figli, il governatore generale, l’arcivescovo e la banda militare. Il convoglio, 40 chilometri all’ora, giunse 19 minuti dopo alla stazione di testa di Porta Nuova, a un passo dal Ponte delle Gabelle, applaudito freneticamente da una folla riunitasi per la grande novità. Poi ecco un secondo treno con la locomotiva “Milano”, e altra festa, altro delirio.

Ogliari nel suo studio milanese
Per gli esperti, e quindi per il professor Francesco Ogliari, uomo sensibile e generoso, la prima ferrovia davvero italiana era quella lombarda, studiata e disegnata dall’ingegnere meneghino Giulio Sarti, da tutti definito “un genio che volava all’avvenire”, consapevole dei notevoli passi, “ricchezza e prosperità commerciale” che il nuovo mezzo di comunicazione avrebbe consentito.

Il treno, principale innovazione del XIX secolo, accorciava le distanze, mutava la percezione del tempo e dello spazio. E stregava mentre attraversava sibilando la città con il suo carico umano. La prima stazione di Milano, a due piani, concepita in stile neoclassico, splendida facciata, realizzata su idea dello stesso Sarti, proprio quella di Porta Nuova, tra i viali Melchiorre Gioia e Monte Grappa. Fin dal suo annuncio accese polemiche a non finire, ma anche plausi e incoraggiamenti. I responsabili dell’impresa, certi dei loro progetti, non se ne curarono. 

Littorina

Il successo era inarrestabile. Nel 1841 vennero predisposti degli “omnibus” a cavalli per collegare il centro con Porta Nuova. I cittadini, molti dei quali andavano allo scalo per vedere il traffico dei treni e il loro uso anche qui della piattaforma girevole, apprezzavano anche il servizio, ritenendolo efficiente. L’anno successivo le linee furono più che raddoppiate. Gli “omnibus” vennero duplicati quando entrò in funzione la Milano-Treviglio.
A quel tempo Milano vantava 200 mila abitanti, di cui 1270 si servivano ogni giorno del treno. A dire il vero il viaggio non era confortevole, anche per i sedili poco imbottiti. In seconda classe si stava in piedi e all’aperto. Per prevenire gli inconvenienti, sempre possibili durante il tragitto, prima dell’orario programmato le motrici facevano qualche piccolo giro di prova: una volta accertato che la macchina era in buona salute, veniva collegata con le carrozze. I milanesi, come accennato, erano affascinati dal treno. Si eccitavano quando vedevano sbucare le locomotive e le loro tre carrozze., Era uno spettacolo straordinario. Sino ad allora in città transitavano soltanto le diligenze, quasi tipo Far West, alcune delle quali adibite a servizio postale. Un medico, Giovanni Raiberti, mise in versi l’ardore della gente: “su la strada a spasseggià per vedè la gran Macchina a passà…”. 

Il treno corre verso Crispiano
Ancora oggi sono tanti quelli che all’aereo preferiscono il treno, che è anche libertà. Scrittori e poeti lo hanno cantato, il treno. “I treni sognano nella rugiada in fondo alle stazioni/ Sognano ore poi stridono e s’incamminano… Amo i treni bagnati che passano nei campi/ questi lunghi convogli di merci che frusciano…Oh, vagoni spenti sonanti di respiri! Palpito di lumi velati d’azzurro… Il treno che c’incrocia e ci dice che soffre…”. Così Henry Bataille.  Eugenio Montale: “Addii, fischi nel buio, colpi di tosse/ e sportelli abbassati. E’ l’ora. Forse/ gli automi hanno ragione. Come appaiono/ dai corridoi mutati…”. E Alfredo Panzini, nel suo "Viaggio di un povero letterato" del 1919: "Approfittiamo allora del treno. Questo gran mezzo di locomozione può fornire notevoli illusioni e benefici". Alla domanda sul luogo da lui prediletto per scrivere lo scrittore Alexander Chee ha risposto: “Il treno”.
In treno si corre, una volta si ballava, c’erano e ci sono tante distrazioni (l’incaricato che ti chiede di mostrare il biglietto, il bibitaro che ti propone il caffè o l’aranciata, il viaggiatore che ti chiede che mestiere fai o dove sei diretto…). Sono soltanto momenti. Il treno ha ispirato anche i pittori. E’ un tema ricorrente tra i futuristi. Il treno è un simbolo di progresso.



mercoledì 23 ottobre 2019

La prestigiosissima sartoria Brancato


UN LABORATORIO PER I COSTUMI DI SCENA

PER I TEATRI PIU’ PRESTIGIOSI DEL MONDO 



Laboratorio Brancato
Ha confezionato e confeziona i costumi per
i più celebri artisti; per il Piccolo di Milano e
per la Scala, per i giapponesi, per Keita Asari,
l’esimio maestro-regista, presidente della più
famosa Compagnia di musical dell’Oriente.
Per Luciano Damiani gli abiti per il “Passator
cortese”. A fondare l’”atelier” negli anni 60
è stata Eufemia Borraccia.






