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mercoledì 26 febbraio 2020

Il fotografo che per fare i suoi scatti mette le ali


Piero Orlandi
SAPESSI QUANTO E’ BELLA 


MILANO VISTA DALL’ALTO


Piero Orlandi ha una passione per Milano.

Guai a dire male della città del Porta. 

Per lui è favolosa; e l’ha ripresa in ogni angolo: 

“Sono felice quando punto l’obiettivo sulle sue preziosità”. Adora le cascine, i cortili, i monumenti, la Cattedrale, le vie storiche, le piazze…


 

 

 

Le foto della Basilica di San Simpliciano e dell’Abbazia e cascina-monastero di Abbazia Cerreto, viste dall’alto sono di Piero Orlandi

 



Franco Presicci
Le sue foto hanno contribuito ad impreziosire i volumi della Celip, la casa editrice di Nicola Partipilo, con quelle di Mario De Biasi e Fulvio Roiter. Fa riprese dall’alto, dall’abitacolo di un elicottero, che si alzava ronzando, andava dove lo portava lui, Piero Orlandi, che puntava l’obiettivo su prati, abbazie, risaie... A volte, dopo essersi allacciato bene la cintura, apriva lo sportello e scattava su una villa di delizia o su un’architettura rurale, anima e fulcro del lavoro contadino, magari facendo inclinare la libellula senza provare un brivido. Non so se lo fa ancora: non lo vedo da tanto tempo. 
L'Abbazia e la cascina-monastero di Abbadia Cerreto
Avrei voluto navigare nell’aria con Orlandi, ma quando lo incontrai nella libreria di Nicola Partipilo, in viale Tunisia, via cara al compianto presidente della Repubblica Sandro Pertini, non me la sentii di chiederglielo. Da qualche mese lo storico tempio della cultura, notissimo a Milano, e molto ben frequentatao(ci andarono Enzo Biagi, Carlo Castellaneta, Gianni Brera, Guido Lopez…), ha abbassato la saracinesca per sempre, per i motivi che costringono tanti librai a svuotare gli scaffali, e non ho più la possibilità d’incrociare questo grande fotografo, che per fare uno scatto particolare usava spesso mettere le ali. “Non immagini come sia bella la città vista dal cielo. Se ne ha una visione totale, come hai notato editando i miei volumi su Milano per la tua Celip”, disse un giorno a Nicola, che era diventato editore grazie alla grande passione che nutre da sempre per questa città, pur essendo nato a Bari. S’inebria, Piero Orlandi, quado parla di Milano, “bella, bellissima, come hanno scritto autorevoli autori“. Non toccategli Milano. S’inalbera, lui così pacifico e sereno, quando sente parlare male di Milano o della Lombardia. 
Giardino verticale

Certo io non posso dargli torto, pensando come lui. L’amarono ed esaltarono anche geni della tavolozza, come Pietro Annigoni. Il Carducci come Catullo celebrarono Sirmione. Corrado Alvaro, nel suo “Itinerario italiano”, scrisse che “tutto a Mantova parla un grande linguaggio, torri, castelli, palazzi”. Stendhal elogiava Milano come la città europea che “vanta le strade più belle e i più bei cortili …”. E potrei continuare. Orlandi ha percorso la Lombardia e Milano con la macchina fotografica appesa al collo, e ne conosce ogni angolo. Ha passato ore ad aspettare la luce voluta., con la pazienza e la costanza di un cacciatore appostato nell’uccelanda. E’ nato nel “borg di Cigulat”, in via Paolo Sarpi, che già settant’anni fa era un centro importante e popoloso. “Allora Milano era certo più vivibile, vi si poteva circolare in bici o sui pattini; sulla strada si poteva giocare al pallone o a ‘tollini’…”. I tollini? “Tì, ricordi i tappi metallici delle bibite? Quelli erano i tollini. Li si scalciava verso un tombino e chi lo centrava vinceva”. La domenica, con il papà capo contabile all’Icmesa, si armava di macchina fotografica e faceva con lui un giro sui Bastioni e oltre. “E’ scoccata da lì la mia passione per la fotografia”.Quasi ancora un bamboccio, riprendeva le facciate dei palazzi nobili, i giardini, le vie storiche, come la Bigli, dove visse il poeta Premio Nobel Eugenio Montale; piazza Belgioioso, una delle più affascinanti; via Borgonuovo, dove abitò il poeta e critico d’arte tarantino Raffele Carrieri; i monumenti, i cortili, i navigli… Quando capì che quello sarebbe stato il suo mestiere, dopo aver frequentato per qualche anno Brera, si iscrisse alla scuola di fotografia “Cesare Correnti”, dimostrando subito di avere talento, tanto che venne mandato alla facoltà di Agraria, diretta da Vittorio Treccani, ripartizione microbiologia, per impiantare la camera oscura e insegnare ai docenti ad eseguire foto al microscopio. Quando era alle prime armi già si prendeva le sue soddisfazioni, e non si montava la testa. Ancora oggi è una persona alla mano, cordiale, riservata, generosa, di poche parole. Gli chiesi una foto che ero quasi sicuro non avesse; e alcuni giorni dopo eccone una con un bellissimo asino di Martina Franca. 
La Basilica di San Simpliciano dall'alto
Me la consegnò nella libreria di Nicola, mentre l’architetto Empio Malara, esperto dei navigli, presentava il libro sui corsi d’acqua, licenziato anche questo dalla Celip. “Allestii lo studio in casa nel ’60”. L’anno in cui, il 7 maggio, si concludeva “Il Musichiere”, fortunatissima trasmissione televisiva condotta da Mario Riva con la sigla “Domenica è sempre domenica”, e al Festival di Sanremo trionfava “Romantica” con Renato Rascel, battendo “Libero” di Domenico Modugno, che aveva trionfato l’anno precedente con “Piove”. Ci sono uomini che di passioni ne hanno più d’una. Piero Orlandi ha anche quella per il volo. E prese il brevetto di pilota di aerei da turismo. 
Torre Velasca



