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mercoledì 22 febbraio 2023

Un ricordo di Franco Bompieri

Franco Bompieri

E’ ANDATO IN PENSIONE

IL BARBITONSORE SCRITTORE

 

Nel suo salone di via Morone

arrivavano Cuccia, Montanelli,

Bettiza, Calvi, Visconti, Gaber.

Mastroianni quando si trovava

a Milano, Montanelli, Romiti…

 

 

 

Franco Presicci 

Tellaro
 

Volta Mantovana è un paese di oltre 7mila abitanti a una quindicina di chilometri dal lago di Garda.
Ha un castello medioevale, Palazzo Gonzaga, del XV secolo, e la chiesa parrocchiale, dove venne battezzato Franco Bompieri, il famoso barbitonsore-scrittore dell’Antica Barbieria Colla di via Morone, a Milano.

Via Morone

Una via silenziosa e tranquilla di borgo antico che sbocca nella bellissima piazza Belgioioso, dove ancora echeggiano i passi cadenzati di Alessandro Manzoni, che aveva casa all’angolo,e le voci del salotto della famosa contessa ClaraMaffei.

Mario Soldati di Carmine La Fratta    

Ernesto Calindri

 

 

Fino a poco tempo fa sulla soglia della barbieria a volte si stagliava il

 

 

 

 

“comandante”, sorridente, le braccia conserte in attesa di uno dei suoi importanti clienti: Indro Montanelli, Gianni Brera, Cesare Romiti, Tronchetti Provera, Raffaele Mattioli, Ferruccio De Bortoli, due volte direttore del “Corriere della Sera”, Enzo Jannacci, Giuliano Gramigna, Adriano Olivetti, Roberto Calvi, Gad Lerner, Ernesto Calindri, Franco Zeffirelli, Enrico Cuccia, il “dominus” di Mediobanca, sede in via Filodrammatici, Carlo De Benedetti, Roberto Mazzotta, Luigi Visconti, duca di Grazzano, Luchino Visconti, il grande regista, Marcello Mastroianni, quando entrambi e tanti altri venivano a Milano, e il primo ci veniva spesso…. E una sera di settembre ’66, mentre stavano per chiudere la barbieria, si disegnò nel riquadro della porta d’ingresso la figura del principe Filippo di Edimburgo. Quando era ancora giovane Franco Bompieri fece la barba a Totò all’albergo Continental di via Manzoni. Enzo Bettiza, che dopo essersi fatto sbarbare cambiava ogni volta la camicia e la cravatta nella saletta riservata, un “gentleman” del giornalismo, gli scrisse una pagina intera su “La Stampa” degli Agnelli. Un pomeriggio Bettiza, penna d’oro del “Corriere”, alto, elegante, modi signorili, carismatico, seduto sulla poltrona girevole in attesa di essere insaponato, vide Bompieri deporre un vassoio sul bordo del lavandino. Mentre il grande giornalista si accingeva a prendere la tazzina di caffè, il vassoio cadde proprio sulla camicia e la macchiò. Bompieri sbiancò e l’altro, con molta calma: “Non c’è problema, tanto devo tornare a casa per cambiarmi d’abito per un appuntamento”. Io, seduto in un angolo all’ingresso, assistetti alla scena, mi alzai e mi presentai all’autore di “Via Solferino” e di altri libri, e rimasi di stucco di fronte alla cortesia del mito, che mi trattava come se fossi al suo livello.

Lalla Pedroni

Ora Bompieri è andato in pensione. E anche Lalla Pedroni, che per 39 anni è stata la preziosa collaboratrice del titolare dell’Antica Barbieria Colla, ha lasciato per lo stesso motivo via Morone, con tanta nostalgia. Bella, distinta, riservata, delicata, mai una parola di troppo, parla con affetto del barbiere-scrittore. “Era un padre per me. Uomo di gran cuore, altruista, umano. Era affezionato ai suoi lavoranti, li rispettava, li difendeva. Se uno di loro commetteva un errore, lui s’infuriava, ma poi la sera lo abbracciava: ‘Tu lo sai che ti voglio bene’. Lo fece con un giovane, bravissimo ma lento, il giorno in cui con un cliente era stato più lento del solito”. Ne avrebbe episodi da raccontare, Lalla. Ma mi dà l’impressione di temere di dire innocentemente qualcosa che possa risultare poco riguardoso per Franco, che aveva il rispetto, l’amicizia e la stima di tutti quelli che lo conoscevano. Moliti cittadini avevano soltanto sentito parlare di lui o avevano solo letto i suoi libri. Lo conobbi negli anni Settanta, quando uscì da Longanesi il suo “Il freddo nelle ossa”, recensito su “Il Giorno” da Marco Nozza, giornalista esemplare, esperto di terrorismo. Mi invitò subito a dargli del tu. Si comportò come se fossimo in confidenza chissà da quanto tempo. Lalla mi dice: “Non voglio che si parli di me. io devo restare in un cantuccio. Sono contenta che si parli di lui”. L’ho incontrata giorni fa, questa signora molto educata che non ama la ribalta. Devo incalzarla per farle ripercorrere i passi di un uomo che ha trascorso notti e notti a scrivere. Il suo “Arriva il principe”, poi presentato in un locale molto ben frequentato da personalità rilevanti (Natalia Aspesi, l’editore Scheiwiller, Il sindaco Carlo Tognoli, Enzo Jannacci … ).

