Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 29 maggio 2019

Appuntamento ogni domenica in via Armorari

            Esposizione di figurine liebig di Roberto Fontana in via Armorari
NELLE FIGURINE DELLA LIEBIG

SCORRE LA STORIA DEL MONDO


Per realizzarle s’impegnarono artisti di alto livello, che non firmavano per il timore di perdere prestigio.

Splendidi anche i pezzi di “Bon Marchè”,             i magazzini fondati da Aristide Boucicaut.

Le figurine erano un veicolo pubblicitario che faceva sognare..









Franco Presicci   


L’apripista delle figurine e di altri stampati e quindi delle raccolte nel settore, fu Luigi Senefelder, di Praga, autore poco fortunato – parola di Massimo Alberini, autore tra l’altro, del volume “Collezionismo minore”, edito nel 1984 - convinto che “il procedimento di incisione all’acquaforte, su lastra di rame, può essere trasferito su pietra levigata che contrariamente al metallo non viene corrosa dall’inchiostro e consente la tiratura di migliaia, e non più di qualche decina, di esemplari. Fu la nascita della litografia … e della stampa a molti colori…”. 
Brera
Nel 1800 Senefelder si guadagnò l’incarico di direttore della stamperia reale di Prussia; e il litografo Engelmann, nel 1839, attuando quella scoperta, avviò la produzione in cromolitografia, battezzando quelle figure che dai collezionisti furono chiamate “cromo”. In seguito si svilupparono altri sistemi e il mondo delle figurine si allargò, facendo aumentare il numero degli appassionati. Per le figurine cominciò il successo. I Magazzini “Bon Mercihè”, fondati da Aristide Boucicaut, con quei quadretti, coinvolse i bambini e gli adulti prima con i “souvenirs” delle esposizioni universali, iniziando da quella di Parigi del 1889 e continuando con la storia dell’auto, i primi aeroplani, la moda, la visita dello zar, nel 1893, nella capitale francese...
Copertina figurine liebig



Brillante la sorte delle figurine Liebig, dal nome di Justus von Liebig (1802-1873), due cattedre universitarie e parecchie conquiste nel settore della chimica alimentare. Molti collezionisti assunsero una notevole importanza. Tra questi, il nostro Giancarlo Saccone. Nel febbraio del 2008 m’intrattenni un paio d’ore con Roberto Fontana, che operava in questo ambiente da quarant’anni. Lo incontrai in via Armorari (un tempo popolata da laboratori di valenti armaioli, tutelati, con i loro collaboratori, garzoni compresi, da un paratico, che tra l’altro imponeva loro una disciplina severa), dove ogni domenica mattina si svolge il mercato di ogni tipo di collezionismo, dai francobolli alle stampe antiche, alle cartoline d’epoca, alle medaglie, alle monete … Fontana si raccontò volentieri. ”A diciassette anni presi a cercare francobolli e fumetti. Per il piacere di classificare, ordinare, conservare”.
Roberto Fontana, collezionista figurine
Piazza Duomo nel dipinto di Corvaja
