Franco Presicci


Uno degli incontri più interessanti rimasto limpido nella mia memoria è quello con Mario Brancato, dell’omonima sartoria produttrice dei costumi per i teatri più prestigiosi. La nostra conversazione ebbe inizio con un dato biografico, che sottintendeva un chiarimento: “Mio padre nacque il 24 maggio del 1915, il giorno dell’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria. La notizia del conflitto destò in tutti molta preoccupazione, e al Comune, per la confusione, scrissero il cognome con la ‘i’ anziché con la ‘o’”. Quindi sperai di non scivolare sulle vocali, visto che parlavo di una sartoria teatrale importantissima e famosa in tutto il mondo. Annotai dunque il nome tutto maiuscolo e lo rilessi, mentre Brancato continuava: “Grande sarto da uomo, papà entrò nel Savoia Cavalleria con base a Pinerolo, venne fatto prigioniero dagli alleati e vestì Eisenhower. Ma non volle mai saperne della sartoria teatrale.

Luisa Spinatelli e Eufemia Borraccia
Via Rovello




















Mia madre, Eufemia Borraccia, in via Clerici, nelle ore libere, modellava abiti in casa per sé e per le colleghe”. Un giorno a Eufemia si presentò Nina Vinchi, segretaria generale del Piccolo e futura moglie di Paolo Grassi, che, orgoglio di Martina Franca (dove era nato il papà), aveva fondato con Giorgio Strehler il Teatro di via Rovello.
Abitava nello stesso stabile dei Brancato, in via Ugo Foscolo 3, e commissionò un vestito di scena per l’attrice Diana Torrieri (donna gentile, dolce, facile al dialogo, poetessa, che conobbi durante un viaggio sulla “Michelangelo”, un gioiello del mare), impegnata al Sant’Erasmo, un palcoscenico da tempo scomparso. Era il 6 settembre del 2006, quando bussai nella Sartoria per apprenderne la storia. 

Mario Brancato
Mario indossava una polo rossa e aveva il viso incorniciato da barba e baffi ben curati. Parlava con pacatezza e misurava ogni parola. Affabile, un sorriso comunicativo: “Mia mamma, che oggi ha 87 anni, cominciò a lavorare nella sartoria del “Piccolo”, che non aveva orari, quindi, nei primi anni della mia vita, dal ’56 al ’60, l’ho vista molto poco. Si era dimessa dalla banca in cui lavorava e aveva interrotto l’attività a domicilio. Nel ’61 si concesse una pausa di riflessione, mentre Luciano Damiani la incaricava di creare i costumi per il ‘Passator cortese’, che andava in scena in teatro a Bologna. Ben 160 manufatti. Quindi bisognava creare una struttura”. E nacque la Sartoria. Che negli anni ha cambiato diverse sedi: prima in via Lesmi, poi in via Carrroccio, in via del Gonfalone, in via Ariberto, ma sempre nella zona di Porta Genova. Da vent’anni siamo in via Solari 11”. Una domanda: Quali sono i personaggi-chiave della Sartoria? “Giorgio Strehler, la Vinchi, con spettacoli di Brecht, capisaldi del ‘Piccolo’, con i nomi più celebri della scenografia, da Frigerio a Diamani. Abbiamo lavorato tanto con Maurizio Scaparro e i suoi spettacoli in tutta Italia. E con Carla Fracci, suo marito Beppe Menegatti. Gli abiti per i primi Arlecchino interpretati da Marcello Moretti e da Ferruccio Soleri li ha fatti mia mamma. E in questi anni per Soleri ne abbiamo confezionati tanti”. Anche altri sono stati imporranti per la Sartoria Brancato: la grande costumista milanese Luisa Spinatelli, tra l’altro docente a Brera; Ronald Pètit, per molti anni direttore del Balletto nazionale di Marsiglia; Amedeo Amodio, direttore dell’”Ater Balletto” dell’Emilia-Romagna; Keita Asari, l’esimio maestro regista, presidente della più famosa compagnia di musical dell’Oriente, la Shiki Theatrical Company di Tokio, che è stata l’inizio del rapporto della Sartoria Brancato con il teatro nipponico. “Una delle nostre caratteristiche è stata quella di essere molto aperti alle proposte dei costumisti affermati e non. Non ci siamo limitati ad operare sempre con gli stessi”. Gli chiesi qualche curiosità, e Mario Brancato non tardò ad esporne: “Ci è capitato di tutto: arrivare con i costumi del secondo atto appena calato il sipario sul primo; provare i costumi della Fracci nella sala d’attesa dell’aeroporto di Linate tra un volo e l’altro dell’eccelsa danzatrice; vestire cantanti e ballerini chiamati all’ultimo momento per sostituire i titolari del ruolo indisposti…”. Momenti di “souspense”. In teatro può succedere di tutto. 