Copertine
Pieghevole natalizio di Bompieri 
Il principe, in quelle pagine, doveva arrivare in una cittadina della terra di Sordello - il menestrello che per ammirazione abbraccia le ginocchia di Virgilio nel VII canto del Purgatorio - un certo giorno e a una certa ora; invece comparve con molte ore di ritardo, di notte, quando i cittadini erano già a letto, stanchi di tutti i preparativi e i restauri agli edifici e alle strade che avevano eseguito per fare bella figura. Grande, Bompieri. Era anche un uomo di compagnia. A Tellaro, dove ha una bella casa, giocava a carte con Mario Soldati, atro personaggio memorabile, di cui ho letto quasi tutti i libri e i racconti surreali su “Il Giorno”. Lo intervistai nel suo studio milanese, quando nel ’76 vinse il Premio Bagutta e non riuscivo quasi a seguire il ritmo delle sue risposte. Simpatico, amabile nel suo stile di scrittura e nei suoi modi, quel pomeriggio parlava con la velocità di una locomotiva a vapore. Ora che Franco Bompieri diserta il salone di via Morone (ha lasciato la conduzione alla figlia), mi capita di rileggere stralci della sua vita privata. “Sono partito dal mio paese, Volta Mantovana, il 20 settembre del 1949. Era domenica, avevo una valigia di legno tinta in color pelle e cinquemila lire in tasca. Tutto quello che mio padre poteva permettersi”. Aveva quindici anni e sei di lavoro alle spalle. “Facevo, come tuttora faccio, il barbiere nella migliore barbieria del paese…Milano mi faceva paura…”. Una sera lo accompagnò a casa in auto un amico e lui gli raccontò un po’ della sua storia. E allora l’amico gli consigliò di scriverla.

Giuliano Gramigna
Come accadde a Piero Chiara, al quale fu, se non ricordo male, Vittorio Sereni a suggerire di scrivere le storie che raccontava così bene a voce. Fu così che Franco Bombieri, abile con il pettino e il rasoio, lo diventò anche con la penna. “Dormiva poco – dice Lalla - e scriveva”. I suoi editori: prima Longanesi, poi Rizzoli, poi Scheiwiller, Feltrinelli, Sugarco, Mondadori. Io ho frequentato poco le barbierie. Da ragazzetto i miei capelli ricci per mia madre erano intoccabili. Da grande me li potava in casa qualche parente volenteroso, oggi me li cura mia moglie. In famiglia non ho avuto parenti sia pur lontani con i volti incorniciati da barba e baffi simili a quelle di Cavour, Freud o Carlo Marx. Soltanto nonno Francesco vantava baffetti alla David Niven. Io non ho mai avuto propensioni per l’onor del mento. Da Bompieri non mi sono mai seduto sulla poltrona girevole, nonostante gli inviti ripetuti. Non me la sentivo di accularmi sui soffici e comodissimi sedili di solito occupati da persone illustri. Ci andavo perché mi piaceva parlare con Franco, mi piaceva l’atmosfera del luogo, il silenzio quasi religioso che vi regnava. La Barbieria di via Morone non era un locale di simposio come nell’epoca alessandrina (e anche in tempi recenti in altri) o approdo di pettegolezzi. “Quando incontrai Franco in casa di suoi cugini io lavoravo a Lissone saltuariamente dopo aver fatto la scuola di estetica a Monza. E lui mi disse: ‘Se hai voglia, vieni a Milano’. Seguirono anni meravigliosi”. Batto sul chiodo: “Lalla, non vuole proprio strappare alla sua memoria qualche particolare carino?”. Eccolo: “Un giorno Alfio, un lavorante, dimenticando il carattere del banchiere Enrico Cuccia, che entrando scuciva appena un “Buongiorno” e poi un ”Grazie” appena percettibile (si faceva radere e sistemare i capelli nella saletta subito a sinistra rispetto all’entrata), gli chiese: “Dottore. Ho un gruzzoletto da parte, che cosa devo fare?”. “Se lo mangi”, fu la risposta secca. E Ranco? “Lui stava sempre in bottega. A mezzogiorno andava a mangiare qualcosina dal suo amico Paolo Brioschi, il titolare del ristorante “Boeucc (sorto nel 1686: n.d.l.).  Attualmente in bottega si faceva il pisolino”. Qualche volta schizzava il ritratto di qualche cliente, poi riportato in “Presi per i capelli” (Mondadori): “Non chiedetemi perchè, ma per me Enzo Bettiza è la reincarnazione di un principe russo. Me lo ricordo sin dai tempi in cui lavoravo alla barbieria dell’Hotel Continental.
Alto, bello, capelli corvini, indifferenza per il costo delle cose, veniva già considerato un giornalista eminente, specializzato in politica internazionale, in particolare dell’aria orientale…”. Per i capelli lo scrittore ha preso anche Emanuele Pivella. “Il più inglese dei miei clienti”. Lalla rompe i miei pensieri sulla bottega di via Morone: “Franco era molto attivo, andava alle mostre, dove osservava attentamente i quadri, incontrava gli amici pittori e a volte qualche cliente che aveva appena ‘curato’”. Qualche volta ho avuto la tentazione di fare un salto a Tellaro con mio figlio e la sua compagna, che ha lì una casa. Ci volevo andare per fare una sorpresa proprio a Franco, magari intercettato per strada, mentre si faceva una breve passeggiata salutare. Quanti ricordi di via Morone custodisco nella memoria. Il giorno in cui il mio direttore Giovanni Morandi mi chiese un articolo sui calendarietti dei barbieri, per esempio, una telefonata a Bompieri, un salto da lui ed ecco la storia di quei quadretti profumati che distribuivano i tonsori a Natale e alcuni esemplari con poesie stampate sulle pagine, i baci cinematografici, le guerre d’Africa, le gare ciclistiche… “Sono contento, un bel pezzo”, mi disse Giovanni, sporgendosi dalla scrivania impilata di libri. Ricordo il giorno della festa per i cent’anni del salone. Il Comune concesse la chiusura della strada per accogliere i vip. C’erano quasi tutti: Romiti, Tronchetti Provera, Jannacci, Gad Lerner… Durante la cerimonia venne consegnato il libro “Antica Barbieria Colla: 1904-2004”, di Franco Bompieri, che nelle prime righe scrive: “E’ motivo d’orgoglio poter festeggiare oggi quello che Guido Colla prima e Guido Mantovani poi hanno fatto per tenere alto il prestigio di questa bottega”.




mercoledì 15 febbraio 2023

Ibrahim Kodra, “un uomo di confine”

Kodra su uno degli ultimi barconi
UN ALBANESE CHE AMAVA

MILANO MA ANCHE PALERMO 

E POSITANO

 

Andava in giro dal centro ai navigli.

soprattutto a piedi, soffermandosi

davanti agli edifici storici e alle case

dei protagonisti della letteratura.

Era curioso, colto, affabile,

disponibile.

