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mercoledì 27 giugno 2018

Il soggiorno milanese di Giovanni Verga



Piazza della Scala
SCRIVEVA STANDO IN PIEDI

CON I FOGLI SU UN LEGGIO

Si ambientò subito e frequentò i

salotti letterari di Vittoria Cima e

della contessa Maffei, la Scala, il

Savini, il Cova, oltre agli

Scapigliati. Scrisse anche “Per le

Vie”, edito da Treves e pubblicò

“I Malavoglia”, che apre il ciclo

dei vinti.







Franco Presicci
A Milano Giovanni Verga arrivò, dopo un soggiorno a Firenze, nel 1872, per avere maggiori opportunità di lavoro e contratti più favorevoli dagli editori. La decisione di trasferirsi fu presa dopo la pubblicazione di “Storia di una capinera”, nel 1870.
Giovanni Verga
Nella “capitale morale” e della Scapigliatura si ambientò molto presto, partecipò alla vita dei salotti di Vittoria Cima e della contessa Clara Maffei; frequentò con l’amico conterraneo Luigi Capuana, autore tra l’altro de “Il marchese di Roccaverdina…, Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa…; ebbe relazioni amorose con belle signore appartenenti alla borghesia imprenditoriale, come Paolina Greppi e Dina de Sordevole…; andò spesso alla Scala e fu assiduo del Biffi, il ristorante che il 15 settembre del 1867 accolse Vittorio Emanuele II in visita alla Galleria a lui intestata, appena realizzata dall’architetto bolognese Giuseppe Mengoni; incontrava gli Scapigliati, e scriveva. Aveva già dato alla luce “Tigre reale” ed “Eros”, che avevano avuto un buon successo; “Storia di una capinera” ed “Eva”; poi una accolta di novelle, “Vita dei campi”, e, presso la casa editrice Treves, il suo capolavoro: “I malavoglia”, che apriva il ciclo dei vinti. Nel 1883 pubblicò le “Novelle rusticane” e “Per le vie” ambientate nel capoluogo lombardo. Quindi eccolo al Teatro Manzoni, con il testo teatrale “Dal tuo al mio”, che però non fu molto applaudito. Da una novella di scene popolari milanesi (“Il canarino del numero 15”) ricavò una commedia in due atti, “In portineria”, recitata per la prima volta al Manzoni il 16 maggio 1885 dagli attori della compagnia Nazionale Olga Lupo ed Enrico Reinach e poi ripresa da Eleonora Duse.
La Galleria
Un’attività fervida in una città che lo aveva catturato subito con i suoi splendori e con le sue miserie, i suoi sconfitti e i suoi vincitori; “la città più città d’Italia”, come scrisse in occasione dell’Esposizione Nazionale del 1881. Verga si guardava attorno, analizzava la società e i suoi mali; raccontava le storie dei disperati: la donna che assume il veleno per amore; la ragazza che chiusa in convento contro la sua volontà muore per scoramento… Nel ’74 scrisse a Capuana: “Io immagino te che venuto improvvisamente dalla quiete tranquillità della nostra Sicilia, te artista, poeta matto, impressionabile, nervoso come me, a sentirti penetrare da tutta questa febbre violenta di vita in tutte le sue ardenti manifestazioni”: una vita tumultuosa che pure non poteva non affascinare anche per le “misteriose ebrezze del lavoro”. Nonostante tutto, lo scrittore amava Milano e conosceva virtù, figure, fatti, situazioni; e annotava: “Lo spettacolo grandioso di un tramonto bisognava andare a vederlo in piazza d’Armi, su quella bella spianata”, che ora non c’è più; e “Tutte le sue bellezze, tutte le sue attrattive sono nella sua vita gaia ed operosa, nel risultato della sua attività industre”.
Porta Venezia una volta raccolta Bertarelli
A Milano Giovanni Verga abitò in piazza della Scala, in corso Venezia, in via Turati (allora Principe Umberto), via Brera, via Borgonuovo 1, case prive di eccessi e bene ordinate come il suo carattere; alle pareti oli e oleografie, fotografie di amici e di eleganti e seducenti signore, il caminetto, un orologio a pendolo… I suoi locali preferiti, oltre al Biffi, il Cova e il Savini, dove, come scrisse Gaetano Afeltra in “Milano amore mio” ogni pranzo e ogni cena consacra le visite nella capitale ambrosiana (è il ristorante che, battezzato nel 1867, “straripa un po’ nella Galleria stessa, estate e inverno, con il suo ‘dehors’ a vetri, secondo un certo gusto parigino…”). Dalla sua abitazione di corso Venezia, a una certa ora del pomeriggio, usciva per la sua solita passeggiata in centro. Fisicamente prestante (“l’era un bel om” e le donne se lo sarebbero conteso volentieri), dice Alberto Lorenzi, sostava per ammirare le caratteristiche dei palazzi, ma anche la vita quotidiana, i personaggi che incontrava, seguendo l’urgenza dello scrivere e la voglia del fare “in mezzo a codesta folla briosa, seducente, bella che ti gira attorno…”, che suscitava il bisogno di isolarsi come se si fosse in una solitaria campagna.
Piazza Duomo

