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lunedì 29 agosto 2016

Con un superlativo Memo Remigi

GRAN GALA' A MARTINA FRANCA PER GLI OTTANT'ANNI DE "LA ROTONDA". ORGANIZZATORE E ANFITRIONE UN VULCANICO ANTONIO RUBINO,  DIRETTORE DI "PUGLIA PRESS".
HA RESUSCITATO LE ATMOSFERE PIÙ SUGGESTIVE DEL LOCALE, DOVE SI ESIBIRONO NOMI CELEBRI DELLO SPETTACOLO, DA MINA A MILVA, A MODUGNO..."QUI FIORIRONO AMORI E GRANDI AMICIZIE", HA DETTO, RACCONTANDO FATTI E PERSONAGGI.


La Rotonda



Franco Presicci                   

Festa grande il 20 agosto nella villa comunale di Martina, per gli 80 anni della Rotonda. Dame in abito da sera; cavalieri con il “papillon”; “hostess” deliziose che portavano sulle tavole mozzarelle e capocollo accompagnati da Primitivo di Manduria. La sera era calma, nemmeno un alito di vento. A un passo dall’ingresso ho intravisto Memo Remigi a colloquio con una signora di un paio di anni sopra i quaranta sorridente e affascinante.
Remigi con una fanciulla
Il cantante non è cambiato molto dall’ultima volta che l’ho incontrato, per un’intervista, nei primi anni ‘60. Mi ha scrutato, non mi ha riconosciuto. Quando l’interlocutrice lo ha salutato, accingendosi a scendere uno scalino attenta a non incespiscare per il vestito lungo, mi sono presentato; e lui mi ha abbracciato. ”Scusami non mi ricordavo di te”. “Fra le tante persone che ti hanno applaudito, fra le valanghe di ‘fans’…è normale. E poi, dopo tutti quei lustri…”. E mi ha raccontato che dopo la chiusura in Galleria del Corso, a Milano di tutte le case discografiche “mi sono trasferito a Varese, città tranquilla, ricca di verde e di attrattive”. Da quelle parti ha conosciuto anche Piero Chiara (“Il piatto piange”, “La stanza del vescovo”…), che stava a Luino. Nel ’70 lo scrittore mi ricevette a casa per una conversazione per “Play Boy”, allora diretto da Paolo Mosca, che veniva dalla plancia de “La Domenica del Corriere” e guidava anche “Novella 2000”, al posto di Paolo Occhipinti trasferito a “Oggi”.
Francesco Lenoci
 E’gentile, Memo. Cordiale, spiritoso, simpatico, pronto alla battuta garbata e divertente. Ogni tanto tentava di bloccare Antonio Rubino, direttore del periodico “Puglia Press”, presentatore e organizzatore della manifestazione, che gli rispondeva interrompendo il suo girotondo fra un tavolo e l’altro. Accanto a noi, Francesco Lenoci, docente alla Cattolica di Milano e autore di una trentina di libri di economia, che si mostrava entusiasta di Memo: “Con tutto il successo che ottiene ovunque è alla mano, ti tratta come se fossi suo amico da sempre”. E dopo una prima chiacchierata con lui si è rivolto a me per saperne di più. E’ nato a Erba nel ’43, è figlio di un industriale della Brianza, la sua prima canzone è “Innamorarsi a Milano”, che tenne a battesimo Telemilano58, la mamma di Canale 5.
I Prisma
Fra le sue più belle “La notte dell’addio” e “Cerchi nell’acqua, motivo del film “Vivere per vivere”. “E’ una persona straordinaria” - il suo commento - mentre Memo osservava gli ospiti e sfiorava la cantante de “I Prisma” che già dominava il palcoscenico. Sorseggiava un bicchiere di vino e Francesco, “patriae decus” di Martina e legato come pochi alla Valle d’Itria, lo esortava ad assaggiare il capocollo, “che è una prelibatezza, uno dei vanti di Martina”. L’artista è già stato altre volte in questo angolo di paradiso e l’ha già visitato stupito dai trulli, dal barocco, dal centro storico. Ha anche apprezzato, oltre che i colori, i sapori. Che più? Ah, il calore della gente.
Memo Remigi al pianoforte
 Rubino continuava a galoppare e, tenendo in mano come uno scettro il microfono, raccontava un po’ la storia de La Rotonda, accennando ai suoi giorni più belli. Coinvolgeva Benvenuto Messia, poeta, veterano dell’obiettivo fotografico, attore, ciclista, più anziano di tre anni della festeggiata; mitragliava domande a destra e a manca, scovando più d’un frequentatore de La Rotonda di una volta in vena di far fluire i propri ricordi. Qualcuno alzava il dito per richiamare la sua attenzione e lui non si lasciava sfuggire l’occasione: “Porti il suo contributo, dica, dica; ecco, parli nel microfono, così la sentono tutti”.
“Nel ’58, dopo che in coppia con  Johnny Dorelli aveva vinto Sanremo con ‘Nel blu dipinto di blu’, qui vedemmo volare Domenico Modugno, celebrato in tutto il mondo. Era accompagnato dalla moglie Franca Gandolfi. Ma c’era già stato prima di quel trionfo”. Lo dice quasi commuovendosi.
   La lista dei cantanti che sono passati da qui è molto lunga: va da Teddy Reno a Rita Pavone; da Ornella Vanoni a Patty Pravo; da Sylvie Vartan a Milva, a Fred Buongusto, al Quartetto Cetra, a Dalida … Non mancarono Raimondo Vinello, Gianni Ravera, Gloria Christian... Rubino aggiungeva dettagli, rievocava gli anni 50, esponeva fatti, precisava, sottolineava, chiosava, indicava la giornalista Evelina Romanelli, discreta, raggiante nel suo vestito confezionato in una “boutique” di classe.