 

Franco Presicci

Sabato 7 febbraio 2006 ci lasciò Ibrahim Kodra. Sabato 11, dalle 10 alle 17, il grande pittore albanese è stato ricordato nella sua Casa-museo, in piazzale Lagosta 2, al sesto piano. Hanno preso la parola amici, pittori, professionisti, imprenditori, comuni cittadini, per i quali l’artista è ancora presente. Lo è anche per me, che gli fui molto vicino, scrivendo sui giornali e parlando di lui anche davanti alle telecamere, soprattutto a Telemontepenice, in varie occasioni, come la mostra del ceramista Giuseppe Rossicone in un’importante galleria di via Solferino, dove di solito esponeva Salvatore Fiume.

Casa-museo Kodra

Con Ibrahim, tantissimi anni fa, feci anche lunghe passeggiate per le strade di Milano, da piazzale Lagosta 2, dove abitava in un appartamento già usato da Antonio Ghiringhelli, sovrintendente alla Scala, a via Lanzone, via Caminadella, via Cesare Correnti, e lungo il Naviglio Grande. Facevo fatica a seguirlo: in gioventù era stato campione di lancio del disco nel suo Paese, l’Albania; aveva fatto tanta pratica sportiva; alla sua età conservava un fisico d‘atleta: e aveva ancora un passo da maratoneta. Ogni tanto qualcuno lo riconosceva e gli chiedeva l’autografo. Durante il percorso si mostrava interessato a tutto e osservava le tavolozze vegetali dei fruttivendoli; il pullman che arrivava alla fermata provocando ampi baffi d’acqua per la pioggia del mattino presto; il prete in clergyman che zoppicava per una scarpa orfana di un tacco; le sopravvivenze di edifici famosi, come la Pusterla dei Fabbri; un palazzo o una via storici; un luogo che era stato teatro di un avvenimento importante; un monumento: uno in particolare, quello di piazza della Scala impacchettato da Christo Javaceff... In viale Coni Zugna m’indicò addirittura il locale che aveva ospitato il negozio di dischi di Arturo Testa, il cantante di “Io sono il vento”. Era informatissimo. Chissà quante volte aveva fatto quei tragitti. Da solo. Amava sgambare per la città, non solo per tenersi in forma, ma anche per curiosare ed esplorare.

Palumbo e Kodra
In via Bigli una mattina entrò nel cortile della casa di Eugenio Montale, scambiò due parole con la custode, e in via Morone si fermò davanti allo stabile del salotto letterario della famosa contessa Clara Maffei (1814-1886), frequentato dai nomi più celebri dell’arte, della letteratura, della musica, dando un’occhiata all’Antica Barbieria Colla del tonsore-scrittore Franco Bompieri. Un passo dietro l’altro conversando. Io preferivo domandare e aspettare risposte. Ogni tanto Kodra rispolverava i tempi di Brera, del bar Giamaica, della latteria delle pie sorelle Pirovini, che nei primi anni della sua permanenza a Milano, quando non era abbastanza noto, quindi senza il mercato necessario per vivere, gli facevano credito, non respingendo neppure la coda dei suoi amici e colleghi, che caricavano il loro conto sul suo: Kodra, eroe della solidarietà e dell’amicizia vera. A Brera, all’epoca, conosceva tutti: pittori, scrittori, critici teatrali, cinematografici, musicali, come Giulio Confalonieri, che spesso attirava l’attenzione andando verso le osterie sottobraccio ai “clochard”, categoria sulla quale scrisse anche un libro, oggi quasi introvabile. Sentire parlare Kodra di Brera era piacevole e interessante per conoscere meglio l’uomo e la storia dei luoghi.

Bertuzzi

Sapeva creare l’atmosfera dell’epoca di Arturo Carmassi, di Tancredi Parmeggiani, di Pietro Cascella, di Luca Crippa, Pietro Manzoni, Lucio Fontana, Marco Valsecchi, Salvatore Quasimodo, Uliano Lucas… Gli anni ’50. “Adesso dobbiamo andare sul Naviglio Grande. Voglio ammirare il suo corso dal ‘pont de preja’”. Me lo disse con il suo solito tono pacato, confortante, da padre cappuccino. “Dobbiamo passare dal vicolo dei Lavandai, per salutare il pittore Guido Bertuzzi”. E appena fummo vicino alla tettoia - sotto la quale scorre il “ricciolino”, un rivolo d’acqua che fugge dal Ticinello (il Naviglio Grande) - da una scolaresca con due giovani e belle maestre impegnata a capire la città, si levò un coro: “Kodra, l’artista di Tirana!”. E lui si trovò al centro di una siepe umana improvvisamente agitata come scossa dal vento.

Naviglio grande

Il Naviglio Grande lo affascinava. Lui indicava tutti gli studi dei pittori: di Formenti, di Cottino, di Sarik, di Spampinato… Era attratto dai cortili fioriti, dai comignoli, dalla storia di quella strada liquida, come diceva il poeta Alfonso Gatto. A una festa del Naviglio, ai primi di giugno, ci andammo seguiti dalla “troupe” di Telemontepenice, un’antenna di Pavia. L’operatore lo invitò a salire su una chiatta, una delle ultime ad attraversare il canale fino alla darsena, e il grande Kodra accettò, salutato a gran voce dalla gente del Ticinello, pieno di fiori sull’alzaia, sulla Ripa e la voce di un barbapedana, cantastorie, che raccontava glorie e tragedie di quel posto, sempre presente nei libri dell’architetto Empio Malara, che tra l’altro aveva progettato un “bateau mouche” dalla linea elegante e moderna.