E nacque il libro “Per le vie”, dodici novelle edite da Treves e oggi dalla Libreria Milanese, dove il maestro del Verismo osserva con una certa indulgenza propria di chi non si ferma all’apparenza, al contrasto tra il ricco e il povero; ai fastigi della Milano-bene e all’alterigia della borghesia, alla condizione avvilente degli emarginati. Va oltre. Nella prefazione dell’edizione della Libreria Milanese si afferma che “entrambe le classi, al di là delle condizioni economiche, sono vittime di un destino umano incomprensibile e di un momento storico che di lì a qualche anno maturerà, gettando in una crisi profonda l’intero tessuto sociale”. Primo capitolo del volume, da cui trasse un atto unico per il teatro, “Il Bastione di Monforte”, dove “nel vano di una finestra si incorniciano i castagni d’India del viale, verdi sotto l’azzurro immenso - con tutte le tinte verdi della vasta campagna – il verde fresco dei pascoli prima, dove il sole bacia le frodi (“torrente montano: n. d. a.)”; più in là l’ombra misteriosa dei boschi.
Corso Venezia nel 1866
Fra i rami che agita il venticello s’intravvede ondeggiante un lembo di cielo, quasi visione di patria lontana…”. Improvvisamente compare una coppia furtiva, lei a capo chino, “segnando i passi coll’appoggiare cadenzato dell’ombrellino, e l’ondeggiamento carezzevole del vestito attillato che il sole ricama di bizzarri disegni, mentre l’ombre mobili delle fronde giuocano sul biondo dei capelli e sulla nuca bianca come rapidi baci che la sfiorano tutta. Ed egli le parla gesticolando, acceso dalla sua parola istessa che gli suona innamorata. A un tratto levano il capo entrambi al sopraggiungere di un legno che va adagio, dondolando come una culla, colle tendine chiuse; e la giovinetta si fa rossa, pensando alla penombra azzurra di quelle tende che addormentò le sue prime ritrosie…”.
Piazza Cordusio

     Una foto di Verga(particolare)















E prosegue imbattendosi in un vecchio che andava curvo per la sua strada e alzava il capo soltanto per vedere se la giornata gli avrebbe dato il sole… Nel capitolo “In piazza della Scala” si fanno quattro chiacchiere coi compagni per iscacciare il sonno e i cavalli dormono col muso sulle zampe. Ma quando arriva l’altro (cioè l’inverno: n.d.a.) “l’è duro da rosicare per i poveri diavoli che stanno a cassetta ad aspettare una corsa di un franco con le redini gelate in mano, bianchi di neve come la statua dal barbone, che sta lì a guardare in mezzo ai lampioni, coi suoi quattro figlioletti attorno…”. Restano tante belle pagine su Milano. Ne scrisse anche Capuana.
Sulla Galleria, per esempio: “E’ il cuore della città. La gente vi si affolla da tutte le parti, continuamente, secondo le circostanze e le ore della giornata, e si riversa dai suoi quattro sbocchi, stavo per dire nell’aorta e nelle arterie nel grande organismo, tanto la sua rassomiglianza colle funzioni del cuore è evidente”. Il Verga, sigaro “virginia” tra le labbra, sguardo profondo, baffi cosacchi, moderato nei gesti e nelle parole, calligrafia minuta e nobile, considerato il gentiluomo di Sicilia, rispettato e rispettoso, amici, oltre a Giacosa, Rovetta, Torelli-Viollier, Leone, scriveva sempre in piedi con i fogli appoggiati su un leggio. Aveva anche la passione segreta della fotografia, scoperta nel 1966 quando Giovanni Garra Agosta ricevette dal nipote dello scrittore circa 500 lastre e pellicole, materiale successivamente donato al Museo Immaginario Verghiano di Vizzini, e in seguito oggetto di una mostra itinerante in Italia, che ha riscosso notevole successo. In quelle foto scorrono una varietà di personaggi del mondo pastorale: mezzadri e contadini; e amici dell’autore, compresa una bambina alla finestra. Ma Verga puntò l’obiettivo anche su alcune città dell’amata Lombardia, da Como a Mendrisio, da Intra a Bormio. Il gentiluomo di Sicilia lasciò la città ambrosiana nel 1893, tornando, vecchio e stanco, nella sua Catania, dove, durante quei vent’anni era spesso tornato.