Poi passò alle figurine, catturato ben presto dalle Liebig, e vi si dedicò con fedeltà assoluta. “Mi piacevano le immagini, una miriade: i fiori, gli attori del cinema, le ville d’Italia, le montagne, le manovre estive dell’esercito italiano, i costumi regionali, la coltivazione del tè e del caffè, le guerre, i monumenti, lo sport, i dinosauri, i segni dello zodiaco, i rifugi alpini, il canale di Suez, la guerra di Troia, le grandi battaglie, i personaggi celebri dell’antichità: con informazioni, sul retro, riguardanti il soggetto …”. Per esempio, la figurina dedicata a Cortina d’Ampezzo spiegava che le bellezze naturali di questo paradiso ‘devono la loro notorietà in gran parte anche agli impianti di funivia, come la Cortina-Poco, aperta nel 1926 e rinnovata trent’anni dopo per le Olimpiadi invernali; e la funivia di Faloria, data di nascita il ’39, altra considerevole finestra spalancata su un meraviglioso panorama”. Una figurina del 1910 commemorava i 50 anni della spedizione del Mille; una del 1912 la guerra italo-turca, un’altra ancora, del 1907, le rivoluzioni del XX secolo. Oltre 1800 temi, secondo l’autorevole catalogo Sanguinetti. Roberto Fontana ricordava, con entusiasmo e con grande competenza, questo tipo di collezionismo: “Un’enciclopedia a colori, dove la gente poteva anche imparare la storia, la geografia, conoscere gli angoli più suggestivi dello Stivale…”. E tanti infatti le ebbero come scuola. “A quei tempi i ‘mass media’ scarseggiavano, il piccolo schermo era di là da venire, e questi preziosi cartoncini, che parlavano in diverse lingue, compreso il russo, furono anche un veicolo pubblicitario efficacissimo. La cromolitografia per eccellenza era la Liebig. Portava un nome rilevantissimo, come detto quello del barone Justus von Liebig, a cui si deve il famoso estratto di carne. Un ingegnere inglese, nel 1862, ebbe l’idea di sfruttare quella ricetta e inaugurò una fabbrica in Uruguay, con ufficio ‘marketing’ a Parigi, città dalla quale ebbe inizio la suggestiva vicenda delle figurine Liebig”. Se ne innamorò subito, con fedeltà assoluta. ”Le osservavo quasi incantato: i fiori, gli attori del cinema, le ville d’Italia, le montagne, le manovre estive dell’esercito, i monumenti, lo sport, i segni dello zodiaco...
Via Dante da piazza Cordusio
Una del 1910 commemorava i cinquant’anni della spedizione dei Mille; un’altra, del 1912, la guerra italo-turca; un’altra ancora del 1907, le rivoluzioni del XX secolo. Oltre 1.800 temi, secondo l’autorevole catalogo Sanguinetti. Fontana, pacato, quasi sottovoce, espressione severa, sfornava notizie su notizie: “Il fenomeno stimolò molti editori. Decenni dopo nacquero i concorsi a premio, che coinvolsero schiere di persone; e il “Feroce Saladino”, che nel 1937 sfociò in un film interpretato dal simpaticissimo attore catanese Angelo Musco (figlio di un umile bottegaio, s’impegnò nel teatro a sedici anni con l’Opera dei Pupi”, affrontò il varietà, facendosi sempre più apprezzare, tanto che l’autore drammatico Nino Martoglio scrisse per lui “San Giovanni decollato”, il critico teatrale Renato Simoni lo esaltò e Luigi Pirandello gli affidò “Pensaci Giacomino”, Liolà… il successo a Milano con “Il paraninfo” di Capuana, ”… morì nel capoluogo lombardo nel ’37). Le figurine dunque furoreggiarono: esibendone un esemplare si poteva entrare al cinema senza passare dalla cassa. Sotto i portici di piazza Santa Redegonda a Milano si accalcavano centinaia di persone in cerca dei pezzi più particolari, rari, che oggi possono avere un valore di migliaia di euro. E’ stata un’avventura appassionante, quella delle figurine Liebig – commenta Fontana - Iniziata nel 1872, s’interruppe nel 1975 (all’estero tredici anni prima), riprese nel 1998, per terminare nel 2001 con la serie contrassegnata dal numero 1878. “Sono state emesse – parola del catalogo Sanguinetti – 1.871 serie, ogni serie, salva qualche eccezione, composta di sei pezzi.
Via Armorari
In tutto oltre 11 mila figurine solo nella nostra lingua”. Di questi esemplari – continuò – colpivano le vedute, il colore, il disegno, dovuti alla penna di artisti illustri, che non firmavano nonostante dessero vita a opere di autentica bellezza. Il motivo? Il timore di vedere calare il proprio prestigio. Fontana passava ore e ore a sfogliare gli album. Gli domandai quante serie possedesse: “Circa 1.800 e 20 mila figurine di altri tipi. Le apprezzano dai 40 anni in su. Io a 15 anni spendevo la paghetta per acquistare francobolli, mia figlia non ci pensa nemmeno”. E’ gelosissimo del suo patrimonio. “Non permetto che si tocchino le mie minuscole stampe. Sono piccoli gioielli, le Liebig”. Fontana ha un banchetto per lo scambio dei doppioni al mercatino di via Armorari, vicino a piazza Cordusio. Mi disse che conosceva quassi tutti i patiti che vi si riversavano. “Ci sono 200 tavoli, tutte le domeniche, già alle 9.30, qui si forma una folla di veri appassionati. Gente che chiede informazioni sulle date, sui contesti, sulle case editrici…”. Fontana ha risposte per tutti. Come fa Mauro Ferrari, con postazione di fianco, ricca di cartoline d’epoca, altri cartoncini meravigliosi, “viaggiati” e non. Qualcuno si mostra più erudito e intavola conversazioni sulla storia delle figurine, descrivendo quelle dette del cioccolato e quelle di una ditta di caffè.
La galleria
“Non va dimenticato – interruppe un signore alto e sottile, una nevicata sulla testa, gentile, gli occhiali alla Cavour - il filone delle figurine Perugina, alle quali appartiene il ‘Feroce Saladino’”. In via Armorari si danno appuntamento anche i milanesi lontani mille miglia dal collezionismo: sono spinti dalla curiosità o dal desiderio di godersi un po’ l’atmosfera di una storica via a due passi dal Duomo. “Mi piace andare da un banco all’altro – diceva un tale dal marcato accento barese, vestito elegantemente – e ascoltare i discorsi che s’intrecciano. Ho sentito parlare di raccolte di bottoni, sassi, scatole di fiammiferi, fascicoli di Topolino, manifesti pubblicitari, cartoline tranviarie, etichette d’acqua minerale… E ho voluto incrociare qualcuno di questi personaggi che devono avere tanto spazio a disposizione per potervi collocare tutti quei pezzi che in un’abitazione normale creano sicuramente qualche problema”. Intervenne un altro visitatore disinteressato, affermando “che gli oggetti elencati facevano parte, certamente non di un collezionismo di alto livello artistico, come i trenini, i grammofoni, con tromba o senza, le radio dei tempi del regime; ma di un collezionismo minore”, che comunque richiede la sua parte di tempo e anche di esperienza. ”A parte il piacere di tenere cose ambite, come contenitori di birra, magati di latta, giocattoli di una volta legati all’infanzia, conchiglie e via dicendo”. Proprio l’altra sera un mio amico che raccoglie di tutto ha acquistato vecchi calendari delle dimensioni anche 50 per 70 con figure che ti lasciano di stucco. Li ha aggiunti a libri antichi, fascette per sigari, menù, soldatini di carta…









mercoledì 22 maggio 2019

Una notte su una motovedetta della Guardia di Finanza


A CACCIA DEI CONTRABBANDIERI
DI ARMI E SOSTANZE STUPEFACENTI
Trent’anni fa sul “Nuziale”, un natante
veloce e sofisticato. I racconti del capitano
Gustavo Ferrone e i ricordi del cronista. I
trucchi per sfuggire alla trappola delle
“Fiamme gialle”. Gli affari da capogiro e
le alleanze fra clan.


Franco Presicci

La mia insaziabile curiosità mi portò una notte del settembre 1987 sul “Nuziale”, un guardacoste della Guardia di Finanza veloce e sofisticato. Mi eccitava il pensiero di seguire le “Fiamme gialle” che andavano a caccia delle imbarcazioni dei contrabbandieri di armi e di droga. E, ottenute le necessarie autorizzazioni dal comando generale del corpo a Roma, per due o tre sere telefonai al colonnello, trasferito da Milano come comandante del quartiere generale di Bari, che m’invitava ad avere pazienza perché il mare era in tu
Imbarcazione in dotazione alla Guardia di Finanza
multo. Alla fine gli dissi amichevolmente (lo avevo conosciuto frequentando come cronista de “Il Giorno” il Nucleo di polizia tributaria di via Fabio Filzi, che, se l’equipaggio usciva ugualmente, io potevo essere della
partita. Ed eccomi a bordo assieme a un capitano ventisettenne, Gustavo Ferrone, simpatico, intelligente, esperto, di Formia, che non si curava dei cavalloni e degli schiaffoni d’acqua che aggredivano il motoscafo. Improvvisamente sentii il rombo di un piccolo elicottero che ci sorvolava a un metro dalla poppa, a cinque o sei d’altezza, con funzione di scorta temporanea; come l’altro guardacoste al seguito, il “Drago”, 50 miglia orarie, due motori Isotta Fraschini da 350 cavalli l’uno, lunghezza 12 metri. Il capitano: “Adesso ce ne stiamo seduti qui e alle 23 gusteremo un bel piatto di spaghetti con il sugo preparato da…”. Non ricordo il nome del ”cuoco”, sicuramente abile non soltanto nell’arte culinaria. Gli “spalloni” sapevano che le “fiamme gialle”, nonostante la furia del tempo, erano uscite, come del resto avevano fatto loro. “E’ probabile che ci vada bene. Quelli ricorrono a mille espedienti per evitarci”.
Festa della G.F.-In prima fila a destra,Lorenzo Reali