Quando l‘ottenne chiese l’autorizzazione al ministero della Difesa di riprendere l’Italia dalle nuvole, e sorvolò la Torre Velasca, il Castello Sforzesco, l’Università Statale, che con i suoi cortili forma quasi una mezza scacchiera, il Duomo, la Madonnina, la darsena, la Triennale incastonata nel verde del parco Sempione, la Basilica di Sant’Ambrogio, la Cassina de’ Pomm, lambita dal naviglio Martesana che in via Melchiorre Gioia si tuffa sotto l’asfalto… Prese così corpo il suo primo omaggio alla città dal cuore in mano: “Milano dal cielo”, un libro splendido, spettacolare. Con tutte quelle immagini realizzate magistralmente sfidava chiunque a dire che la terra meneghina non avesse nulla a che vedere con la bellezza. “E’ discreta, la bellezza di Milano, ritrosa, non civettuola”, ha scritto Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”. Milano somiglia a una signora che arrossisce a sentirsi complimentata. E’ bella soprattutto dove possono vederla soltanto pochissimi privilegiati. E’ bella nei cortili interni delle case patrizie, spesso vigilati da custodi inflessibili, come fossero a guardia del “caveau” di una banca. Lo è in corso Venezia, dove può ammirarla chi vuole, chi sa camminare con il naso all’insù, come scrisse Francesco Ogliari nel suo libro “Milano di sopra”. Che, presentato al Pac (Padiglione di arte contemporanea) di via Palestro, credo nell’80, fu accolto da un pubblico numeroso, tra cui Renato Pozzetto. E’ bella dunque Milano, Piero. “Basta spingere il passo verso piazza Belgioioso…”. E ripete: “Specialmente vista, ripeto, dall’elicottero Milano è favolosa, procura emozioni indescrivibili “. Gli piace trasformarsi in volatile. Lo ha fatto anche per la De Agostini. Quanta fatica, accettata con gioia. Se sceglie un castello, una villa, prima d’inquadrarli li studia, fa ricerche, visita gli interni, parla con le persone. Quando decise di illustrare i libri sulle cascine i cortili lombardi (l’editore volle me come autore del testo) tornò diverse volte nelle strutture più importanti, facendo, per esempio, domande sulla vita che vi si svolgeva un tempo… “Devo sentirlo, l’ambiente”. 
Piazza Duomo
Di Milano coglie tutti gli aspetti, i dettagli, i simboli… Ho meditato su alcuni suoi libri, avendo la sensazione di intraprendere percorsi indimenticabili, con vecchie strade ricche di edicole abitate da madonnine, alle quali qualche vecchietta porta i fiori; via della Spiga con la sua fisionomia ottocentesca; la scala interna del palazzo Poldi Pezzoli; l’edificio contrassegnato dal numero civico 15 in via Borgospesso, dove si trovava il salotto di donna Cima, figlia e nipote di patrioti lombardi; il bassorilievo della scrofa annidata nel secondo arco su via dei Mercanti; le cariatidi, le “vedovelle”, che sopravvivono nei “vicoli” di corso San Gottardo; il Liberty, il palazzo “dei parol che sgura”, quello con le frasi pubblicitarie che scorrevano sulle facciate dirimpetto al Duomo; e la gente che passeggia, si affolla alla Festa del Naviglio Grande o fa “shopping” in centro; i turisti scaricati a frotte dai pullman; il sagrato del Duomo; la Madonnina d’oro sulla guglia maggiore (chi non ricorda la canzone “Oh, mia bella Madunina”, di Giovanni D’Anzi?); le tantissime, grandi statue di Santi. 
Cascina Guardia di Sopra
“Amo molto la Milano di notte e la Milano di Ferragosto. Le percorro con mia moglie, a piedi o in sella alla bicicletta”. Meritato il Premio Galatea assegnatogli nel ’98 dal consiglio comunale di Lainate, dove tra l’altro aprì nel ’72, dopo 40 anni che era chiusa, Villa Litta, con una mostra fotografica sulle preziosità di questa dimora di delizia. Parlai a lungo di Orlandi con Nicola Partipilo, mentre prendevamo un caffè nel bar di fonte alla libreria, mentre Antonio Di Pietro prendeva il suo con amici occupando un tavolo vicino alla finestra. Lo salutai (conoscendolo da anni, molto prima di “Mani pulite”) e continuai il discorso con Nicola, che già stava pensando a un libro per l’anno successivo. Aveva in mente i campanili lombardi, e io a quelli che svettano sulla strada per Laino e nei centri vicini, ma poi cambiò idea, optando per i castelli in Lombardia, affidando il testo ad Andrea Bosco, giornalista di Raitrè. “Voglio anche realizzare un volume che abbia come titolo ‘Le luci della città’, con il testo di Carlo Castellaneta e l’apparato fotografico a Orlandi”. Partipilo lo stima molto. Nonostante sia un grande fotografo, Orlandi non assume mai atteggiamenti di superiorità. E’ un uomo che trasmette serenità; che sa ascoltare con attenzione. In questo assomiglia molto all’editore, che cominciò a prendere dimestichezza con Milano, e ad amarla, quando giovane appena arrivato, portava i libri a domicilio per conto di una libreria. Poi aprì la sua in viale Tunisia, che dopo più di sessant’anni è stato costretto a smantellare recitando il “De Profundis”.







