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mercoledì 29 luglio 2020

La merceria storica in via Segneri

Gaetano Ragusa

IL QUARTIERE DOVRA’ CAMBIARE FACCIA E IL NEGOZIO E’ COSTRETTO A CHIUDERE



Giovanni Ragusa lo aprì nel 1950, dopo aver tenuto un banco di fronte alle vetrine di oggi.

I clienti sono amareggiati: “Questo locale è un’istituzione.     Se si trasferisce, andremo a
cercarlo ovunque”.

Il ricordo di Gaetano un uomo, cordiale, disponibile, generoso versatile, deceduto qualche anno fa.





Franco Presicci 

Un altro locale storico purtroppo sta per spegnere definitivamente le luci: un progetto del Comune prevede già da tempo il rifacimento della zona con la conseguente demolizione degli stabilii, tra cui quello che ingloba la merceria Ragusa, in via Segneri 2, e nessuno dà ai proprietari indicazioni su una nuova destinazione, anche se il cantiere è prossimo all’apertura.

Foto del Negozio
Una ferita che non trova un medico per curarla. Conobbi, il 15 ottobre del 2008, in via Segneri, Gaetano, uno dei titolari, persona cordiale, disponibile, premurosa e ingegnosa. Appena mi vide mi fece accomodare alla bell’e meglio nel retro del negozio, sempre pieno di clienti serviti, oltre che da lui, da un fratello e da due sorelle, e si raccontò piacevolmente. “Siamo la più vecchia merceria di Milano”, disse subito. E aggiunse di essere siciliano e di portare il cognome della città natale del padre Giovanni, che faceva li sarto. “Ma poi, siccome durante l’ultimo conflitto mondiale bisognava stringere la cinghia e non c’era più tanta gente in grado di farsi fare un vestito su misura, Giovanni presentò domanda di assunzione alla Borletti, sede in via Washington, a Milano. La domanda venne accolta e in casa ovviamente fummo tutti felici e contenti”. Nel ’40 però Giovanni rimase coinvolto in uno scoppio di munizioni e rimase cieco. Gaetano era un ragazzino di 13 anni (il fratello, Stefano, ne aveva 3) quando il padre avviò l’esercizio. Abitavano nella stessa via Segneri, al numero 8, via dedicata a Paolo, gesuita, scrittore, predicatore, collaboratore della terza edizione del vocabolario dell’Accademia della crusca, nato nel ‘600 da una famiglia nobile.

Targa di via Segneri

Quando i Ragusa iniziarono l’attività la strada era un po’ meno frequentata. Tutta la zona era diversa: la via Giambellino, la via Inganni, la Lorenteggio, il largo Gelsomini. Poi nella vicina piazza Tirana, che confina con la stazione ferroviaria San Cristoforo, dove si fermano i treni diretti a Mortara, apparve una bisca clandestina e gli abitanti si lamentavano per il chiasso che i giocatori facevano dalle 14 alle 6 del mattino. Spesso la polizia irrompeva dopo mezzanotte neutralizzando gli occhi di lince in avvistamento, metteva mani in alto e faccia al muro i “rondinon”, come nel gergo bolognese della “mala” vengono detti i frequentatori di quegli ambienti, li identificava, li denunciava e tutto rimaneva come prima. Da anni la ”belanda” è stata disattivata, il grande cerchio bianco che delimitava il gioco d’azzardo sotto il palo della luce è stato cancellato e si è dato posto agli arredi e al verde. “Noi qui – parole di Gaetano – ci siamo trovati sempre a nostro agio, la gente ci vuole bene e viene ad acquistare volentieri. Il quartiere è diventato più popoloso, sono sorti palazzi nuovi sulla Lorenteggio, sulla Inganni, e si vive tranquilli.

Via Lorenteggio


Purtroppo c’è quel progetto che intende sconvolgere la zona e corriamo il rischio di abbassare la saracinesca”. La merceria fu aperta il 20 dicembre 1950. “Ma prima avevamo tenuto un banco, sempre affollato, sul marciapiede proprio dii fronte alle vetrine di oggi. Un lavoro che ci piace e da sempre cerchiamo di esaudire ogni richiesta che ci viene rivolta”. Alcuni avventori mi riferirono che i Ragusa hanno le mani d’oro: “Se devi riparare una borsa o qualcos’altro, Gaetano lo fa presto e bene. Si esercita anche nell’arte del ricamo”. E lui: “Se un cliente vuole appuntare il proprio nome o quello di un familiare su una fettuccia, per me è un ordine. Se un altro deve essere ricoverato in ospedale e ha bisogno di marcare la biancheria, siccome ho fama di fare di tutto, si rivolge a me. Così, nome dopo nome, mi sono appassionato, e adesso per me è un piacere, oltre che un impegno pressappoco quotidiano”.

Via Primaticcio
Ma poi dai nomi passò ai disegni: greche, pupazzetti, fiori, trenini, ochette…. Fa altre cose? “Bottoni ricoperti di stoffa. Oggi non li fa più nessuno, o quasi”. Ed era bravo anche in questo. I suoi rivestimenti non erano all’altezza di quelli che luccicavano sulla veste del Re Sole, Luigi XIV, che, incoronato il 7 giugno del 1643 lasciò il governo al cardinale Mazzarino; e neppure a quelli della corte di Maria Antonietta, dove si usavano bottoni in madreperla o in avorio e di gusto semplice“. Ma forse poteva rifarsi ai bottoni ricoperti del XVIII secolo, dove sull’accessorio di dipingevano scene imitando artisti famosi come il Watteau. “Per carità, quelli sono a ben altri livelli”, commentò l’interlocutore sorridendo. “Tuttavia anche i suoi bottoni, mi dicono, sono molto richiesti. “Questo sì... Sono bottoni anni 50 e oltre. Mi seggo a quel tavolino che ricorda il deschetto del calzolaio, lì, in quell’angolo, e mi metto all’opera, mentre mio fratello e le mie sorelle (che sono tre, ma una in negozio non si è mai fatta vedere) servono la clientela. “Di che materiale sono questi suoi bottoni?”. “Galatite, metallo”. Ne ha circa 30 mila, uno diverso dall’altro.