Si ballava, ciononostante ero molto attento alle parole di Ferrone: “Il contrabbando è molto attivo in Puglia, e viene svolto con motoscafi che per ragioni di autonomia battono i litorali di Brindisi, Ostuni, Bari. E hanno anche on motopescherecci che tendono a mimetizzarsi tra quelli dei pescatori che operano nel basso e medio Adriatico, il tratto di costa a nord di Barletta e l’intero litorale garganico”. L’ufficiale proseguì: “Negli ultimi anni è stata notata una vasta collaborazione tra le organizzazioni locali ed elementi dell’area napoletana, che oltre ad assicurare un supporto logistico con la fornitura di sempre nuovi natanti provvedono a smistare i carichi nei luoghi di consumo. Ed è proprio la presenza partenopea ad accelerare il processo della conversione nella più lucrosa attività del traffico delle sostanze stupefacenti. Com’è dimostrato anche dal sequestro, un paio di anni fa, del cargo honduregno che trasportava nella stiva 2335 chili di hascisc, e dalla quantità di barche velocissime e molto attrezzate di cui dispongono i contrabbandieri”.
L’ufficiale raccontava e ogni tanto mi chiedeva: “Come va? Quest’inferno le dà sta dando fastidio? Se vuole rientriamo”. “Ma no, sto bene. Non posso rinunciare agli spaghetti che mi ha promesso”. Ferrone riprese: “E’ falsa l’idea che la gente ha dei contrabbandieri. Costoro non sono più quei personaggi romantici che attraversavano i monti con i sacchi sulle spalle. Sono figuri che fanno affari da capogiro con droga e armi”.
Imbarcazione Guardia di Finanza
Il “Nuziale”, classe Meattini, lungo 20 metri, due motori da 1200 cavalli, una velocità di 32 nodi, partito dal porto di Bari quasi planando, navigava verso Molfetta. Saltava come un canguro, beccheggiava, rullava, quasi si rovesciava investito da bordate d’acqua.
Il “Drago” era tornato indietro, anche perché il mare lo sollevava come una pulce e lo faceva ricadere paurosamente di pancia tra un cavallone e l’altro. Ferrone continuava: “Nel Brindisino, nell’Ostunese, nel Barese, i motoscafi clandestini di solito sono alla fonda nei porti di Savelletri, Torrecanne, Villanova e Brnidisi, ma anche nei porti di Molfetta, Mola di Bari e dello stesso capoluogo. Nel recente passato le consorterie avevano rapporti di sudditanza con quelle più compatte e articolate del circondario di Fasano; ma ultimamente si sono affrancate e hanno barche con grande autonomia e molto veloci. “I tabacchi lavorati esteri provengono da navi-emporio ancorate nel porto di Durazzo…”. Dopo averli prelevati, gli “sfrosador”, come il gergo definisce i contrabbandieri, li scaricavano sulle coste e da qui, con i camion, li trasportavano nei mercati illegali di Napoli, Roma, Milano, Torino, Bologna.
Presicci con i Generali della Guardia di Finanza Soreca e Reali
Il capitano conosce molto bene il suo lavoro. Ogni mia domanda trovava la sua risposta pronta, precisa, circostanziata. “Il movimento è nelle mani di quattro o cinque persone che incamerano un centinaio di miliardi l’anno. A Bari agiscono quattro capimaglia: i personaggi che predispongono la manovalanza pilotata dagli ordini in codice dati via radio”. Gli uomini in mare si disfacevano della “roba” appena si accorgevano di essere incalzati dal “Drago”, dal “Nuziale” o daaltri mezzi dei finanzieri, sempre solleciti, accorti, coraggiosi. I trucchi per aggirare gli inseguitori erano molti. Appena si sentivano in pericolo avvisavano i complici a terra e questi mandavano subito un'altra barca, pulita, facendo in modo che la finanza seguisse questa e non l’altra con il carico, che a volte riusciva così a farla franca.
Tante anche le curiosità. Una notte un motoscafo si era perso ed era finito in un punto diverso da quello prestabilito. L’equipaggio criminale cercava di dare la propria posizione ai complici a terra, ma tra una parola e l’altra commise un errore e fu localizzato da chi, secondo loro, non doveva; e finì in trappola. Il capitano era inesauribile, scrupoloso, amante del dettaglio: “I pagamenti avvengono via telex. In passato non sono mancate le truffe tra clan rivali, e hanno trovato la soluzione: il rappresentante di uno di questi andava nella baia di Durazzo, imbarcava le sigarette che vi arrivavano con i camion di Amburgo e ne attribuivano l’acquisto ad un falso concorrente. Adesso, per evitare i bidoni, chi deve comperare chiama via radio al mattino e dà i connotati del mezzo e dei messaggeri”.
Guardia di Finanza
Il “Nuziale” continuava a fronteggiare le onde. Chiesi a Ferrone di raccontarmi qualche operazione riuscita. “Una fresca fresca. Qualche settimana fa, alle 20, 45, a sei miglia al largo di Monopoli, abbiamo avvistato un motoscafo che andava verso la costa a luci spente con a bordo due persone. Lo abbiamo illuminato con i fari, gli abbiamo dato l’alt, ma quello ha accelerato, gettando in acqua il carico di sigarette e lunghe cime che stando alle loro intenzioni avrebbero dovuto impigliarsi nelle nostre eliche, bloccandoci. Noi l’abbiamo inseguito fino a mezzanotte, raggiunto, siamo saliti a bordo, neutralizzando i due”.
Il capitano, comandante della stazione navale del capoluogo pugliese, alto, occhi di antracite, mobilissimi, ricordò al cronista il piatto di spaghetti. “Vedrà che sugo!”. “Meglio di no. Con questo mare accigliato è meglio che lo stomaco resti vuoto”.
Bastò un caffè, anche quello fatto a regola d’arte, ma dall’ufficiale, che non sembrava avvilito dall’uscita andata a vuoto.
Io lo fui qualche giorno dopo, quando seppi che gli finanzieri guidati da Ferrone, erano saliti su una nave che aveva, nascosta tra le “pareti,” armi e droga. Se avessi seguito il consiglio del colonnello e pazientato per altre 48 ore, avrei fatto uno “scoop”.
Fabrizio Capecelatro dedica una copia del libro
Copertina libro Capecelatro



