Piazza Missori
Era un piacere conversare con Mario Brancato, prodigo d’informazioni, di dettagli... In sartoria curava il ramo amministrativo, ma sapeva tutto sul resto. Descriveva le vicende della Casa senza lasciarsi andare all’enfasi. Era interessante, premuroso. Indovinava le domande e rispondeva senza esitazione. “Da anni abbiamo rapporti, oltre che con il “Piccolo”, con la Scala, con il ‘Maggio Fiorentino’…: E non possiamo dimenticare alcun particolare del lavoro svolto in un quarto di secolo con il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca (la ridente città pugliese ricca di case incappucciate, i trulli, di sole e di verde, vigneti e uliveti, di sassi sagomati dal tempo e di tratturi: n.d.a.). Grazie a questa rassegna, abbiamo conosciuto e apprezzato il valore di tanti costumisti che sono poi diventati insigni (il festival di Martina è anche un trampolino di lancio per cantanti, musicisti... e rappresenta ogni anno opere mai messe in scena nel nostro tempo: n.d.a.)”. Lo invitai a parlare del lavoro con la Fracci. “Molto impegnativo e gratificante, perché lei chiede molto a se stessa e agli altri. Lavorare con lei e con suo marito ha consentito negli anni ’70 alla nostra sartoria di accrescere notevolmente la propria esperienza teatrale”. E con i giapponesi? “Agli inizi, suggestionati anche da una certa pubblicistica, credevamo che fossero tutti precisini; poi abbiamo scoperto che anche loro sanno mettere in piedi, in tempi pazzeschi, eventi non programmati. Per molti aspetti sono simili a noi, e io li stimo. In Giappone abbiamo inaugurato parecchi teatri con le loro produzioni (per ogni produzione di musical, un nuovo spazio). Tra il ’98 e il ’99 con la geniale costumista Franca Squarciapino ed Ezio Frigerio abbiamo contribuito all’inaugurazione di tre teatri: il “Massimo” di Palermo con ‘Aida’; il Teatro del Liceu di Barcellona con ‘Turandot’ e il ‘Giorgio Strehler’ di Milano con ‘Così fan tutte’”. I prossimi impegni? “Stiamo collaborando alla realizzazione del “Falstaff” per la regia di Arnaud Bernard e i costumi di Carla Ricotti, che aprirà la stagione lirica del ‘San Carlo’ di Napoli e a tre balletti per il News National Theatre di Tokyo.

La Scala
Inoltre due splendidi eventi ai quali abbiamo dato un notevole contributo: ‘Sogno di una notte di mezza estate’ del Teatro alla Scala e ‘Arlecchino, servitore di due padroni’ del ‘Piccolo’ di Milano, rappresenteranno tra le altre iniziative il nostro paese per le celebrazioni di 2006, anno dell’Italia in Cina”. A proposito, ed Eufemia? “Venga, gliela presento”. Eccola nel laboratorio: piccola, un casco di capelli innevati, bella, cortese. “Sono onorato, signora”. Si sorprese, e riprese il lavoro. Mi venne voglia di inchinarmi. Come a volte mi accade di farlo davanti alle persone che hanno saputo costruire con genialità. Mi guardai attorno, osservai le assistenti, le stoffe sparse sui tavoli, il costume di scena di “Torino 2006”, salutai e tornai nel locale in cui avevo ascoltato i racconti di Mario Brancato. Tornai in via Solari pensando a Stefano Pelloni, detto il “Passator cortese”, per il mestiere di traghettatore che praticava avendolo ereditato dal padre, Girolamo, sul fiume Lamone. Pelloni, che era chiamato anche Malandri dal cognome della moglie di un suo antenato, fu un brigante spietato che scorrazzò in Romagna nella metà dell’800, considerato dalla povera gente il Robin Hood della loro terra. Giovanni Pascoli lo citò nella poesia “Romagna” (…il ‘Passator cortese’, re della strada, re della foresta… ”). Nato il 4 aprile del 1824 a Bagnacavallo, venne ucciso nel 1851 nelle vicinanze di Russi. Nel ’47 alla sua figura e alle sue imprese banditesche fu dedicato un film interpretato da Rossano Brazzi, con la regia di Duilio Coletti. Il traghettatore – al quale aveva accennato Mario Brancato - mi venne in mente pensando ai costumi eseguiti dalla sartoria per lo spettacolo ispirato dalla sua vita.




mercoledì 16 ottobre 2019

Bella e simpatica la cerbiatta della Valsoldese

Veronica vince un premio



E’ LA CAPITANA DELLA SQUADRA
LA GOLEADOR VERONICA SPANO’ 





E’ nata a Carlazzo ed è una speranza
del calcio femminile. A un torneo in
Svizzera è stata riconosciuta migliore
giocatrice. A Morbegno le è stato dato
il Premio come capocannoniera. Il suo
cuore batte per Marcello Pinchetti, un
gigante buono che gioca come portiere
in una formazione maschile.








Franco Presicci

Quando da bambina le regalavano una palla la prendeva a calci. E se c’era da qualche parte una porta, magari quella del garage, la lanciava dentro. Segno di una vocazione? Qualcuno ci aveva pensato. Qualche altro si era spinto più in là: “Questa bambina, bah, sento che diventerà una calciatrice”. Un’ipotesi che ad altri sembrava azzardata. Fattasi più grande, l’idea pareva essersi volatilizzata, perché nella zona in cui viveva, Carlazzo (un comune in provincia di Como che a suo tempo appartenne a quella di Milano), di squadre femminili non ce n’erano. E si amareggiava perché il fratello, Alessio, tre anni più grande, giocava, il papà, Stefano, faceva l’allenatore, e lei era costretta ad osservare.