Attestato Bottega storica-1950
Ha preso anche a fare dei quadri, combinando su ognuno una trentina di bottoni. Gli chiesi se avesse mai pensato di dare dignità artistica a questa sua bravura e gli parlai del baritono Giuseppe Zecchillo che realizzava opere con la pasta (maccheroni, linguine, maccheroni, spaghetti), su cui spennellava la porporina. Ci aveva pensato, qualche volta, “ma lei adesso mi dà una spinta”. Un tempo – ricordò - in alcune portinerie era appeso un cartello: ‘Si ricoprono bottoni’. Spesso a farli era la stessa custode, con una macchinetta”. Tra i clienti della merceria ci sono molti vecchietti? “Sì, ma anche molti giovani. I più anziani vogliono indumenti che potrebbero sembrare incredibili: i mutandoni di lana, quelli lunghi fino alle caviglie, che andavano parecchio nei tempi andati. Le signore attempate chiedono le calze e le sottocalze da portare con la giarrettiera. O la veletta per il cappello. Va molto anche la sottoveste, sempre di lana”. E i giovani? “I bottoni di metallo, che io stesso applico sui ‘blue-jeans’”. Tra di loro non ci sono amanti del collezionismo? “Forse preferiscono quello delle automobili in miniatura”. Il collezionismo dei bottoni si è incrementato negli anni Ottanta del 20° secolo, non solo nel nostro Paese.

Altra foto del negozio


A Londra, per esempio, dove, informava Massimo Alberini, Toni Frith, nel suo esercizio “The Bouton Queen”, ha stimolato alla riscoperta degli esemplari d’epoca e ha determinato la nascita del London Badge and Button Company e delle sue confezioni regalo utilizzate per guarnire la giacca. Grande esperto del settore e di circo, Alberini, che collaborava con il “Corriere della Sera”, offriva una messe d‘informazioni anche sulle raccolte dei bottoni, accessorio che a quanto pare non ha origini lontane. Basta leggere il libro “Una giornata nell’antica Roma” di Alberto Angela e guardare le foto che lo illustrano per notare che le tuniche e le toghe non avevano i bottoni, ma erano tenute insieme da lacci e cordicelle. Così anche i greci. I primi bottoni, secondo Jean Person, spuntarono alla corte del Re Sole. Figurarsi la gioia dei coyllezionisti più abbienti, se avessero la fortuna di entrare in possesso di uno di quei gioielli, che costerebbe una cifra da capogiro. Mi accorsi che Il discorso deragliava. Gaetano Ragusa da gentiluomo non me lo fece notare, ma io tornai sul binario di partenza.

Gaetano Ragusa
E Gaetano riprese: “Non do eccessiva importanza ai miei bottoni rivestiti, nonostante le richieste che continuo ad avere, soprattutto da parte dei giovani”. Conosco diversi assidui clienti della merceria di via Segneri, e da questi seppi che tra i simpatizzanti dei bottoni ricoperti di Gaetano Ragusa qualche patito c’era. Quindi lui, inconsapevolmente, alimentava questo collezionismo minore. Gli dissi che tantissimi anni fa, grazie a Vito Arienti di Lissone, grande collezionista di tarocchi storici e anche di “presse papier”, fermacarte in sagome di cristallo con fiori, arabeschi, stelle… impressi nel cuore, incontrai un signore che raccoglieva bottoni di ogni tipo, ricoperti e non. Abitava in una delle villette di viale Zara e ne conservava non so più quanti ammassati in una cassapanca della nonna. Andava orgoglioso di questo suo patrimonio, e se qualcuno mostrava meraviglia, rispondeva: “E allora quelli che collezionano scatole di fiammiferi, bottigliette, compresa quella della gazosa con la pallina in gola? E quelli che si riempiono la casa di etichette, segnalibri, turaccioli, menù…?”.

Altro attestato Bottega storica-2006
Beh alcuni menù hanno un certo fascino anche per le loro immagini, come si può vedere in “Un secolo di menù italiani” pubblicati tempo fa dall’Accademia italiana della cucina: quello, per esempio, con un’immagine di Antonio Saliola del 1996 e quelli con riproduzioni di quadri di Carrà, De Chirico, Tozzi, Guidi…Insomma, la gente ama conservare oggetti, persino sabbie di ogni parte del mondo, tenute in bottiglie tutte uguali, esposte in alcune fiere. Chiesi nuovamente scusa a Gaetano per il deragliamento: Il collezionismo mi coinvolge. E mi mostrai convinto che in qualche collezione i suoi bottoni erano finiti. Giorni fa ho voluto riprendere il discorso e ho telefonato alla merceria. Ho parlato con Stefano, 77 anni, e mi ha dato brutte notizie: Gaetano il 17 giugno del 2017 a 84 anni è deceduto e la merceria ha il destino che si temeva: non si sa quando, dovrà chiudere e un’altra bottega storica scomparirà per aprire altrove. Loro stanno già cercando, ma non riescono ad avere risposte da chi dovrebbe. Anche i clienti sono addolorati: questa merceria è cara a tutti. Molti dicono: “Se riapriranno in capo al mondo anche lì andremo a trovarli. La merceria dei Ragusa è un’istituzione”. E’ una delle storie di meridionali o figli di meridionali che lavorando sodo e con impegno si sono fatti onore: meridionali laboriosi, intelligenti e comunicativi. Milano ha sempre riconosciuto il loro valore.












mercoledì 22 luglio 2020

Un autentico formicone di Puglia


 


PEPPINO MONTANARO


E I SUOI ULIVI SARACENI


Uno spettacolo di grande bellezza che

l’architetta Gae Aulenti definì

la cosa più visibile del pianeta Terra

dalla Luna dopo la Muraglia Cinese.

Quando Montanaro trapiantò i suoi 

Ulivi, si accesero polemiche, ma

quegli alberi superbi sono ancora lì

con tutto il loro fascino.



Franco Presicci


I rami degli ulivi formano una specie di galleria, nella masseria Accetta Grande, a Massafra. Tra un varco e l’altro il sole filtra trionfante, arabescando sul terreno giochi di luce. Gli ulivi, dalle forme capricciose, che danno spettacolo a chiunque venga a visitare la Puglia, furono messi a dimora in tempi antichissimi, come dimostrano alcuni documenti rispolverati da Vincenzo Antonio Greco e riproposti nel poderoso e informatissimo volume arieggiato da straordinarie immagini a colori: “I 4000 mila anni di Accetta, fra monaci, massari e galantuomini”, edito da Kikau.