Da quella notte sono trascorsi 32 anni. Il capitano Ferrone, che rividi due giorni dopo a Torre Canne, dove ero con il pittore barese Filippo Alto, sarà stato promosso generale e molte cose sono cambiate. Ogni tanto mi viene in mente quell’avventura entusiasmate. Me l’ha riportata alla mente il libro di Fabrizio Capecelatro, “Lo spallone” – Io, Ciro Mazzarella, re del contrabbando” (presentato da Peter Gomez), che fa anche un po’ la storia di quel traffico e dei suoi mezzi, dalle barche a remi del primo dopoguerra agli “scafi blu”... Don Ciro si racconta in queste pagine con schiettezza e racconta il contrabbando del fumo con dovizia di dettagli.
Ripenso con nostalgia a quegli anni (alla mia età restano i ricordi), alle caserme della Finanza, in via Fabio Filzi, in via Melchiorre Gioia, in via Medici del Vascello, in corso Sempione… e agli ufficiali poi promossi generali: Soreca, Maffei, Rabiti…

mercoledì 15 maggio 2019

Il 45esimo Valle d’Itria nel nome di Paolo Grassi





UN FESTIVAL SEMPRE PIU’ GRANDE

PRESENTATO AL PICCOLO DI MILANO


Cartellone del Festival
Copertina del libro di Pizzigallo
L’appuntamento il

14 maggio, data

storica per il 

Teatro di via 

Rovello: quel 

giorno, nel ’47, il

“martinese di 

Milano”, sua 

moglie Nina 

Vinchi e Giorgio 

Strehler crearono 

lo Stabile che ospitò

anche Eduardo.

 