mercoledì 20 giugno 2018

Il baritono Giuseppe Zecchillo


 
FACEVA I QUADRI CON LA PASTA

RIVESTITA DI VERNICE DORATA
 

Gli amici lo indicavano come il

re o il sindaco di Brera, e lui ci

giocava. Alla cerimonia funebre

di un noto rigattiere molto amato

nel quartiere, nella Chiesa di San

Marco fece suonare l’”Ave Maria”

a un violinista della Scala







Franco Presicci

Per gli amici era “il re di Brera” o il “il sindaco del quartiere”. E lui la prendeva a ridere, perché era burbero, ma sapeva anche essere spiritoso. Un giorno lo sorpresi in via Fiori Chiari mentre osservava gli operai che sistemavano la pavimentazione. “Sto controllando i lavori”, esclamò, ovviamente scherzando.     Il baritono Giuseppe Zecchillo era battagliero, ostinato.
Zecchillo a Trani
Il 7 dicembre del ’65, serata di apertura della stagione scaligera, con la “Forza del destino” diretta da Gavazzeni, dal loggione piovvero centinaia di volantini di protesta e i giornali scrissero che la manifestazione era stata pilotata dal cantante, che Giuseppe Barigazzi nel suo libro “La Scala racconta” definisce “il contestatore numero uno del teatro lirico italiano”. Poi nel 1990 entrò nel consiglio di amministrazione della Scala in rappresentanza degli artisti. Sosteneva di essere contro la politicizzazione del teatro lirico. “Voglio restare sulla barricata del sindacato per combattere assieme ai miei colleghi”. Uno spirito effervescente a dispetto del suo aspetto da frate cappuccino. Non entro nel merito delle sue lotte, a volte anche spettacolari, come quella volta in cui per protesta si presentò in piazza tutto vestito di bianco con i titoli dei giornali che parlavano di lui attaccati su giacca e pantaloni. Aveva 270 opere in repertorio e mietuto applausi in tutti i maggiori teatri del mondo. Era generoso, disponibile.
Zecchillo al Circolo della Stampa
Nel gennaio del 2003 morì, in seguito a un incidente stradale, Domenico Lamantea, il rigattiere di Brera amato da tutti i milanesi, fu Zecchillo a far suonare alla cerimonia funebre nella chiesta di San Marco l’”Ave Maria” da un violinista della Scala. Oltre che baritono Giuseppe Zecchillo era autore di quadri realizzati con la pasta: spaghetti, tubettini, mezze maniche, pennette, poi cosparsi di porporina… ottenendo risultati affascinanti. Fece una mostra in un noto ristorante ambrosiano con il titolo “Quadri in oro… Zecchillo”, e calamitò tanti appassionati, compreso Vincenzo Buonassisi, gastronomo ed esperto di musica leggera, che incontrai al Festival di Sanremo nel ’67, anno della perdita di Luigi Tenco e del successo di Annarita Spinaci con “Quando dico che ti amo” (sarebbe arrivata seconda, se la giuria presieduta da Ugo Zatterin, insediandosi, non avesse eliminato la classifica). A proposito della mostra, Buonassisi scrisse che l’autore non cercava successi di moda, anzi sceglieva sempre le strade più difficili, come quando si battè per i cantanti meno fortunati”. E Valerio Dehò: “Le sue opere, in cui la superficie… viene invasa da paste alimentari diverse ricoperte di vernice dorata, sono delle divertite provocazioni che riecheggiano temi e motivi delle avanguardie storiche e della Pop-Art, soprattutto in considerazione dell’elemento consumistico legato agli oggetti scelti. L’uso della vernice enfatizza la provocazione dandole significato di monumento, di permanenza, di durata…”. E lo stesso artista: “Mi ritengo discepolo di Piero Manzoni, non solo artisticamente…”. Andavo a trovarlo spesso nel suo studio di via Fiori Chiari, a Brera. A volte era lui che mi telefonava per mostrarmi un’opera terminata da poco; e di tanto in tanto mi accennava a quelle del suo amico Piero Manzoni, deceduto all’età di 30 anni. “Questo studio era suo e i suoi quadri li ho ricevuti da lui. Quindi nessuno può suscitare dubbi sulla loro autenticità”. Intelligente, colto, aveva sempre mille idee. Un giorno, mentre, seduto dietro alla lunga scrivania senza la presenza della segretaria, parlava dei suoi progetti, e all’improvvido mi disse. “Dammi una mano: sto cercando una casa produttrice di pasta disposta a sponsorizzare una mia esposizione”.
Zecchillo nel suo studio
Lo accontentai ma tutti i pastifici mi risposero, con cortesia, che la pasta è fatta per essere mangiata, non per finire sotto una patina di vernice. Non interessavano ai pastai quelle vedute a volte cosmiche che Zecchillo otteneva accostando, sovrapponendo, incrociando linguine e bucatini. Lo studio era pieno di tele e di cornici. Era un ambiente raccolto, con una scaletta che portava a una stanzetta che prendeva luce da una finestra affacciata sul locale più grande. Lo vedevo spuntare da lì e immaginavo che si accingesse a una predica. Amava la compagnia e invitare gli amici al ristorante. Il locale preferito era il “Rigolo” di largo Treves, vicino al “Corriere della Sera”, dove avemmo come commensale anche la moglie del tenore Giuseppe Di Stefano, che mi parlò del libro che aveva scritto su Maria Callas, promettendomene una copia; e un noto soprano coreano. Una sera a cena eravamo al tavolo da soli. Accanto a noi un noto onorevole che ogni tanto si alzava, salutava un avventore appena entrato e tornava ad accomodarsi, sussurrando all’orecchio della moglie l’identità della personalità. Peppino stranamente cedette alla mia richiesta di aprire la sua biografia, precisando che l’avrebbe sorvolata, riservandosi di rispolverarla con più calma un’altra volta.
Presicci, Zecchillo, il tenore Tagliavini
“Cominciai a dipingere a 18 anni circa, prendendo lezioni private di disegno e pittura per alcuni anni. All’inizio i miei quadri erano figurativi e s’ispiravano al mondo del teatro lirico (camerini di cantanti, orchestre, palcoscenici, palchi... Feci alcune mostre nelle gallerie e nei “foyer” di alcuni teatri. Riuscii a vendere, ma solo nell’ambito del teatro lirico, acquirenti colleghi, scenografi, melomani. “Avevo successo perché bravo? – mi chiedevo – o perché i miei temi interessavano solo quelle categorie? Provai turbamento. Analizzai i miei prodotti e mi accorsi che nelle mie pennellate c’erano qui De Pisis, lì Carrà. Ciò mi fece pensare a Schoemberg, che, come si sa, scrisse che, componendo in maniera tonale incontrava Beethoven, Schuman…”. Proseguì: “Volendo camminare da solo, inventai la dodecafonia. Misi da parte colori e pennelli e presi a incollare sulle tele scarti destinati alla discarica: vecchie chiavi, rasoi, pennelli da barba, tappi, forbici, lattine, che ricoprivo “doro” per esaltare l’oggetto che sorgeva a nuova vita. A poco a poco dal… rottame arrivai alla pasta. Così ho risposto alla tua curiosità”.
Quadro di Zecchillo