mercoledì 19 febbraio 2020

Quando la polizia racconta


Controlli di polizia
VITA E IMPRESE DEI MAIGRET 

DI VIA FATEBENEFRATELLI



Non si dimenticano i nomi di
di Plantone, Caracciolo, Oscuri,
Jovine, Pagnozzi, Colucci, Serra,
che hanno dato il meglio di sé,
acciuffando trafficanti di droga,
spacciatori, assassini…





Franco Presicci

C’è stato un lungo periodo in cui ho frequentato i corridoi e le stanze dei commissariati e della questura; e lì, intrattenendomi con amici, capitava che la loro memoria mi elargisse episodi di malavita grande e piccola. Come quella che si svolse una notte dalle parti del Corvetto, dove un magnaccia bassino e in carne urlò a alle sue “protette” di darsela a gambe perché aveva avvertito la presenza di G., cintura nera di lotta giapponese, che lui non aveva mai visto di persona.

Il maresciallo Oscuri
Il questore Lucio Carluccio
Ma una voce alle sue spalle lo fece sussultare: “G. sono io”: il poliziotto era noto in tutta Milano come il Dondina ai primi del Novecento e in servizio al commissariato di zona. Trascorrendo le notti più sulla strada che a casa, sapeva che l’omino gestiva una batteria di “falene” e cercava di coglierlo sul fatto. Conosceva molto bene il mondo della mala milanese, non solo macrò, ma anche spacciatori di droga spietati, soprattutto quelli che operavano in via Odazio, al Giambellino; e spesso faceva buona pesca. Un giorno – ero presente, appostato dietro le persiane di una portineria per osservare l’andamento del mercato - al segnale delle sentinelle, il traffico subì una scossa: era arrivato G., che, nonostante il fuggi-fuggi, con i suoi colleghi impacchettò tre donne, molto attive nel traffico. Alcuni giorni dopo un altro amico mi parlò di un lenone che accompagnava la sua “protetta” all’idroscalo e per esibire il suo potere era solito accendere la sigaretta con un biglietto da diecimila.

Il prefetto Achille Serra
Poi c’era Ciccillo, bell’uomo, sempre vestito all’ultima moda, una specie di duro dello schermo, che bazzicava le sale da ballo di lusso per fare conquiste. Individuata la preda, la coltivava per mesi e, quando quella affrontava il discorso del matrimonio, lui esponeva le proprie difficoltà, prima fra tutte quella del portafoglio. Le altre – diceva - potevano essere superate, bastava un po’ di buona volontà, ma il denaro non avrebbe potuto trovarlo all’angolo della strada. Però, se lei, con un pizzico di coraggio, decidesse di smaltire qualche notte sotto un fanale, i soldi sarebbero arrivati a pioggia. Lei era dapprima riluttante, anzi sdegnata, ma alla fine accettava. Con questo sistema il lestofante era riuscito a creare un gruppo di cavalline. 
Il prefetto Mario Jovine
Nel’85, Guido Gerosa, vicedirettore e capocronista de "Il Giorno", mi dette l’incarico di scrivere una serie di articoli, intervistando “detectives” che avevano lavorato o lavoravano a Milano, per farmi raccontare la loro carriera, le fatiche compiute per individuare gli autori di delitti, rapine, spaccate di vetrine, borseggi fatti con tecniche mirabolanti, furti colossali…. Chieste le dovute utorizzazioni, andai a Venezia a conversare con Mario Jovine, che allora era questore nella Serenissima; quindi incontrai Mario Nardone (questore a Como), Achille Serra, Antonio Pagnozzi, Francesco Colucci, Vito Plantone (questore di Catanzaro), Antonio Fariello (questore a Torino), Enzo Caracciolo (questore in pensione), Lucio Carluccio, Ferdinando Oscuri, Nino Giannattasio….
Questore Enzo Caracciolo