Franco Presicci

Il pubblico si è alzato in piedi battendo le mani, quando è stato fatto il nome di Giuseppina, la moglie di Franco Punzi che dietro le quinte lavorava meticolosamente per il Festival, presentato al Piccolo Teatro il 14 maggio. Giuseppina è deceduta un mese fa e il meraviglioso mosaico del Festival è rimasto con una tessera in meno.
Escobar, Luisi, Punzi, sindaco di Martina, Triola
Il presidente all’applauso ha risposto pregando tutti di lasciare da parte l’uomo e di pensare al Festival. E ha avviato il suo discorso, ricordando che “quello di oggi è un appuntamento storico che si rinnova nella tradizione”. Storico anche perché il Piccolo fu fondato proprio il 14 maggio, del ’47, da Giorgio Strehler, da Nina Vinchi e da suo marito Paolo Grassi, che non fu soltanto il demiurgo del teatro di via Rovello, ma anche un uomo di cultura e un gentiluomo dalle larghe vedute, che credeva nel teatro e nella sua funzione educativa. Subito dopo Punzi ha ringraziato Escobar per l’ospitalità che ogni anno riserva alla “troupe” martinese e per la sua fertile collaborazione, l’apprezzamento, l’amicizia per la rassegna, che fra sacrifici, conquiste, riconoscimenti, progetti nuovi, sorprese è andata sempre più avanti. 
Prima fila del  pubblico
E quest’anno festeggia il suo 45esimo compleanno, dedicato a un mito del teatro, che a Martina Franca e al Festival - ha affermato – ha dato molto. Fu Grassi a chiedere a Punzi di mettersi alla guida della compagine musicale, che tanti trionfi ha riportato, dimostrando che l’autorevole personaggio, che fu anche sovrintendente alla Scala e presidente della Rai, aveva visto giusto. E Punzi non manca mai di sollevare lo sguardo per ringraziarlo.Poi il presidente ha informato che quest’anno è stata la Fondazione Paolo Grassi di Martina Franca, “squadra eccezionale”, a preparare l’evento musicale che attira migliaia di melomani da tutt’Italia e dall’estero. ”Il Festival deve avere una lunga storia e una certezza anche nello sviluppo organizzativo, puntando come sempre sui giovani, che sono la forza, la speranza, la linfa vitale del Valle d’Itria”.
Tra il pubblico, Noemi Colaianni (2^ fila a sx.)
Ed ecco tra il pubblico Noemi Colaianni, 21 anni, studentessa brindisina presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, impegnata in una tesi di laurea su Paolo Grassi che discuterà a luglio durante il Festival; la prof.ssa – ha sottolineato Punzi - ha voluto indicare nel suo lavoro il Festival e la squadra di Martina Franca impegnata in questi appuntamenti prestigiosi ed ha preannunciato la pubblicazione sempre che sia una tesi meritevole. La parola è passata a Sergio Escobar, direttore del “Piccolo”: “Abbiamo voluto che questo incontro avvenisse il 14 maggio, per ricordare Paolo Grassi… C’è molta sintonia tra il Piccolo e Martina Franca, con notevole attenzione ai giovani, rispetto per il pubblico e il teatro d’arte”. E ha ricordato Eduardo e il lungo rapporto tra il grandissimo attore e autore e il teatro di via Rovello“. A sua volta il sindaco di Martina Franca, Franco Ancona, ha confidato che sempre con entusiasmo raggiunge Milano per il Festival e che con immenso piacere riconosce tanti giovani che poi vede a Martina. “Sono felice per le tante manifestazioni che accompagnano la rassegna, come la mostra a Palazzo Reale che si trasferisce da noi, rimanendo aperta da luglio a ottobre.
Entrata del Piccolo Teatro
Punzi intervistato dalla Tv
E ha proseguito tornando sul tema dei giovani: “E’ bello vedersi circondati dalle nuove leve, anche perché il senso di Paolo Grassi era di andare verso di loro e farne il cemento della rinascita”.Ancora Punzi: “Parliamo della Regione Puglia, che in questi anni ci ha dato il suo conforto; e del bilancio del Festival, che è in pareggio, essendo affidato a mani oneste”. Quindi è stato proiettato un messaggio visivo di Loredana Capone, assessora della Regione Puglia, che ha ringraziato per il Festival, accennando alla sua storia, alle sue caratteristiche, invitando il folto pubblico a venire in Puglia e a Martina, città accogliente, bellissima, con mille attrattive, dai trulli alle masserie, dal centro storico alla Valle d’Itria, che qualcuno definì una terra benedetta da Dio. Capone ha sottolineato la bellezza della musica colta che attira, coinvolge e migliora; come la bellezza della Valle d’Itria, dove si trova la migliore accoglienza possibile.
Sergio Escobar
E’ stata ricordata anche la peculiarità del Festival, di rappresentare opere mai viste ai nostri tempi e di fare da trampolino di lancio a decine di preparatissimi neofiti della ribalta. Aldo Patruno, direttore generale dei settori Turismo, Cultura, Valorizzazione del territorio della Regione Puglia, ha ricordato come la nostra terra si muova su tanti fronti, sia presente nelle situazioni importanti, sia la Biennale di Venezia sia il Salone del Libro di Torino.
Il notaio Alfredo Aquaro al Piccolo
E ha ripetuto “che sono beati i genitori che sanno mettere le ali ai figli; e beati quelli che sono in grado di dar vita a iniziative che ci uniscono, ci esaltano e non si concludono nei nostri confini…”. Il Festival è un’offerta culturale di altissimo livello elaborata da personaggi che posseggono doti di grande competenza, sensibilità, bravura, intelligenza e hanno la capacità di guardare all’orizzonte, di toccare punti sempre più elevati, mète sempre più significative, con impegno inesauribile, costanza, amore. La tradizione continua. Un esempio: Francesca Grassi, che ha assunto l’eredità del padre – ha affermato ancora Punzi – “Non siamo soli in questo percorso: abbiamo anche la collaborazione del Teatro Petruzzelli, di vari organismi nazionali e internazionali…E poi i giovani, bella risorsa, la luce dei nostri occhi e le speranze del nostro lavoro”. Quindi ha messo in evidenza il prestigio, il livello delle nostre accademie musicali. “Nel teatro, nella musica, nella cultura si trova l’essenza della vita in un tempo di incertezze e di confusione…”.
Lenoci, Francesca Grassi, Costantini
Nonostante tutto, lui ha sempre energie da impiegare. Abbia sempre la volontà di condurre il Festival. Sono dieci anni che il direttore artistico Alberto Triola presenta il Festival a Milano. “Dieci anni sono una tappa apprezzabile. Devo ringraziare quelli che ci hanno creduto, condividendo l’attività della famiglia del Festival (perché il Festival è una vera famiglia); gli artisti che vengono anche se non sono in cartellone, i giornalisti… Abbiamo tre grandi omaggi da rendere: a Paolo Grassi, per i suoi cento anni dalla nascita; a Pier Luigi Pizzi, che sta vivendo una seconda stagione artistica, legato a Martina da una lunga amicizia; a Napoli, capitale europea della musica, della cultura”. Il titolo della 45esima edizione è appunto “Albori e bagliori: il secolo d’oro", Napoli e l’Europa.
Paolo Grassi su una locandina del Festival
Il progetto ”1919-2019 Paolo Grassi 100 anni a Martina Franca” è realizzato, con il supporto di Giovanni Soresi, dalla Fondazione di Martina che porta il nome di questo indimenticabile pilastro, organizzatore teatrale, un monumento… e “vuole essere innanzitutto una testimonianza delle sue idee e del suo modo di fare: dalla necessità del teatro come funzione civile e come servizio pubblico alla difesa di una musica alta e partecipata negli anni trascorsi come sovrintendente alla Scala e come presidente della Rai, al sostegno intelligente e creativo del Festival della Valle d’Itria…”. Il Festival si apre dunque il 16 luglio e termina il 4 agosto. Il 16, il 20, il 31 luglio a Palazzo Ducale di Martina verrà rappresentato “Il matrimonio segreto” di Domenico Cimarosa, regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi, orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari; il 19 luglio, ancora al Palazzo Ducale, “Coscoletto ovvero Il Lazzarone”, di Jacques Offenbach (prima esecuzione in Italia), direttore Sesto Quatrini, con i cantanti dell’Accademia del bel canto “Rodolfo Celletti”; il 30 luglio e il 4 agosto “Ecuba”, di Nicola, Antonio Monfroce, direttore Fabio Luisi, orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari; il il 2 agosto, “Orfeo”, di Nicola Porpora, direttore George Petrou; il 21, il 23, il 25, il 27 e il primo agosto “L’ammalato Immaginario” e “La vedova ingegnosa”, opere in masserie (non va dimenticato il ruolo di queste architetture rurali, tra le quali la Monti del Duca di Crispiano). Poi recital di bel canto con Olga Peretyatko; e concerti, festival junior, festival d’arte per tutti, concerto del sorbetto,” All’ora Sesta”, “Già la notte si avvicina”, “Galileo sotto le stelle”, al Chiostro di San Domenico; “Danze, Virtuosi e…”, “Novecento e oltre”. Insomma, come al solito un programma denso e appetitoso.Un comunicato informa che la 45esima edizione del Festival, noto in tutto il mondo (gli spettatori arrivano addirittura dal Giappone, oltre che da tutta Europa), comprenderà molti spettacoli ispirati al “martinese di Milano” (così Paolo Grassi viene definito con affetto), “fra cui una biografia teatrale di Grassi intitolata “Paolo” a cura di Davide Gasparro; uno spettacolo di teatro e musica a cura di Benedetto Sicca: “Per tutti! Il sogno di Nino, Paolo e Giorgio”, la mostra “Un poeta dell’organizzazione – 1919-2019; numerosi pianisti nel centro storico di Martina; “Andy Warhol: l’alchimista degli anni Sessanta”, a Martina, Ostuni, Mesagne. Verranno solennizzati in molti luoghi i Cento anni dalla nascita di questa celebrità, famoso, autorevole, mitico protagonista del teatro, che ebbi l’onore di conoscere nel ’64 a una cena al Circolo svizzero di piazza Cavour con l’editore Lacaita di Manduria, il gallerista Guido Le Noci, l’avvocato Raffaele Salinari e altri; e lo incontrai nuovamente, come vice-critico teatrale del quotidiano “L’Italia”, al Piccolo in occasione della rappresentazione de “I Lanzichenecchi” (lui nel ridotto del teatro aspettava Giuseppe Giacovazzo, che veniva apposta, credo, da Roma). Questo sarà dunque l’anno di Paolo Grassi: una mirabile occasione per ripercorrere la sua ineguagliabile personalità di intellettuale, promotore di cultura e uomo di spettacolo.






mercoledì 8 maggio 2019

La vita nelle case di tolleranza


Libro di Guido Vergani

LE “SIGNORINE” ERANO MERCE
DA COMPRARE E DA VENDERE

Quando la bellezza sfioriva erano
declassate sino ad arrivare alla
terza categoria. Dopo c’era la
strada, così piena di pericoli. Si
ricorda ancora la tragica fine di
Mary Pirimpo, la giovane venuta
a Milano dalla sua Calabria per
cercare fortuna.