Montanaro - Lenoci
Cantine Amastuola
Passeggiammo una domenica di luglio 2011 sotto queste fronde, conversando piacevolmente e osservando i tronchi monumentali, orgoglio del padrone di casa, Peppino Montanaro, che faceva da guida a me e al professor Francesco Lenoci, mèmore della sacralità dell’ulivo (i luoghi di culto degli etruschi tra gli uliveti; il Monte degli Ulivi, dove Gesù passò l’ultima notte prima della cattura…) e stimolò Peppino a raccontare la sua vita esemplare. Montanaro si mostrava un po’ imbarazzato a parlare di sé e rispose che lo avrebbe fatto in un’altra occasione. Lo incalzai: “Tu sei un formicone di Puglia e io un ficcanaso di professione: insisto, facendomi perdonare.
Masseria Amastuola - Crispiano
Non posso tornarmene a Martina Franca con il carniere vuoto, come un cacciatore che non sa prendere la mira”. Sorrise. Forse pensando: “Ficcanaso e rompipalle”. Proprio così. Padre di tre figli, Ilaria, Donato, Filippo; titolare di questo immenso patrimonio, terra un tempo arida, selvaggia e oggi, grazie a lui, fertile, affascinante. A portarmi da Montanaro era stato proprio Francesco Lenoci, autore di 35 volumi di finanza aziendale, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, valorizzatore viaggiante delle imprese più rilevanti del nostro paese. Giunti a Massafra, dove l’abitato è diviso dalla Gravina di San Marco e vanta alcune delle cripte basiliane più pregevoli della regione, ritrovai un paese che non vedevo da una trentina d’anni, forse più. Figurarsi la gioia. Nei venti minuti di viaggio da un tratturo in via Mottola a Martina, Francesco mi aveva abbozzato la personalità dell’uomo che stavo andando ad incontrare, dal quale fui accolto con premurosa ospitalità fra palme e gelsomini subito dopo il cancello d’ingresso. All’interno dell’elegantissima e luminosa residenza, fui colpito da un cavallo in ferro nell’atto di spiccare un salto per superare un ostacolo: l’autore era lui, l’anfitrione. Dopo i convenevoli, Lenoci gli suggerì di mostrarmi due delle sue masserie, e così c’imbarcò su un’auto e avviò il motore.

Masseria Accetta grande - Massafra
Prima tappa, gli ulivi, in doppia fila, per 600 metri, dell’Accetta Grande, che la famosa architetta Gae Autenti aveva definito “la cosa più visibile del pianeta Terra dalla Luna dopo la Muraglia Cinese”. Che soddisfazione per Montanaro, essendo stato lui a far spostare quei monumenti dall’Amastuola, altra sua architettura agricola, a Crispiano (la città delle cento masserie), dove un archeologo olandese aveva scoperto un villaggio dell’antica Gracia. Tutti e tre in silenzio, ammirammo l’ambulacro vegetale, pensando ai millenni che questi testimoni senza parola hanno attraversato.

Il vigneto giardino - Masseria Amastuola
Poi, all’Amastuola, corpo di fabbrica signorile, contemplammo un altro fenomeno stupendo; la vigna a onde, anche questa voluta da Montanaro, ricco d’idee geniali e di multiformi esperienze, intelligente e generoso, su progetto di Fernando Caruncho, architetto spagnolo di livello internazionale, filosofo e paesaggista, grande artista nel creare l’agricoltura come giardino. Peppino sembra un parroco di campagna, saggio, benevolo e comprensivo. Fra l’altro delicato nei modi, voce bassa, parole ben dosate, nessuna enfasi. Già da ragazzo scuola e lavoro. Non aveva ancora 13 anni e nelle vacanze pascolava le pecore del nonno massaro. Poi prese a fare il sarto. Poco tempo dopo dall’ago passò alla cazzuola; e aiutando ad erigere muri, ricavava sagome, con esiti apprezzabili, dal tufo, materiale “non sordo all’intenzion dell’arte” e allora utilizzato per innanzare palazzi. Dalla cazzuola al maglio e all’incudine il passo fu breve. A 14 anni e mezzo, agricoltore. L’Ente Riforma assegnò al padre una palazzina con tre ettari di terreno nella zona di Paternisco, e lui si mise a scavare buche per gli alberi dalle parti di Palagiano, centro in cui si svolge la Sagra del Mandarino, agrume che tiene testa al “clementino”. Trentadue lire a buca, di un metro cubo ciascuna.
Mar Piccolo - (foto paeseitaliapress.it)
E ideò un sistema per accrescere la produttività, modificando zappe, picconi, pale e servendosi di ciò che aveva appreso lavorando in precedenza da fabbro. Da solo faceva 60 fossi al giorno. E intanto poneva attenzione agli specialisti che installavano gli impianti d’irrigazione. Ci mise poco a imparare a farli per sé. E per gli altri; a cabina con la vasca di sollevamento. “In casa eravamo cinque figli e dovevo darmi da fare. A 18 anni, nell’esercito a Spoleto, paracadutista sabotatore. Fui allontanato, perché non era arrivato il nullaosta dei miei genitori”. Da un commilitone geometra pratico di serramenti metallici apprese la teoria del mestiere, e fu assunto in un’officina di Massafra, diventando presto preciso e veloce. Costruì un capannone sulla via Appia per la fabbricazione di quegli elementi, e poi un altro nell’area industriale con impianti innovativi. Acquistò terreni e li trasformò, stabilendo contatti con professori universitari della California.
Scavi archeologici Libera Università Amsterdam-Amastuola
Appassionato di sopravvivenze elleniche, avrebbe voluto averne tante da custodire in teche particolari nel suo kikau-store, dotato di una “scatola nera” per esposizioni. Nel giardino dell’edificio si succedono attività culturali, tra cui conferenze. Ne aveva tenuta una Francesco Lenoci sui giovani e don Tonino Bello, figlio di un maresciallo dei carabinieri nominato vescovo nell’82 da Papa Giovanni Paolo II e ora in odore di beatificazione. Il tempo è avaro. Passammo davanti al modernissimo opificio di Peppino, dove gli operai mutano in vino il sangue delle sue viti (centinaia di migliaia di piante) e pensai ai tanti mestieri che questo signore aveva praticato e alle bellissime opere che aveva edificato. 

Vigneto giardino Amastuola
Avrei voluto fermarmi ancora ad ascoltarlo per approfondire la sua conoscenza. “E’ proprio un formicone di Puglia, un vanto della nostra regione che cammina” sussurrai a Lenoci. “Ti avevo detto che ti avrei fatto incontrare una persona eccellente, con una storia singolare”. Pensai a Fernando Caruncho, che aveva collaborato alla nascita della vigna a onde, da lui battezzata “onde del tempo; a Gae Aulenti e a quegli ulivi secolari, saraceni, imponenti, austeri: uno così possente che per cingerlo occorrono una decina di braccia. Montanaro mi invitò a pranzo, ma dovevo tornare a Martina per un altro appuntamento. E volle regalarmi alcune bottiglie del suo vino. Io non bevo, ma le accettai promettendomi che due dita di quel nettare le avrei assaporate per un brindisi in un suo onore. Ci salutammo con l’impegno di rivederci. E ci siamo rivisti a Taranto l’anno scorso, nella splendida galleria d’arte del Castello Aragonese, per la mostra fotografica di Cataldo Albano sulle caratteristiche paesaggistiche della città dei due mari: il fiume Galeso, il Mar Piccolo con i pescherecci e le lampare, il ponte girevole, i tramonti fiammeggianti sul Mar Grande… Lui fu una meteora: il suo calendario era strapieno e lo richiamò prima della conclusione della serata.