Quando andai l’ispettore Ugo Brignoli, 43 anni, di Varzi (Pavia), persona squisita, disponibile, ospitale, che aveva tanta nostalgia degli anni passati alla Buoncostume con il vicequestore Enzo Sciscio, intelligente intraprendente, inflessibile, di Stornarello, in provincia di Foggia, la mia messe fu più cospicua. Mi disse, per esempio, che una notte alle due, su un’auto civile “io e un collega stavamo facendo un giro e di perlustrazione, quando un giovane dalla faccia da bambino ci chiese un passaggio.

Il prefetto Pagnozzi
L'ispettore Ugo Brignoli























E lo prendemmo a bordo perché qualcosa di lui ci aveva insospettiti. Lo facemmo sedere sul divanetto posteriore, e mentre stavamo per chiedergli i documenti, la radio ci segnalò un tipo sui vent’anni, jeans scuri e camicia bianca, che con un coltello aveva rapinato una coppietta. Era proprio quello che si trovava dietro di noi! Lo perquisimmo e gli trovammo l’arma”. Ma Brignoli preferiva parlarmi delle sue indagini nel campo dei trafficanti di droga, di una particolare. “Era il 1978, mese di giugno, dipendevo dal commissario capo Enzo Portaccio. Venimmo a sapere che un gruppo di trafficanti di morte nei pressi di Milano era andato in Libano a trattare grosse partite di droga, prendendo contatti con un personaggio del luogo, poi venuto in Italia per perfezionare il contratto. Costui, aspetto da professionista, elegante, colorito olivastro, furbo come una volpe, si era sistemato in uno dei più costosi alberghi meneghini.
Nelle indagini entrarono anche gli agenti della Dea (Drug enforcement administration), l’organismo americano sempre occupato a fiutare droga e trafficanti, e uno di loro s’inserì fra i trafficanti, italiani e stranieri, fingendo di essere un acquirente. Non tardammo ad appurare che i compratori avevano già preso una notevole quantità di hascisc ed erano pronti a venderne 300 chili per 230 mila dollari. Il denaro doveva essere consegnato al forestiero in albergo. Al poliziotto infiltrato i trafficanti chiesero di trovare un furgone, con il quale si doveva prelevare la sostanza stupefacente in una località non precisata. Disponemmo quindi un servizio nell’albergo. Il furgone si mosse alle 8 di sera, seguito da due auto che fungevano da staffetta. Gli uomini a bordo erano molto vigili: si fermano in vari bar con la scusa di dover prendere un caffè, ma in realtà per controllare se qualcuno li tallonava. A Cantù si fermarono: uno dei trafficanti si mise al volante, sostituendo il poliziotto infiltrato, e si arrivò verso una cascina isolata, in mezzo alla campagna. Ci appostammo, sentimmo rumori come di sacchi che venivano gettati a terra e cani che abbaiavano rabbiosamente. 

Il maresciallo Gino Giannattasio
Tutt’intorno non c’era anima viva. Al momento opportuno, facemmo irruzione nella struttura e prendemmo la banda di sorpresa”. Ho ancora in mente le parole del maresciallo Nino Giannattasio, un gentiluomo che parlava con tono sommesso. Era di Lanciano, in provincia di Chieti. Aveva 64 anni. I colleghi della questura lo definivano il Maigret di via Fatebenefratelli. Pensava spesso all’omicidio avvenuto il 26 gennaio del ’66 a Porta Genova, vittima un ex panettiere. Il caso fu risolto in dieci giorni. Fu lui a condurre le indagini, con altri sottufficiali. “Ho ricordi limpidi di quel fattaccio. In questura venne la zia del sospetto assassino e tentò di abbracciarlo. Ma lui la respinse, mantenendo un atteggiamento freddo”. Un assassino scoperto in così poco tempo è un risultato esemplare, osservai. “Beh, qualche altro lo abbiamo preso addirittura dopo poche ore. 