Me lo ripetè durante una mostra collettiva nel bar dell’angolo a Brera, dove mi vide fissare un quadro e mi chiese: “Ti piace?”. Si alzò, lo staccò dalla parete e me lo regalò. “A proposito, quali sono stati i tuoi maestri?”. “Mi sono riconosciuto in Tristan Tzara, Duchamp, Fontana, soprattutto in Piero Manzoni …”. Conobbi Zecchillo nel ’64 al Festival Del Clown dedicato a Grock, nel salone delle Feste del casinò di Campione d’Italia, dove con la sua solita eleganza e cortesia il grande Enzo Tortora si prestò a farmi da interprete per l’intervista al leggendario clown Charlie Rivel. Intanto il baritono se ne stava un po’ in disparte, non per superbia. Una mia collega mi domandò: “Sai chi è? Il baritono Giuseppe Zecchillo, un po’ rompi, ma geniale”. Arrivò con la sua “troupe” il telecronista Romano Battaglia e iniziò il suo servizio facendo uscire la testa di un pagliaccio da un trombone. “Bella idea”, commentò Zecchillo”. E avviammo una breve conversazione sulla manifestazione e sull’inventore e organizzatore Pino Corrente che aveva da poco concluso la sua collaborazione con Dino Villani. “Ho quarant’anni – diceva Pino – e voglio intraprendere un percorso da solo”. E già accennava a un Festival dei giocolieri, da ambientare in un teatro di Bergano, presentatore Pippo Baudo. Andò in scena due anni dopo.
Il Bar Giamaica, oggi
Incontrai nuovamente Zecchillo un paio di anni dopo. Motivo, un’intervista per il settimanale “Il Milanese”. Mi elencò subito i cambiamenti che il quartiere andava subendo. “Scompaiono negozi storici, ritrovi … ”; e ricordava figure illustri, che si riunivano al Bar Jamaica , dove Benito Mussolini, allora direttore del “Popolo d’Italia”, ogni mattina si faceva preparare il cappuccino dalla signora Lina. Inaugurato nel giugno del ’21, era dotato di macchina per scrivere e macchina per il caffè espresso. Uno dei clienti più assidui era il critico e storico della musica Giulio Confalonieri, amico dei “clochard” e autore di un libro sulla categoria: “I barboni di Milano”, Nuova Accademia editrice. Di Confalonieri il pittore cantante era amico. Me lo presentò negli anni Sessanta, quando in un altro suo locale, sempre a Brera, aveva scoperto una botola che portava a un ambiente sottostante e per battezzarlo invitò, oltre al musicologo, Nanni Svampa, Roberto Brivio, Lino Patruno e Gianni Magni, non ancora famosi come “Gufi”. Giuseppe Zecchillo non c’è più da qualche anno. Rimasto vedovo, si era iscritto al Circolo Volta, dove mi invitò a cena senza poter mantenere l’impegno.






mercoledì 13 giugno 2018

Ha onorato Milano e il suo paese


UN PUGLIESE CHE HA CREATO

LE GUIDE DI TUTTE LE CITTA’





Benito Di Lauro, di Spinazzola,
arrivò al Nord nel ’47 e dopo
aver fatto diversi mestieri creò
le Edizioni intestate al suo nome.
 