Wine Resort Amastuola - Crispiano
A Taranto probabilmente è tornato mercoledì 15 luglio, giorno in cui Francesco Lenoci ha tenuto una “Lectio Magistralis” al Molo Sant’Eligio su “La sostenibilità è armonia del pianeta”. Io spero d’incontralo al “Vinitaly” di Verona, dove ogni anno espone i suoi vini, che esporta in tutto il mondo. La sera della mostra al Castello raccolsi il pensiero di Michele Annese, direttore di “Minerva”, ex segretario generale della Comunità Montana di Mottola e già valentissimo direttore della Biblioteca “C. Natale” di Crispiano. “Peppino Montanaro? Persona di grandi capacità e disponibilità, illuminata, di compagnia, dalla battuta di spirito garbata”. Le cose le fa bene, ad alto livello. Quando trapiantò i suoi ulivi si accesero numerose e accanite polemiche, convinte che quegli alberi non avrebbero resistito al trasloco. Invece, eccoli, belli e superbi, esaltati da quanti vanno a vedere la masseria, a suo tempo impreziosita da questo gigante del fare”. Una vittoria significativa sulle critiche, che non mancano mai e a volte sono pretestuose contro le persone che hanno stoffa da vendere. E giacchè c’ero, chiesi ad Annese notizie del suo libro, “La Biblioteca di Crispiano”. “Sta per uscire da Schena. Nelle sue 560 pagine contiene anche l’intera relazione del professor Gert Jan Burges, docente presso la Libera Università di Amsterdam, autore della scoperta del villaggio dell’antica Grecia all’Amastuola e presentata anni fa ad un folto pubblico nella via principale di Crispiano”, che si snoda dalla piazzetta antistante la chiesa della Madonna Neve.







mercoledì 15 luglio 2020

Misteri di Milano e circondario

Fantasma scenico

I FANTASMI NEL CAPOLUOGO LOMBARDO

NON HANNO DIRITTO DI CITTADINANZA


Secondo il giornalista e scrittore Domenico
Porzio ”i razionali milanesi li hanno tutti messi
a vomitare l’acqua piovana tra le guglie del
Duomo: per le strade, nelle botteghe davano
fastidio”. Alfredo Castelli, in “Milano, Meraviglie,
Miracoli, Misteri” è d’accordo con lui.





Dida generale: Fantasmi di pietra sui muretti a secco di Martina








Franco Presicci

Fantasmi a Milano? Se fai questa domanda a un meneghino doc rischi di essere preso per matto. Ci mancherebbero i fantasmi, in questa città, con tutti i problemi che ha, cominciando dall’inquinamento. In ogni conversazione si parla di tutto, del costo del biglietto del tram; della caserma dei bersaglieri rimasta vuota ed esposta al degrado e al pericolo di essere occupata abusivamente da chi non ha un tetto sulla testa; delle scritte che imbrattano i muri e le targhe stradali rendendole illeggibili, del traffico automobilistico febbrile che costringe molti ciclisti a pedalare sui marciapiedi… Ma i fantasmi sono estranei ad ogni crocchio. I fantasmi o ectoplasmi che dir si voglia, spiriti vaganti non hanno il passaporto per insediarsi a Milano. Eppure, quando si parlò di un fantasma che si stagliava sul loggione della Scala non furono in pochi quelli che un pensierino lo fecero. Forse perché la figura indistinta veniva attribuita a una regina della lirica dei tempi recenti o a un soprano famoso nell’800.

L’uomo, si sa, è un tantino volubile (“absit iniuria verbis”) e a volte quello che dice la mattina non vale la sera. Ma volubile o no, ne fece esperienza un signore quarantenne e benestante che non frequentava molto i teatri e non s’intendeva di opere liriche. Una sera decise di assistere a una rappresentazione con un’amica e, preso dalla noia, si abbandonò al dormiveglia: allora fu scosso da una mano invisibile. Uscì nel foyer e qualcuno gli disse spassionatamente che doveva essere stato il fantasma, aggiungendo che ogni teatro ha il suo. Lui rimase così impressionato, che, una volta fuori del tempio della lirica, ebbe l’impressione che quella presenza lo stesse seguendo. Non si sa se quel signore avesse cenato prima di andare a teatro, perché in questo caso la colpa dell’avvenimento poteva essere stata una cattiva digestione.
Per Domenico Porzio, a suo tempo capo ufficio stampa della Mondadori, scrittore e giornalista coltissimo, nato a Taranto e trasferitosi da giovane a Milano, “i diavoli. i razionali milanesi li hanno tutti messi a vomitare l’acqua piovana tra le guglie del Duomo: per le strade, nelle botteghe davano fastidio”. E aggiunge che nemmeno nel circondario, per la campagna, abitano per spaventare i bambini, “vuoi folletto o più domestici ‘monacielli’”. Insomma, a Milano questa categoria non ha diritto di cittadinanza. Porzio fa alcuni esempi di cronisti e scrittori che riferirono di avvistamenti improbabili. Lo storiografo Giuseppe Ripamonti, raccontando la peste di Milano del 1630 accennò a una persona che giurava di aver visto in piazza Duomo, “su un cocchio tirato da sei cavalli bianchi, un uomo con le sembianze di un principe. “ma con fronte infocata ed un occhio fiammeggiate”. Secondo lui – aggiunge - era il diavolo in persona che lo invitò a seguirlo in una casa piena dei demoni a convegno. Dicerie d’altri tempi. 

Come quella della cosiddetta “casa degli spiriti” (l’ho già citata a suo tempo su “Minerva”) al Parco Sempione all’angolo con via Paleocapa: a mezzanotte in punto, compariva una signora dalle forme seducenti e il volto velato, attirava giovanotti e adulti in cerca di… svago, li conduceva in quella casa e dopo l’amplesso riservava una terribile sorpresa: la tulle nascondeva un teschio. Naturalmente il malcapitato fuggiva a gambe levate.
Dunque, oggi a Milano non si allevano fantasmi, veri o presunti… Qualche spiritello è riuscito ad infiltrarsi grazie all’immigrazione, ma non ha avuto lunga vita. Nel dicembre del ’76 mi sono imbattuto in una effervescente signora di 82 anni, vedova di un ex esperto di fuochi di artificio, a Milano da 50 anni. La incontrai fuori della soglia della sua abitazione dalle parti di via Melchiorre Gioia, dove comincia a scorrerere sottopelle il naviglio Martesana. Facendole domande per un articolo da pubblicare sul settimanale “Il Milanese”, che si gloriava della paternità di Arnoldo Mondadori, poi ceduta, il discorso scivolò sulla “Cassina de’ Pomm”, che aveva ospitato personalità come Mina, Rascel, Togliani, Lola Talana, Pietro Nenni…; e in anni più addietro “el sciur Carlin, come Carlo Porta era chiamato nelle trattorie.