Franco Presicci


Il 20 febbraio del ’58 si avverò il sogno della senatrice Lina Merlin: la chiusura celle case di piacere, per la quale si era battuta. Sono passati oltre sessant’anni; e si torna ad auspicarne l’apertura, per togliere il mercato dalla strada.
Libro di Luigi Inzaghi

Libro di Tullio Barbato
Quando a Milano, molto prima dell’entrata in vigore della legge, le ruspe azzannarono la “maison” di Via san Pietro all’Orto, per Mario Soldati “evocazione perfetta della ‘Belle Epoque’, lunghi sedili in felpa rossa, ricche sontuosità delle decorazioni, le cornici dorate, gli specchi dovunque e comunque…”, preferita dagli stranieri e con la “sciura” Gina che faceva gli onori di casa con maggiori attenzioni verso le persone di rango, un noto autore meneghino espresse il suo “magon” in una raccolta di versi del ’57, distribuita dattiloscritta in un giro ristretto, dagli amici: “Aria de stabiell”: “Vecc San Pedron/ fusinna de l’amor/ porta coi ciod, piastrèj sul corridor/ mi te ricordi come el talisman/ d’on temp tant divers e tant lontan”. L’iniziativa della Merlin suscitò molte polemiche, basate sulla convinzione che se il suo intento era quello di abolire le schiave bianche del ventesimo secolo, avrebbe fatto un buco nell’acqua.
Paripatetica
Comunque, i 717 postriboli del Paese, entro i sei mesi previsti della norma, dovettero rinunciare all’attività. I frequentatori sfogarono il loro disappunto trascorrendo l’ultima sera nelle varie case dalle persiane chiuse, che Tullio Barbato, giornalista e fondatore di Radio Meneghina, ha descritto parecchi anni fa in “Case e casini di Milano”: quella di via Filelfo, per esempio, elegante, arredata dalla sciura Maria con i mobili del San Pedròn, che era dalle parti del Sempione, dove, parola di Giancarlo Fusco, il più mordente “panplettista” italiano, autore del voluminoso “Quando l’Italia tollerava” (36 tavole a colori inedite di Mino Maccari e 55 foto autentiche), c’era chi si portava il registratore a manovella per immortalare i discorsi delle ragazze che cantavano “Solo me ne vo per la città” o “Serenata celeste”.
Prostituta
I postriboli del capoluogo lombardo erano tanti: quasi ogni quartiere ne aveva uno o più. I più eleganti erano quello di via Tadino 10, all’angolo con viale Tunisia, uno dei più esclusivi, che ogni 15 giorni organizzava feste sontuose per salutare arrivi e partenze (commovente il commiato della favorita Aspasia); via Disciplini 2, che secondo Mario Soldati “evocava irresistibilmente i piaceri più raffinati e la realtà una volta tanto non tradiva l’aspettativa letteraria” (“era la casa più chiusa tra tutte le case chiuse; la più discreta, la più signorile, la più specializzata. Dove si poteva, all’occorrenza, offrire una bottiglia di ‘champagne’, cenare, riposare e anche passare la notte…”. E via Rutilia, il casino più giovane, nato nel ‘40; via Fiori Chiari 17; via San Carpoforo (pavimento in terra battura, tariffa una lira), dove erano tre, detti “de San Carpin” o della “territoriale”, perché popolate da dame al tramonto (all’epoca qualcuno dell’alta società giurava di avervi visto un’alta personalità del regime); via Porlezza 2, nota come “San Gioann sul mur”; via San Sisto; via Stampa, zona Carrobbio; via Alberto Mario (verso San Siro); via Soncino Merati 5…”, dove erano assidui i giornalisti della questura (allora in piazza San Fedele), che dopo il giro telefonico delle 22, se non era accaduto alcunchè di interessante, lasciavano il collega più attempato al giornale e vi facevano un salto, ovviamente scattando se una telefonata segnalava un’emergenza.
Libro di Giancarlo Fusco
Le “signorine” meno… appariscenti stazionavano nelle due case di vicolo Bottonuto, un budello, in seguito demolito, di 100 metri nei pressi di via Larga. In una di queste, “el Peocet”, si svagò l’anarchico Gaetano Bresci la sera prima della partenza per Monza per uccidere Umberto I. Il professor G. M., simpatico, spiritoso, basso, corpulento, barbuto, che ha dedicato una poesia alla casa che accolse le sue esperienze fuggevoli, mi confidò. “Con i miei amici bazzicavo ‘el Ciaravall’, che stava appunto in via Chiaravalle: un postribolo di seconda categoria noto e celebrato, con un salone a specchi, una statua in bronzo raffigurante un fauno e una vergine, il maggior numero di ‘odalische’. La prestazione semplice nel ’57 costava 250 lire; la doppia 500. Era l’unico casotto ad avere l’ascensore. Ricordo la porta in noce con la parola ‘Entrata’ scritta in grande. Ricordo anche una ’vamp” che veniva giù per le scale vestita da sposa. La direttrice, I. B., girava tra i clienti raccontando le barzellette spinte. Era generosa. E si diceva che avesse aiutato un ragazzo romagnolo a laurearsi, facendolo studiare lì dentro”. Nelle case da battaglia, i casermoni, la “maitresse” spronava i perditempo: “Andemm in camera, andemm!”. Oppure: “Ste chi a fa flanella? Andè a spass in Galleria”. Le incitazioni esplodevano nelle case di terza categoria. Nelle altre c’era più classe. Durante il fascismo, allo “Scudino” di via San Cristoforo imperava il grido: “Camerati, in camera!”; e i sansepolcristi marciavano verso la “doppia”. Lo slogan era stato inventato dal tenutario che aveva anche il Disciplini, al quale poi aggiunse il “San Pedron”, dove le ragazze, quale che fosse la loro provenienza erano indicate con i nomi “la bolognese”, la “modenese”, la meneghina… Altrove “la ciuffetta”, “Tilde tirabusciòn”, Gilda, Lolita … Era l’epoca della canzone “Se potessi avere 1000 lire al mese” e lui ne incassava 5mila al giorno. Seduto dietro la scrivania con la cornetta del telefono in mano in attesa di essere interpellato, il docente distribuiva i suoi ricordi: “Ai miei tempi verdi le ragazze di famiglia erano blindate ed era quindi difficile l’approccio. Un giorno un amico riuscì a farsi prestare l’auto dalla sorella e andammo a cuccare nella campagna pavese. Al ritorno uno della comitiva aveva il muso lungo: la ragazza aveva rifiutato di baciarlo per paura di rimanere incinta. Era stato il parroco a metterla sull’avviso. I casini ci hanno insegnato tante cose: per esempio, la differenza tra il sesso e l’amore. Ci andavamo in compagnia. 