Rossicone, Kodra, Alto
Poi, la “troupe” ci lasciò per tornare in sede e noi due fagocitati dalla folla che si muoveva come i confratelli a Taranto alla processione dei Misteri, arrivammo fino alla chiesa di San Cristoforo, la superammo per imbucarci nel cortile del Centro Incisioni d’arte di Gigi Pedroli, grande acquafortista e cantautore. Io, quando nella moltitudine incollata si apriva un piccolo varco, sgattaiolavo lanciando lo sguardo alle bancarelle nella speranza di poter acquistare il vetro di un lume a petrolio (ah, il lume a petrolio che illuminava per quel che poteva il mio abecedario!). Fu Kodra, occhio di lince, ad intercettarne un paio fra altri oggetti datati su un banco coperto da un ombrellone grande quanto un paracadute. Avevamo già lasciato la “kermesse”, quando gli chiesi di raccontarmi qualche episodio fra i tanti capitatigli nei primi anni milanesi; e lui, che non si faceva mai pregare quando era coinvolto in questo argomento, cominciò a snocciolare, non perdendo di vista le curiosità che si succedevano sotto gli occhi in quel momento: “Una notte del dopoguerra. in via Ponte Seveso, due banditi dalla faccia feroce mi puntarono una pistola intimandomi di consegnare il denaro in mio possesso. ‘Il denaro? Perquisitemi e prendete tutto quello che trovate’. ‘Tiralo fuori tu!’. ‘Non ne ho, sto a stento in piedi per la fame che ho da due giorni’”. Recitò alla grande. Gli credettero e lasciandolo andare gli regalarono cinque lire.

Franco Di Bella e il sindaco Tognoli
Era bravo a narrare; e rispolverando le sue storie, rideva, divertito. Giunti in piazzale Lagosta, mi fece salire e mi regalò una raccolta di articoli sulla sua vita e sulla sua arte, pubblicata da Edizione d’arte “La Tela”, che proprio in questi giorni per affetto e simpatia ho riguardato. E ho riletto “Gli eremiti della pittura”, di Marco Valsecchi; “Sui muri di Ustica affreschi di Kodra”: un commento di Paul Eluard del ’47: “Kodra è il primitivo di una nuova civiltà”; ”Geometria diventa favola”, di Mario Lepore; “I nuovi disegni di Kodra: da acque e da vetrate salgono sfingi di gesso”, di Leonardo Vergani; “Kodra un uomo di confine”, di Vindice Ribichesu, “ibrahim kodra piktori me i madii shqiptar” di H. H. Oxhad… e due lunghissimi articoli miei, che cercavano di penetrare nell’anima del personaggio. Oltre a tanti brevi “pezzi” redatti in occasione di premi e di mostre come quella del ’72, collettiva in omaggio ad Aldo Carpi: quasi la storia di una vita. ”Ti do due copie, una consegnala a tuo figlio Gianluca, perchè la conservi assieme al ritratto che gli ho fatto”. “Quello è già in cornice”. Sorrise. Andavo a trovarlo un paio di volte la settimana. E se non mi vedeva arrivare, mi telefonava. Una sera lo invitai a cena a casa mia e per un po’ stette in silenzio. Poi i commensali lo sollecitarono e lui ridisegnò il giorno (non aveva forse nemmeno 20 anni), invitato a tenere un discorso, si schermì dicendo che non conosceva la nostra lingua; e poi, incalzato, parlò in albanese contando da uno a 100 (qualcuno dice 300), intervallando la numerazione con le uniche parole in italiano che sapeva: “duce”, “Mussolini”, “fascismo” e qualche altra, e fu sommerso da una valanga di applausi. Riusciva sempre a dominare il palcoscenico, e i presenti ne gioivano. Aveva un bagaglio di storie vissute da fare invidia e un modo di sciorinare alla Piero Chiara.

Chechele Iacubino
Poteva reggere una serata e non stancare l’uditorio. Raffaele De Grada, critico e storico dell’arte, lo stimolò anche in una delle riunioni della giuria al ristorante “La Porta Rossa” di Chechele e Nennella per la scelta del candidato al Premio Milano di Giornalismo, in un momento in cui si stavano accendendo polemiche arroventate. E così, anzichè all’una andammo a letto alle 3. Il più agguerrito era Paolo Mosca, che aveva appena pubblicato il suo libro “Il biondo”. “Pausa. Serve un bicchiere”, esclamò De Grada. E con il bicchiere si calmarono le voci. Ibrahim era il presidente della giuria del Premio. Lo avevano voluto tutti: Sebastiano Grasso, lo stesso De Grada, il pittore Filippo Alto, il gastronomo Vincenzo Buonassisi, Giuseppe Giacovazzo, Mario Oriani, Vincenzo Migneco, grande pittore anche lui, Edoardo Raspelli, che conduce su Canale 5 trasmissioni agresti notissime e apprezzate, Ugo Ronfani, Baldassarre Molossi, che arrivava da Parma, sempre puntuale. E durante la serata di consegna sedeva tra il vincitore e il sindaco Carlo Tognoli. Nella seconda edizione vennero premiati Franco Di Bella, direttore de “Il Corriere della Sera”, e Alberto Cavallari, allora corrispondente da Parigi della stessa testata di via Solferino. “Vie nuove”, nella rubrica curata da Davide Laiolo, molto tempo prima aveva titolato: “Un albanese per le strade di Milano.

Kodra in vicolo dei Lvandai
La semplice, tenace magia di Kodra rintraccia le scaglie luminose dei vecchi mosaici bizantini”. Statura media, sagoma possente, un volto fortemente espressivo, occhi color antracite, coppola in testa, spesso andava a sedersi al bar di via Pola, due passi da casa. E non riusciva a sorseggiare una tazza di caffè senza che qualcuno si fermasse per fargli domande, per salutarlo, per rivolgergli un sorriso o per sussurrare al vicino: “Hai notato? Quello è Kodra, l’artista dei totem, dei suonatori”. Era gentile, alla mano con tutti, parlava con chiunque lo interpellasse. Ibrahim era molto colto e al corrente anche dei fatti della vita quotidiana. Amava Milano e amava Sicilia, che lo ispirò in tanti quadri; amava Palermo e Positano; e la Puglia. Di lui hanno scritto in tanti: Guido Ballo, De Grada, Paul Raphael, Hans Kinkel, Mario Stefanile, Maurizio Chierici, Gualtieri Jacopetti… Osservando viale Zara (lunghissima quanto un’autostrada) dalla finestra del suo studio, sembra di essere al timone di un transatlantico). In quella stanza lui riceveva amici, conoscenti, galleristi, collezionisti, giornalisti, fotografi di quotidiani e settimanali, stando seduto su una sedia tra la scrivania e la libreria. Quando morì, nel 2006, una televisione albanese mi invitò a parlare di lui e davanti alle telecamere non riuscii a trattenere l’emozione. Lo stesso qualche altro che parlò dopo di me. Vicino a noi c’era Fatos, che adesso tiene vivo il nome del grande artista albanese anche attraverso un museo dedicato a lui. Nato nel ’18, si era trasferito a Milano nel ’38. Mi capita spesso di ripensare a Ibrahim Kodra: un amico, un fratello maggiore. Sabato scorso sono tornato nella sua casa per parlare di lui e lo vedevo seduto a quella scrivania.