La donna snocciolò una vicenda che avevo già attinta dalle pagine della “Storia delle vie di Milano”, cinque volumi di Raffaele Bagnoli, socio della “Famiglia Meneghina”, sede in via Meravigli, e grande conoscitore della città. In questa strada - a due passi dal ponte di Greco – dove qualche secolo fa parcheggiavano le diligenze dirette in Brianza per far riposare i cavalli ed era frequentata da ragazzi e adulti che s’immergevano nelle acque del canale, mentre sulle sponde allegre comitive suonavano e cantavano, era avvenuto – secondo la vecchietta, capelli argentati, esile e bassina, cadenza brindisina - un episodio incredibile. Quale? “All’epoca in cui stavano scavando il fosso, le autorità finirono i soldi e una contessa si disse disposta a sovvenzionare i lavori, se avessero salvato il figlio, che era stato condannato a morte. Lo scavo fu terminato, ma la condanna, nonostante le promesse, venne eseguita. Allora la nobildonna pronunciò una maledizione: “in quelle acque ne devono morire sette alla settimana. E la maledizione si avverò”.
Ruggero Leonardi, giornalista di ottima stoffa con anni nella redazione del settimanale “Oggi”, in un suo interessante volume, “”Quando Milano faceva faville”, edito da Mursia nel 2008, parla di lupi antropofagi che infestavano anche questa zona, tanto che il 24 maggio 1462 Francesco Sforza emanò un’ordinanza che prometteva un premio a chi ne avesse eliminato o catturato qualcuno,
rendendo il luogo più sicuro.



La superstizione si nutrì abbondantemente, quando nel 1792, a Cusago un pastorello venne aggredito e ucciso da uno di questi esemplari. Qualche giorno dopo l’autorità di Abbiategrasso annunciò che una ragazza era finita fra i denti di un altro lupo e ne dette i connotati. Il lupo divenne la bestia da abbattere e tutti lo vedevano in ogni luogo, fornendo ognuno connotati diversi.
Secondo la credenza popolare, un fantasma si aggirava dalle parti di piazza Maggi e si scoprì che era un mendicante ricoverato nel manicomio della Senavra, in corso XXII Marzo, che nelle notti di nebbia si avvicinava ai passanti, facendo fracasso con gli zoccoli da capra che aveva al posto dei piedi, e che si placasse al suono di una moneta. Correva voce che un altro ectoplasma alloggiasse in un’abitazione già occupata da una fattucchiera, e mentre s’invocava l’intervento di un’esorcista per neutralizzarlo, si appurò che i rumori che provocava erano di un sorcio. E veniamo a Isabella da Lampugnano, giustiziata il 19 marzo del 1519 con l’accusa di stregoneria. Dopo anni e anni lo spirito di Isabella ricomparve proprio nella piazza del Castello, dov’era stata giustiziata.


Nel 1630 a Milano, durante la peste, che “invase e spopolò una buona parte d’Italia” (Manzoni: n.d.a.), vennero celebrati molti processi agli untori e anche a streghe e a persone che usavano intrugli e fatture dagli effetti dati per sicuri in modo truffaldino da chi li confezionava. Le sentenze venivano eseguite in piazza Vetra davanti a numerosi spettatori comodamente seduti, come allo spettacolo di un circo all’aperto. Dai sepolcri dei condannati, che – precisa Porzio - non risiedevano nel capoluogo lombardo, ma in centri distanti qualche chilometro, non uscirono mai spiritelli vagabondi. Si ricorda anche la bellissima Bianca Maria Scappardone Visconti, contessa di Challant, sposata, risposata, signora dalle varie alcove, viveva nel castello di Issogne. Nel 1526 venne accusata di essere mandante dell’omicidio del suo amante, Ardizzino Valpenga, processata e decapitata sul Castello Sforzesco. Il suo fantasma senza testa vagava sul maniero. Era stato avvistato anche da una mamma che portava a spasso il suo bambino.
Quindi ripeto, streghe, fantasmi e compagnia un posto a Milano lo hanno avuto, anche se la credenza popolare ne ha fatto spesso largo uso. Nei secoli passati. Alfredo Castelli ribadisce che “a Milano non esistono labirintici sotterranei, come a Napoli, Roma o Parigi. Non esiste una tradizione di draghi come in Provenza né una tradizione diabolica come a Torino… Non esiste una fitta popolazione di fantasmi come a Londra: i pochi di cui parlano le cronache (quello di santa Redegonda, il fantasma della Bernarda, il sinistro Barbapedana) ormai non fanno più da anni la loro apparizione, forse impauriti dal traffico o infastiditi dallo smog”. Mago Alex-Geo Portaluppi ne “I misteri di Milano: spettri, demoni e altre storie, a cura di Franco Fava, edito da De Ferrari, di storie ne ha raccolte tante. C’è solo da leggerle.


mercoledì 8 luglio 2020

“Italia ante Covid” di Goffredo Palmerini


 
VA IN OGNI CITTA’ E PAESE DEL MONDO

A RACCOGLIERE STORIE DA RACCONTARE

Lo scrittore, abruzzese di Paganica, ha visto con i propri occhi la terra tremare e le case crollare come fossero fatte di polistirolo, come le quinte d’un palcoscenico. Viaggiando, incontra personaggi di grande levatura e gente umile che, fuggita dalla fame, ha affrontato enormi sacrifici per farcela.

Goffredo Palmerini















Franco Presicci

Goffredo Palmerini intraprende un nuovo viaggio attraverso la penisola, dal Salento al Friuli; e oltreconfine, a New York, a Montreal, raccontandoci avvenimenti, paesaggi, figure prestigiose, che trascinano il lettore dalla prima all’ultima pagina. Le prime, penetrate dai suoi sentimenti per L’Aquila, per Paganica, il paese di 5 mila abitati a 9 chilometri dal capoluogo, in cui è nato e vive. Pagine che toccano il lettore nel profondo, lo coinvolgono, lo emozionano. Pagine di poesia e storia, di cronaca e dolore. Il dolore per le terribili ore provocate dai terremoti che hanno sconquassato la città e altri Comuni, mietendo vittime e demolendo case, chiese, monumenti, tutto ciò che si trova sullo spazio sotto il quale il mostro, svegliandosi, vomita la sua furia.