Diresse il Circolo ambrosiano
Meneghin e Cecca”; fu segretario
generale del Circolo della Stampa
ed ebbe altri incarichi prestigiosi.
 
Nel 2003 a Tenerife fu travolto
da un’auto impazzita.




Franco Presicci

Gli amici più cari gli avevano affibbiato, affettuosamente, l’etichetta di “Sveltino alka selzer”. E la definizione a tanti pareva azzeccata. Era effervescente, spumeggiante, simpaticissimo, dinamico. Benito Di Lauro, di Spinazzola, era anche acuto, spiritoso; ricco d’idee. Non faceva in tempo a metterne una in cantiere che già ne aveva pronta un’altra. Un giorno lo invitai a casa mia, venne puntuale, ma non volle mettersi seduto. “Sto meglio in piedi. Domanda che io rispondo”. Ed elargì quel sorriso che metteva l’interlocutore di buon’umore. Era stimatissimo da molti, anche da chi non lo aveva mai incontrato. Un fiume in piena, aveva il gusto della parola; e la spendeva con sapienza, senza mai annoiare. Da buon meridionale dava subito del tu, e trattava la gente con familiarità. Conosceva a menadito la città che lo ospitava. La sentiva sua, era felice di viverci. Parlava delle esperienze fatte e dei progetti che aveva in testa senza menar vanto. Quando lo avvicinai la prima volta era il giugno del 2003.
Aveva una settantina d’anni, e sembrava un giovanotto pimpante. Amava discutere di Milano, descriverne le caratteristiche, le bellezze quasi come Raffaele Bagnoli (autore di molti libri, compreso i quattro volumi de “Le strade di Milano”, da tempo esaurito e reperibile nella biblioteca della Famiglia Meneghina) o Gaetano Afeltra, anche lui venuto dal Sud: da Amalfi. Sapeva dov’erano i cortili più fioriti, le vie in cui avevano abitato i personaggi illustri (Eugenio Montale e la contessa Clara Maffei in via Bigli…). Lo affascinavano i giardini pensili, le facciate dei palazzi barocchi, i navigli, le piazze storiche, come la Belgioioso, dove echeggiano i passi di Stendhal e del Manzoni… E passava da un argomento all’altro con facilità e disinvoltura, imbrigliando l’attenzione di chi aveva di fronte. Con i suoi modi garbati e l’intelligenza conquistava le persone più importanti, come lo scrittore e regista Mario Soldati, che a sua volta conversava con piacere e si faceva ascoltare con interesse (quando lo sentii, presente tra gli altri Arnoldo Mondadori, al Circolo Turati, nel ’60, provai il desiderio che non finisse più; lo stesso quando lo intervistai nel suo studio il giorno dopo essersi aggiudicato il Premio Bagutta). Di cose da dire, Di Lauro ne aveva. Era arrivato a Milano nel ’47.
A quei tempi i nostri connazionali trepidavano per la Sisal, le scommesse sulle partite di calcio nate da un’idea del giornalista Massimo Della Pergola; gli abitanti del capoluogo lombardo erano un milione e settecentomila; i vigili urbani 1263; molti malanni si trattavano con l’olio di ricino; le dichiarazioni d’amore si copiavano  dal “Segretario galante”; il Comune ambrosiano cercava di risolvere il problemi dei reduci assegnando alloggi e pensava a curare le ferite della città distrutta dalle bombe; alcuni tram venivano usati per lo sgombero delle macerie; la “Società Umanitaria” di via Daverio, la “Famiglia Meneghina” e il Circolo Filologico riaprivano i battenti; sulle mense dei poveri dominava la polenta. Al Caffè Dalmasso, in via Montenapoleone, ciondolavano, ammirate, avvenenti ed eleganti signore con il vitino di vespa, abiti fino ai piedi e scollature allora giudicate audaci. Le massaie erano alle prese con i conti della spesa.
Di Lauro percorreva le strade in bicicletta, impegnato nella consegna dei plichi per la Rinaldi. Un giorno il “cumenda”, avendo notato che il ragazzo era volitivo e affidabile, lo convocò nel suo ufficio, lo inondò di elogi e gli dette la responsabilità della distribuzione. Lui non disattese le aspettative, rendendo più agile, semplice e funzionale il servizio. Poi lasciò la ditta per entrare in banca e il principale se ne rammaricò: perdeva un elemento prezioso, insostituibile. Il cavallo da corsa non poteva rimanere a lungo nella stessa scuderia. Aveva voglia di sperimentare nuovi percorsi. E incontrò un editore di carte geografiche, che gli offrì l’esclusiva delle vendite. Ancora una volta “Sveltino” conseguì ottimi risultati, ma non si cullò sugli allori. Conobbe Angelo Rizzoli e gli propose una guida di Milano.