Veronica durante l'intervista
Ma le donne di talento sono tenaci e volitive e Veronica si rifaceva allenandosi nella formazione del fratello, la Piano e Valli, del suo paese. Eccola, davanti a me a Laino, un altro gioiello del Comasco, Veronica, 23 anni, laurea breve in economia e commercio e prossima alla magistrale, con il suo fidanzato Marcello Pinchetti, impegnato nella cura dei giardini in questa località, Laino, splendida, a 700 metri d’altezza, affacciata sulle montagne. E’ bella, intelligente, spiritosa, un sorriso dolce e aperto. Risponde alle domande con prontezza, circostanziando, senza trascurare dettagli, senza ombra di enfasi. “Mio fratello poi ha cambiato squadra e non ho potuto più esercitarmi con lui; e mi sono iscritta alla pallavolo di Porlezza (venti minuti da Laino, baciata dal lago di Lugano e presente in “Piccolo mondo antico” di Fogazzaro: n.d.a.), dove ho giocato tre anni; e nel pomeriggio a calcio in un terreno sopra casa mia”. Era il calcio la sua passione. Avevano ragione i suoi profeti. Tra una pedata e all’altra pensava alla formazione di una squadra femminile e ha cominciato a chiedere se a qualcuna andasse di darle una mano a crearla. 

Battaglia sotto la porta
La squadra



















Poteva una come lei non riuscire a realizzare il progetto? Hanno anche trovato una società pronta ad appoggiarle, sempre a Porlezza, un paese-bomboniera, tranquillo, raccolto come Laino, con un lungolago meraviglioso.Nome della squadra, ovviamente: Porlezzese. “L’inizio non è stato facile, perché il gruppo era nuovo, l’esperienza pure, tante ragazze non avevano mai dato un calcio a un pallone, quindi l’impatto con il campionato non è stato positivo: siamo arrivate ultime”. Niente paura: dalle sconfitte si rinasce. E dopo un po’ di tempo alle ragazze di Carlazzo se ne sono aggiunte altre, il gruppo si è consolidato e le speranze anche.
Un allenamento
Veronica gioca da mediano, è la capitana della squadra.  E’ veloce come il giaguaro e vola come un colibrì per intercettare un pallone aereo. Non lo dice lei, non lo direbbe, ma chi l’ha applaudita in campo. Lei ha entusiasmo, passione, energia, ma non si vanta. Le hanno affibbiato un soprannome? “No, sono semplicemente la “cap”. E come cap, capitana, intervengo anche per sostenere una compagna in un momento critico dovuto a un errore…”. Con il tempo la formazione si è fortificata. “Per due anni abbiamo vinto il campionato. Abbiamo cambiato società: dalla Porlezzese siamo passate alla Valsoldese”. Hanno avuto le loro difficoltà e le hanno superate. Quali? “A volte ci sono capitati allenatori che prendevano il ruolo con disinvoltura: non con impegno, ma per passatempo”.
Hanno risolto anche questo problema. Si allenano due giorni alla settimana. Quando sono sull’erba per allenarsi, intente a sgambare, a provare equilibrismi con la palla, a trasformare un rigore, a costruire una barriera, sono gioiose. Durante le partite si scatenano: disegnano geometrie virtuose, violano le difese, pronte a rispondere alle insidie, a trovare varchi nelle muraglie, a compiere fraseggi ritmici. Danno spettacolo, animando gli spalti. Veronica, ripeto scherzando, non ha un nomignolo? “No, non ce l’ho”. Mi balugina un’idea: è una cerbiatta. Ha messo a segno qualche gol importante, dice lei. Ma chi l’ha vissuto lo definisce sensazionale. 

Una partita
Aggiunge che l’importanza di un gol dipende dall’avversario che hai di fronte, dalla compagine contro la quale giochi. Sminuisce, non ama vantarsi, ma per quei suoi gol i tifosi si sono alzati urlando, agitando le braccia. Le accolgono con esultanza, queste ragazze, ovunque scendano in campo: a Mornasco, a Cermenate, a Ponte Chiasso, una porta per il territorio elvetico. Sono note e apprezzate in tutto il Comasco e oltre. Naturalmente anche il nome della cerbiatta, al secolo Veronica, è esaltato. La cerbiatta della Valsoldese. Se sul terreno di gioco le sfugge qualche occasione, non intercetta una traiettoria, uno scatto, è una novità che stupisce. Glielo faccio osservare e mi risponde con un sorriso, che nasconde una domanda: “Chi glielo ha detto?”. Ma ecco un’altra chicca spuntare dal suo archivio mnemonico: Durante una partita è mancato il portiere e lei ha ricoperto quel ruolo. Beh, ha fatto una parata in “bagher”, “termine usato nella pallavolo”, m’informa. Insomma in campo Veronica è un’acrobata, svirgola, neutralizza gli attacchi, respinge, giocherella, inventa il gioco, duella. E’ un bolide. Non per niente ha vinto diversi premi: per due anni di seguito è stata riconosciuta migliore giocatrice a un torneo in Svizzera (a Rita San Vitale); poi a Origgio in un altro torneo e a un altro ancora, a Morbegno, le è stato assegnato il Premio come capocannoniere. 

Veronica e Marcello
E l’amore com’è spuntato? Tra una cannonata e l’altra? “Da cinque anni, con l’Associazione ‘Amici di ‘Gottro’ organizzo un torneo estivo di calcio a sei: stavo preparando la mia squadra e avevamo bisogno di un portiere. Ho incaricato un mio amico di cercarne uno e mi sono trovato di fronte Marcello”, un gigante buono, che gioca con slancio e capacità e lavora con lena e bravura. Pare non sia stato un colpo di fulmine, anche se lei ha tutte le doti per far crollare un uomo a prima vista. C’è voluto un po’ e alla fine sul campo da gioco il fiore è spuntato. Adesso sono inseparabili: il portiere e la capitana. Sull’argomento sia lei sia lui rispondono con monosillabi; e chi deve scrivere queste righe capisce che l’indagine deve limitarsi al calcio. Da aggiungere che questa ragazza che divide le sue giornate fra testi di economia e “dribbling”, è molto simpatica, decisa, concreta, gentile, fissa l’interlocutore negli occhi come fanno le persone schiette. No faccio fatica a ricevere le risposte che mi servono. 