Scicli, centro
L’autore ricorda i momenti in cui con la famiglia scappò in luogo aperto, dove restò sotto una tenda per oltre tre mesi. “La violenza del sisma ti toglie ogni sicurezza e ti mette nudo davanti al terrore. Passando accanto al centro storico di Paganica vidi una nube livida di polvere, le case squassate e lacerate”, continua Palmerini, la cui penna è agile, elegante, abile nelle descrizioni dei fatti, che per il lettore attento e partecipe sono scene che scorrono davanti agli occhi come in una sequenza cinematografica. Libro prezioso. L’ho letto, pensando al destino di questa città: L’Aquila, meravigliosa non solo per il suo patrimonio paesaggistico e artistico, ma anche per la gente: riservata, dignitosa, tenace, coraggiosa anche di fronte alle rovine della sua città, del suo nido, il suo guscio; sempre pronta a rimboccarsi le maniche per ricostruirne il volto. Palmerini, che è stato amministratore comunale (consigliere, assessore, vicesindaco), conosce il gravame, il senso di responsabilità di chi ha il compito di mettere insieme i pezzi e avverte il disagio per i ritardi colpevoli o no provocati da alcuni, singoli e gruppi, sordi anche alle critiche a valanga e ripetitive, ponderate o improvvisate o azzardate dei mezzi di comunicazione. 

Paganica, Chiesa del Castello, dall'alto
Simbolo dei dolori dell’Aquila sembra essere la cattedrale metropolitana dei santi Massimo e Giorgio, più volte distrutta e più volte rimessa in piedi: nel 1259 – ricorda l’autore – riedificata dopo l’abbattimento da parte di re Manfredi, figlio naturale poi legittimato dell’imperatore Federico II; e nel 1315, nel 1703; e nel 2009 ancora sfregiata dalle scosse e riedificata. Palmerini non manca di ricordare lo slancio, la fatica, i sacrifici di tanti che accorsero per estrarre i morti e i vivi dalle macerie. E ii ringrazia tutti: vigili del fuoco, uomini della Protezione civile e della Croce Rossa, volontari, carabinieri, polizia di Stato, guardia di Finanza, gli italiani sparsi nel mondo, alpini…

Benedetta Rinaldi

E proprio a questo corpo glorioso dedica un bel capitolo: ”C’è grande attesa nella città capoluogo d’Abruzzo per il secondo raduno del Battaglione ‘L’Aquila’, l’eroico reparto che dalla sua costituzione ha visto passare tra le sue file decine di migliaia di abruzzesi e di altre regioni in guerra come in pace…”; e in tutte le altre catastrofi del Paese, come l’alluvione del Polesine nel novembre del ’51, la tragedia di Stava il 19 luglio dell’85…Palmerini non parla soltanto del suo Abruzzo. Dall’Abruzzo al Salento: a Gallipoli e Galatone, due gemme dello Jonio “che affidano anche all’universale messaggio dell’arte e della letteratura, oltre che alle bellezze architettoniche e naturali il proprio futuro”. E s’inoltra nei due premi internazionali, entrambi legati al progetto “La catena della Pace”. 

Gallipoli, Castello
Facendone il resoconto, afferma che oggi la pace deve “uscire dall’intimità individuale e diventare fenomeno sociale”. Gallipoli e Galatone: la prima, nota anche per il coraggio che impiegò nella lotta contro gli invasori, trae il nome dal greco antico con il significato di “città bella”: e bella è sicuramente, anzi bellissima e adorabile; la seconda, ricca di vigneti, uliveti, mandorleti e di luoghi di culto, come il Santuario del Crocefisso della Pietra, orgogliosa dei natali dati ad un egregio umanista, Antonio De Ferrariis, “alias” Galateo, fedele al pensiero aristotelico. La città lo ha celebrato recentemente. E’ lungo e largo anche questo viaggio di Goffredo. In ogni tappa, sia Paese sia città o borgo, scopre o rispolvera storie da esporre meticolosamente. “Italia ante Covid”, il suo libro di cui sto parlando, si nutre di queste storie, e anche di primizie. 

Goffredo Palmerini al programma Community
Vi si trovano protagonisti illustri, connazionali e stranieri, profili biografici, serate letterarie, celebrazioni, ogni evento a cui ha partecipato. “Ha recuperato il ritardo alla partenza il volo AZ608 per New York, modificando la rotta. Giovedì 5 ottobre. Quasi le 2 del pomeriggio, quando la costa americana compare dalle parti di Providence. Ecco poi New Harven e fra pochi minuti New York… ”. Destinazione, l’abitazione di Mario Fratti, giunto alla gloriosa età di novant’anni. “Il drammaturgo è la simpatia fatta persona. Travolgente come l’amore per la sua città natale, L’Aquila, della quale vuole sapere le ultime novità”. 

Siracusa, Palazzo civico e Cattedrale
E chi meglio di Goffredo può elargirle? Goffredo va a nozze: narrare è una delle sue specialità. “Mario già sa dell’arrivo a New York, in tarda serata, del presidente del Consiglio Regionale d’Abruzzo Giuseppe Di Pangrazio. Lo ha conosciuto il 5 luglio scorso proprio quando il Consiglio gli rese omaggio nel giorno del suo novantesimo genetliaco. E’ felice d’incontrarlo proprio qui, la città che dal 1963 gli ha consentito di esprimere il suo valore di drammaturgo, ora riconosciuto in tutto il mondo”. E proprio a Fratti, con brevi parole, è dedicato il volume. Ne avrà di cose da apprendere chi si accinge a leggere “Italia ante Covid”. Incontrerà mondi forse da lui mai visti e tanti nomi di grandi e meno grandi, i loro talenti, le loro opere, le loro sgobbate, le loro delusioni e i loro traguardi. Goffredo Palmerini ha incrociato molta gente, l’ha interrogata, incalzata, ascoltata, annotando brani di vita che gli rimangono intatti nella memoria. Persone, che, come scrive la sua omonima nella prefazione, “sono legate da una speciale relazione, che non è quella di appartenere solo a un luogo di nascita, ma ad un luogo di valori”. Viaggiatore instancabile, dunque, oltre che scrittore prolifico e affascinante, capace di trasmettere anche voglia di togliersi le pantofole e di mettersi a girare il globo, magari avendo lui come cicerone. 