Ma era normale che prima o poi si chiedesse se fosse giusto porre il proprio ingegno a disposizione degli altri, quando aveva la capacità di lavorare in proprio? E mise in piedi la sua baracca, che si consolidò, s’ingrandì e fece circolare su vasto raggio il suo nome. Le Edizioni Di Lauro cominciarono a stampare carte regionali, carte dei Paesi europei e del mondo, carte statistiche, guide turistiche di Milano e della Lombardia e di tutte le altre città italiane… La stima e la simpatia di cui godeva lievitarono; il suo nome divenne molto più prestigioso. Ma rimase un uomo semplice, alla mano, cordiale con tutti. In Puglia, a Spinazzola, il suo paese, erano orgogliosi di lui: oltre al papà, Carmine, che faceva il calzolaio, il migliore della zona, e la mamma, Lucia, insegnante di ricamo. Benito non l’aveva mai dimenticato, il suo paese, adagiato su una terrazza attorniato da scarpate, affacciato sulla valle del torrente Locone. I poveri di Spinazzola erano sempre nel cuore di questo pugliese dallo sguardo penetrante e dalla volontà inesauribile. Per ciascuno di loro mandava a don Carducci e ad Alba Varrese un buono per il ritiro di 12 chili di generi alimentari pagati personalmente da lui.
La beneficenza era una delle sue vocazioni. Collezionò tanti incarichi e benemerenze. Da 26 anni era presidente de “La Madonnina”. Collaborava a Radio Meneghina, creata e diretta da Tullio Barbato, già giornalista di punta de “La Notte”, quotidiano del pomeriggio da anni estinto, e scrittore (in un salone della sua sede in via Monte di Pietà per anni ospitò le riunioni delle “sabette” della Pucci, un’attrice di talento che animava con gioia il gruppo di signore brillanti). Era vicesegretario generale del Circolo della Stampa, quando questo era a Palazzo Serbelloni; commendatore del Santo Sepolcro, “Ambrogino d’oro” nel 73, presidente onorario dei festeggiamenti della sua città d’origine, nella quale aveva fatto erigere il monumento ai Caduti; medaglia d’oro nel ’96 del Circolo Volta di Milano (sorto nel novembre del 1882 nella trattoria del “Pontisell”, suscitando tanti apprezzamenti che tre anni dopo potè acquistare un terreno nell’omonimo quartiere, ampliandosi). Da anni era alla guida del Circolo Ambrosiano “Meneghin e Cecca”, “che ha lo scopo di mantenere vivo il dialetto e le tradizioni storiche delle Porte di Milano, e custodisce 63 costumi d’epoca che vengono indossati nelle occasioni più rilevanti e nelle sfilate di sabato grasso. C’è ancora chi ricorda Di Lauro in carrozza con le sue maschere diretto alla visita delle autorità. Meneghin, una maschera senza maschera sul volto, baldanzoso in apparenza, servizievole, un tantino sciocco, qualche volta furbo, e Cecca gli erano cari e li decantava: “Meneghino – secondo Emilio De Marchi, segretario del senato ambrosiano dopo il 1650, docente di latino e greco alle Scuole Palatine – significa servitore della domenica, buon conoscitore dei caratteri umani; simbolo popolaresco del gran Milan”. La fortuna della maschera ebbe inizio nel ‘600, sotto gli spagnoli, con “I consigli di Meneghino” del poeta Carlo Maria Maggi. Poi, non si sa quando, sposò Cecca di Berlinguitt. Nel 2002 vestì i panni di Meneghin il cantante (“Io sono il vento”…) Arturo Testa, seguito l’anno successivo dall’architetto Gianni Ferri. Cecca era la cabarettista Mirion Vaiani. Benito era grato a Milano. “Milano mi ha dato tutto, anche la moglie, Renata, una figlia, Laura, il lavoro, tantissime soddisfazioni”. Ma non diceva che anche lui aveva dato a Milano: il suo talento, la sua fantasia, la sua grande voglia di fare... Ha fatto onore a Milano e alla sua terra, che adorava: “Le radici non si scordano mai. Non si possono scordare. Non si devono scordare. Se qualcuno le rinnega, non sa che come quelle degli alberi si alimentano e si spandono dove nessuno le vede”. Un pugliese verace, entusiasta. Benito Di Lauro non c’è più. In vacanza a Tenerife, un giorno dell’estate 2003, mentre camminava per strada, fu travolto da un’auto impazzita. La notizia arrivò come un pugno nello stomaco. I giornalisti amici fecero trillare i telefoni per sapere particolari su questo destino atroce.

mercoledì 6 giugno 2018

Un ricordo cordiale di Fulvio Nardis


ARCHITETTO SAPIENTE E ATTENTO


INNAMORATO DEL SUO ABRUZZO


Fulvio Nardis



Aveva un castello a Ocre e intendeva

restaurarlo. Sperava che il nipotino

un giorno desse voce alla campana 

del torrione, muta da tempo.