  A un tavolo vicino al mio tre o quattro signori si scambiavano i ricordi: “Durante i balli i giovani impegnavano il fotografo per immortalare l’amore appena sbocciato.
Remigi con Evelina Romanelli
  La Rotonda era il luogo preferito da tanti, che venivano anche da altri centri della Puglia”: da Bari, da Taranto, da Brindisi, da Putignano, da Alberobello…. A far lampeggiare il flash all’epoca c’era anche Benvenuto Messìa, neofita promettente. Sollecitato da Evelina, che su “Puglia Press” ha descritto le vicende de La Rotonda fin dalla sua nascita, ha confidato che “essere lì dentro mi dava la possibilità, sia pure per lavoro, di entrare in contatto con un salotto elegante, che, sulle note della musica, regalava grandi emozioni”. A quei tempi – ancora parole del Messia - non c’erano molte occasioni per avvicinare una fanciulla; in quel gioiello, complici la penombra e “Grazie dei fior”, la conquista era più facile, nonostante la presenza dei gendarmi: i genitori, che non staccavano mai gli occhi delle figlie. Le danze si aprivano alle 20 e terminavano a mezzanotte.
B.Messia e A.Rubino(foto Giovanni Rubino).
  In piedi vicino a una sagoma di luce un “arbiter elegantiarum” apriva il proprio libro: “La Rotonda non aveva alcunché da invidiare alla “Bussola” di Marina di Pietrasanta, fondata nel ’55 da Sergio Bernardini e diventata famosa a sua volta per i nomi famosi che vi si esibivano: Renato Carosone, Luciano Tavoli, Fabrizio De Andrè, Adriano Celentano, Ray Charles, Ella Fitzgerald, Giulietta Greco…”. Intanto il ciclone Rubino individuava e catturava personaggi, li interrogava come un professore di liceo agli esami di maturità; citava le orchestre che si alternarono, come quella del maestro Nasta di Taranto; e poi Carla Boni, che nel ’50 cantò con Gino Latina; e Gino Paoli nell’80. “Furono
anche  queste ugole a richiamare tanta gente in questo prestigioso locale di Martina”.
   Benvenuto assentiva con cenni del capo, mentre sfogliava “Puglia Press”. Francesco Lenoci sorrideva soddisfatto e di tanto in tanto scherzava con Memo Remigi, l’unico a non farsi strozzare dalla cravatta.
“Professore, come hai fatto a pubblicare tanti volumi alla tua giovane età?”. “E tu le tue canzoni, che hanno attraversato l’oceano?”.
Remigi canta con una ammiratrice

   Giunto il momento, Memo si è seduto al piano e ha iniziato il proprio repertorio. Ha anche imitato in modo superlativo le voci di altri cantanti, da Al Bano a Bobby Solo; rifatto Topo Gigio; sintetizzano brani della sua vita;  improvvisato battute e addirittura una canzone sul vino dell’amore “maturato alla luce dei tuoi occhi”. Ha anche cantato con una bella ragazza; reso omaggio all’amico Jimmy Fontana; fatto il ventriloquo. Ha lasciato un attimo la tastiera, è tornato fra il pubblico, complimentandosi per le acconciature bene architettate, per gli abiti, per i sorrisi, mentre Giovanni Rubino sparava i suoi “flash”. E’ poi tornato al pianoforte a far sognare.
Remigi attorniato dai fans
  Gli applausi sono esplosi soprattutto quando ha intonato “La notte dell’addio”, scelta da Battiato fra le 12 composizioni  più prestigiose per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Grande Memo. Artista vero, gentiluomo. I fans lo hanno accerchiato, offrendogli carta e penna per gli autografi. 
  A mezzanotte Antonio Rubino ha annunciato il momento dei premi “La Rotonda 2016”. Destinatari il professor Matteo Pizzigallo, Benvenuto Messìa, Francesco Lenoci, la brillante Anna Gennari, “public relation” del vino, e anche il sottoscritto, più che soddisfatto di questa manifestazione indimenticabile, conclusasi con una grande torta, gustata sotto lo sguardo della luna, che è più bella vista da Martina.