mercoledì 8 febbraio 2023

Il “Mal di Galleria” di Giuseppe Marotta

Galleria
  

VIA COPERTA DOVE LA GENTE AMA  FARE SPENSIERATI “QUATER PASS”

 

Lo scrittore napoletano, che amava Milano,  le ha dedicato libri bellissimi, da 

“A Milano non fa freddo” a      “Le Milanesi”. 

Vinse il premio Bagutta, scrisse altri capolavori, come “L’oro di Napoli”, “Gli alunni del Sole”. 

Morì a Napoli, la città dei mandolini.

 

Franco Presicci

“Via Pallonetto a Santa Lucia, dà il nome a tutto il quartiere.  Pochissimi gli estranei, contrariamente agli altri vicoli di Napoli, affollati ormai di extracomunitari. Il Pallonetto è un’isola che riesce ancora a difendere la sua identità.

Galleria Vittorio Emanuele
La gente parla per proverbi, aforismi, sentenze, il concentrato di secoli di esperienze, di antiche lotte per l’esistenza, di strenua difesa contro gli stranieri, che i napoletani hanno sempre a loro volta conquistato, domato”. Così scrive Marotta in uno dei suoi libri più belli, “L’oro di Napoli”, e Luigi Argiulo riporta nelle sue pagine de “I vicoli di Napoli”  (2003), un libro, edito dalla Newton & Compton, godibile da cima a fondo: un racconto scorrevole tra mille dettagli, notizie anche sul  teatrino di quello e di altri rioni napoletani, dove rimangono le tracce di Giuseppe Marotta, “che voleva bene alla povera gente, conosceva profondamente la realtà dei vicoli, si sentiva uno di loro che aveva fatto fortuna”. Il Pallonetto in questi ultimi tempi non è rimasto tale e quale. Ma è sempre abitato da personaggi simpatici, caratteristici, creativi, con i quali vale la pena scambiare due parole. 

Feltrinelli
Lette tutte le pagine, prendo a caso altre frasi di Argiulo, giornalista e saggista: “In fondo nei libri di Marotta viene riconfermata, ancora una volta, la profonda grecità dei napoletani: la voglia innata di discutere, di filosofare, spesso di sofisticare. Come gli allievi di Socrate…”, che prendevano lezioni passeggiando nei viali. Giuseppe Marotta, osservava e coglieva i suoi personaggi tra quelli che incontrava, e, come   ne “L’oro di Napoli”, del ’47, delinea brani di vita di ogni giorno nella città partenopea. Per esempio, nel dopoguerra ogni famiglia aveva, come ospite privilegiato, l’anglo-americano, che In cambio di un po’ di attenzione ogni sera portava sigarette, carne in scatola… Il “conquistatore conquistato”. Giuseppe Marotta, a Napoli, sua città natale, abitò in via Capodimonte; nel ’25 si trasferì a Milano, dove, dopo una lunga gavetta, scrisse su periodici e poi su “Il Corriere della Sera”, pubblicò per Bompiani, s’impegnò nel cinema, inventò testi per canzoni, partecipò al Festival di Napoli, vinse il premio Bagutta, faceva per il settimanale l’Europeo di Rizzoli critiche cinematografiche.

L'ingresso della Galleria
Amava profondamente la città che lo ospitava, tanto che le dedico pagine come “Le Milanesi, nel ’62,” e “A Milano non fa freddo”, “Mal di Galleria”. Si definiva un terrone prestato a Milano. Nel ’61 tornò a Napoli, e due anni dopo morì. Nel capoluogo lombardo aveva un amore segreto: la Galleria Vittorio Emanuele, completata nel 1878, quasi contemporaneamente al ristorante Savini, nato con il nome di Birreria Stocker, come ricorda nel suo volume “Milano, amore mio” Gaetano Afeltra, nato ad Amalfi e giunto a Milano nel ‘38.  L’impiccione della Galleria, personaggio importante del racconto di Marotta, si scaldava al suono delle campane di San Fedele, vicinissima alla Galleria, il salotto di Milano, il luogo dei famosi “quater pass”, degli incontri, delle lunghe soste davanti alle vetrine, delle sedute ai tavoli dei locali, degli appuntamenti d’affari e d’amore. In “Mal di Galleria” l’impiccione dell’Ottagono dice che quella è casa, ufficio, strada e ombrello, “è tutto per me”. La Galleria era per lui un “magico fluido”. Della Galleria sapeva ogni cosa. Come Paolo Biffi, il primo ad aprire in quella via coperta un caffè-ristorante-birreria. Da lì vedeva scorrere la Milano che faticava, quella che ciondolava, la Milano che risparmiava e quella che scialacquava.
 
Piazza della Scala

La Galleria che mette in comunicazione le piazze più famose della città: Duomo e Scala, ed è forse la più bella del mondo. I milanesi vi si trovano a loro agio e i forestieri restano ammirati soprattutto dalla cupola, scattano foto con il telefonino e le mandano a casa, per dite ai familiari: “Guardate dove mi troco. Che spettacolo!”. Un gruppo di studenti del liceo Parini, durante la prima guerra del Golfo, attraversando l’architettura con il loro complesso musicale, “La banda degli ottoni a scoppio”, il volto cosparso di cenere, inscenò un funerale ispirato al conflitto, sbucando in piazza del Duomo. Due poliziotti si fecero avanti per fermarli, ma si fecero convincere da alcuni cittadini a desistere. Del resto la musica coinvolgeva. Spesso la Galleria è stata luogo di manifestazioni di ogni tipo. Inondata dalle grida degli scioperanti, dai comizi dei politici, dagli urrà per le vittorie sul campo sportivo, gli evviva ai re delle pedate. 