Veronica a sinistra
La sua biografia è polposa. Marcello le sta di fianco e maneggia il telefonino. Ma ascolta senza darlo a vedere. Non interviene. Quando la parola spetta a lui depone l’aggeggio sul tavolo e dice: “Gioco, faccio il portiere”. Timido non è. E’ essenziale, succoso, ama la battuta, parla sottovoce. Veronica lo guarda sorridendo. Il gigante è paziente, cordiale, di poche parole. Non gli piace parlare di sé. D’altra parte la regina dell’intervista è Veronica. Ad agganciare il pallone che arriva come un razzo e a impedirgli di violare la rete è un asso. Me lo hanno riferito: lui non spiattellerebbe mai i suoi meriti. Mentre la salutavo pensavo al giudizio che pare abbia espresso nel lontano 1909 un giocatore di successo, mediano della Pro Vercelli, squadra all’epoca applaudita dappertutto: “Il calcio non è un gioco per signorine”. Un gioco per soli maschi? Soltanto perché in quel periodo le donne non trovavano spazio e forse non avevano neppure la voglia di prendere a pedate la sfera (le prime due squadre emersero nel ’46 a Trieste e non mostrarono tanta stoffa). Oggi quel calciatore o chi per lui si rimangerebbe la parola assistendo dalla tribuna alle trame geniali che le “signorine” tessono sul campo, dando vita a competizioni emozionanti. A dimostrarlo, la recente partita Italia-Bosnia, 2 a 0 a favore della prima. Una partita come quella ti esalta, ti emoziona. Impazzisci dalla gioia quando il pallone irrompe nella rete, spiazzando il portiere. Non spetta a chi scrive il compito del profeta. Ma un giorno Veronica Spanò assesterà le sue staffilate in una squadra nazionale, magari con la sua collega che i tifosi chiamano gazzella. O con qualche altra.




mercoledì 9 ottobre 2019

Un contadino vivace narratore


Don Oronzo

D’AVANTI A UN PUBBLICO COLTO

FLUIRONO I RICORDI DI DON ORONZO
Peppino e Francesco vendemmiano















                                                                
La serata si svolse nel cortile della casa
di Figazzano del pittore Filippo Alto. Era
il 1980. La gente arrivò da Bari, da Taranto,
da Brindisi. C’erano Giuseppe Giacovazzo,
direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”,
lo scrittore Giuseppe Francobandiera, il poeta
Egidio Pane…

 
Franco Presicci
Un pomeriggio dell’80 Filippo Alto, cantore della Puglia, mi fece una promessa: “Ti presenterò don Oronzo, un vecchio contadino acuto e spiritoso, bassino, dagli occhi vispi, che ha i trulli di fianco alla mia casa”. 
La casa di Alto a Figazzano
A Figazzano, frazione di Cisternino, una decina di chilometri da Martina Franca. “E’ un uomo bravissimo, serio, che affascina con i suoi racconti sulla vita n campagna di una volta. Per la verità era da tempo che volevo conoscerlo, visto che Filippo me ne parlava spesso e con amicizia. Ma ogni volta, se riuscivo a vederlo, era sempre impegnato in un lavoro o in un altro: un giorno a spingere una carriola colma di fascine, un’altra seduto su un cubo di legno a sagomare una pietra, forse destinata alla cuspide del trullo, con la sveltezza di uno scalpellino. Quindi un saluto con il braccio sventolato, una voce seguita dalla sua e via. Se non ricordo male, aveva 77 anni o poco più e ancora tanta energia anche se camminava un po’ incurvato. ”il lavoro è duro e la terra è bassa”, sentenzia un proverbio contadino. Fui contento quando Filippo si decise: “Andiamo a far visita a don Oronzo”. In quello stesso momento lui spuntò da un cancelletto in legno che chiudeva un passaggio che portava al suo campo ed esclamò: “Ah, ‘u prufessòre d’i quadri”. Gli squadernai un sorriso cordiale, lui mi strinse la mano senza profferire parola. Osservai i solchi del suo volto, testimoni di una lunga e dura fatica. Un cappello di paglia nascondeva i suoi capelli bianchi. 
Si torchia l'uva
Andava in campagna da quando era ragazzo e di colpi di zappa ne aveva dati; di vendemmie ne aveva fatte, pigiando poi l’uva con i piedi nudi nel palmento, dopo avervela trasportata con una bigoncia sulle spalle. Quanto pesa il lavoro nei campi, vero, don Oronzo? “Sì, non è come stare seduti dietro a un tavolo, ma ci si fa l’abitudine... Noi contadini abbiamo un padrone severo: il tempo. La pioggia disseta la terra, ma c’impone di rimanere a casa; la grandine bombarda i grappoli e annulla la sfacchinata. Si alzava all’alba e smetteva di lavorare al tramonto. Quando gli comunicai l’intenzione di scrivere un articolo sui suoi ricordi della vita nei campi in tempi lontani si stupì. Lo capii dall’espressione. Forse meditava sul detto: “Prima di parlare mastica le parole”, pensando che avrebbe dovuto prima raccogliere le idee e metterle in ordine. Era un uomo saggio, orgoglioso e non gli piaceva mettersi in mostra facendo racconti smozzicati di fatti, persone, situazioni frammentate nella memoria. Era scrupoloso, prudente. Gli dissi per incoraggiarlo che avevo partecipato a un paio di vendemmie: una quando ero ragazzo nella campagna di uno zio a Martina Franca e un’altra nel fondo di un altro zio a San Severo. “Ecco, guarda, porto ancora un segno della ferita che mi procurai con il cutter, mentre più che tagliare l’uva canticchiavo “Che bel volto che ha la campagnola, la campagnola che bel volto che ha….”. “’U prufessore lo sa che io sono di poche parole. E poi, “sind’a mmè’, io tengo più pratica che grammatica”. E’ la pratica che conta, don Oronzo. Sorrise.
Alto e il pittore Kodra
Rientrammo da Filippo, mentre riandavo a Giuseppe Cassieri, che considerava magica la Puglia e vedeva i trulli come birilli. E a Pietro Massimo Fumarola, che “In Valle d’Itria cicerone di me stesso” riferisce la frase del Tasso “Terra simile a sé l’abitator produce”. “Vedrai che prima o poi don Oronzo una conversazione con te la farà”. Quel giorno venne. Era un sabato. Dalla destra di don Oronzo dondolava un polzonetto, il paiolo, che di solito pende dalla gola del camino. Lo depose e mi venne incontro: “Ve l’ha detto ‘u prufessore ca possiamo fare quattro chiacchiere?”. Me lo aveva detto e ne ero felice. Amo li mondo contadino e conosco i sacrifici che i “cafoni”, come li chiama Tommaso Fiore in un suo famoso libro (“Il cafone all’inferno”), compiono per rendere fertile la zolla.
Vendemmia