A Franco PRESICCI il premio "La Rotonda 2016" 

La sera del 20 agosto è stato consegnato per la sua attività giornalistica, ma anche per l'amore che ha sempre dimostrato per Martina, dove è stato accolto fin da quando aveva 11 anni in un trullo sul Ghiancaro. 
C'era la guerra e dal piazzale si vedeva l'orizzonte fiammeggiare per le bombe che cadevano sulla sua Taranto. Quei giorni li ha descritti in racconti e filastrocche, alcune in dialetto tarantino.                          
La sera in cui anni fa, al Circolo della Stampa di Milano, Francesco Lenoci festeggiò i 700 anni di Martina, Presicci recitò una sua dichiarazione d'amore per la Città dei Trulli e del Festival, pubblicata anche su "Umanesimo della Pietra".













mercoledì 17 agosto 2016

Ricordando....

 Con Minervini la Puglia perde un politico vero

ANTONIO CONTE

Coordinatore in Puglia dell’Associazione Agire Politicamente





Guglielmo Minervini è stato un politico vero, che ha interpretato in maniera sobria l’esposizione mediatica, che come amministratore regionale lo portava spesso ad apparire pubblicamente. Distacco emotivo, sincerità, simpatia: erano queste le qualità che trasmetteva nel dialogo con il pubblico e con l’interlocutore. Esprimeva la dissacrazione della politica, ma evidenziava serietà dalle parole e dal suo sentimento profondo. Era lungimirante e con i piedi per terra, riguardo alla ingenerosità del futuro economico, riguardo soprattutto al lavoro nel mondo giovanile. Non si perdeva d’animo.

Come don Tonino Bello, di cui si è già detto era stato allievo, credeva nella azione autonoma  dei laici credenti in politica, che rispondono esclusivamente alla propria coscienza, <<… Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, …>> [Gaudium et Spes, n. 43].

Per il centrosinistra e per l’Ulivo è stato in tutti questi anni punto di riferimento per il rinnovamento e una nuova visione della politica, in generale e per la Puglia. Non andava in cerca del consenso, era autentico; non scendeva a compromessi interessati per questo. Capace di esprimere una sottile ma benevola ironia che, con un sorriso sdrammatizzava le amare sentenze di una polita dell’apparenza, dell’ipocrisia e della menzogna. Uomo schietto e affabile, Minervini è stato un riferimento per i cattolici democratici e per quanti credono nella laicità dell’azione politica e dello Stato.

Per questo suo profilo di politico determinato, coerente ma nel contempo distaccato, risultava credibile ed affidabile. Quello che lo ha portato ad essere eletto per acclamazione primo coordinatore del partito in Puglia, nell’Assemblea Costituente della Margherita (progetto politico che unificava partito popolare, democratici e repubblicani), svoltasi nell’auditorium della Fiera del Levante a Bari, nel marzo 2002. Figure come lui che si cercano nei momenti fondativi e importanti, quando nei cuori e nelle menti dei contraenti albergano sentimenti buoni e di ritorno all’essenza della funzione sociale ed umana della politica. Si sperava che lo stesso sarebbe avvenuto anche con la formazione del Partito Democratico, ma la voglia di potere e la frenesia di occupare posti, a tutti i livelli, che ha caratterizzato la nascita di questo partito, lo avevano posto in secondo piano. Nella cosiddetta “primavera pugliese”, del ritorno del centrosinistra alla guida del governo regionale nel 2005, con la presidenza di Vendola, Guglielmo Minervini non sarebbe potuto non diventare assessore, anche per la stima reciproca tra i due, ma soprattutto per la notorietà acquisita già come ottimo sindaco di Molfetta e per la speranza che infondeva con la sua testimonianza politica.

Lo ricordo relatore, agli inizi del suo primo mandato di assessore, in un seminario nazionale estivo di formazione culturale e politica per i giovani,organizzato dall’Associazione Agire Politicamente presso Villanova di Marina di Ostuni, come riferimento ed esempio di “rigenerazione della politica”. Nel suo interloquire franco e spontaneo con i giovani, con un simpatico intercalare, riusciva a trasmettere la politica come una responsabilità civica, che inevitabilmente coinvolge ogni cittadino e che l’impegno politico diretto esalta la persona e la fa crescere umanamente, nonostante le delusioni e le amarezze che presenta.

L’ultima volta che ho avuto il piacere di ascoltarlo e parlagli è stato qui a Crispiano lo scorso anno, in occasione della campagna elettorale per  le Primarie del centrosinistra alle Regionali 2015. Si era giustamente candidato a Presidente della Regione Puglia, pur dello stesso partito del segretario Emiliano, perché la politica, il consenso, deve nascere dal basso e, da buon amministratore regionale che era stato per due legislature, credeva nella scelta del successore di Vendola sulla base di una continuità, di un progetto di economia solidale e sostenibile per la Puglia e non  per emotività e sovrapposizione mediatica.