Il prefetto Colucci

Per me è molto importante la costanza: le prove si dissolvono, la memoria viene a mancare, l’assassino fa in tempo a inventarsi tutti gli alibi possibili”. Giannattasio, di assassini ne aveva cercati e pescati tanti. Ma non se ne vantava. E non amava parlare di sé. Mi disse soltanto poche frasi della sua biografia: “Fatta la guerra in Jugoslavia e sul fronte greco-albanese, fatto prigioniero dai tedeschi l’8 settembre ’43, scappai dopo quattro mesi, giunsi a Milano, dove mi arruolai in polizia”. Arrestò grossi calibri della mala e gregari; interrogò noti mafiosi rispediti in Italia dagli Stati Uniti: uno in particolare che oltreoceano veniva considerato secondo soltanto a Vito Genovese, capo di Cosa nostra. Lo vide l’ultima volta quando da una clinica privata i giudici lo trasferirono in un paesino delle Marche, dove morì. Giannattasio aggiunse che aveva visto spuntare l’hascisc a Milano. “La cocaina era già un problema, ma a sniffare erano circa in 150. L’eroina non circolava ancora”. E mi saluto ricordando un omicidio che turbò profondamente Milano: la vittima era Simonetta Ferrero, uccisa con decine di coltellate all’Università Cattolica del Sacro Cuore, il 26 luglio ’81. Giannattasio era uomo sensibile, riservato, acuto, rispettoso. Come Enzo Caracciolo, siciliano, intransigente, la cui severità, all’epoca in cui dirigeva la squadra mobile (anni 70) era proverbiale. Non aveva orari. Arrivava in ufficio anche a mezzanotte, improvvisamente. Era colto, ma non lo dava a vedere. Amava la pittura. Apprezzava quella di Filippo Alto, l’artista barese, che operava a Milano e d’estate a Figazzano, nei pressi di Locorotondo. Tante colonne di via Fatebenefratelli (Caracciolo, Plantone, Giannattasio, Oscuri, Fariello, Nardone, Jovine, lo stesso Giannattasio…) non ci sono più. Ma hanno lasciato un segno indelebile nella polizia milanese.







mercoledì 12 febbraio 2020

“Il Segreto del Naviglio Grande”


 
LA VITA E LE OPERE DI GIGI PEDROLI

RACCONTATE CON STILE ATTRAENTE




L’autore è Pietro Ichino, avvocato
giuslavorista, docente universitario,
già deputato e senatore e editorialista
de “Il Corriere della Sera”, per dieci
anni alla Camera del Lavoro. Milanese
per nascita e vocazione.







                                                    
Franco Presicci
Il Naviglio Grande
Bello, bellissimo, avvincente il racconto che Pietro Ichino fa della vita e dell’arte di Gigi Pedroli, nel libro “Il Segreto del Naviglio Grande, edito da Tralerighe. Pagine che attraggono così tanto, che in una giornata si arriva all’ultima parola, con la voglia di riprenderne daccapo la lettura. Ichino, avvocato giuslavorista, docente alla Statale di Diritto del Lavoro, dieci anni alla Camera del Lavoro, già editorialista del “Corriere della Sera” e deputato e senatore, ha ripercorso tutti i passi, i momenti di Gigi: la sua nascita, il nido in cui è nato e vissuto, l’incontro con la bellissima Gabriella, gli amici, l’attività di cantautore e di grande acquafortista…
Pedroli al Centro dell'Incisione
Non c’è niente che non abbia esplorato dell’itinerario dell’artista, gigante con il cappello a falde larghe, intanato nel suo Centro dell’Incisione sul Naviglio Grande e nel suo studio alla Fornace Curti, in via Walter Tobagi (non lontano dalla chiesa di Santa Rita, dove il capo della Mobile Paolo Zamparelli portò gli investigatori a messa dopo la cattura dei banditi della rapina di via Osoppo, nel ’58). Al sacrario della Fornace i Gigi, che ha un ingresso anche da via Gattamelata, si arriva salendo scale fiancheggiate da altane ricche di vasi, cotti, mascheroni, stemmi, modanature dell’antica nobiltà milanese, che Alberto, titolare del luogo, discendente della dinastia dei Curti, che dal 1400 circa, pur cambiando più volte sede, è rimasta sempre nella zona Ticinese, tiene in ordine con passione. 

