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mercoledì 30 settembre 2020

Il Premio Fasano nelle tenute di Al Bano

Giuseppe Fasano e una sua opera

 

FRA ULIVI SARACENI, VIGNE E LAGHETTI CAVALLI CHE CORRONO IN PIENA LIBERTA’

I riconoscimenti a personaggi di spicco di diversi settori, compreso lo stesso Al Bano Carrisi, che, tra l’altro, è stato un inappuntabile padrone di casa. 

Perfetti l’organizzatrice e la presentatrice.

Rispettate le prescrizioni contro il cecchino, che purtroppo riprende forza.

 

Nel testo sono inserite foto riguardanti la cerimonia

Franco Presicci

Il Premio internazionale “Giuseppe Fasano Grottaglie città delle ceramiche” non poteva avere sede migliore delle Tenute di Al Bano Carrisi a Cellino San Marco, centro che, forse fondato dai monaci nel IX secolo d. C., vanta un austero castello del 1578 e la nascita nel XVII secolo di San Francesco De Geronimo, noto per essere stato un grande apostolo. Il Premio è al quarto anno di vita e sin dalla sua prima edizione ha riportato un rilevante successo, dovuto anche all’amicizia e alla collaborazione fra Al Bano e Giuseppe Fasano, uno degli ottimi figuli della città in cui nel 960 d. C. la popolazione dei paesi vicini scampò alle incursioni saracene intanandosi nei suoi meandri sotterranei. “Mi fu patria una grotta, né ignobile né oscura/ né tetra per ululati né di ferini ostello…”, scriveva Domenico Battista (1613-1675).

Il professore Francesco Lenoci

A far da mattatore il 18 settembre alla cerimonia di consegna, organizzata dalla giornalista Titti Battista e presentata dalla collega di Telenorba Maria Liuzzi, promotore Giuseppe Fasano, il professor Francesco Lenoci, definito l’ambasciatore della Puglia a Milano. Il quale, dopo aver illustrato l’eden di Al Bano, i suoi sentieri boschivi, un ulivo cavo di 900 anni, cavalli che corrono in piena libertà tra schiere di alberi, costeggiando vigne gravide di un vino principesco, ha illustrato il tema “Educarsi al bello e al buono”. A Grottaglie l’uno e l’altro sono di casa. La stessa Grottaglie è bella; bello il quartiere in cui si creano forme geniali, qua e là spettacolari. Ha coinvolto anche don Tonino Bello. “Alla bellezza occorre educare e educarsi, perché solo con l’educazione alla spiritualità e alla bellezza che li circonda le nuove generazioni sapranno scoprire i tesori che hanno dentro di sé… e avranno la capacità di scoprire il bello e il buono che è nel mondo che li circonda? Non c’erano bellezza e bontà nelle figure di don Carmelo Carrisi, papà del cantante, contadino acuto, laborioso e innamorato della sua terra, amore che ha trasmesso al figlio, che trionfa sulle ribalte di tutto il mondo con la sua voce tonante; e del papà di Giuseppe Fasano, Nicola, dall’attività intensa e edificante, esemplare, artista di grande talento, che adorava accogliere con cuor gentile gli studenti desiderosi di visitare il suo laboratorio? Don Carmelo era un narratore formidabile, come riferisce lo stesso Al Bano nel suo libro “E’ la mia vita”.

“Teneva gli eventi sulla punta delle dita, li giostrava dando loro vita davanti agli occhi e alla fantasia di noi che l’ascoltavamo. Aveva la regia del racconto, la rara capacità di scolpire con le parole i particolari in modo così efficace da farli diventare parte di chi lo stava ascoltando”. La sequenza di quelle immagini parlate - continua - era di una bellezza, di una forza tale che ti penetrava. Nel ‘73 Al Bano ha battezzato il suo primo vino con il nome del padre; e quando ne dette una bottiglia all’amico Dino Abbascià, l’imprenditore ortofrutticolo si commosse. Oggi don Carmelo e la moglie Jolanda non ci sono più. Il loro spirito aleggia fra tutto questo verde di 130 ettari e in questa armoniosa architettura che il cantante di “Felicità”, con lo stimolo di Romina, ha saputo creare. Dopo aver seguito con la moglie il figlio ovunque, nel 1985 Don Carmelo fu colto da un infarto. Da convalescente chiese al suo usignolo di portarlo in Albania; fu accontentato e tornò in buona forma a Cellino.

Dino Abbascià

Lenoci, come Dino Abbascià, personaggio difficile da dimenticare, per la sua umanità e per la forza e la costanza dimostrate nel mettere su un impero, erano già stati in quest’oasi di silenzio e di pace, in questo luogo che raccoglie tutti i sapori e gli aromi della Puglia e invita alla meditazione. “E’ sbagliato credere che tutta la bellezza sia relegata nel passato – ha detto fra l’altro Lenoci – nella sua relazione. Ogni epoca ha la sua. E nella nostra le bellezze non mancano. Anzi. La Puglia è ricca, di bellezze. Che cosa sono quegli ulivi in fila indiana dalle parti di Ostuni, città bianca, con “la cattedrale bagnata nei pastelli teneri del tramonto”, a sentire Giuseppe Giacovazzo; ulivi millenari che con il tempo sono diventati monumenti? La Puglia – ancora Giacovazzo – è un’esplosione di colori (quelli dei nostri impareggiabili paesaggi), di voci (i melodiosi dialetti salentini o quelli rochi della Murgia assolata), di suoni (naturali o prodotti dall’uomo sulla scia di una tradizione folklorica ancestrale), di luci e ombre…”.

Osservate lo sguardo rapito del forestiero, osservatelo bene, e immaginerete il motivo che lo spinge a fermarsi incantato a contemplare i paesi, le chiese, i castelli, le spiagge… Della nostra regione, in termini schietti, senza retorica, il grande giornalista scomparso parlò un po’ di anni fa nel teatro dell’Angelicum a Milano, avendo al suo fianco Lenoci, il vicedirettore de “La Gazzetta del Mezzogiorno” Giuseppe De Tomaso (oggi in plancia), Dino Abbascià e padre Eligio, che fu amico del calciatore Gianni Rivera, “abatino” per Gianni Brera. E Al Bano scosse il teatro con le sue canzoni amate ovunque. Era il primo dicembre del 2003, Milano era allagata per una pioggia torrenziale e bloccata da uno sciopero dei mezzi pubblici. Al Bano in via Moscova venne a piedi come tantissima gente. A Milano Al Bano era di casa. Vi aveva lavorato duro, per raggiungere il palcoscenico. Sono stati tanti i suoi giorni milanesi e molte le ore da lui trascorse in Galleria del Corso, dove avevano sede le case discografiche.