Prostituta
Quando uno compiva i 18 anni si faceva la colletta per pagargli il noviziato. Ma non eravamo sempre spinti dal bisogno. In quelle sale ci attardavamo ad osservare il via vai, le facce, le espressioni, i comportamenti; ad ascoltare le chiacchiere; ad ammirare le signorine discinte, che cambiavano ogni 15 giorni. Ci divertivamo”. Anche beffeggiando quella che salmodiava le proprie qualità. Le professioniste, loro no, non si divertivano. Nel febbraio del’’88, ricorrendo i trent’anni dall’eliminazione delle “maison”, andai ad intervistare un’ex “madame”, che quando seppe il motivo della mia visita, diventò pallida, confessandomi che era nonna di un ragazzino che alla vista delle peripatetiche le diceva: “Sai, quelle lì vanno con gli uomini”; e ogni volta era per lei un colpo d’ascia. Le garantii la massima discrezione e m’invitò ad entrare nel salottino arredato con mobili stile Liberty. “Cominciai al Disciplini. Una vita da schiave; sfiancata da 30-40 incontri al giorno. Anche se, quando l’uomo ci stava addosso, pensavamo ai fatti nostri, fingendo di partecipare. I clienti erano di tutti i tipi: i ‘teneroni’, che sgranavano le loro delusioni d’amore, le loro frustrazioni, i rifiuti delle mogli al cosiddetto debito coniugale, i tradimenti, le delusioni…. C’erano poi i ‘monsignori’, gente altolocata che arrivava alla chetichella per non essere notata. Rari per fortuna i deviati. Avevamo l’ordine di essere gentili con tutti per non fare assottigliare il ‘business’; e di non truccarci in modo pacchiano. 
Prostituta
Nel ’57, nelle case di lusso, la tariffa era di 1000 lire per la ‘semplice’. Ce la passavamo così e così grazie ai regalini, ma eravamo sfruttate…”. Quella vita ha ispirato tanti scrittori e pittori, oltre agli affreschi erotici pompeiani. La freschezza non è un bene di lunga durata, in quegli ambienti. E quando sfiorisce, ”vieni declassata alla seconda e poi alla terza categoria, fino ad arrivare all’ultima: la strada”. Che presenta mille pericoli. C’è chi ricorda ancora Mary Pirimpo, al secolo Maria Boccuzzi, trovata morta a mezzogiorno del 29 gennaio del ’53 su una sponda del canale Olona, sotto il ponte di via Renato Serra, a San siro, da un gruppo di ragazzi che giocavano al pallone. La donna era stata uccisa il giorno prima. Bastarono poche ore alla polizia per identificare la vittima e ricostruire la sua storia: nata a Radicena, Reggio Calabria, l’8 ottobre del 1920; giunta a Milano nel ’36 con i genitori, primo lavoro come operaia, lasciato perché attirata dall’avanspettacolo, ricavandone una grande amarezza. Fidanzata con uno studente universitario, osteggiato dal padre, un onesto dipendente dei Monopoli di Stato, aveva abbandonato la famiglia, andando a vivere con il giovane che amava. Altro naufragio, altri incontri e una serie di vicissitudini che si conclusero sul marciapiedi, con la nascita di una nuova falena. Viveva in un alberghetto quando fu assassinata con sei colpi di pistola. Mary fu la quarta vittima della strada. Quindi non la prima e neppure l’ultima. Sembra che la “la canzone di Marinella” di Fabrizio De Andrè contenga proprio la tragedia di questa ragazza calabrese venuta a Milano in cerca di fortuna.







giovedì 2 maggio 2019

La malavita milanese tra ‘800 e ‘900


Kodra su un velocipede in corso San Gottardo
NELLA CITTA’ ALLIGNAVANO


“LOCCH”, “SCOPOLA, “LIGERA”…


Sulle associazioni criminali vigilava

un poliziotto severo, il signor Mazza, 

“el Dondina” per il passo dondolante.

Era notissimo, temuto e inflessibile,

tanto che parecchi protagonisti di

testi teatrali sono ispirati a lui.


 
Franco Presicci
Tra la seconda metà dell’800 e l’inizio del ‘900, a Milano allignavano varie specie di malavita. Ogni quartiere era infestato dalla “ligera”, dai “locch”, dalla “scopola”… A queste consorterie dava la caccia un appuntato di polizia capo della squadra volante, “el sciur Dondina, basso, tarchiato, un po’ ignorante, claudicante (da qui l’etichetta), inflessibile, per il quale in questo sottobosco era stata persino composta una canzone. 

Cortile
E, pur temendolo, quando lo vedevano spuntare, i balordi la canticchiavano, divertiti, smettendo quando il cavalier Mazza – nome vero del segugio – si stagliava davanti a loro, sfidandoli: “E adesso? Sentiamola tutta, questa tiritera”. Il brano era intonato in ogni dove: “El Dondina quand l’è ciocch el va intorna a ciappà i ‘locch’…”. Il “pulè”, per intenderci, il poliziotto, era tanto popolare che Bertolazzi chiamò come lui una guardia scelta, sagace e intelligente, nel suo “El nost Milan”. Paolo Valera, lo scrittore scapigliato suo contemporaneo, che lo aveva incontrato e praticato, gli dedicò un profilo in “Milano sconosciuta”, definendolo “l’Attila dei pregiudicati, degli oziosi, dei vagabondi, dei pericolosi”. Che aveva un bel da fare, dalla mattina alla sera, a perlustrare soprattutto le zone di Porta Genova e del Ticinese, nei pressi della darsena, dove il Naviglio Grande, che viene dal Ticino, lecca il Pavese, che va a Pavia. La “ligera” non aveva un rilevante spessore criminale: costituita prevalentemente da ”dilittanti”, che ogni giorno rasentavano il codice penale; e quando ci finivano dentro era per un piccolo furto, un borseggio; e se qualcuno andava oltre, ovviamente soggiornava più a lungo nella “baita”, eufemismo gergale che sta per carcere, e rimaneva segnato.
Cascine lungo il naviglio
Mario Bonfadini, il 27 aprile del ’64, sul “Corriere della Sera”, delineava gli associati alla categoria in modo efficace e veritiero: “Un ladro casalingo, per così dire, come il gatto, pigro e bonario…; un ‘bravo ragazzo’ che a un certo punto ha voltato male, ha smesso di lavorare, perchè non riusciva ad adattarsi agli orari, e non lo persuadeva dover faticare tanto per guadagnar così poco; o perché era diventato troppo bravo alle boccette e al bigliardo e si era lasciato vincere dalla tentazione di mettere in mezzo qualche tipo dal portafoglio troppo gonfio un certo pomeriggio dopo il mercato; o perchè si era trovato disoccupato e si era messo a rivendere certa merce di dubbia provenienza…”. 