A Milano curava Palazzo Clerici, dove

aveva lo studio.






Franco Presicci


Ce l’aveva con i “dèpliant” pubblicitari, Fulvio Nardis, pittore, scultore, restauratore di monumenti, edifici, chiese, e di Palazzo Clerici, a Milano, che dal 1908 ospita la sede del Circolo Filologico (fondato a Torino nel 1872); aquilano, “soprattutto abruzzese”, come amava dire. “Quei pieghevoli continuano ad affollare l’Abruzzo di pastori. Ce ne sono, come no. A Tagliacozzo, ad Avezzano, a Celano. In modo limitato anche i pastori transumanti ci sono, nonostante siano scomparse le vie armentizie; e questi smaltiscono l’inverno nelle bassure della Puglia, del Lazio. Fa anche piacere vederli: tra l’altro suscitano nostalgia. Ci sono anche gli zampognari che, inguainati in pelli di capra, rendono più suggestivo il Natale. Ma non è il caso, secondo il mio parere, che i promotori turistici s’intestardiscano ad impaginare greggi nelle “brochure”, trascurando i vigneti che ricamano le terrazze e le falde dei monti; i caratteristici centri accoccolati su sproni e poggi; le chiese, tutte belle, ereditate dal Medioevo, epoca in cui ce n’erano molte di più; o la grandiosità della montagna abruzzese; o il paese di Ocre”, dove lui aveva acquistato un castello e diceva che quel borgo era il più bello del mondo. E, dicendolo, gustava il pesce al cartoccio nel solito ristorante di Foro Bonaparte, avendomi come commensale attento e curioso.
Graffito per Alda Merini
Non si scaldava, non si inalberava, non usava espressioni fuori delle righe. Era risentito. Avrei potuto obiettare, ma era così simpatico, che farlo mi dispiaceva. “Mi piaci, tu sai ascoltare, capire le ragioni degli altri”. Parlava con semplicità, a volte inventando immagini che avrebbero divertito anche il professor Francesco Sabatini, che la domenica mattina scioglie su Rai1 i rompicapo della nostra lingua. Era il luglio del ’72, quando si lasciò andare con me a questi sfoghi. Aveva cinquant’anni, i baffetti alla Oliver Hardy, e si definiva pigro, aggiungendo che non gli andava di agitarsi, che voleva starsene tranquillo come le pecore negli stazzi, “solo che quelle bevono l’aria frizzante della nostra terra, sempre incantevole, una terra che come diceva Guido Piovene ha una qualità quasi insulare, ’il motivo del suo forte colore e della sua diversità’”.
Corso Venezia

Il lavoro che faceva ogni giorno era documentato dalle tele allineate e dai disegni sparsi nel suo studio in questo importante palazzo vicino alla Scala; dalle sculture, dai progetti di restauro ammonticchiati su quella scrivania rustica che veniva da Castel del Monte, come la sedia su cui stava seduto. Era quella sedia che agevolava i suoi ricordi abruzzesi. “Ottimo questo branzino, devo fare i complimenti allo ‘chef’; delizioso anche il vino”. Una delle sue improvvise digressioni. “Ti esprimo il mio grande amore per l’Abruzzo e per Ocre, che fu danneggiata dal terremoto dell’Aquila nel 1703; per il castello che ho preso qualche anno fa”. Il maniero echeggiava delle voci e dei suoni che quest’uomo nato prigro alimentava ogni estate.
Il Castello di Ocre