Era sceso dal treno alla stazione Centrale l’8 maggio del ’61. Quel ventre gigantesco “mi fece un’impressione, quasi un incubo”. Gli bruciava aver lasciato mamma Jolanda e papà Carmelo, narratore ieratico, amante dei viaggi, e quindi seguiva spesso il figlio, che quando si abbassava il sipario trovava il camerino mezzo vuoto di cibo, che il padre aveva distribuito ai compaesani venuti ad assistere al concerto. Era generoso, don Carmelo (date al povero ciò che avete sulla tavola): nel dopoguerra regalava il vino a chi non se lo poteva permettere. A Milano aveva tenuto compagnia al figlio, ma l’ambiente non gli piaceva, e non gli piaceva la gente, che non rispondeva al saluto e non gli faceva sconti (celebri i suoi tentativi a “La Rinascente”). Di tutto questo e di molto altro (cibo, api, biodiversità) ha parlato Lenoci, con la sua ricca tavolozza mentale con cui dipinge ritratti efficaci. Ecco l’altro protagonista assente della manifestazione: Nicola Fasano, a cui il Premio, ripeto, è dedicato. Personaggio perspicace, previdente, razionale, coraggioso nelle iniziative imprenditoriali e artista “doc”. Anche la sua è una storia edificante, un modello.

Un formicone di Puglia, come avrebbe detto il grande meridionalista Tommaso Fiore, vincitore nel ’55 del Premio Viareggio con “Un popolo di formiche”. Nicola era nato a Grottaglie nel ’23. Dopo le scuole andò a bottega nella fabbrica del papà come “torniante”. Nel ’39 fece domanda per essere assunto da allievo operaio all’Arsenale di Taranto. Nel ’42 venne chiamato a svolgere il servizio militare. Poi passò da un Paese all’altro. Sbarcò a Zante, la mitica Zacinto decantata da Ugo Foscolo (“Né mai più toccherò le sacre sponde”, endecasillabi scritti a Milano nel 1802). Fu prigioniero dei tedeschi nel ’43, nel ’45 ancora in Italia. Riparti per Bologna, Taranto, riapprodò a Grottaglie. Osservò che la stazione del suo paese era una miniatura rispetto a quella di Amburgo. Riprese la via della bottega dell’avo. Il ’48 fu un anno amaro per la ceramica di Grottaglie; e lui, successore di una dinastia che aveva le mani nell’argilla dal 1620, galleggiò su una scialuppa con felici intuizioni: valorizzazione di tre capitali – aveva ricordato Lenoci - umano, organizzativo, relazionale. Introdusse il tornio e l’impastatrice elettrici, acquistò la polverizzatrice d’argilla che sostituì i “pisacreti”, operai che con un martello di legno frantumavano le zolle d’argilla.

Giuseppe Fasano

Nel ’64 fu a Milano ad esporre in Fiera: ancora Lenoci, che ogni volta riporta ogni dettaglio, ogni aspetto degli argomenti che dipinge. Il docente aveva già ripercorso la biografia di Nicola Fasano sei anni fa su un terrazzino di Grottaglie proprio di fronte al negozio di Giuseppe; quindi aveva già esplorato quel regno affollato di piatti, lucerne, “sruli”, “ciarle”, zuppiere, “minzani”, “vummili”, quartare, acquasantiere, “fischieddi”, “campanieddi”, “craste” cavalli, con cavalieri e senza, in una varietà esaltante di colori. Entrando in quella bottega “ho capito che cosa intendesse dire Gustav Mahler con la famosa frase: “Tradizione non è culto delle ceneri, tradizione è culto del fuoco”. Nelle botteghe dei figuli si combinano acqua, fuoco, terra e la magistrale abilità dell’uomo. “Da Giuseppe Fasano ero andato per scattare foto da postare nel mio gruppo di Facebook dedicato all’enogastronomia pugliese con il motto ‘Ogni pietanza ha il piatto adatto’ e mi sono trovato in una pancia sconosciuta”, ascoltando Giuseppe Fasano, che mi raccontava la sua storia e quella del padre. Una storia appassionante: quella di un uomo di talento, da includere in un’antologia di “formiconi” di Grottaglie e della Puglia in genere.

E a proposito di antologie, durante la cerimonia, il docente ha consegnato ad Albano e a Giuseppe Fasano quella di Teresa Gentile: “Scrigno di emozioni- Cavalieri dell’Arcobaleno 2020”, pagine che, già presentate a Martina Franca a Palazzo Recupero, celebrano la bellezza. Ovunque ti giri nel nostro Paese trovi bellezza. Già le Tenute di Al Bano ne sono un esempio. Lo è la sua ugola. Quando quella di Al Bano prende il volo sprigiona bellezza.

Anche quest’anno, dunque, nonostante le restrizioni del Covid, il Premio è andato alla grande. E siccome la bellezza è femminile, tra i premiati ci sono molte donne: Simonetta Dellomonaco, Viviana Fasano, Fabrizia Dentice di Frasso, Marina Corazziari, Anna Gennari, Antonella Ricci e Vinod Sooka, Beatrice Lucarella, Biagio Marzo, Domenico Vacca, Domy Di Fano, Enzo Magistà, Francesco Divella, Gregory Perrucci, Irene Tagliente, Lucia Forte, Valeria Tatarella, Vince Abbracciante. Congratulazioni. 

 

NOTA: SUL SITO "MINERVA CRISPIANO (BLOCK NOTES CON LA PENNA):

"UN PREZIOSO VOLUME DI MICHELE ANNESE DI FRANCO PRESICCI" 




mercoledì 23 settembre 2020

Lo ricordano ancora Michele Jacubino

Ritratto di Chechele di Mellone




PER LO SCRITTORE BARESE MARIO DILIO



ERA L’AMBASCIATORE DELLA PUGLIA


Chechele gongolava di gioia al pensiero

Il direttore Zucconi e Chechele


di essere considerato, non soltanto da lui,

rappresentante della sua terra. Era buono,


Chechele e Nennella

schietto, intelligente, orgoglioso di ospitare     

nel suo ristorante il “Premio di 

giornalismo” e quindi nomi come Franco

Di Bella, direttore del “Corriere della

Sera”, Giovanni Testori, Gino

Palumbo, Ugo Ronfani, Gaetano

Afeltra.