Sono stato tra loro, a San Severo. E con loro ho condiviso la fame, ma sono stati giorni felici. Quindi alcune cose che don Oronzo mi riferì le conoscevo già, ma desideravo ascoltarle da lui, nel suo dialetto, che addirittura mi emozionava. Lo lasciai libero di spaziare, e ricordò i suoni e i balli sull’aia, con buone innaffiate di vino buono, per festeggiare matrimoni e altre ricorrenze o per concludere in allegria una giornata alla fine del parto della vigna. Lo strumento in voga era la fisarmonica, magari accompagnata dal mandolino e dal violino. Sull’aia, come anche tra le viti, fiorivano gli amori che potevano essere stagionali o duraturi. Data la mia propensione alla battuta di spirito e all’impertinenza, con cautela gli domandai se gli risultasse qualche toccatina estemporanea e furtiva tra i pampini. Non ammise e non negò. “Quella era un’altra vita.
Pierino Pavone Vendemmia
Si lavorava tanto, è vero, ma si era convinti di aver reso onore al Signore, che ci ha regalato la terra. La zappa pesava e gli altri attrezzi pure…. A casa si tornava stanchi e dopo la cena, a volte “fave e fogghie”, conversavamo davanti al camino o alla cucina monaca, dove si pregava anche… Allora i tratturi erano affollati. La gente abitava nelle ‘casedde’ e si riuniva in quelle vie erbose per confidarsi. Oggi è tutto diverso. I tratturi sono deserti e dove urlavano giocando i bambini passano le auto. Filippo intervenne: “Digli di quando doveva venire quel cantante per la ricorrenza della festa della Madonna”. “Ah, lui non poteva la domenica, il giorno in cui abbiamo sempre festeggiato la Santa, e disse di essere disponibile il lunedì. Alcuni erano d’accordo, ma io no. “E cume jè ‘stu fatte? ‘A Madonne mò add’aspettà ‘u candande?. Ma no jè cose. ‘A feste se fasce la domenica e basta; se no, io chiudo a chiave la porta della chiesa e la Madonna no jèsse. ‘Accùme dice ssegnerì, stu padre Cionfoli, cu respètte, conde cchiù d’a Madònne? Vulèsse sapè che avrebbero fatto a Cisternino, se si rimandava la festa dei Santi Quirico e Giulitta o a Triggiano quella della Madonna della Croce”. Non ricordo il seguito della diatriba.
Alto e il critico Sebastiano Grasso
Comunque in me crebbe la simpatia per don Oronzo. L’articolo uscì sul “Corriere del Giorno”, lui si offese perché gli avevo dato 80 anni, ma dopo qualche settimana mi regalò una bottiglia di vino, raccomandandomi di non rivelarlo a nessuno. Il critico d’arte Raffaele De Grada, che insegnava a Brera, era autore di una storia dell’arte in tre volumi e scriveva sulle pagine de “Il Corriere della Sera”, fu ospite di Filippo per una settimana. Raffaele era un uomo alla mano, amante della compagnia e una sera accettò volentieri di fare qualche ballo nel salone arredato con un vecchio telaio, un tavolo e un divano ad angolo, mentre don Oronzo, che il critico aveva preso a cuore, batteva le mani.
A Locorotondo