Lina Palmerini
Modica, duomo di San Pietro
















A volte penso quasi con un pizzico d’invidia alla costanza, all’energia, alla “giovinezza” di questo autore dal fiuto dell’investigatore, che vola da un luogo all’altro, a Sydeny, a Los Angeles, a Buenos Ayres; a Paganica, a Lecce, a Taranto, a Verona, a Milano, dove, tra l’altro, nel salone di un istituto di credito, presentò un altro suo libro, “L’italia dei sogni”. E’ spinto da una curiosità insaziabile, che gli viene anche dall’essere giornalista a tutto tondo. Al suo occhio di lince nulla sfugge, e la sua penna, quando s’inoltra nell’’incantesimo del barocco tra colori e odori della Sicilia orientale, scorre più brillante e avvincente. Così quando rievoca il contributo di Paganica alla guerra di oltre cento anni fa e quando fa un reportage dal Canada o descrive il “Columbus day” di New York. I capitoli che compongono il volume sono notevoli: gli aspetti più suggestivi del nostro Paese: l’attività delle persone impegnate nell’allestimento di manifestazioni culturali…, tutto ciò che nasce e si sviluppa lontano da noi, ovunque Goffredo vada a cercare anche gli italiani poco noti o addirittura sconosciuti, che a suo tempo hanno dovuto lasciare la terra d’origine per scappare dalla fame. “L’Italia ante Covid” è anche un volume da vedere per la ricchezza e la bellezza delle foto su Modica, Paganica, Siracusa…, agglomerati sfregiati dal terremoto colti dall’alto. L’opera di Goffredo Palmerini è presentata dall’aquilana Lina Palmerini (non è imparentata con lo scrittore), giornalista parlamentare del “Sole 24 Ore” e dal 2012 autore delle note politiche quotidiane dal titolo “Politica 2.0”. Puntuale la prefazione di Benedetta Rinaldi, anche lei giornalista e conduttrice televisiva, che intervistò Goffredo in una trasmissione molto seguita (mi pare Uno Mattina). In televisione, non soltanto sulla rete ammiraglia della Rai, Goffredo Palmerini è di casa, essendo un personaggio famoso e stimato ovunque. I libri che ha scritto non si contano. La sua memoria è un silo che trabocca.







mercoledì 1 luglio 2020

Il coronavirus non ha demoralizzato il Festival

Franco Punzi, presidente della Fondazione Paolo Grassi
                                                    

ALL’INSEGNA DEL FILO DI ARIANNA



Il programma è ricco: concerti nelle
masserie anche a Crispiano.
Si parte il 14 luglio e si conclude il 2 agosto.
Prima rappresentazione, nell’Atrio del bel Palazzo Ducale, 
“Il borghese gentiluomo”.
I melomani fedeli alla rassegna martinese sono in attesa dell’evento. 
Avevano perduto ogni speranza, ma la tenacia ha vinto.

                                                                                                                 IL RICORDO DI                                    GIUSEPPINA   "ANIMA"  DEL FESTIVAL

                                            
    


Giuseppina Camassa Punzi, deceduta il   21 marzo 2019 a 73 anni di età. Insegnante Elementare di ruolo in pensione ha svolto la sua attività didattica per 40 anni,  in particolare presso il 1 Circolo della scuola elementare Marconi di Martina. Si è dedicata particolarmente alla cura dei ragazzi con problemi particolari e alla formazione dei bambini. Ha collaborato con il Festival della Valle d' Itria per 40 anni garantendo l'ordine e la organizzazione degli spettacoli sempre dietro il palcoscenico e con la Fondazione Paolo Grassi per 25 anni nel settore dei piccoli, che frequentano i corsi musicali. Si è fatta apprezzare per la sua serietà, ha amato e si è fatta amare, severa con se stessa e con gli altri ed ha lasciato in tutti il segno del suo impegno. 








Franco Presicci.

Il “coronavirus” (non so perché gli abbiano dato l’alloro) non ce l’ha fatta a mettere il bavaglio al Festival della Valle d’Itria. Dopo aver imposto il veto alle tradizionali processioni, natalizie e pasquali, di Taranto e di altre città, è stato schivato dal Festival della Valle d’Itria, che si svolgerà nell’atrio di Palazzo Ducale, mentre i concerti si svolgeranno nelle “’nchiostre” e nelle masserie, con il titolo “Il canto degli ulivi”.
Il borghese-gentiluomo
Inaugurazione il 14 luglio (repliche il 22, il 25 luglio e l’1 Agosto) all’insegna di Strauss, con “Il borghese gentiluomo”, diretto da Michele Spotti, e “Arianna a Nasso” da Fabio Luisi. Anche nelle pagine letterarie, comprese quelle di Ovidio, Omero, Catullo… Arianna, figura mitologica, emoziona: figlia di Minosse re di Creta e di Pasifae, salvò Teseo, che, entrato nel labirinto per uccidere il Minotauro, riuscì a trovare l’uscita grazie a un gomitolo di filo che, legato all’entrata, snodandosi lungo il percorso gli consentì di orientarsi. Fuggì poi con Arianna, per abbandonarla sull’isola di Nasso, dove venne trovata da Dioniso, che la sposò.

Torre medievale masseria del Duca-Crispiano
Il 46° Festival della Valle d’Itria avrà anche due appuntamenti al Museo della Fondazione Pino Pascali di Polignano, con il profumo del mare; il 16 luglio a Crispiano, sicuramente in una delle magnifiche masserie della città, come quella del Duca, tra bellissimi affreschi e pregi architettonici, con il recital composto dalle arie più celebri del repertorio del basso Alex Esposito; e il 20 luglio a Cisternino, con un concerto dedicato alle eroine dell’opera, novelle Arianna con Lidia Fridman e Leonora Bonilla; mentre il mezzosoprano Veronica Simeoni sarà il 23 luglio alla masseria Palesi di Martina Franca.

2019-Escobar, Luisi, Punzi, sindaco Ancona, Triola

Un comunicato informa che il calendario, costruito intorno al mito di Arianna, tema centrale di questa edizione intitolata “Per ritrovare il filo”, è stato preparato in brevissimo tempo dal direttore artistico Alberto Triola e dal direttore musicale Fabio Luisi. Squillino dunque le trombe e si battano il petto quelli che temevano il chilleraggio del Cod19 anche contro la rassegna martinese: ha vinto la tenacia degli uomini. ”Abbiamo creduto – ha detto Franco Punzi, presidente della Fondazione Paolo Grassi – anche nei momenti più difficili che le luci di Palazzo Ducale dovessero accendersi sulla 46.ma edizione del Festival: il nostro è un impegno nei confronti del territorio, degli artisti, ma soprattutto del nostro pubblico. E’ nel momento più grave - ha proseguito – che il teatro, così come c’insegna Paolo Grassi, deve essere in grado di affermare il proprio ruolo, di trovare nuova vitalità, per restituirla alla comunità di cui fa parte”. E ha detto grazie a tutto lo staff del Festival, “il cui lavoro instancabile potrà ridare ossigeno a Martina Franca e a tutta la Valle d’Itria”. Via dunque al programma, che prevede opere in forma scenica, concerti vocali e progetti speciali, che si snoderanno con il rispetto delle misure di sicurezza richieste dalla situazione d’emergenza creata dal Covid-19, nei luoghi più ammirevoli della città dei trulli, come nell’Atrio di Palazzo Ducale, che troneggia in piazza Roma, nei chiostri, nelle masserie più dotate e ammirevoli e anche in ambienti ampi di Taranto, di Polignano a Mare, la città che, aggrappata sulla scogliera, dette i natali a Domenico Modugno.