 

Franco Presicci

Tutto cominciò nel ’77 in via Brera. Al Centro informazioni d’arte di Nencini, titolare anche della galleria Boccioni. Il settimanale “L’Europeo” aveva pubblicato un inserto sui trulli che andavano in rovina, autore Salvatore Giannella; e, con il grande pittore pugliese Filippo Alto, organizzai una serata sull’argomento, invitando a parlare fra gli altri il gastronomo Vincenzo Buonassisi, il fotografo Piero Raffaelli, Guido Le Noci - che nella sua “Apollinaire” aveva ospitato i più grossi nomi dell’arte contemporanea, tra cui Christo Javaceff – lo stesso direttore del settimanale della Rizzoli e il giornalista e scrittore Domenico Porzio, da pochi giorni tornato da Taranto, che descrisse con vivezza di particolari, nel bene e nel male. Lambros Dose, architetto d’interni, gestore del Cif, introdusse la manifestazione con la lettura di una pagina di Paolo Grassi, tratta dal Libro “In Valle d’Itria cicerone di me stesso” di Pietro Massimo Fumarola. Mezz’ora prima della conclusione degli interventi, una sorpresa: alla chetichella, per non disturbare, mentre in un’altra sala si proiettava un

Alto,Nennella,Giacovazzo,Chechele,Presicci
Chechele con l'attore Michele Placido

Premio a Di Bella (primo a sx) il sindaco Tognoli

 

documentario sulle tarantolate di Galatina, sfilò un corteo di collaboratori di Michele Jacubino, Chechele per tutti, proprietario del ristorante “La Porta Rossa”, pugliese purosangue, con assaggi di prelibatezze della nostra regione da offrire al pubblico, circa 400 persone. Seppi che Chechele, ad Apricena, sua città natale, in provincia di Foggia, per una visita di qualche giorno, appena aveva saputo dai giornali della serata,aveva dato disposizioni allo“chef” ed era partito subito per Milano. Qualcuno ricorda ancora le orecchiette, le mozzarelle, i taralli, i salumi, il vino buono e quella delizia del pane pugliese, un gioiello uscito dalle stesse mani del ristoratore, che da giovane ad Apricena aveva esercitato l’arte del fornaio. Il tutto condito dall’espressione incantata di quell’uomo che in seguito fu indicato come “nunzio” della Puglia a Milano.

Ad avere l’idea era stato Mario Dilio, giornalista e scrittore barese, che per anni era stato capo ufficio stampa dell’Alfa Romeo a Milano. Amico del poeta Vittore Fiore, figlio del grande Tommaso, docente all’Università di Bari, scrittore a sua volta e meridionalista, vincitore nel ’55 del Premio Viareggio con “Un popolo di formiche”, lo disse a Filippo Alto e a me, coinvolgendo un gruppo di commensali seduti al tavolo di fianco al nostro durante una cena.

 

Cerimonia per la consegna del Premio a Palumbo

I giornali ripresero le sue parole e Chechele ebbe l’investitura “coram populo”, ”complici” i pugliesi che frequentavano il  locale, ai quali si aggiungevano spesso attori, attrici, presentatori, giornalisti famosi, imprenditori, poliziotti della vicina questura… Chechele abbracciava tutti; se qualcuno aveva prenotato, lo aspettava sulla soglia e gli andava incontro, Così fece con Giuseppe Giacovazzo, direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno”, autore del primo documentario a colori della televisione: tema, Domenico Cantatore, che era di Ruvo di Puglia. Giacovazzo si presentò dopo mezzanotte in compagnia di Filippo Alto, suo amico dall’adolescenza, cenò e conversò a lungo con Chechele, deciso ad aprire un secondo locale, per il quale aveva già il nome: “Puglia”. Che dopo alcuni mesi fu inaugurato alla presenza di Daniele Piombi. Alla conversazione erano presenti anche Nennella e la figlia Antonietta che si stava laureando in lettere, e il sottoscritto. Ma Chechele aveva la mente fervida, sempre tesa a realizzare nuove imprese. Aveva fantasia, era generoso, schietto, affabile. Un giorno andai a trovarlo assieme a Filippo Alto e ancora prima di salutarci ci spiattellò un pensiero che covava da tempo.

Buonassisi, Raspelli, Cavallari, Oriani
“Voglio fare qualcosa per dire grazie a Milano. Questa città mi ha dato tante soddisfazioni, mi ha consentito il successo anche attraverso i tanti stranieri che vengono qui, avendo sentito parlare di me, della cucina di Nennella e del nostro calore”. In testa aveva la pubblicazione di un libro con tutte le fotografie che lo ritraggono con centinaia di personalità”. “Non sarebbe meglio un premio di giornalismo?”. “Vada per il premio”. Filippo s’incaricò dello statuto, che rivedemmo insieme prima di sottoporlo a Chechele, che lo approvò, e pensammo alla giuria, con nomi prestigiosi: i pittori Ibrahim Kodra, Giuseppe Migneco, Mario Bardi; i critici d’arte Raffaele De Grada, Alberico Sala (che era anche poeta) e Sebastiano Grasso, del “Corriere della Sera”. Seguirono i galleristi Mimmo Dabbrescia e Renzo Cortina (era anche libraio in piazza Cavour), i gastronomi Vincenzo Buonassisi e Edoardo Raspelli; il vicedirettore del “Giorno” Ugo Ronfani, grande intellettuale e critico teatrale; Mario Oriani, direttore di “Qui Touring”; lo scrittore Paolo Mosca… E partimmo. La prima edizione venne assegnata a Giovanni Valentini, perché a 29 anni era alla guida de “L’Europeo”; la seconda a Gino Palumbo, direttore de “La Gazzetta dello Sport” (tra l’altro aveva moltiplicato le vendite del giornale); la terza ex aequo a Franco Di Bella, direttore de “Il Corriere della Sera,” e ad Alberto Cavallari, corrispondente da Parigi dello stesso quotidiano (venne apposta preceduto da un telegramma). In questa cerimonia, tra gli ospiti c’erano, oltre a Gino Palumbo, il sindaco Carlo Tognoli e il giornalista e scrittore Giovanni Testori. I giornali e le televisioni dettero molto spazio all’iniziativa e Chechele gongolava di gioia. Nennella era riservata. La si vedeva soltanto quando, all’inizio scendeva al braccio del marito la scala che dal piano superiore portava a quello inferiore, sede del Premio. Alla “Porta Rossa” era quasi sempre festa. Ogni tanto nel locale si esibiva qualche cantante pugliese; si tenevano incontri culturali e qualche pittore (Mario Bardi uno dei primi) donava una sua opera che veniva appesa nel punto più in vista o collocata su una mensola, come un faraglione del grande ceramista Giuseppe Rossicone, abruzzese che aveva aperto il proprio laboratorio in via Chiossetto nel 1950. Insomma gli artisti erano di casa in via Vittor Pisani, a pochi passi dalla stazione Centrale.
  
Chechele finge di cantare
                                                                             
Fu da Chechele che nel 1978 fu tenuto a battesimo il periodico “Il Rosone”, poi trasferito a Foggia. Per brindare in onore di questo giornale fondato da Franco Marasca intervennero in tanti, e non soltanto pugliesi, tra i quali il compianto Antonio Velluto, ottimo giornalista ai vertici della Rai lombarda, detto “il principe” per i suoi modi garbati ed eleganti. E quando allo Spazio Prospettive d’arte di Mimmo Dabbrescia vennero celebrati i 25 anni del giornale (tra gli interventi, quello del professor Francesco Lenoci poi definito ambasciatore della Puglia nella città del Porta), fu sempre lui, Chechele, ad imbandire una tavola con i profumi e gli odori della Puglia. Una volta gli dissi che la sua figura richiamava un figurante della commedia napoletana, e che lo avrei visto volentieri nell’”equipe” di Eduardo De Filippo. Sorrise compiaciuto. Era pacato, intelligente, alla mano, dava del tu a tutti, senza curarsi del ruolo e dell’importanza dell’interlocutore. E la cosa era gradita. Il questore Vito Plantone lo stimava. Lo stimava anche Giacovazzo, che a suo tempo aveva collaborato a Milano con Paolo Grassi.                         