Savini

“Le grandi firme, i nomi della ricchezza o del lignaggio, dell’arte (Chaplin, Hemingway, Sinatra, la Callas, Marco Praga, D’Annunzio, Marinetti…n.d.a.) si ritrovavano ai tavoli del Savini, in un’atmosfera ovattata ma sempre vitale. Se anche l’Italia – parole di Gaetano Afeltra – ha avuto la sua Belle Epoque, a Milano è nata qui, a due passi dalla Scala, che dopo le grandi prime continuava lo spettacolo mondano trasportandolo dalla sala del Piermarini alle sale del Savini”. Nelle prime pagine di “Mal di Galleria” il protagonista invita la signora Tullia a casa sua , e dice: “Venga a prendere un tè nel mio studiolo, quel portino invisibile accanto alla libreria… Non avete un’idea, macchè, della mia tana in Galleria. Una elemosina di anticamera, circolare, una sottocoppa, immette nella stanza nella quale dormo, ricevo e dipingo, il vano più spazioso, in definitiva, è il bagno, seppure ingombro di tele, di barattoli, di cianfrusaglie. Ma c’è un odore, per me squisito, di Galleria, di città, di agiatezza, di vicende gradevoli, ingarbugliate, imprevedibili, c’è insomma un odore tutto milanese, del centro, del cuore di Milano, che mi giova, che spesso mi eccita come una droga”. 

Savini 2

Allora in Galleria c’era la Stipel e lì l’impiccione dell’Ottagono aveva intravisto Tullia la prima volta. Lui apparteneva alla Galleria e la Galleria a lui. Per lui la Galleria era il luogo dei mille respiri, delle innumerevoli voci. Se qualcuno faceva ritorno a Milano dopo una lunga assenza, è nella Galleria che lo si incontrava. In quell’atmosfera, in quei quattro bracci che s’incrociano al centro l’impiccione si sentiva un re: la Galleria era domicilio e riparo, ombrello, tana. Mai e poi mai avrebbe rinunciato al fascino della Galleria, che gli apparteneva come lui apparteneva alla Galleria. La Galleria lo nutriva: “cambiava dollari e sterline per i turisti, faceva un po’ di bagarinaggio per le opere in musica, il “claquer” per l’”Odeon…”.  E in Galleria ascoltava le campane di San Fedele, che avevano il solo difetto di non suonare in diletto. In Galleria un giorno del ’62 vidi uscire dalla Stipel un avvocato di Taranto, don Mario Rossano, che mi aveva tenuto nel suo studio perché prendessi dimestichezza con le aule della pretura e con gli elementari meccanismi attraverso i quali si tentava di far onorare le cambiali (erano gli anni 60). Lavoro che lui non poteva seguire personalmente anche perché era un legale di livello, famoso e rispettato, preso da impegni molto più importanti e complessi.

Il Campari

Era soprattutto un gentiluomo martinese, di una preparazione professionale fuori del normale. Ci abbracciamo, il maestro e il discepolo, quindi mi portò a bere un caffè al Campari, che con il Camparino ha la stessa età della Galleria. Per me, don Mario, era un padre, un mito; per tutti un signore. Altrettanto Ruggero Ruggieri, suo collega, cognato, compagno di studio. “Che bella, questa Galleria! Mi dicono che durante la sua costruzione l’architetto Giuseppe Mengoni cadde dall’impalcatura e morì”. Già. Un turista giapponese, sbrigliandosi in un italiano ammaccato, mi chiese del “ratin”. Carlo Castellaneta avrebbe risposto: “El ratin”? Un topo, ma non il roditore che va alla ricerca del formaggio”, bensì un meccanismo a molla che in tempi molto lontani accendeva tutta l’illuminazione, a gas. Gli amanti dell’opera lirica, spentesi le luci della Scala, facevano le ore piccole nei locali d’alto rango aperti sotto quella cupola che ha le stesse dimensioni di quelle di San Pietro.

Piazza Duomo

Alcuni ne uscivano quando in piazza del Duomo comparivano i netturbini con la scopa in mano e circolavamo le falene  a quell’ora ancora in circolazione o in un locale sotto i Portici a sorseggiare una bibita. Anche a quei tempi davano prova di scaltrezza le cosiddette “mani di velluto”: i borseggiatori, in servizio ancora ai giorni nostri sui tram, nel metrò: una categoria sempre più attiva e numerosa. Quando vado in Galleria per ammirarla, come il Presidente Sandro Pertini, che sbirciava soprattutto le vetrate della cupola, rimango trasecolato dalla sua  a magia. Lo stesso Margherita Agelus in “Passeggiate Milanesi” della Celip: “E dire che il progetto di Giuseppe Mengoni era quello che entusiasmava di meno”. Poi i cittadini si ricredettero. La Galleria Vittorio Emanuele è splendida.

Biffi

 

Estasiata, un’amica e collega, innamoratissima della  città del Porta, di Emilio De Marchi, di Giuseppe Arcimboldi, di Cletto Arrighi, pseudonimo dell’avvocato Carlo Righetti, autore tra l’altro del testo teatrale “El barchett de Boffalora” e dell’“On milanes in man” (1870), di Giovanni Berchet patriota e poeta; della Milano di Silvio Berlusconi, di Giovanni Borghi, il re dei frigoriferi, nati in un quartiere che almeno un secolo prima di loro era poco raccomandabile, mi diceva: “In questa strada coperta, elegante, pianta a croce, il braccio principale lungo 196 metri, la cupola un diametro di 39 metri e alta 47, luminosa e ricca di librerie, ristoranti, un negozio di stampe antiche, uffici, vetrine con capi di abbigliamento di lusso, la Milano del Piccolo Teatro e del Gerolamo, dove ancora echeggia la voce di Piero Mazzarella, “lega” due gioielli, il Duomo e la Scala, i milanesi vi trascorrono ore, la sera, il sabato, la domenica. Giuseppe Marotta, ben sapeva – affermava un amico zigzagando per evitare i colombi padroni della piazza, gioco per i bambini ma spesso fastidio per i grandi, che quella Milano – la Milano di “Mal di Galleria”, non c’è più, spazzata via dall’abitudine dei meneghini di cambiare, a volte bene a volte male. Nelle sue parole echeggiavano quelle di Oreste del Buono, profondo conoscitore di Milano e delle opere letterarie. Eppure chi le ha voltato le spalle per tonare a casa o per trasferirsi a Zurigo o a Parigi o chissà dove, prima o poi è qui che ricompare, preso dal “mal di Galleria”, come la Blixen dall’Africa.
Adorata Galleria, salotto di Milano, fiore all’occhiello di Milano, perla di Milano, dove sbocciano altri gioiellini. Tanti.  
                                                                                