Crispiano, 11.8.2016

 Don Cosimo Montemurro

NICO SANTORO




Terminata la funzione serale baciava l’altare e percorreva i pochi passi che lo separavano dalla sagrestia, si inginocchiava di fronte al crocifisso e con gesti misurati cominciava a togliere la pianeta, liberava la stola sciogliendo il cingolo che cingeva il camice ai fianchi e sfilandolo lentamente lo appendeva nel piccolo armadio. L’amitto, invece, lo ripiegava poggiandolo sulle ostie da consacrare, chiuse nel comò di fronte a cui compiva la vestizione; era un panno in lino di forma quadrata che copriva accuratamente il collo della tonaca e dalle cui estremità superiori pendevano due legacci che si incrociavano in vita per fermarlo.
Di tutta la preparazione alla vestizione liturgica l’apposizione dell’amitto costituiva la frontiera inespugnabile che separava inesorabilmente l’uomo dal divino. Non diventavi il Cristo, l’amitto ti inchiodava – preservandoti - nella tua umanità, nel tuo essere strumento “in persona Christi”.
Era l’elmo posto a protezione del cuore e della mente dell’uomo dagli assalti del maligno.
“Impone Domini, capiti meo galema salutis, ad expugnandos diabolicos incursus” (imponi Signore, sul mio capo l’elmo della salvezza, per sconfiggere gli assalti diabolici) di tutte le preghiere legate alla vestizione che conducevano al raccoglimento prima della celebrazione, questa era l’unica che il prete recitava a voce più alta, affinché tutti sentissero – maligno compreso – che la sua fede non avrebbe vacillato mai.
Mai.
La fede non vacillava, ma il suo cuore si; lo vedevo appena finita la funzione serale lentamente affacciarsi dalla sagrestia – sospeso tra la speranza e il disincanto – cercare nel buio qualcuno rimasto per ascoltare le parole dell’uomo e non il sermone del prete. Mai nessuno seduto tra i banchi, col cappello in mano, che lo avesse aspettato per chiedergli semplicemente “come va”, che lo avesse preso sotto braccio e gli avesse detto “Vieni che andiamo a bere e a mangiare, in nessun altro nome che non sia quello del pane e del vino”.
Mai.
Restavano soli nel silenzio, lui ed il Cristo, a guardare le file vuote, ognuno inchiodato nel legno della propria croce.
Lui e il Cristo...Quante volte rimasti soli, senza parlare, riuscivano a riannodare i pensieri lasciati sospesi pescando sicuri nel personalissimo vocabolario di parole non dette, segreto custode della loro dolorosa grammatica interiore. Eppure, quelle solitudini parallele, alcune volte avevano raggiunto quel punto immobile sospeso nell’infinito, incontrandosi.
Come nelle notti portoghesi con le stelle in bilico tra il Tago e l’Atlantico, in cui il giovane seminarista seduto sulla collina guardava l’immensità del cielo abbracciata dalla statua del Cristo Rey e riusciva a sentirsi parte di quell’abbraccio. Riusciva a riscaldarsi il cuore. Sulla riva sinistra del fiume, nel cuore di Almada, sotto gli occhi di Lisbona diventava concreto il sogno, padre del pensiero e la fede conseguenza del progetto. Sotto quel cielo chiunque avrebbe creduto andando oltre le verità contenute in quel credere. Nessuno avrebbe mai potuto pensare, in quel momento, che la fede potesse essere solo una forza spacciata per verità.
Quanta povertà durante il fascismo, le vie di fuga dalla fame erano pochissime e, tra la polvere delle strade brecciate, tutti sapevano che un uomo affamato non è un uomo libero, figurarsi un bambino. Bisognava crederci per farcela, bisognava avere fede. La ebbe, come un dono cercato e aspettato, con essa seminò – da solo- i suoi campi, e divise –con altri- il suo raccolto.
Radunò intorno a sé, come fossero suoi, i figli dei contadini che mutavano in operai per aiutarli a tracciare una strada che fosse anche una via.
Fu – a suo modo – Padre...nostro. Di quelli che sanno di dopobarba comune e non d’incenso, di quelli che non sempre hanno una risposta ma di sicuro, nel dubbio, una carezza sul capo.
Fu Padre nostro, senza abbandonarci mai, senza lasciarci sul legno di nessuna croce, né nel buio di una vuota sagrestia ad implorare risposte, a rimpiangere Maddalene non ancora arrivate o temere nuovi Giuda pronti a baciare.
Lavorò per negazione, ragionando sui vuoti trasformandoli in pieni, campendo col bianco della ragione il foglio nero dello smarrimento. Lavorò per noi, andando oltre la gloria del suo nome, la recinzione di un regno, la propria volontà. Divise il pane e perdonò peccati, abbassò gli occhi alle tentazioni ma non ci liberò dal male; questo non gli riuscì. Il male, per fermarlo, lo prese intero addosso a sé.
Lo chiuse in sé.
Non bastò.
Non ci fu nessuno a proteggerlo; in quel momento era senza amitto, sorrise senza amarezza, sapeva già. Ci sono padri che inseguono glorie passanti attraverso la carne lacerata dei propri figli.
Lui era il prescelto.
Chissà se il Cristo, davanti alle file vuote dei banchi di una chiesa di paese o nel cielo atlantico e portoghese di Almada, pescando col cuore nel loro vocabolario di parole non dette, bisbigliò qualcosa, come solo un fratello può fare; chissà se provò a salvarlo, a schiodarlo dal legno. Sapeva che il gregge sceglie sempre Barabba.
Sicuramente si' ma don Cosimo non lo ascoltò.
La Pasqua del 1993 cadde l’11 di aprile.
Lui, il 09 all’ora nona... come suo fratello, dimenticato sul legno.