Come si fa a non ricordare Michele Jacubino a pochi anni dalla sua morte (il 27 maggio 2001)? Antonio Luca Di Bella, giornalista noto in Italia e all’estero, già direttore di Raitrè, lo ha scritto in questi giorni su Facebook. E lo dicono in tanti, quelli che lo hanno conosciuto personalmente e quelli che ne hanno sentito parlare. Chechele era un personaggio, legatissimo alla sua terra d’origine, privilegiata da Federico II: il sovrano la trovava adatta al suo amore per la caccia. Tra Lucera, Apricena e Foggia scrisse il suo trattato di caccia con il falcone. Chechele a volte ricordava la sua città e i resti del Castello di Federico. Quando diceva che era di Apricena gli luccicavano gli occhi e i suoi baffetti neri avevano un piccolo guizzo. Si commuoveva senza darlo a vedere. Aveva un carattere forte. Era stato povero e aiutava quelli che avevano bisogno, con discrezione, secondo il dettato manzoniano. Ne ricordo uno che quasi ogni giorno si sedeva a un tavolo in un angolo, trattato come un cliente normale. I camerieri lo adoravano, Chechele. Uomo dinamico e concreto. Aprì un ristorante a Pugnochiuso nel Gargano, condotto dal figlio Nino, erede delle sue doti. Chechele ha lasciato un vuoto in chi gli ha voluto bene e l’ha apprezzato. “Non riesco a credere che questa persona saggia, comprensiva, buona come il pane, sempre tesa verso gli altri, non ci sia più. Ogni volta che passo da via Vittor Pisani, davanti al ristorante, non posso fare a meno di pensare a lui”, mi disse un giorno un tecnico pubblicitario (non ne ricordo il nome), amico del pugliese, come qualcuno, per esempio Gaetano Afeltra, scherzando chiamava Chechele.





mercoledì 16 settembre 2020

La brillante storia del “Trianon”

 

IL TEATRO DI CORSO EMANUELE

OSPITO’ ANCHE EDUARDO DE FILIPPO

Corso Vittorio Emanuele

Vi si esibirono molti artisti napoletani

da Gennaro Pasquariello a Nino Taranto

Vi furono applauditi Ettore Petrolini e

Totò, Anna Fougez, Isa Bluette, Odoardo

Spadaro. Nel ’38 cambio nome

perché alle autorità di quei tempi non

andavano a genio le parole straniere

 


 

 

 

Franco Presicci

Presicci con Beruschi

Nel suo discorso commemorativo per il cinquantesimo anniversario del Teatro “Manzoni”, la sera del 3 dicembre 1922, Sabatino Lopez – commediografo, ricercatore storico, direttore dal 1911 della Società degli Autori dal 1911, creata nel 1882 da Cesare Cantù, critico teatrale nel ’29 per l’”Illustrazione Italiana”, rifugiatosi in Svizzera per le leggi razziali del ’38 – disse che “Il ‘Manzoni,’ con le poesie del Porta, con la Scala e con il panettone, sono forse quanto più milanese c’è a Milano”.

Da tempo, con grande dispiacere per i meneghini, aveva spento le luci il noto Teatro Milanese, fondato da Cletto Arrighi, anagramma che l’avvocato Carlo Righetti usava come firma per le sue opere teatrali in meneghino. Il teatro, inaugurato il 19 novembre del 1870 con il “Barchett de Boffalora”, commedia farsesca dello stesso Arrighi, conteneva 500 persone, che applaudivano calorosamente l’attore Edoardo Ferravilla, una leggenda del teatro dialettale locale, che aveva in Tecoppa il personaggio più famoso (“Che colpa ne ho io se anche davanti alle cose più serie mi viene un’idea comica?”). Amato da tutti, persino dalle mezze maniche della mala, che quando lo incontravano di notte per strada lo salutavano e gli offrivano da bere: avevano per lui un tale rispetto che a scena aperta si guardavano bene dal mettere le mani nei portafogli degli altri spettatori: lo facevano soltanto quando calava il sipario. 

Gaetano Afeltra

Abbattuto il Teatro Milanese, si costruì un nuovo stabile, che nel 1903 venne battezzato “Trianon”, un cafè-concerto con tavolini e balconata frequentato da gente danarosa. Attratta da Gennaro Pasquariello, che nei primi anni del Novecento aveva collezionato successi al Teatro Margherita di Napoli e su palcoscenici nazionali e internazionali; da Elvira Donnarumma; da Pepino Villani, che vi portò in scena “Mimì Tirabusciò”, la donna che inventò la mossa; da Lydie Johnson, in frac dorato, cilindro di strass e unghie in rosso pompeiano (ispirò “Charlerstonmania” di D’Anzi), da Anna Fougez (Anna Pappacena Laganà, di una ricca e nota famiglia tarantina: bella, elegante, originale, occhi neri, con un neo sulla guancia destra, un braccialetto d’oro a forma di vipera, e “Vipera” fu una canzone a lei dedicata da E. A. Mario nel 1919).

Walter Chiari

Il “Trianon” accese la ribalta anche per lo “chansonnier” fiorentino Odoardo Spadaro, per Walter Chiari, per Isa Bluette, per la danzatrice Lucia Maiorana… Il “Trianon” disponeva di una sala sotterranea, il “Pavillon dorè”, che aveva un telefono bianco su ogni tavolo, a cui si sedevano gli spettatori che amavano fare le ore piccole ascoltando l’orchestra italiana e assistendo a spettacoli di danza e di canto e incontrando le ballerine e le “vedettes” che poco prima avevano animato il piano superiore. Al “Trianon”, realizzato dall’architetto Angelo Cattaneo, nel 1903, trionfò anche Ettore Petrolini, rientrato dal Sud-America, e mobilitò con la sua originale e trasgressiva “vis comica” i critici che lo avevano ignorato; e dal 1919 Tommaso Marinetti e compagnia (Carrà, Boccioni, Depero, Balla…) vi lanciò, come in altri luoghi, il suo programma futurista.