     

  

 
















mercoledì 1 febbraio 2023

Incontri con personaggi letterari in giro per la città

Tacconi in libreria

TUTTI RACCOLTI IN UN LIBRO

“50 SFUMATURE DI MILANO”

 

L’autore, Giorgio Tacconi, è un maestro nel ricostruire luoghi e nel descrivere efficacemente le figure che più lo colpiscono

Professionalmente si occupa di comunicazione e di progetti editoriali.

Vive a Milano. 

 

Copertina del libro

 

 

 

 

 

Franco Presicci 

Renato Olivieri
Un giorno vorrei incontrare preferibilmente in Galleria Vittorio Emanuele il commissario Ambrosio di Renato Oliveri. L’ho seguito in tutte le indagini, a cominciare da “Il caso Kodra”, e mi ha sempre avvinto. Uomo arguto, colto, sobrio, amante della musica, delle opere artigianali, dell’arte, come il suo creatore, che in gioventù dipingeva e poi negli anni diresse una lunga serie di riviste, “Arte”, “Antiquariato”, “Mille Libri”, “Grazia”, “Intimità”, collaborando al “Il Corriere della Sera. Mi era entrato nel cuore, il commissario Ambrosio, come il maresciallo Binda di Piero Colaprico”. Lo amavo così tanto, questo segugio che fiutava in una Milano poco tranquilla, che, non riuscendo ad incrociarlo, una sera dell’87 lo costrinsi ad intervenire a una serata organizzata tutta per lui: “Un commissario di carta fra poliziotti veri”. Questa l’etichetta dell’iniziativa.

Il terzo a destra il procuratore generale Beria di Argentine

E tutti risposero all’invito: giornalisti della carta stampata, delle televisioni, il sindaco, il procuratore generale della Repubblica Beria di Argentine, i magistrati Francesco Di Maggio e Pier Camillo Davigo, alti ufficiali dei carabinieri, della Finanza, cinque questori venuti da fuori (Mario Jovine da Roma, Vito Plantone da Livorno, Putomatti da Cuneo, Antonio Pagnozzi da Parma, il questore di Milano Umberto Catalano… Una serata indimenticabile, commentarono i miei colleghi Alberto Berticelli, avaro di elogi, Filippo Abbiati... Di Ambrosio sgomitolò la storia Guido Gerosa, mentre Arnaldo Giuliani, capo cronista del “Corsera” cresciuto alla scuola di Franco Di Bella, si divertì a intervistare tutti i poliziotti presenti, compreso il questore in pensione Enzo Caracciolo, che negli anni ’70 aveva diretto la Squadra Mobile, e di ricordi nel cassetto della memoria ne aveva.

Enzo Caracciolo, Rabiti della Dia, Arnaldo Giuliani

Ambrosio uscì dalla sala verosimilmente soddisfatto, sia per la medaglia che Catalano aveva consegnato a suo “padre” sia per la rosa rossa consegnata alle signore e il segnalibro d’argento ai signori. Quella sera conobbi meglio, Ambrosio, che, riservato com’era, sgattaiolò verso l’uscita poco prima del momento dei saluti. Me lo riferì un poliziotto vero, che, sapendo della mia amicizia con Olivieri, mi chiese di fargli dire in un’intervista che Ambrosio somigliasse a lui. Sono tornato a quella serata - alla quale Pietro Giorgianni, direttore de “La Notte”, dedicò un lungo articolo accompagnato da una foto in piena pagina - leggendo con molto piacere il libro di Giorgio Tacconi.

Serata per Ambrosio

 

Un bel libro: “50 sfumature di Milano-incontri con personaggi letterari in giro per la città”, brillantemente presentato da Antonio Di Bella. I suoi personaggi Tacconi li incontra per strada, in una biblioteca, in una piazza; e oltre a riferire i dialoghi, succosi, con domande appropriate e risposte circostanziate, e la descrizione dei luoghi in cui sono avvenuti, ricostruisce scrupolosamente le biografie. Don Ferrante, “l’erudito scansafatiche”, che “vive nella prima metà del XVII secolo a Milano con la moglie, Donna Prassede, e cinque figlie, lo becca nella Biblioteca Ambrosiana, fra cataste di carte e scaffali affollati di libri, milioni di parole non avrebbe saputo immaginare un luogo più adatto dell’Ambrosiana per incontrare Don Ferrante – parole sue - non solo per la ricchezza del sapere che nei secoli vi è stato raccolto, ma anche per il mezzo milione circa tra volumi, opuscoli, incunaboli ecc. tra cui tesori come il Codice Atlantico di Leonardo, e per essere stata fondata dal suo celebre contemporaneo, il cardinal Federigo Borromeo, che la volle e ideò ed eresse con tanto dispendio per fornirla di libri e manoscritti….
“La riverisco, Don Ferrante”. E inizia la conversazione con il personaggio, che ha in mano “Il Dialogo di Galileo”. L’appuntamento con Pietro Binda è in piazza Filangieri 2, davanti al portone della Casa Circondariale di San Vittore. “Gli ho proposto questo luogo perché vorrei sapere dell’esperienza più forte della sua carriera di carabiniere, quella che ha conferito alla sua coscienza di uomo e di milite dell’Arma una visione più ampia e un sentimento più profondo. “Essere stato sia pur per pochi giorni dall’altra parte della barricata, ha modificato la sua idea di giustizia e di umanità? due concetti che spesso non si incontrano come dovrebbero”.