Fu un’occasione molto divertente, come lo erano di solito quelle organizzate dall’artista barese con studio a Milano e decine e decine di mostre personali e collettive in galleria importanti anche all’estero. Qualche mese dopo Filippo Alto ebbe l’idea di allestire una serata dedicata a questo vecchio contadino brioso e affabile, che si faceva subito voler bene. Tra gli invitati, giornalisti, professionisti, galleristi, un medico musicista, che si era esibito al pianoforte nello stesso cortile: amici (il padrone di casa ve aveva tantissimi) venuti da Bari, da Taranto, da Brindisi, da Locorotondo, da Alberobello. C’erano Giuseppe Giacovazzo, direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”; Giuseppe Francobandiera, scrittore e direttore del circolo Italsider, che aveva sede nella masseria Vaccarella nella bimare; la titolare di una galleria d’arte nel capoluogo pugliese; il poeta Egidio Pane… Don Oronzo prese il microfono e lo usò con disinvoltura, rispolverando tanti episodi, anche se un po’ sbiaditi dal trascorrere del tempo, e i presenti applaudirono, divertiti dal miscuglio di dialetto e italiano maccheronico di questo attore improvvisato che sapeva intrattenere un pubblico colto e interessato. Ho sempre avuto vivo il ricordo di quella serata. Quando Ada, moglie di Filippo, nell’agosto del ’91 mi chiese di presentare una mostra del marito in un elegante locale di Cisternino, tra gli ospiti notai Silvia e Michele Annese e cercai don Oronzo. Non c’era.







mercoledì 2 ottobre 2019

Le esperienze di Eusapia Paladino


NATA A MINERVINO MURGE, IN PUGLIA

SUSCITO’ INTERESSE FRA GLI SCIENZIATI


Si occuparono di lei i Premi Nobel Marie

e Pierre Curie, oltre a Paolo Valera, il

fertile narratore anarcoide testimone

della Milano umbertina, nato a Como

e morto a Milano.