Angolo tra Galleria e C. Emanuele

Proprio in quegli anni il “Trianon”, con la sua facciata Liberty nel corpo dell’Albergo del Corso, all’ombra del Duomo, dovette cambiare nome in “Mediolanum”, perché alle autorità quelli non rigorosamente italiani non andavano a genio. E vi arrivarono Eduardo De Filippo con la sorella Titina in “Filumena Marturano”, “Questi fantasmi” e in “Napoli milionaria”. Il Mediolanum e gli altri teatri si davano un gran da fare anche per accaparrarsi le riviste di Erminio Macario, Nino Taranto, con “Venticello del Sud”, Carlo Dapporto, Ugo Tognazzi… Qui debuttò, fra gli altri, “Il Conte dei sospiri”, con Bonino e De Rege; e nel ’49 la rivista “Burlerò” di Marcello Marchesi, con Marisa Maresca e Walter Chiari. Non mancarono naturalmente gli attori milanesi, fra i quali Anna Carena, Emilio Rinaldi e la Compagnia Ambrosiana con “La ciacera che gh’e in giro, di Zambaldi. Insomma questa platea acclamò i nomi più illustri della rivista e del teatro di prosa e nel 1934 ascoltò per la prima volta “Oh mia bela Madunina” di Giovanni D’Anzi, dedicata alla statua d’oro che svetta sul Duomo (“A diesen la canzon la nass a Napoli/ E certa camen gh’a minga tutti turt/ Surriento, Margellina tucc’i popoli/ l’avran cantà on milion de volt/ Mi speri che se offenderà nissun/ se parlom un cicin anca de num”…). 

Con Enzo Arbore

Purtroppo non ci sono più anziani che possano dire la loro sul “Trianon”, uno dei teatri più prestigiosi di Milano, dove nel ’51 sfavillarono anche le sorelle Diana, Pinuccia e Lisella Nava in una rivista che aveva come comici ai primi passi Gino Bramieri, Raffaele Pisu e Gianni Cajafa; quindi la Wandissima, Rascel, Nuto Navarrini. Aver calcato le tavole del “Trianon”, i cui programmi erano sempre di alta classe, per un attore era una referenza di prim’ordine. Ospitò anche Totò, che desiderava vedere in prima fila almeno una volta Cesare Zavattini. Lo confidò in un incontro all’Hotel Plaza a Gaetano Afeltra, grande giornalista allora al “Corriere della Sera”, profondo conoscitore di fatti, luoghi, personaggi di Milano, che lo rivelò in uno dei suoi seguitissimi e numerosi “Amarcord”. Il principe de Curtis non sapeva, annotava don Gaetano, che lo scrittore e sceneggiatore ci andava spesso, anche in compagnia di Salvatore Quasimodo, di Leonida Repaci, del poeta e critico d’arte tarantino Raffaele Carrieri (arrivato da giovane a Milano) a vedere il “Pinocchio” di quella miscela esplosiva della risata, che era Totò. Parlare oggi del teatro “Trianon” è come snocciolare una favola, in cui s’incontrano Ettore Petrolini, un mito, un dominatore del palcoscenico che scatenava risate ad ogni battuta. Fra i tanti libri scritti su di lui e sulla storia del varietà, mi viene in mente quello di Alberto Lorenzi, edito nel 1988 dalla Celip di Nicola Partipilo, con una mia intervista a Wanda Osiris. 

Nanni Svampa e LinoPatruno

E per quanto riguarda i teatri, i due grossi libri di Domenico Manzella, che tra l’altro fu un esimio critico teatrale del quotidiano “L’Italia”, ed Emilio Pozzi, dalla vita professionale intensa: alla Rai dal ’45 nel settore spettacoli, direttore di sede, docente di spettacolo all’Università di Urbino, attività di volontariato nel carcere di San Vittore… E’ deceduto a 83 anni 10 anni fa. 

Lo ricordo al Festival del Clown di Campione d’Italia, inventato da Pino Correnti (che aveva appena conclusa la sua collaborazione con Dino Villani, il padre di “Miss Italia), dove il cronista della Televisione era Romano Battaglia e della radio Franco Mamola. Lo incontrai ancora a Salice Terme, luogo nel quale si svolgeva un premio che nel ’65 venne assegnato ad Aldo Fabrizi, presenti fra tanti altri Bice Valori, Paolo Panelli, Enzo Jannacci. E al Circolo della Stampa, dove tenne una succosa conferenza appunto sui teatri. Uomo di pochissime parole e generoso, disponibile.

Domenico Manzella

A Milano non c’era naturalmente soltanto il “Trianon”, che i padri consideravano il miglior regalo che potessero fare ai figli (“Pettinati che ti mando al ‘Trianon’”); né soltanto le celebrità che ho inanellato sin qui. Davano prova di grandissima bravura Lauretta Masiero, Wanda Osiris, che disse: “Ma lo sai che quado debuttai al Lirico la Scala era quasi vuota?”. C’era anche il Teatro Eden, in cui recitò anche il grande Ruggero Ruggeri, che poi – informa Lorenzi – ben presto non volle più continuare a recitare davanti a un pubblico comodamente seduto ai tavoli con camerieri che facevano la ronda mentre lui dava il meglio di sé.

Piero Mazzarella

Al cabaret di Enrico Intra, nato negli anni 60, che frequentavo per il quotidiano “L’Italia”, conobbi tanti artisti: Giorgio Gaber, Paolo Stoppa e Rina Morelli, Daisy Lumini, Umberto Bindi; e una sera Walter Valdi, che, quando mi disse che di giorno faceva l’avvocato, mi lasciò incredulo, ma subito dopo scoprii che era vero. Del resto Mario Marenco, di Foggia come Arbore, è architetto e non si sa dove trovasse il tempo per fare con lo stesso Arbore in radio “Alto gradimento”; in televisione “L’altra domenica”, “Indietro tutta”, “Quelli della notte; al cinema “Il pap’occhio”…;. Enrico Beruschi, presentandosi accompagna simpaticamente al nome il titolo di ragioniere, Pippo Baudo ha una laurea in legge, Enzo Jannacci faceva il medico, e mi dicono che fosse molto bravo. Com’è ricca la storia dello spettacolo. Nomi, testi, ribalte. Da non dimenticare “I Gufi” (Gianni Magni, Roberto Brivio, Lino Patruno, Nanni Svampa) e la loro “Milanese”, dodici 33 giri, editi dalla Durium e presentati alla Cascina Abbadesse, traversa di vile Zara, a Milano, tantissimi anni fa. Quando il quartetto si sciolse una sera mi sedetti in platea al Teatro Arando per applaudire Roberto Brivio che furoreggiava sul palco. Al Teatro Gerolamo, in via Beccaria, rimasi affascinato da Milly che cantava “Lilì Marlène”, e incollato alla poltrona, nonostante fosse prossima la chiusura della prima edizione del giornale (“L’Italia”), per la valanga di risate scatenata da Piero Mazzarella nei panni di “El zio Matt”. Grandissimo attore, nato a Vercelli e fattosi milanese doc., che non nutriva un grande amore per Gino Bramieri, grande a sua volta.




mercoledì 9 settembre 2020

Frammenti di vita milanese

                          Il Duomo e la Galleria

A MEZZANOTTE ANCHE QUI ANDAVA

LA RONDA DEL PIACERE,

NELL’ OSCURITA’



 

Il caffè Carini e la sua clientela variegata;

le peripatetiche con i loro manutengoli;

le signore dell’alta società in abiti eleganti e i loro accompagnatori in frac; 

i “locch”;

le carrozze sui bastioni di Porta Venezia.