Luci nel Naviglio Grande
E’ la vecchia Milano che affascina questo grande artista, che è Gigi Pedroli, quasi da sempre sull’alzaia del corso d’acqua caro ad Alfonso Gatto, a Gaetano Afeltra, a Carlo Castellaneta, a Empio Malara (anni e anni trascorsi nella difesa dei navigli), a tanti altri, tra cui Roberta Cordani, che a questo canale ha dedicato un manifesto d’amore. Già l’inizio del “Segreto” ha un’aria da fiaba, che tra l’altro emoziona: “Nel cortile che separa le palazzine a tre piani della cooperativa dei tranvieri un gruppetto di bambini gioca a rincorrersi sotto l’occhio vigile della portinaia. Passa una donna che rientra dalla spesa e accarezza sulla testa uno dei bimbi dicendo con una vena di tristezza: ‘Por Gigino’”, che ha perso il padre e la madre appena nato ed è stato affidato da una balia, il cui ricordo è ancora vivo, come tanti altri, nel ragazzo diventato uomo, simpatico e stimato. Gigi le ha guadate tutte le “epoche” di Milano, dagli anni 20, e le ha snocciolate con limpidezza a un Ichino attento, paziente, scrupoloso.
Pedroli conversa
Pedroli si è confessato e Ichino ha annotato, assimilato. Non ci sono incertezze, angoli annebbiati dal tempo, in penombra nella memoria di Gigi: archivio che si lascia aprire volentieri: la guerra con le corse al rifugio; gli urli sinistri della sirena (una notte una bomba cadde a pochi metri di distanza dalle case dei tranvieri di via Gran San Bernardo, dove i Pedroli abitavano, e fece un fracasso che terrorizzò tutti e mise a dura prova i timpani); il fascismo; il ricovero in ospedale, il lavoro, il “rendez-vous” con Gabriella, conquista definitiva, le opere costruite insieme mattone su mattone, l’istinto creativo di Gigi, stimolato, incoraggiato da questa sua donna ideale, cortese, sorriso dolce, che gli sta sempre accanto, collaborando in tutto quello che lui fa anche nel Centro dell’Incisione. “Ricordo i tempi dell’immigrazione, con tanti meridionali che venivano ad alloggiare qui sul Ticinello, portando con sé fame e superstizioni, ma anche un gran desiderio di lavorare in una Milano che accoglie con il cuore in mano”, mi disse una sera in cui, presente anche il professor Lauria, docente alla facoltà di veterinaria all’università, Roberta Cordiani, davanti a un pubblico numeroso e colto, illustrava un libro della Celip, curato come tanti altri da lei. 

Zampognari al Centro dell'Incisione


Gigi è un uomo amabile, socievole, cordiale, premuroso anche nel rispolverare il suo passato. Il nonno Luigi era di Arona e faceva il fuochista su un battello di linea che solcava il Lago Maggiore, portando i turisti stranieri ad ammirare le bellezze del paesaggio circostante. Ichino riferisce con il suo stile agile, brillante, godibile ogni dettaglio: le famiglie paterna e materna, gli zii e poi la scuola alla “Rinnovata”, dove il ragazzino, iscritto dai nonni, nel ’38, imparò anche il giardinaggio e l’allevamento delle mucche… Nell’autunno del ’45 la zia Piera gli trovò un collegio, il “Don Guanella”, di Gassago Brianza”, cove Gigi frequentò la prima classe del commerciale. L’anno dopo eccolo al “Don Guanella” di via Mac Mahon, a Milano, per gli altri due anni della scuola commerciale, “più una ‘quarta’ e un anno integrativo per entrare al liceo”. Intanto il ragazzo studiava il pianoforte. In seguito gli zii lo reclutarono come apprendista nella loro officina meccanica. 
Pedroli alla Fornace Curti
Ma non era quello il lavoro per Gigi, nato artista e destinato ad imporsi. Un brutto giorno fu aggredito dalla febbre e dalla tosse e gli si aprirono le porte dell’ospedale di Sondalo. Anche lì Gigi si fece amare da tutti e scoprì che la struttura aveva una biblioteca ricchissima e una sala con il pianoforte, che poteva suonare quando voleva, con rispetto delle precedenze; e un’altra sala in cui poteva disegnare e dipingere. E lui prese la palla al balzo: disegnava, dipingeva, suonava. Aveva ottimi rapporti con gli altri degenti, con i medici che lo curavano, con gli infermieri. Ha un bel carattere, un’ironia garbata, è buono. Pietro Ichino ha fatto un’abbondante mietitura. Ed ecco il suo raccolto in questo suo libro, allettante per la sua eleganza nella copertina con un Naviglio di Gigi e per lo stile agile, espressivo, lucido, esemplare. Torno alla narrazione. Nel ’55 Gigi entra nell’agone della pubblicità, dove impara l’arte della serigrafia, mentre la sera con un collega va a Brera, al bar Jamaica, al Bar dell’Angolo, alla latteria delle pie sorelle Pirovini, con la quale, nel dopoguerra, il pittore Ibrahim Kodra aveva avuto un conto chilometrico da saldare, pare poi barattato con la conversione al cristianesimo (forse era una delle tante leggende che avvolgevano il nome di questo artista eminente, affabile e magnanimo). Poi Gigi acquista a rate un pianoforte usato; incontra Gabriella, dalla bellezza fulminante, che dopo l’ufficio aspetta con lui alla fermata il tram numero 12 per rientrare a casa. Si sposano, il 6 aprile del ’59 nella chiesa della Barona. Matrimonio felice, un sentimento forte, alla base di ogni impresa, compreso il Centro dell’Incisione, che ha una facciata completamente occupata dalla vite americana. Tra un’iniziativa e l’altra, nasce il primo figlio. Gigi cambia azienda, continua ad usare la tavolozza, vende i suoi quadri, sceglie come modella di alcune opere la moglie, che è la sua dea ispiratrice. 
Graziana Martin
Compone le sue canzoni, che interpreta per gli amici riuniti il giovedì al Centro; acquisisce l’arte dell’acquaforte; con i suoi brani si esibisce al Derby con successo, poi in altri locali; incontra Alda Merini; ha ottimi rapporti con Graziana Martin, titolare con il fratello Paolo del grande negozio di abbigliamento militare e janseria, e con tutta la gente del Naviglio; fa parte del direttivo della Libera Associazione Milanese Operatori del Naviglio Grande, partecipa alle proteste per la tutela del corso d’acqua, i cui fianchi, l’alzaia e la ripa, prendono ad attirare giovani provenienti da ogni parte della città. Nascono le iniziative che catturano gente, mentre la zona cambia fisionomia. Intanto Gigi Pedroli crea le sue immagini fantastiche, figure che volano e danzano nello spazio, la Galleria Vittorio Emanuele affollata di personaggi trasfigurati, il naviglio frequentato da figure surreali. Figure geniali, come la donna in bicicletta che potrebbe far pensare a un’ameba su una ruota, ma così suggestiva da invogliare a tenerla appesa a una parete di casa. Gigi modella anche l’argilla, l’accarezza, la materia, la plasma, la incide, per farne vasi, piatti e altro. Infaticabile, sempre disposto ad ampliare il suo modo, a fare esperienze nuove. 