2019-Presentazione a Milano 45^ edizione Festival Valle d'Itria
Alberto Triola, che per necessità quest’anno non ha potuto presentare, con Punzi e Luisi, la manifestazione pugliese al Piccolo Teatro di Milano, ha affermato che “nessuno sa quando, e se, si potrà tornare a fare teatro e musica com’eravamo abituati prima che la pandemia sconvolgesse il mondo intero, spazzando via schemi e consuetudini. Come in tutte le crisi epocali, anche in queste situazioni emergeranno quanti sapranno individuare e gestire soluzioni innovative, per andare ad occupare spazi inediti della creatività, mettendo in gioco forze, impulsi e risorse fino a qualche tempo fa neppure immaginabili…”. I motivi per alimentare lo sconforto non sono pochi, “ma le energie che il Festival della Valle d’Itria – ha aggiunto Triola – ha saputo mettere in gioco in quasi mezzo secolo di storia sono in grado di reagire alla rassegnazione e di azionare i necessari anticorpi culturali e creativi”. Parole sante, che fanno resuscitare la speranza in chi si era fatto demoralizzare dall’accanimento e dalla brutalità del cecchino. Lo sforzo che il Festival ha compiuto è eccezionale, per venire incontro al pubblico e per incoraggiare “chi dell’arte e con l’arte vive, gli artisti, i lavoratori dello spettacolo, le imprese dell’indotto”. Un anno drammatico, il 2020, segnato da un nemico invisibile che ha decretato la clausura come difesa; ha diffuso la paura; continua a mietere vite umane… Il pubblico – ha detto ancora il direttore artistico – ha bisogno più che mai di occasioni culturali per rivitalizzare lo spirito e scoprirsi comunità. In situazioni straordinarie, risposte straordinarie. E il Festival, “che gioca sempre di più il ruolo di faro per il Mezzogiorno e per l’Italia dello spettacolo dal vivo”, non si presenta indebolito, ma corroborato. Ogni anno un’idea nuova rimpolpa il Festival, lo tiene sempre all’altezza e della reputazione che ha conquistato nel mondo.

Tornando al cartellone, “il borghese gentiluomo” è “ripensato come monologo da Stefano Masini, con la ‘mise en espace’ curata da Davide Gasparro e le musiche di scena del compositore di Monaco di Baviera dirette da Michele Spotti. La musica scritta per accompagnare la commedia sarà eseguita secondo la partitura del 1917, con ‘performance’ d’attore e di danza, nello spirito originale della comèdie ballet di Lully/Molière e della ricreazione di Strauss/Hofmannsthal”. A Masini, che è uno dei maggiori drammaturghi del teatro contemporaneo e tra l’altro direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano, il Festival ha commissionato una drammaturgia inedita che parte da Molière per parlare del nostro tempo. Arianna a Nasso, in scena con la bacchetta di Fabio Luisi sarà rappresentata come  nella prima edizione del 1912, con una nuova versione in italiano del libretto di Hugo Hofmannsthal a cura di Quirino Principe e la regia di Walter Pagliaro, gli elementi scenici di Gianni Carluccio e i costumi di Giuseppe Palella, già Premio Abbiati per i suoi precedenti interventi alla rassegna della Valle d’Itria. Nella parte della protagonista Carmela Remigio.

Palazzo ducale - Martina Franca
L’opera verrà riproposta il 21, il 24, il 26 luglio e il 2 agosto. Il 27 luglio si svolgerà un’originale iniziativa musicale in più tappe tra i monumenti del centro storico e attraverso i secoli della musica: “Omaggio a Martina Franca“. Come Teseo, nel labirinto bianco con il filo d’Arianna – prosegue l’ufficio-stampa - con la partecipazione di decine di artisti, tra i quali il direttore Federico Maria Sardelli e il soprano Giulia Semenzato. L’iniziativa potrà essere seguita in “streaming” dal pubblico di tutto il mondo. Anche quest’anno sarà trasformato in teatro il Chiostro di San Domenico con due appuntamenti concertistici per rendere omaggio a Ludwig van Beethoven nel 250° anniversario della nascita: il 17 luglio con il pianista Federico Colli, vincitore del primo premio del 2011 al concorso Mozart di Salisburgo e l’anno successivo al Leads International Piano Competition; e il 18 luglio con il duo composto dalla violinista Francesca Dego e dal direttore d’orchestra Daniele Rustioni, che a Martina Franca sarà presente come pianista.

Giuseppina e Franco con le collaboratrici del Festival

Infine, siccome siamo a Martina Franca, città ricca anche di architetture rurali, poteva l’organizzazione non portare la musica in questi splendidi luoghi, fulcro del lavoro contadino? Non poteva. Quindi alcune manifestazioni, denominate “Il Canto degli ulivi” (che vivono da millenni tra storia e leggenda: secondo Omero era fatto di ulivo il letto di Ulisse e Penelope), verranno ospitate in questi spazi. I melomani che da sempre vengono a Martina per il Festival, ma anche per la bellezza del paesaggio e per l’aria incontaminata, possono essere soddisfatti, magari pensando anche ai versi di Catullo:” Ed ecco sulla riva di Dia battuta dalle onde Arianna/scrutando, vede Teseo in fuga, sulla nave che veloce se ne va/ e in cuore porta invincibile la furia/ ora che strappata in un sogno pieno d’inganni/ si trova tristemente sola sulla spiaggia deserta… Tra le alghe lo guarda da lontano con occhi disperati la figlia di Minosse/ come la statua di marmo di una baccante!...” . Catullo, il poeta delle passioni d’amore intense, pazzo di Lesbia, che vorrebbe riempire di baci, si sarebbe forse trovato a suo agio a Martina Franca, la città del sole e delle meraviglie, delle viti nane, delle case incappucciate e della musica. E forse avrebbe anche scritto un carme, come lo scrisse a Sirmione.