 

 

 

Franco Presicci

Nel 1877 fu aperto ai margini di piazza Duomo un grande caffè, intestato al nome del proprietario, Augusto Carini. Il locale rimaneva aperto tutta la notte e aveva una clientela variegata: di giorno forestieri, sensali, uomini d’affari (impegnati in compravendite anche di oggetti preziosi), data la vicinanza di piazza dei Mercanti; e di notte innamorati che vi trascorrevano il dopo teatro, ordinando un panino con due fette di salame, e donne “emancipate” o poco più. Paolo Valera, giornalista e scrittore socialista, nato a o nel 1850, conoscitore di tutti gli ambienti di Milano, fondatore fra l’altro del periodico “La folla” e del libro “Milano sconosciuta", proprio in questo volume (ne ha scritti altri) parlava del Carini con il suo solito modo icastico: “Alle due del mattino era un emporio di ‘crappe’, (prostitute: n.d.a.) di ‘locch’ (esponenti della malavita: n.d.a.) e di camerieri e di guatteri che avevano finito di lavorare o di individui senza occupazione o di operai che avevano sbevacchiato e di facce che non vedevi che di notte…. Spiccavano le sottanelle colorate e le ‘blouse’ chiuse fino al collo di giovani procaci ed anche belle ragazze seguite generalmente dal loro ganzo o mantenuto…”. 

Facciata della Galleria

Poi il caffè fu rinnovato, la clientela pure, e cambiò titolare. Ma in quel punto di piazza Duomo, di fronte alla Galleria Vittorio Emanuele, dove già c’erano il Biffi, il Campari, dopo mezzanotte si sviluppavano gli incontri occasionali (risuonano al ricordo le parole della canzone del “Tango delle capinere”, composta da Cesare Andrea Bixio su versi di Bixio Cherubini, da cui nacque il film “A mezzanotte va la ronda del piacere”, diretto da Marcello Fondato con Monica Vitti, Claudia Cardinale, Giancarlo Giannini, Renato Pozzetto, Vittorio Gassman: la prima, del ’28, portata al successo da Gabrè; il secondo, del ’75. Quando decideva di chiudere, il titolare invitava i presenti ad andare a nanna e cominciava a spegnere le luci. Ma doveva ripetersi più volte, perché c’era sempre chi recalcitrava o faceva finta di non aver sentito.

Galleria Vittorio Emanuele

I nottambuli non avrebbero saputo dove andare, abituati com’erano ad aspettare il giorno, magari sorseggiando “el caffè del genoeucc” (ottenuto con i fondi di altri caffè): acqua calda tinta di nero, potabile soltanto, secondo il poeta meneghino degli anni 20 Giorgio Bolza, se accompagnato da una spruzzatina di grappa: “I cafè di strascioni… di “pitocch”… i cafè de la nott, locch e brumisti ghe van a bev…” erano di bocca buona ,come il vecchietto che si acquartierava all’ingresso della cattedrale per chiedere l’elemosina. “El caffettee” arrivava verso le 2 alle spalle del Duomo con un carretto. Gli avventori erano netturbini, facchini, brumisti, operai che andavano al lavoro quando era ancora buio. Le notti milanesi non erano dunque mai deserte: I signori in frac e gibus, che avevano assistito all’esecuzione di un’opera alla Scala o a una prima teatrale, accompagnati da signore eleganti in abiti con ricami e guarnizioni di pizzi andavano a sedersi ai tavoli del Savini, quasi gemello della Galleria (data di nascita 1867 con il nome di Birreria Stocker) o del Biffi.

Foto del Museo di Milano

Poi riprendevano la via di casa, mentre i “viveur” più incalliti preferivano continuare a fare ancora un giro per la città, sfiorando gli spazzini, come si chiamavano allora, intenti a ripulirla, e le passeggiatrici che pendolavano tra via Santa Redegonda, ricca di storia, misteri e leggende (detta così per una chiesa accostata a un monastero di vergini elevata dal re longobardo Desiderio), e piazza Diaz (da una nobile famiglia spagnola trasferitasi a Napoli al seguito di re Carlo VII, poi di Spagna con il nome di Carlo III). Poteva capitare che una di queste signore, intravedendo le ombre di quattro o cinque agenti della squadra dei buoni costumi, per evitare la cella (“pollèe”: pollaio) del carcere di Santa Margherita, si afferrasse al braccio del nottivago, contrabbandandolo per fidanzato. La mappa del vizio era ben nutrita, tra diverse contrade, la Vetraschi, ora scomparsa, dove le mestieranti se ne stavano accovacciate sugli scalini di uno stabile e al centro del vicolaccio, comode su una sedia sbilenca. Molti i barboni. Dormivano addirittura su una panchina di piazza della Scala, sotto il monumento di Leonardo, eretto nel 1872, quando erano stati definitivamente chiusi i caffè e gli altri locali attorno al tempio della lirica o più in là e in altre zone di Milano. 

Il Duomo di Milano
Foto del Museo di Milano

Le notti meneghine, rese meno buie dai “pizzalamped” (lampionai, addetti all’accensione e allo spegnimento dei lampioni a gas o a olio, detti anche “lampedee”; mentre i “lampedee di fabbrich accendevano i lumi a petrolio collocati per segnalare ostacoli stradali). Dietro l’angolo allignavano brutti ceffi, cravattari, lenoni, truffatori, ladri, sempre ad architettare mascalzonate, rendendo insicuri la gente e i luoghi. Li si trovava alla stazione Centrale, in corso Garibaldi, al Ticinese, a Porta Genova, dove ai primi del 900 teneva a bada la “ligera” e i “locc” “el sciur Dondina”, capo della squadra volante per il quale i malandrini avevano anche composto una canzone, pur temendolo assai. Detta fauna non perdeva l’occasione per molestare le giovani donne: “biciclette” o ”scaglie”: falene in gergo di mala, e non. Già le donne. Belle, avvenenti, provocanti. Non lasciavano trasparire il desiderio di essere corteggiate, ammirate; e aspiravano a contare di più nella società. L’emancipazione femminile aveva già fatto passi lunghi; ma la libertà completa era di là da venire. Per gli innamorati la vita non era tanto facile. 