mercoledì 10 agosto 2016

LA CASCINA LINTERNO A MILANO UN’OASI DI PACE PER IL POETA


Ospitò per nove anni Francesco Petrarca

LA CASCINA LINTERNO A MILANO UN’OASI DI PACE PER IL POETA

  In via Fratelli Zoia, tra distese di verde e acque limpide, l’Aretino corresse “Il Canzoniere”, curò l’orto, studiò e fece lunghe passeggiate. In anni a noi vicini a due passi dalla struttura rurale abitò il “pret de Ratanà”, don Luigi Gervasini, erborista, guaritore, benefattore, per molti anche santo.







Franco Presicci


Ai fratelli Angelo e Gianni Bianchi e al gruppo dei loro Amici occorrerebbe innalzare un monumento. Sono loro che hanno lottato per anni affinchè fosse restituita dignità alla Cascina Linterno, dove, secondo una robusta tradizione e tanti indizi, da 1353 al 1361 soggiornò Francesco Petrarca. Oggi la storica struttura rurale di via Fratelli Zoia, a Quarto Cagnino, può finalmente accogliere convenientemente i tanti visitatori e tutti i mesi decine di manifestazioni culturali. La Linterno – riferisce Gianni - è stata restaurata con un progetto del Politecnico indicato con tre nomi: “Cappello, scarpe, bastoni” (tetto, fondazioni, consolidamento), e ora è “una vecchia signora ringiovanita, messa in stato di sicurezza, con la gioia anche dei giovani che sollecitati da noi la domenica venivano a ripulirla, anche strappando le erbacce”.

Prima di scegliere questo angolo di paradiso come propria residenza a Milano Petrarca aveva avuto altre abitazioni: vicino alla Basilica di Sant’Ambrogio, dove in via Lanzone la sua presenza è testimoniata da una targa: poi nei pressi di via San Simpliciano, luogo che non ha conservato di lui alcuna traccia…. infine la Linterno, che all’epoca si chiamava “Infernum”: non si sa perché, visto che Petrarca ne parlava in termini entusiastici. Lì studiava, passeggiava, meditava nella “recondita libraria” (che sicuramente si era portato con sé), rivedeva le proprie opere, scrisse L’”Itinerarium siriacum”, dettagliata guida dei pellegrinaggi in Terrasanta, che non gli servì per la paura che aveva del mare; coltivava l’orto e ammirava “i deliziosi paesaggi”, ricchi di fontanili e marcite ancora oggi intatti. E come il poeta latino Orazio desiderava essere sepolto sulle sponde del fiume Galeso a Taranto, ammirato anche da Virgilio…,Petrarca desiderava concludere i propri giorni nella “solitudine di Linterno”.

La ricerca della tranquillità fu una costante dell’autore del “Canzoniere”, che aveva ritenuto di averla trovata a Vauclouse (Avignone), a Selvaplana (Parma), ad Arquà, dove morì la notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374. La peste lo costrinse a lasciare Milano nel 1360 per Padova; raggiunse poi la Serenissima, che le regalò una casa a condizione del lascito della biblioteca; fece ritorno a Milano per conoscere la nipote Eletta e per incontrare il duca Galeazzo; e poi ancora nel 1368 per le nozze a Santa Maria Maggiore di Violante Visconti con il principe Leonello di Clarence, figlio di Edoardo III, i cui festeggiamenti si svolsero proprio alla Linterno, con la partecipazione dei più noti rappresentanti delle corti europee.

I fratelli Bianchi non si sono soltanto battuti, assieme agli “Amici della Linterno”, per la conservazione di questo patrimonio prestigiosissimo, ma hanno anche cercato documenti, lettere, incunaboli, mappe…per ricostruire la storia della cascina e ogni particolare delle giornate milanesi di Petrarca. E hanno trasfuso il materiale raccolto in diversi volumi pubblicati in bella veste tipografica. Hanno anche scovato e conservato la campana del 1753 caduta dal campanile; raccontano le leggende, come quella della statua dell’Ecce Homo, che, se fosse rimossa dall’oratorio per collocarla altrove, provocherebbe guai seri. E tengono viva, soprattutto Angelo, la memoria del “pret de Ratanà”, all’anagrafe Giuseppe Gervasini, un sacerdote criticato da molti, venerato da tantissimi e apprezzato anche dal cardinale Shuster.