Kodra su un barcone
Così era stato “bevuto”, arrestato, dal Dondina, “steccato”, condannato, una prima, una seconda volta, e da allora, tornato libero, sempre sospettato, trascorreva qualche notte in camera di sicurezza, fino a quando, istigato da una pellaccia, ha fatto il salto, impegnandosi in un “palchetto”, colpo più grosso. I “locch” erano i duri, dediti allo sfruttamento del meretricio, al furto con destrezza; abili nell’uso del coltello a serramanico, “martino” o “maresciall”, sempre nel linguaggio della malandra. Frequentavano una locanda di via del Guast, quella del Berrini, dove – parole del Valera – mangiavano per pochi centesimi ciò che passava il convento e potevano concludere anche qualche “abbusco”, altrimenti detto affare. Il protagonista di “El nost Milan”, Carloeu detto ”el Togasso”, è un “locch” facile alla violenza, pronto nel tirar fuori la lama. La “scopola” era formata da una truppa di malandrini, uomini e donne, tutti giovani, i primi specialisti, anche loro, del furto; le seconde impegnate nella “misurazione” dei marciapiedi.
Si aggregavano per realizzare un progetto, si dividevano gli utili e si scioglievano, ricomponendosi in un’occasione successiva. Avevano l’abitudine di sedersi a tavola in una trattoria e mangiare a sbafo, incuranti delle proteste del titolare al quale avevano dato appunto la scopola. Milano non si sentiva sicura. Un autore, Bazzetta, si prese la briga di elencare i “barabba” più in vista, tra cui “Nerone”, considerato campione del “caschè” (borseggio); “Magher sech”, che operava al dazio di Porta Ticinese; “Peppinet”, cieco da un occhio, notissimo magnaccia… Alcuni di questi personaggi ispirarono abbondantemente i cantastorie menenghini. Quando spuntava “el Dondina”, che avrebbe tenuto testa persino a Francoise Vidocq, il re delle evasioni francese che interruppe la carriera criminale per fare il comandante della brigata della Suretè, che lui stesso era stato incaricato di costituire secondo il principio che un malvivente è un esperto del suo settore e quindi può combatterlo più facilmente, scattavano dunque le “castagnole”, manette, nonostante le suppliche e i giuramenti di non ripetere il “fioco”, l’atto furfantesco.
Cassina de' Pomm
Ma il cavalier Mazza, neppure lui, aveva il dono dell’ubiquità. Ma gli bastava una descrizione sommaria del colpevole per andarlo a cercare ovunque si fosse nascosto, conoscendo tutti i covi e gli angoli malfamati della città. Dondina era dunque il terrore della malandra, anche se non aveva mai mollato un ceffone a qualcuno che lo meritasse. Insomma anche allora le strade pullulavano di ladri, truffatori, ricettatori, assassini, vagabondi che chiedevano l’elemosina e pescavano nelle fisarmoniche, i portafogli … e bazzicavano ricettacoli putridi, pieni di pidocchi, con letti fetidi… Il Berrini si era arricchito ospitando questi elementi e piangeva miseria, anche per non essere importunato da chi cercava un prestito o per non cadere nell’esca di qualche malintenzionato. 

L'uomo del barcone
Altra casa di ringhiera










Il cavalier Mazza agiva in maniera autonoma, nelle sue operazioni non riceveva ordini dai superiori, dei quali si era guadagnato la fiducia. Ma quando questi andarono in pensione o vennero trasferiti, il nuovo “staff” non accettò l’indipendenza di quel sottufficiale che andava e veniva senza rispettare gli orari e senza rendere conto a nessuno. Cominciarono così con imporgli di rivelare i nomi dei suoi “sordi”, informatori. Dondina si rifiutò categoricamente e capì che l’aria era cambiata: non aveva altra soluzione che lasciare il servizio. Gli furono fatti ponti d’oro e lui si mise a riposo. A poco a poco fu quasi dimenticato. Dondina non era ancora nato quando impazzava la Compagnia della Teppa (in dialetto milanese “muschio”): rampolli di famiglie altolocate sopraffatti dalla noia e usi a far bisboccia nei migliori locali. Si riunivano negli antri dalle parti del Castello, dove organizzavano i vari piani, quindi scavallavano per la città e ne combinavano di tutti i colori. Tra le loro imprese, le aggressioni agli innamorati, bastonando lui e sequestrando lei; progettare addirittura beffe al cardinale e alle autorità civili… All’inizio erano mattacchioni che si divertivano alle spalle degli altri, ma poi il loro gioco divenne pesante con crimini veri e propri. Il termine teppista assunse così il significato di delinquente, dappertutto. Non avevano limiti. Non li fermava nessuno. Buttarono impunemente nel naviglio una garitta con la sentinella all’interno e ne fecero una più grossa, in una villa storica, dove convocarono un gruppo di nani, promettendo loro un incontro con molto bene attrezzate “biciclette”, prostitute. Adescarono invece deliziose fanciulle della buona società, che si presentarono vestite elegantemente, ingannate dal biglietto d’invito, che parlava di una serata di gala. Mentre si svolgeva la festa, tra balli e suoni, i nani irruppero nel salone e assalirono le damigelle, che si difesero con soprammobili, sedie e ogni altro oggetto. Spuntarono i coltelli e il quarantotto fu tale da far intervenire la polizia austriaca, che fino a quel momento aveva fatto finta di non vedere e di non sentire. I “goliardi”, come qualcuno li aveva definiti quando infastidivano un passante, soprattutto se anziano, strappandogli il cappello e riducendolo a uno straccio, non vennero mandati alla Malastalla, un vecchio reclusorio milanese dalle parti di via Orefici, demolito successivamente, nell’800; o al “Pollèe”, “casanza”, carcere di via Santa Margherita, ma dovettero indossare la divisa militare e andare altrove, grazie al potere delle loro famiglie. Ma la Compagnia proseguì le sue scorribande, che duravano dal 1816.