 
Se per esempio papà e mamma, per impegni improvvisi, erano costretti a lasciare momentaneamente la dimora, affidavano la vigilanza dei colombi al fratellino. E il fidanzato fremeva, anche perché alle passeggiate domenicali doveva sorbirsi la presenza dei futuri suoceri, che, tra l’altro, imponevano come itinerario preferibilmente i Giardini pubblici e o le gite fuori porta. Le abitudini cambiarono negli anni Trenta, quando i “vecchi” cominciarono a capire che era meglio stare a distanza. Ma non rinunciarono – racconta Alberto Lorenzi ne “I milanesi, le donne, l’amore – a imporsi nel caso in cui non condividessero il rapporto o lui sembrava voler allungare le mani. Allora ai ragazzi non rimaneva altro che la fuga in carrozza. La Galleria del piano terra della Centrale ha preso il nome di quel mezzo di locomozione perché, per andare a prendere un treno i viaggiatori arrivavano su un tiro a due o a quattro, che sostava nel punto oggi riservato ai taxi. Non so più quante carrozze circolassero all’epoca: sicuramente erano migliaia.

Corso Vittorio Emanuele  
Verso le 4 del pomeriggio i signori uscivano su questo veicolo, facendo lo stesso percorso: corso Vittorio Emanuele, corso Venezia, via Manin, via Manzoni. Sosta obbligata sui bastioni di Porta Venezia, per consentire ai passeggeri di sgranchirsi le gambe e di conversare. Un dipinto dell’epoca di Alessandro Durini ne ritrae lì un centinaio. Il passaggio delle carrozze aveva i suoi spettatori, allineai sui marciapiedi. Per loro era uno spettacolo. Di solito, diversamente dal 700, l’uomo in cassetta spronava i quadrupedi ad accelerare il passo, contravvenendo all’ordine del 18 febbraio del 1760 di procedere con cautela. Cesare Cantù – annota ancor a
Corso Venezia
 
Lorenzi-  nell’opera “L’Abbate Parini”, rifacendosi alla grida citata aggiunse che “fu ordinato ai birri di gettar delle stanghe fra i raggi delle ruote che corressero troppo…”. L’Ottocento fu il secolo d’oro delle carrozze, tirate da sauri, morelli, bai…, con paraocchi molto decorati. Le signore, esibivano pregiati ombrelli detti da carrozza. C’erano anche quelli che non potevano permettersi il lusso di più equini e quindi facevano galoppare l’unico in loro possesso su tragitti meno esposti. Insomma la carrozza, come le ville patrizie in Brianza, erano un segno di distinzione sociale. Artisti celebrati o dilettanti le riproducevano sulle le loro tele. Nell’abitacolo di una carrozza, mentre il brumista faceva schioccare la sua lunga frusta, si poteva alimentare il corteggiamento al riparo da occhi indiscreti. I più disinvolti preferivano i portici o a stessa Galleria Vittorio Emanuele. Lui seguiva lei, le si avvicinava e le chiedeva. “Scusi, posso accompagnarla”. E magari in seguito le scriveva un biglietto d’amore. Ma i versi non garantivano la lealtà dei sentimenti. I genitori vigilavano costantemente e, informa sempre Lorenzi, se in casa arrivava una lettera della figlia, volevano conoscere il nome del mittente, per evitare possibilmente che la fanciulla cadesse in cattive mani. Frammenti di vita milanese. Ad ogni passo, in questa città ricca di storia e di storie, chi ne abbia voglia trova cose da raccontare.



mercoledì 2 settembre 2020

Un prefetto che Milano ricorda con affetto

OGNI GIORNO PASSEGGIAVA A BRERA

E CONVERSAVA CON I CONCITTADINI


Vicari, Scalfaro. Alle spalle Presicci

Enzo Vicari era molto umano. La gente

gli scriveva e lui rispondeva a mano. Una

vecchietta, avendo letto sui giornali che il

prefetto stava per andare in pensione, andò

a salutarlo. Amava Praga e leggeva Kafka.

A due giornalisti raccontò alcuni episodi 

degli inizi della sua carriera: in Sicilia un

tale che si dava tante arie gli dette 

appuntamento alle 4 del mattino e lui: “Non

si preoccupi, io alle 3 sono già dietro la

scrivania, ma dopo tutt’e due tornarono a 

letto. 

 

 

 

Franco Presicci


“Ha onorato questa zona lombarda - disse ai primi di luglio del 1987 nel cortile di corso Monforte 31, il ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro (nono presidente della Repubblica dal 1992 al 1999), a proposito del prefetto Enzo Vicari, che stava per andare in pensione - incarnando lo Stato con grandissimo senso del dovere”.

Anna Craxi, Vicari e Scalfaro

Alla cerimonia di saluto erano presenti anche la moglie di Bettino Craxi, Anna, e il viceprefetto e capoufficio stampa Annamaria Peluso, in seguito nominata ministro del governo Monti. Vicari non sarebbe tornato nell’amata Sant’Agata di Militello, in Sicilia, suo luogo natìo: sarebbe rimasto nel capoluogo lombardo, a pochi passi dall’Ente che aveva presieduto per diversi anni. Confidò che avrebbe continuato a vivere nella “sua” città, il capoluogo lombardo, che dopo gli anni bui del terrorismo e le turbolenze provocate dalla malavita organizzata si era rasserenata. Vicari era stato un paziente, tenace tessitore di questa convivenza civile. Quante angosce, negli anni di fuoco. Prefetto da una settimana, il sangue schizzò sotto il ponte di via Schievano: i mitra spietati dei terroristi puntati contro l’auto del commissariato di via Tabacchi, uccisero tre poliziotti: Michele Tatulli, fulminato al volante; Rocco Santoro e Antonio Cestari, seduto sul divanetto posteriore. 

Tatulli, Santoro, Cestari
Cena con amici del Ticinese


Proprio quel giorno Cestari, reduce da un infarto, era tornato in servizio, non avendo ascoltato il consiglio dei colleghi di completare la convalescenza. Con l’ispettore Armando Sales, poliziotto inflessibile e di notevole spessore e il dirigente del Ticinese Giacomo Antonacci, andai a casa dell’appuntato Cestari e mi commossi alla vista del figlioletto che con il dito tracciava segni sul vetro appannato della finestra, in piedi su uno sgabello, dando le spalle a noi e alla mamma che cercava di frenare il pianto. Giornata tremenda. I tre poliziotti alle 8 del mattino stavano facendo il giro delle scuole del quartiere per vigilare sulla sicurezza degli alunni, quando crepitarono le armi. Ricordo le lacrime del capo della squadra Mobile Antonio Pagnozzi attorno all’auto crivellata di colpi.
Devo confessare che piansi anch’io davanti ai corpi di quei tre amici, con i quali ero stato a cena qualche sera prima insieme a tutti i componenti del commissariato in un ristorante di piazza Sant’Eustorgio; e dopo essere passato dal commissariato, andai al giornale, che allora era in via Angelo Fava, per rientrare subito a casa. “Come ha vissuto questa ed altre giornate di lutto?”, chiesi al prefetto Vicari.