Nato a Sant’Ambrogio Olona nel 1867, don Giuseppe abitava in due locali spogli proprio a due passi dalla Cascina Linterno, precisamente al civico 194. Aveva solo due tonache, una per tutti i giorni e l’altra, unta e spiegazzata, per la festa. Era un orso e parlava sempre in dialetto. Ma era a disposizione della gente, curava con le erbe officinali e non si faceva mai pagare. Era lunatico, scorbutico, volgare, redarguiva severamente le donne che lo celebravano come taumaturgo. Ma – dice Angelo Bianchi – aveva un dono di Dio; e io sto facendo in modo di metterlo nella giusta luce”. Morì il 22 novembre del ’41 e venne sepolto al Cimitero Monumentale, dove tutt’oggi sono una folla quelli che vanno a pregare sulla sua tomba e a deporre foto e fiori accanto al crocifisso, che gli fu rubato e restituito.

Di Don Giuseppe si raccontano storie straordinarie: per esempio quella del bambino che aveva dolori alle gambe che gli impedivano di camminare. I dottori si dichiaravano impotenti; e la nonna Rosa andò dal “pret”, che allora stava in piazza Fontana, e lo supplicò d’intervenire. Lui la rassicurò: “Torna a casa, la tua creatura si muove meglio di te”. Faceva camminare controcorrente nei fontanili chi soffriva di dolori artritici; e dava ai bambini la frutta fatta ammuffire. I postulanti arrivavano da lontano, anche dalla Svizzera, e parlavano di miracoli.

L’episodio del tram – ricorda Angelo Bianchi – è famoso. Un giorno mentre a passo lento don Giuseppe andava verso la fermata del tram contrassegnato con il numero 34, il manovratore, forse per fargli uno scherzo, forse perchè spazientito, mise in moto, ma dopo qualche metro il mezzo si fermò per …”aspettare il reverendo”, che, salendo, disse: “Adess va pur”. Da quel momento quella fu ribattezzata “fermata Gervasini”.


L’11 maggio 1892, ordinato sacerdote, i parenti, i vicini e i simpatizzanti allestirono un banchetto sontuoso. Ma lui non si presentò, e non chiese scusa. Anche per questi comportamenti alcuni lo scansavano, e i dottori si irritavano sempre di più, fino ad accusarlo di esercizio abusivo della professione. L’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari lo sospese “a divinis”, probabilmente non per l’uso della medicina empirica, ma per l’appoggio morale da lui dato alle proteste dei contadini contro il padrone dei terreni che comprendevano il borgo e la cappellanìa, allora retta appunto da don Giuseppe. Il possidente inviperito si rivolse alle autorità ecclesiastiche, che, adottato il provvedimento, non vollero argomentarlo: “La vera ragione la sapremo nel 2011, perché così vuole la Chiesa”. Chiuso. Ma la soddisfazione di chi odiava il prete durò poco: otto mesi dopo fu decretata la “restitutio in sacris”, che non fece indietreggiare un parroco ostile a questa decisione; e il cardinale Schuster gli fece una tiratina d’orecchie. Don Gervasini aveva 31 anni e 11 di messa.

Era anche benevolo, specie con i ragazzini che gli rubavano il vino. Se ne accorgeva e guardava dall’altra parte. Tutt’al più a volte somministrava al colpevole uno scappellotto, senza dirgli il motivo.
 

Aveva trascorso l’infanzia in via Borsieri, vicino al cimitero della Moiazza, allora frequentata da “locch” (malavita) e “gainatt” (ubriaconi). E nessuno avrebbe immaginato che sarebbe diventato un personaggio famoso come erborista, guaritore, alchimista, benefattore. Un uomo tra storia e mito. Cacciò urlando una vecchietta che, in cambio del “rimedio” ottenuto, si ostinava a consegnargli un pacchetto: “Mi de sciarpett ne porti minga!”. Come faceva a sapere – si chiese la gente - che la confezione conteneva una sciarpa? E c’è l’episodio della figlia di un lattaio che stava male e i medici non sapevano che pesci prendere.
Il padre salì sul carretto che utilizzava per trasportare il burro e andò dal “pret”, che lo stava aspettando sulla soglia, per dirgli che la cura ce l’aveva proprio lui sul cassone del mezzo: “Devi cospargere il burro sul corpo della ragazza e vedrai che starà bene. Bastò una settimana. Un santo? Per chi lo cercava, lo era.

mercoledì 3 agosto 2016

Nicola Giudetti, il Don Bosco di Taranto vecchia IL SUO PICCOLO MUSEO DI VIA DUOMO ACCOGLIE TURISTI E TANTI CURIOSI


Nicola Giudetti, il Don Bosco di Taranto vecchia   

IL SUO PICCOLO MUSEO DI VIA DUOMO  ACCOGLIE TURISTI E TANTI CURIOSI

Il vulcanico anfitrione insegna ai ragazzi l’arte

della tavolozza. Li ha aiutati a costruire

la processione della Settimana Santa e li prepara

a far da guida ai forestieri.