Alberto Curti nel cortile della Fornace
E’ uomo dalle mani d’oro, dall’ispirazione feconda, dall’ingegno eclettico. Gli ho parlato tante volte, alla Fornace Curti, in via Tobagi, e al Centro dell’Incisione, sul Naviglio, dove sta quasi da una vita; l’ho intervistato; ho assistito a qualche sua serata, cui cantava le sue composizioni accompagnandosi con la chitarra e a qualcuna di quelle organizzate alla Fornace dal pittore Sarik (Riccardo Saladin, approdato qui da Genova); l’ho sentito intonare il brano “Navili in seca”, degli anni 80; eppure non conoscevo la sua storia, che Pietro Ichino ha descritto anche nei dettagli in questo libro meraviglioso, dal titolo accattivante. Come fosse un romanzo. Qual è il segreto del Naviglio Grande? Questo canale che prende nutrimento dal Ticino per terminare la sua corsa nella darsena. Il suo fascino, i suoi giochi di luce, i brividi dell’acqua, le case di ringhiera invase dai fiori, i ristoranti, le chiese, i ponti, che sedussero pittori come Filippo De Pisis e i vedutisti dell’Ottocento. Navigli! Un sogno. Amati da Giuseppe Marotta, napoletano trasmigrato a Milano (“Mal di Galleria”, “A Milano non fa freddo”)… ; e da Stendhal. Il Naviglio Grande, Ticinello, ritratto dal grande fotografo veneziano Fulvio Roiter; delineato dallo storico Guido Lopez (“Navigliando”…). Il Naviglio trasognato da Gigi Pedroli, da tutti amato, cittadini e forestieri. Sulle sue rive i visitatori ristorano lo spirito, bevono serenità e pace, godono di uno scenario insuperabile. Ah, il sottotitolo del libro di Ichino è “Gigi Pedroli, una storia milanese”. E’ anche La storia del Naviglio Grande, che l’autore offre al lettore con la propria prosa che scorre come l’acqua di un ruscello. Bello, bellissimo libro. Leggendolo, si compie un viaggio nel tempo in compagnia di un artista che ti entra subito nel cuore.


mercoledì 5 febbraio 2020

In via Magolfa, sul Naviglio Grande


Alda Merini con Graziana Martin
QUOTIDIANO PELLEGRINAGGIO

AL RICCO MUSEO ALDA MERINI



Ci sono mobili, oggetti, documenti,
fotografie, appunti della poetessa:
la sua camera da letto, la scrivania,
il pianoforte, gli scialli, la macchina
per scrivere, persino il rossetto.










Un biglietto della Merini
Franco Presicci

La Magolfa è una via antica, di origine longobarda, tranquilla, riposante, attraversata da una vetusta roggia inaridita.
Vi si erge una chiesetta dedicata alla Madonna del Sasso o del Sangue, un tempo frequentata dagli spazzacamini che dalla Val Vigezzo scendevano a Milano una volta all’anno per togliere la fuliggine ai camini; e la sera si riunivano nell’oratorio per sentirsi più vicini al focolare di casa. L’immagine della Madonna è una copia di quella di Re - paesino in val Vigezzo - che nel 1492 sanguinò copiosamente. Un tempo nella via c’erano case di ringhiera, dove gli abitanti erano, come in tutte le altre, solidali, passavano ore insieme, stendevano i panni sul filo steso tra un ballatoio e l’altro, dai quali conversavano, confidandosi gioie e dolori. 