Piero Colaprico

Il maresciallo naviga in un libro di Piero Colaprico e Pietro Valpreda, che lo… hanno mandato in cella per adempiere ad obblighi professionali. E indagando per individuare un assassino, nota le condizioni dei detenuti, soffocati dal sovraffollamento (allora 1800 in un complesso che può accoglierne 850), la sofferenza per la lontananza dalle famiglie, i regolamenti, la scarsità degli affetti… Ogni capitolo un personaggio. Raffaele Gallo, emerso dal volume dell’85 di Carlo Castellaneta (costituì l’argomento di una conversazione condotta da Enzo Catania a Telelombardia), lo incrocia un gelido mattino di gennaio in corso Buenos Ayres, compreso nella zona in cui si spande il dominio del “don”. Nato a Napoli da un elemento della vecchia camorra e da una donna che fatica in una tintoria, da ragazzo arruolato dal mondo del crimine, poi soggiorno obbligato a Trezzano, domicilio in una pensione di piazza Argentina a Milano al termine del provvedimento, veste elegante, ha la peggio in un regolamento di conti all’aeroporto di Linate, dove sta per prendere un volo. E dopo queste pennellate sul personaggio di Castellaneta Tacconi ne aggiunge altre per il corso: tre chilometri di vetrine, 300 negozi, 80 mila passanti ogni giorno, con le vie vicine e alloggi intestate a città sudamericane, quasi un omaggio alla capitale adagiata sulla riva destra del Rio de la Plata.

Il Duomo

Il semaforo segna il rosso e Gallo aspetta il via, mentre il bravissimo Tacconi, che è già al suo fianco, senza preamboli gli chiede se gradisce un caffè. E andando verso il bar gli domanda a bruciapelo: “Ditemi, don Rafè, cos’è che vi fa amare così tanto Milano, voi che venite dalla città più bella del mondo?”. “Eh, Napoli è il passato, amarezze che mi sono lasciato alle spalle. Milano la amo perché ho dovuto conquistarla, mi si è data poco per volta, come una femmina restia che alla fine ha premiato la mia tenacia. Questa severità, questo grigiore sono fatti apposta per esaltare la fantasia dei meridionali… Non c’è al mondo una città dove vivrei ugualmente bene, dove ci si può mimetizzare o fare spicco, scomparire o emergere secondo il capriccio della fortuna, dove puoi guadagnare anche stando nascosto in un angolo, perché fuori tutto funziona sempre, Milano gira come un motore instancabile, senza perdere un colpo”. Rimasta orfana di madre, Ninetta, va a vivere con la zia, compagna di un drudo garzone di pasticceria, che l’asseconda nei frequenti giri delle osterie, dove sbevazza e svolazza. Ninetta si scambia bacetti e carezze con il figlio del garzone, Peppo, e al mattino va al Verziere per dare una mano al banco del pesce. Dopo qualche anno le “avances” di Peppo si fanno più spinte, ma lei si nega, lo ferma a metà strada. Alla fine, cede. La zia muore e lei va in casa del parroco, ma si annoia, mentre Peppo sfarfalleggia e la spreme sempre più fino a ridurla in miseria. Ninetta sceglie vie traverse, di notti pericolose, sempre più incalzata da quella sanguisuga. 

Paolo Giacovelli, Tacconi, Lemoci, Anna Mazza

L’autore ripercorre la vita della giovane, pensando a Carlo Porta, che scriveva mentre svolgeva il compito di cassiere presso l’Intendenza di Finanza. Tacconi continua infilandosi nella vita del Verziere, che ha tre centri: li “si scarica, si sciorina e si fa lo spaccio all’ingrosso della verdura; lì il Verziere propriamente detto, dove si vende frutta e verdura al dettaglio; la piazza di Santo Stefano, dove c’è lo spaccio delle carni, della selvaggina quadrupede…”. Uno spettacolo di voci, colori, strilli, fra bestemmie e imprecazioni audaci in vernacolo più che negli altri mercati messi insieme. Una descrizione variopinta dell’ambiente. E’ in questo posto che Tacconi incontra la Ninetta, impegnata a glorificare in dialetto la sua merce e, tra un urlo e l’altro, ripercorre come in un confessionale la sua vita sfortunata con l’interlocutore ansioso di notizie.

Il direttore del Giorno Rizzi, Gerosa, Giuliani
 
 
 
 
Per consolarla lui acquista un paio di trote. Lei le incarta, prende i soldi, lui se ne va amareggiato. Tacconi pesca nelle acque di Giovanni Arpino, Cletto Arrighi (soprannome con il quale Carlo Righetti firmava i suoi testi teatrali, tra cui “El barchett de Boffalora”), Riccardo Bacchelli, Luciano Bianciardi, Carlo Porta, Gianni Biondillo, Emilio De Marchi, Giorgio Scerbanenco, Giovanni Testori, Alberto Vigevani, Elio Vittorini… Nelle pagine sulla Ninetta, uno dei capolavori di Carlo Porta, Tacconi adotta un linguaggio spigliato ma efficace, adatto al mercato ortofrutticolo di Porta Tosa. Raccontando tutte queste figure, Tacconi ci fa conoscere strade, piazze, vite quotidiane, ambienti, presenze, caratteristiche, protagonisti di una grande commedia che è la vita. Per esempio, Nanà, figlia di una stiratrice e di un operaio preda dell’alcol, “cresciuta nel sobborgo della Couette d’Or sui marciapiedi di Parigi”, dipinta da Manet come una bella e provocante giovane dalla pelle candida e i riccioli d’oro, mentre si trucca allo specchio…”. Incapace di amare, disdegna gli uomini pur collezionandone molti, ha soldi, corteggiatori, ma si annoia. Nel maggio del 1869 si trova alle Cascine di Firenze, ma una notte approda a Milano, dove desidera un uomo. Torna a Parigi con un principe. Nota di essere sospirata da nove persone diverse, tenta di sedurre un conte, fugge nella capitale francese con un principe, muore in un albergo di vaiolo. L’autore la intercetta nel crocicchio di vicoli che circondano il Bottonuto, uno dei quartieri più squallidi, più fradici della vecchia Milano, che lui ricompone in modo icastico. Ripeto, un libro, edito da Giacovelli, da leggere.