Nicola Giudetti con le paricelle

La supplica del dirimpettaio Vincenzo Santoro al Comune

per un locale in cui poter provare le armonie tarantine

dell’indimenticabile compositore Saverio Nasole 

 



Autoritratto
 Franco Presicci

Nella città vecchia lo chiamano don Bosco. E qualcuno anche “prufessòre”. I titoli sono dovuti al fatto che Nicola Giudetti, 79 anni, già italsiderino, con le sue iniziative tiene impegnati i ragazzi, insegnando loro anche le tradizioni, i costumi, la storia del contesto in cui vivono e le buone maniere. Adesso li sta allenando per il campionato “d’u currùchele” che, con tanto di giurìa, si svolgerà tra poco in uno slargo di via Duomo.
Angolo della Città Vecchia
 (Archivio Giudetti)
Se le inventa tutte. Ha anche guidato gli allievi nella costruzione di una processione dei Misteri con palazzi, balconi, piazze e la folla che assiste al rito. Il plastico contiene dunque ogni particolare, persino i vasi di fiori appesi alle ringhiere. E’ la prima sorpresa che i turisti trovano in questa piccola bottega, un paio di stanzette non troppo illuminate, ma zeppe di oggetti e attrezzi che ricordano anche gli utensili e i mestieri di una volta: “’u conzagràste”, “’u cadaràre”, “’u stagnìne”, “’u scarpàre” con il grembiule scuro che, “azzìse ‘nnand’o banghetìedde”, troneggia in dimensioni ridotte ma con espressione icastica, impugnando “’u martìedde” da battere “sus’a le semenzèlle”.
Giudetti con il trapano
 d'u conzagraste'
Tedeschi, inglesi, francesi, spagnoli con numerose nidiate si affacciano, entrano, osservano, domandano, molti soprattutto con gesti da Marcel Marceau, mimo a suo tempo celebrato anche al Lirico di Milano; e Giudetti risponde da cicerone impeccabile.

Quando un visitatore s’inoltra nel suo piccolo museo fa fatica ad andarsene dopo essersi spiritualmente arricchito, anche perché è catturato, rapito dai racconti di questo anfitrione entusiasta e simpatico, quasi calvo, faccia tonda, occhi piccoli e vispi, baffetti discreti, memoria sveglia. Un pozzo di notizie. Giudetti mostra il trapano che maneggiava “’u conzagràste”; “’a sùgghie”, “’a fòrme” “d’u scarpàre” e li spiega, li illustra. Impugna “’na parecèdde” e snocciola la storia del bisso che ebbe a Taranto lavoratrici di alta classe.

Giudetti al lavoro
Non lo ferma nessuno. In pochi minuti descrive la “troccola” e la sua funzione; “’u muèzzecafave”; “’a sèrre” e “’u chianuèzzele”del falegname che faticando spargeva “farfùgghie” negli androni degli edifici periferici trasformati in laboratorio; il fuso della nonna, il pialletto per fare “’u grattagràtte”… Che altro? “Ah, ‘U brustelatùre’, ‘u vì’? ‘A vrascère’, ‘u mòneche’, le stè’ vìde? Tùtte tenìme, no’nge mànghe pròbbie nìende”. E sfoglia un librone di fotografie della Taranto che fu e decanta il fiume Galeso, caro a Orazio, Virgilio…; il Tara, “’a Duàne d’u pèsce”, “’a Marine”, “’u pònde de fìerre” e ”quìdde de pètre”, “‘a Fundane, ca no’nge jè cchiù quèdde de ‘na vòte... Na, uàrd’accùm’ère”. “Fìermete, Necò, respùnne a mmè’’”, lo supplico. “Sìne, stoch’a ssènde”.
Il fiume Galeso...una volta!
Ma non mi ascolta, mi prende per un braccio e mi porta in una piazzetta a due passi davanti ai “murales” che ha fatto creare dai ragazzi. Il suo dirimpettaio, Vincenzo Santoro, 63 anni, 30 a Milano, geometra, nato in largo Gaetano, all’inizio “d’a vieremìenze”, bravo con la chitarra e la tastiera, ne approfitta: “Ho fatto una richiesta al Comune per ottenere con un canone minimo un locale dove poter provare le armonie tarantine e per alloggiare un’associazione no profit, “’A varca d’ore”. Se c’è da restaurarlo, provvedo io.