Franco Presicci

Quando avevo undici o dodici anni in casa della nonna, dove la sera ci riunivamo anche con parenti vicini e lontani, capitava che si parlasse di fantasmi, di folletti e di sedute spiritiche. Quasi tutti ci credevano fermamente, anche perché a loro dire vi avevano partecipato. E raccontavano le loro esperienze, che a me e ai miei cugini incutevano un po’ di paura. Una sorella di mio zio fece una descrizione molto impressionante, in cui apparivano anime agitate, rabbiose per essere state disturbate, al punto da mandare all’aria il tavolo, abbastanza pesante, provocando un fuggi-fuggi verso la porta d’ingresso e le scale affrontate a precipizio, con la conseguenza che uno si fratturò un braccio. A me venivano i brividi e mi tenevo tappate le orecchie, pur credendo che si trattasse di canovacci preparati per suscitare “suspense” tra la compagnia o per vantarsi di avere coraggio. Una vecchietta sui settanta, grassoccia, bassa, vestita di nero, il naso pronunciato e con la punta rivolta all’insù, prese la parola con una certa determinazione, giurando di aver organizzato una seduta con un’amica addirittura nell’abitazione del fratello prete, che quando venne a saperlo s’incavolò di brutto, urlando: “Proprio in casa mia, questa profanazione! In casa di un sacerdote vi siete permesse di scomodare i defunti! Eppure lo sapete che cosa afferma in proposito la Chiesa… ‘Non riusciva a calmarsi e io me ne stavo in un angolo in assoluto silenzio, mentre la mia amica se ne andò a testa bassa senza salutare’. 
Hotel Gallia
Da allora non lo feci mai più, e il tavolino è rimasto monco al suo posto a testimonianza della mia colpa: la gamba mancante non l’ho più cercata, anche perché dopo un po’ mi sono sposata e sono andata via dalla casa di mio fratello e dallo stesso paese. Un’altra sera una signora sottile come un palo della luce, sempre di un un’eleganza ricercata, con atteggiamenti da persona superiore e la camminata da modella in pensione, lo sguardo feroce, i capelli tinti riconoscibili a distanza e grado di parentela non identificato, fece una narrazione più spaventosa: un mezzanotte, mentre tutti si tenevano per mano attorno al tavolo tondo in attesa trepidante dell’evento, si sentì un fragore, un fulmine schizzò oltre la finestra, un teschio cadde con un gran tonfo al centro della catena, che sii spezzò e ognuno cercò una via di scampo. Nessuno volle più condividere il programma. Troppo era stata la paura. Sentii dire di donne che invocavano un trapassato per le richieste più diverse e più assurde: chi curioso di sapere se il genero fosse fedele e chi se la nuora prossima all’altare fosse intonsa e chi notizie del marito passato ad altra vita.
Il naviglio grande
C’era chi sosteneva di essere stato esaudito da una voce d’oltretomba e chi il responso lo aveva avuto tramite uno scritto con una grafia frettolosa (“avevo deposto accanto a me foglietto e penna, ma non ho visto alcuna sagoma impegnata nella scrittura”, bensì ho avvertito un alito soffiarmi dietro la nuca). Un mio zio, persona concreta, incredula, diffidente, avendo ascoltato e riascoltato fino alla noia il racconto di queste pratiche, si era deciso a farne esperienza personale. Ma una volta fatta non volle mai riferire ad alcuno ciò che aveva visto e provato, perché, ipotizzava la nonna, ne era uscito talmente colpito che al solo ricordo stava male. Pare che un paio di mani invisibili l’avessero preso di petto e strattonato e che il tavolo avesse inseguito gli altri, che si catapultarono nel cortile dello stabile. Ma c’erano anche scene più tranquille, in cui l’anima invocata si presentava e dava la sua sentenza con parole strascicate o da Sibilla cumana o lasciando messaggi vergati su un pezzo di carta; e c’erano le volte in cui l’”invito” (“se ci sei batti un colpo”) andava a vuoto. 
La stazione Centrale
Qualche anno fa ho letto in un libro di Luigi Barzini la storia di Eusapia Paladino, che organizzava sedute spiritiche. Intervennero anche studiosi autorevolissimi, tra cui Pierre e Marie Curie (Maria Salonica Sklodowska, nata nel 1867 in Polonia e naturalizzata francese), Premio Nobel 1932 per la fisica, con il marito Pierre; riconoscimento ripetuto nel 1911 alla sola Marie (il marito era morto nel 1906) per la chimica (precisamente per la scoperta del radio e del polonio, nome, il secondo, che la scienziata scelse in onore del suo Paese d’origine). Vennero a Milano per verificare di persona quanto si andava dicendo sulla Paladino. Cesare Lombroso, che pure sull’argomento dello spiritismo era scettico, la citò in un libro. Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes, la encomiò. E si potrebbero aggiungere altri nomi illustri, chiamati a dare il loro verdetto: Robert Charles Richet, Nobel 1913 per la scoperta dell’anafilassi. Su Eusapia si formarono ben presto due schieramenti: da una parte chi credeva ciecamente ai suoi poteri; dall’altra gli increduli. Insomma fece parlare molto di sé. Nel 1895 affrontò la Society for Psychical Research a Cambridge, che espresse un giudizio severo: abile nei giochi di prestigio. Su di lei s’intrecciarono tanti racconti. 
Piazza Missori
Uno di questi fece fiorire la sua leggenda, sconfinata negli Stati Uniti e in altre parti del mondo. Alla morte del padre, ucciso sotto i suoi occhi da due malviventi quando era ancora giovinetta, venne affidata a una famiglia di benestanti napoletani usi alla pratica della cosiddetta evocazione dei morti. L’entrata di Eusapia in questo mondo avvenne per caso: una sera uno degli invitati non si presentò all’appuntamento e per completare la catena fu cooptata ilei, ancora ragazzina. Si disse poi che in quell’occasione per la prima volta erano comparse delle figure strane, si erano udite voci da oltretomba, il tavolino a tre gambe si era sollevato di qualche metro, altri oggetti avevano navigato nella stanza a mezz’aria, il buio era stato trafitto da luci innaturali. Lo “spettacolo” venne immediatamente attribuito a Eusapia. La notizia, si sparse ovunque e la “vox populi” scatenò un pellegrinaggio verso l’abitazione di quella che ormai veniva considerata una “medium” indiscutibile. 
Piazza Duomo
Personalità importanti raccomandavano di non prestare fede a certe manifestazioni, avvertendo che la mente umana a volte può giocare brutti scherzi. Qualcuno ricordava che in tenera età Eusapia si era fratturata il capo in una caduta, sottindendendo il sospetto che quella ferita fosse la causa dei suoi comportamenti. Altri riferivano di averla sorpresa ad architettare espedienti. In Europa non si parlava d’altro che di Eusapia Paladino e delle sue attività. Nota come la donna che aveva confidenza con gli spiriti. A quei tempi il fenomeno trovava terreno fertile: veniva esercitato nei salotti borghesi e negli ultimi anni dell’Ottocento arrivò nel capoluogo lombardo. Nel 1892 anche Eusapia Paladino approdò a Milano, attirando l’attenzione di Paolo Valera, dinamico esponente della Scapigliatura, anarchico e poi socialista, fondatore dei settimanali “La plebe”, “La farfalla” e nel 1901 “La folla”; autore di libri, tra cui “La Folla” dall’omonimo giornale, “Milano sconosciuta”, “Gli scamiciati”, ”Alla conquista del pane”; scrisse dei moti popolari repressi dal generale Bava Beccaris, e realizzò un’ analisi del sottoproletariato meneghino… Molto apprezzato da Emile Zola. Valera affermò che durante le sue riunioni la Paladino faceva accadere cose mirabolanti. Per lui, scomparso nel 1926, era una persona geniale, ma non molto intelligente e di scarsa cultura. Dunque Eusapia lasciò esterrefatta tantissime persone, anche non pochi intellettuali che precedentemente avevano deriso certe rappresentazioni. Fu in quel periodo che in città cominciarono a fluire truppe di indovini abili con tarocchi, fondi di caffè, palle di vetro…, ancora oggi in piena attività con filtri d’amore, fatture e quant’altro. Eusapia Paladino era nata in campagna a Minervino Murge, in Puglia, nel 1845. Aveva un carattere bizzarro e poca cortesia. Morì nel 1918, povera e senza più le presunte capacità che l’avevano resa famosa. Ma non è stata dimenticata, se in una puntata de “L’eredità”, il fortunato programma che conduceva su Raiuno, il presentatore Carlo Conti fece una domanda su di lei ai concorrenti., che non seppero però dare una risposta.