  
“E’ in rovina, mi duole: sulle sue pietre di travertino sono incise le vittorie dei Gualtieri; e ho intenzione di restituirgli dignità con un intervento di restauro, che si fermerà al punto in cui un tocco in più impedirebbe al rudere di parlare”. Fulvio Nardis, scomparso da parecchi anni, parlava senza mai alzare la voce. “Sono uno del popolo, che parla sano e vero; e sono a mio agio tra le persone che non hanno galloni”. Il suo migliore amico era Giovanni Ricci, il contadino filosofo di Ocre. “Quello che quando guarda il cielo dice: ‘Tranquillo, professore, domani non piove’. E non pioveva davvero.
Corso Vittorio Emanuele
A Milano Nardis era importante; conosceva persone importanti: ebbe un premio da un sindaco e una medaglia da un altro, che era Aldo Aniasi. Qualcuno gli chiese che cosa si potesse fare per manifestare la gratitudine di Milano per l’impegno da lui svolto e rispose che il suo desiderio era quello di vedere una grande pubblicità dell’Abruzzo in piazza Duomo al posto di quella della Coca Cola, sulla facciata dell’edificio di fronte alla Cattedrale. Fu accontentato. E la sera, lasciando lo studio di via Clerici, l’uomo pigro s’incamminava verso la piazza e dal sagrato si gustava l’insegna che faceva onore alla sua regione. “E’ un po’ come ritrovare le luci di casa”. Davanti a quell’insegna pensava all’entusiasmo speso per organizzare appena dopo la guerra il circolo artisti aquilani, con annessa la società dei concerti; e alla sua lotta per impedire che quelle iniziative imboccassero strade diverse. ”Grazie alla bravura organizzativa dell’avvocato Carloni il sodalizio si affermò, e al primo concerto, diretto da Bogiankino, feci una fatica indescrivibile per trasportare il pianoforte avuto in prestito dal professor Stefanini, che allora era primario all’Aquila”. Il suo pensiero correva spesso a Ocre, un paesino di pochi abitanti, e al suo castello. Intendeva allestirvi alcune sale per esperienze culturali, artistiche, musicali, per far rivivere il luogo. E qualcosa aveva già fatto, organizzando la festa di San Salvatore, il santo del castello, “con fuochi di Giuseppe Basilio Garibaldi”.










DISEGNI di NARDIS









Aveva molto da raccontare, Fulvio Nardis, e lo faceva senza retorica. Con lui non ci si annoiava mai. Era schietto, rispettoso anche quando diceva pane al pane e vino al vino. Aveva un nipotino, che amava fare il “cow boy” e gli aveva “costruito un ‘saloon’, nella speranza che un giorno potesse fare il castellano e dare voce alla campana sul torrione, muta da tempo e sporgere il capo dalle feritoie attraverso le quali sibila il vento”. Mi confidò che era difficile riordinare le ossa del castello. “Io non sono ricco: lavoro per quel che mi serve; se mi serve di più, lavoro di più; il resto del tempo lo trascorro stando seduto su quella sedia con la quale hai già stabilito un po’ di empatia. E’ stata realizzata dal vecchio Giuliani di Castel del Monte e da me portata a Milano per un’esposizione alla Triennale. Da allora non si è mossa più”. Quali sono i restauri più rilevanti che hai operato in Lombardia? “A Milano la chiesa di Sant’Eustorgio… Adesso sto lavorando per Palazzo Clerici. Ho restaurato la Ca’ Granda; una casa che era stata rifatta non in modo adeguato nel ‘700 e nell’800… Ci sono cose che ho fatto bene e cose che ho fatto male, ma queste ultime non te le dico.
Tuttavia credo che quelle fatte bene sono parecchie. Anche perché al restauro mi dedico con passione, tenendo presente che in architettura esistono rapporti ben precisi, geometrici, al di là dei quali ogni intervento deturpa l’opera. Il restauro è il servo, non il comandante”. E tornava all’amore per l’Abruzzo. “Sulla strada che da L’Aquila va ad Ocre c’è un paesino che si fa annunciare da una scritta: “La piccola Svizzera”. M’infastidisce, perché l’Abruzzo è l’Abruzzo, la Svizzera non c’entra: è un’altra cosa”. Mentre Nardis parlava, guardavo le tele schierate lungo i muri. Su un tavolo troneggiava un multiplo eseguito nella bottega storica del suo pupillo Giuseppe Rossicone, anche lui abruzzese, di Scanno. Era un volto di donna dall’aspetto angosciato. Si accorse che il mio sguardo indugiava su un grande nudo femminile. Si alzò, lo staccò dal muro e me lo regalò. “Devi venire a Ocre, e ti porterò all’Aquila, città gaia - secondo Piovene – ‘che facilita il respiro’. Città‘ cordiale, sincera, ospitale. Ricordo un’altra frase dello scrittore: ‘Negli edifici sono scritte le vicende agitate non soltanto dell’arte, ma della storia dell’Abruzzo’. L’ho letta e riletta fino a quando non mi si è stampata nella mente”. Personaggio memorabile, Fulvio Nardis, come gli altri che finora abbiamo ricordato (Porzio, Alto, Carrieri, Strippoli, Miani…). Spesso ho pensato a lui, al suo modo schietto di trattare le persone. Parlava con affetto degli amici che aveva laggiù come se l’interlocutore li conoscesse. “Il direttore della… che sta all’Aquila, bravissimo professionista e ottima persona, sta infuriato, devono avergli fatto un torto grave. Quando lo vedrò mi farò dire che cosa gli è successo”.