Intendiamo ridar vita al gruppo folcloristico lasciato dall’indimenticabile compositore Saverio Nasole. Abbiamo contattato il direttore ed ex componenti del conservatorio Paisiello; la direzione della scuola Archimede; due scuole di ballo¸ e tutti si sono detti disposti a darci una mano. Ce la dia anche lei, scrivendone”. Persona squisita, riservata, abile a modellare la creta, che poi fa decorare dai bambini, uno dei quali quest’anno ha terminato la seconda elementare.
I Misteri
Torniamo nella nicchia di Giudetti. Sono spettatore in prima fila nella platea di un teatro-bomboniera. Lui, Nicola, il mattatore che calamita l’attenzione; il Roberto Brivio dei “Gufi” che sulla scena spadroneggia scatenando un applauso dietro l’altro. Devo tornare a Martina, ma sono inchiodato tra un esposizione e l’altra.

La Troccola
Sono le 19, “addà gnìndre se stè’ stùt’a lùce”, ma non desidero perdere nemmeno una parola che sboccia sulle labbra di questo fenomeno, che sa presentare la sua città con amore travolgente. Di sè dice che tra l’altro ha fatto presepi con valve di vongole e ostriche; che viene invitato nelle aule per descrivere il volto antico “d’a nàche sòve”. E’ interessante quello che dice. Ricorda il vicolo in cui è nato e la maestra che insegnava a fare le nasse; recita la poesia di Antonio Fornaro, che lo immortala come pittore “ca fàce perdùne, vìche, chiàzze, rèzze…’nu pettòre fine fine, ‘nu valènde fatiatòre, ca dè’ tant’anòre a Tarde”. Ma non le proprie, dove “c’ù pennìdde da reggìne l’hàgghie trattàte”, intendendo la sua “Due mari”. “Necò’, e de le mestìere andiche ce mme dìce?” Giochi di fuga, di destrezza, d’inseguimento, di abilità…Gli si accende lo sguardo e si avvia partendo “d’a levòrie”. Si sofferma sulla sua origine spagnola, sui libri che ne hanno parlato, dal Vocabolario del dialetto tarantino di Domenico Ludovico De Vincentiis, del 1872, alla Rivista delle tradizioni popolari di Andrea Gabrieli del 1893, a
Màrche Pòlle
“Taranto…tarantina” di Cosimo Acquaviva, del 1931…Inanella un’infinità di ricordi personali, estraendo da un cassetto una pubblicazione a cura di Umberto Candelli, “Giochi e mestieri”, che riserva alcune righe alla sua infanzia trascorsa con il papà decoratore che lo portava con sé per mostrargli il proprio lavoro.

Insomma da Nicola Giudetti c’è molto da imparare: e lo saluto con la voglia di rivederlo. Lui cerca di trattenermi, mentre si sente la voce di Santoro che con pacata severità e gentilezza redarguisce un giovanotto: “Vi ho detto tante volte che non dovete dire parolacce. Quando lo capirete?”; e il discepolo che sta dipingendo i confratelli modellati dal maestro si spreme il cervello per combinare i colori da spennellare sulla faccia e sulle mani. Osservo un pannello confezionato da Nicola: un “collage” con la copertina “d’U travàgghie d’u mare”, poema di Alfredo Lucifero Petrosillo, Màrche Pòlle “c’u panarìjdde ‘mmàne” e un volantino originale di una manifestazione canora del gruppo di Saverio Nasole. Arrivano altri curiosi: uomini, donne, bambini. Sono diretti all’Ipogeo, ma prima vogliono fare una capatina da Giudetti, dove ha sede il centro culturale Vito Forleo (autore di “Taranto dove la trovo”). Ne hanno sentito parlare, e vogliono ammirare la processione, che – giurano – seguiranno dal vivo a Pasqua.
E Nicola li sequestra, li incanta, li sommerge di particolari, riprende a celebrare Taranto, mentre Semeraro mi ricorda i cinema che non ci sono più: il Rex, il Littorio, l’Odeon…; la Sem di don Ciccio Messinese, la supplica rivolta al Comune per avere il monocale, che lui, se necessario, rimetterebbe a nuovo per rispolverare versi e musiche di Saverio Nasole: “‘U cucchière”, “Serenate a le do’ mare”, “’A ferbarole”, “Ci po jè ‘na tarantelle”… E rivolge un omaggio ad Anna Fougez, che, nata in vico Innocentini, divenne una star applaudita e riverita ovunque. ”Stè’ scurèsce, Neco’. Tu fai notte, io sono atteso a Martina”. Ma aveva ancora da sottopormi alcune immagini d’epoca e i suoi quadri. Doveva ancora parlarmi della “sua” scolaresca, alla quale insegna l’arte della tavolozza e a far da guida ai turisti. Ne avevamo incontrato uno circondato da una comitiva di inglesi. Lo avevamo ascoltato nella descrizione di palazzi storici, di vichi, di cortili che poi ritraggono sulle tele. Quando si viene da Nicola Giudetti, si rischia di perdere il conto delle ore. Ma certamente non si impegnano inutilmente. Andando verso piazza Castello, meditavo su quanta gente ama Taranto, dea dei “due mari”.