Il prefetto Enzo Vicari  


“Non divido mai il privato dal pubblico. Vivo il mio ruolo con estrema intensità”. E ricordò la sera in cui aveva appreso dalla televisione dell’assassinio per mano della mafia del generale Caro Alberto Dalla Chiesa, “un personaggio straordinario, che secondo il suo stile viveva da protagonista la vicenda dell’antiterrorismo. Era la sera del 3 settembre dell’82. Sul video, dopo le 21, in sovrimpressione, scorreva la notizia della strage di via Isidoro Carini, nel pieno centro di Palermo. La signora Setti Carraro mi telefonò piangendo per chiedermi se anche la figlia era stata ammazzata. ‘Non lo so’, risposi, mi informo. Invece sapevo. Andai subito in via Quadronno con il generale Vitali e la signora appena mi vide capì. Fu per me un momento fortemente emotivo”. Vicari e Dalla Chiesa, che si conoscevano da 30 anni, erano arrivati lo stesso giorno, dicembre ’79, con lo stesso provvedimento del governo Cossiga (il generale come comandante della divisione “Pastrengo”. Io lo conobbi in una cerimonia per l’anniversario delle “Fiamme Gialle” nella piazza d’armi della caserma di via Melchiorre Gioia: lo vidi come una sorta di monumento umano. I giorni del terrorismo sono stati per Vicari i più dolorosi, “anche perché di fronte a noi, nella prima fase, c’era un muro senza spiragli: tutto ci era ignoto e ci creava sbigottimento”. Lo sapevano i cronisti, che correvano nei luoghi delle stragi: il delitto di Guido Galli. Il 19 marzo 1980; il delitto di Luigi Marangoni, direttore sanitario del Policlinico, il 17 febbraio del 1981... I “neristi”, dopo telefonate drastiche o minacciose, correvano anche a prelevare i volantini che i brigatisti lasciavano nei cestini portarifiuti o nei mezzanini della metropolitana, con il pensiero a una possibile imboscata. 

L'ispettore Armando Sales,i dirigenti Ravenna e Plantone
Ore tremende anche quando le voci al telefono imponevano di pubblicare un comunicato che il giornale aveva deciso d’ignorare. Enzo Vicari parlava con voce bassa, senza reticenze, dei suoi sette anni milanesi. Parlava di San Vittore, per esempio, che non aveva mai visitato, pur avendone la facoltà, perché erano in troppi quelli che andavano in pellegrinaggio in piazza Filangieri, e non sempre per manifestare solidarietà ai detenuti. Tuttavia, ne ha sempre seguito tutti i problemi: il livello di vita dei reclusi, le loro condizioni sanitarie, le tossicodipendenze, gli atti di violenza e di autolesionismo...
Quando il sindaco Carlo Tognoli, il procuratore generale della Repubblica, il comandante dei carabinieri, il questore… si riunirono per risolvere la questione di San Vittore, decisero la costruzione delle carceri di Opera e di Bollate, e mantennero la parola. Domandai al prefetto che cosa pensasse dello stato in cui era costretta a vivere la popolazione della casa circondariale di piazza Filangieri; rispose che la “condizione generale del sistema carcerario lombardo non era diversa da quella italiana.

Il procuratore Gresti,Vicari e Dall'Ora
E’ in atto questo grande sforzo dell’amministrazione della giustizia per un miglioramento generale delle strutture. E’ proprio in questo disegno che s’inserisce la costruzione delle due carceri di Opera e di Bollate e di quello di Monza, già avviata”. E la mafia? “Si dice che le varie operazioni delle forze dell’ordine hanno ripulito la città dalla piovra. Le sembra credibile? Le misure di prevenzione previste dalla legge Rognoni-La Torre vengono elaborate in una riunione delle forze di polizia che avviene in prefettura, e questo mi consente di affermare che la voce secondo la quale a Milano la mafia è stata decapitata è del tutto velleitaria.

Il sindaco Tognoli con Lino Rizzi,dir. del Giorno

Milano per la sua stessa caratteristica, per il suo stesso ruolo nell’economia del Paese non può non essere un obiettivo nella strategia del crimine organizzato. Bisogna però aggiungere che nella lotta a questo e ad altri fenomeni consimili in Lombardia sono stati fatti rilevanti progressi. Anche grazie ai mezzi offerti dall’ordinamento e dall’accresciuta professionalità degli uomini”. Vicari fu interrotto da Anna Maria Peluso con la notizia che una vecchietta, avendo letto sui giornali che il prefetto stava per lasciare il suo incarico, voleva salutarlo. Probabilmente era una dei tanti che lui incontrava nelle passeggiate a Brera, Le vecchiette, e i vecchietti, gli scrivevano anche. Una di queste le aveva inviato una lettera, elaborata con calligrafia minuta e sicura, in cui affrontava il dramma degli sfratti. E lui le aveva risposto per tempo, a mano, auspicando, da cittadino, “che la comunità guardasse agli anziani con maggiore rispetto”.

A sx. il prefetto Vicari con Presicci

Un giorno, facendo i soliti quattro passi a Brera, fu avvicinato da un signore, che gli chiese se poteva accompagnarlo. “Certamente”, fu la risposta, Camminarono insieme, Vicari gli offrì il caffè, parlarono di tante cose e poi si separarono. Il prefetto, che amava le chiese, andò ad ammirare la bellezza della basilica di San Nazaro. Ex ragazzo birbone al liceo di Patti (faceva scherzi da manuale), gli era rimasto il gusto della battuta spiritosa (“Qualsiasi carica deve esser temperata da una sufficiente dose di ironia”). Era persona umanissima, fiera delle sue origini. Anche se non potrebbe più vivere a Sant’Agata dopo 40 anni di assenza. Non lasciò dunque la zona Monforte, con la moglie Maria Angela, i due figli: Salvatore, trentacinquenne docente di marketing alla Bocconi; Donatella, 29 anni, avvocato, e i due nipoti, figli del primo, Michele, 5 anni, e Marco, 3, che avevano il divieto di chiamarlo nonno. Di sicuro avrebbe continuato a fare le sue passeggiate di 5 chilometri al giorno in campagna e a coltivare i suoi hobby: le letture di saggi e di Kafka, che gli ricordavano un vecchio amore: Praga. Qualche sera prima della pensione invitò me e il collega Claudio Schirinzi del “Corriere” a cena in un famoso ristorante di via Senato e ci raccontò tanti episodi dei suoi primi anni da prefetto. Era nel Sud, quando un signore che si attribuiva tanti meriti e conoscenze, oltre che frequenti viaggi a Roma, gli chiese un appuntamento, precisando che lui non poteva prima delle 4 del mattino. “Non si preoccupi, io alle 3 sono già dietro la scrivania”, rispose Vicari. Si video, si dissero quello che si volevano dire e poi entrambi tornarono a dormire. Grande Enzo Vicari. Era di una simpatia unica. Lo ricordo con affetto. E’ morto nel 2004


 

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