Camera da letto
Oggi, al numero 32, due passi dal Naviglio Grande, in uno stabile che ospitò una tabaccheria con bocciofila, si apre la “Casa delle arti-spazio ‘Alda Merini’”, che ha come presidente Vincenza Pezzuto e soci del direttivo Diana Battaggia, Ave Comin, Daniela Girardoni, Gianfranco Carpine, Stefania Polonara, Barbara Bellazzi, Mara Sansonetti. Alla casa si accede tramite un giardino con pergolato e un bar-caffetteria. Al piano terra, una sala in cui si svolgono convegni, conferenze, concerti, mostre di pittura, letture di poesie, presentazioni di libri… Si fa anche teatro. ”Sere fa Emanuela – mi dice Carpine - la figlia maggiore di Alda, ha presentato il libro Intitolato ‘Alda Merini, mia madre’”, pubblicato dalla casa editrice Manni. Con parole emozionanti, Emanuela ha delineato un ritratto della poetessa, i suoi rapporti con le figlie, con la gente, coinvolgendo i presenti. A lei Alda aveva dedicato una poesia: ”I tuoi occhi verdognoli/ sempre a spiarmi nella notte/ i tuoi occhi azzurro lacrime/ i tuoi occhi vertiginosi/ mi hanno promesso mille bandiere/ e mi hanno dato mille sconfitte/ però sei una collina dolce amara…”. Emanuela parlava, a dieci anni dalla scomparsa di Alda, davanti a un pubblico numeroso, eterogeneo, attento: non soltanto la gente del Naviglio Grande, delle vie e viette vicine al canale; dell’alzaia Naviglio Pavese, che inizia la sua corsa dalla darsena. 

Graffito che raffigura Alda Merini
Tutti ansiosi di conoscere la vita più privata dell’amata Alda, la cui immagine domina la parete di un palazzo a un tiro di scoppio dalla fermata di Crocetta della metropolitana “gialla”. L’ha eseguita un autore di graffiti accanto ad altri, tra cui Einstein. I cittadini vi si fermano ad osservare, e commentano la dolcezza di quel volto. “Era bella”, dice qualcuno. Torno al 32 di via Magolfa. Al primo piano è alloggiato il museo, con tanti oggetti appartenuti alla poetessa del Naviglio, come Alda veniva indicata: la porta d’ingresso della sua abitazione, il letto, la scrivania, il comodino, gli scialli, le borse, la poltrona, il pianoforte, la macchina per scrivere, le collane, la radio, persino il rossetto, e documenti, fotografie, appunti trovati sul tavolo o appesi alle pareti… Gianfranco Carpine descrive i locali, e m’informa sull’attività dell’Associazione e sull’arredo del Museo: “La prima è nata nel 2013; l’anno successivo, vinto il concorso indetto dal Comune per la gestione della struttura e del patrimonio che accoglie, ci siamo dati da fare per realizzare l’idea. Siamo tutti volontari e realizziamo le iniziative con passione e premura. Paghiamo di tasca nostra le bollette e le spese di manutenzione“. 

Il Naviglio Grande
Le persone li premiano seguendoli, partecipando, parlandone per sensibilizzare gli assenti. E’ vero che l’atmosfera sul Naviglio Grande è cambiata: una volta erano tutti una famiglia, i pittori, i galleristi, il fabbro, i maestri argentieri, l’artigiano specializzato in cornici, come ricorda il grande acquafortista Gigi Pedroli nelle sue divertenti canzoni in dialetto meneghino. Ciononostante, la Casa di via Magolfa vanta una media di 500 visitatori al mese. Molte le scolaresche, di ogni tipo e grado. Ad ogni telefonata mi sono sentito rispondere: “Chiamiamo noi appena terminato il giro dei ragazzi”. E puntualmente si è presentata la voce di Carpine, che è rimasto all’apparecchio oltre un’ora per soddisfare tutte le mie curiosità. E poi l’ho raggiunto mentre era in macchina verso Firenze. 
La porta di casa Merini
Gianfranco Carpine mi ha fatto la storia della Casa delle arti e del Museo quasi con gioia, dettagliatamente, soffermandosi sui suoi incontri con le figlie della Merini: oltre a Emanuela, Flavia, Barbara, Simona. “Emanuela è figlia di Ettore Carniti, professione panettiere e parente del famoso sindacalista Pierre, dal ’79 all’85 segretario generale della Cisl. Quando la Merini uscì dall’ospedale psichiatrico il marito morì, a 53 anni…”. Durante la guerra Milano visse giornate convulse: la paura delle bombe che cadevano sulla città, facendo disastri, crollarono i Filodrammatici, la Scala, La Galleria, Santa Maria delle Grazie, il Fatebenefratelli, piazza San Fedele, via Gesù, largo Richini, villa Pirelli... Tutta il tessuto urbano straziato. Le bombe colpirono anche il convento di clausura della Visitazione in via Santa Sofia (non si dimentica la figura del prefetto Marziali affranto davanti a un asilo ridotto in polvere). La gente cercava di correre via da quell’orrore. La stazione Centrale era gremitissima; i treni, tradotte con sedili di legno detti carri-bestiame, anche. La Merini decise di rifugiarsi con la mamma e il fratellino appena nato, Ezio, nella campagna del Vercellese, in una cascina della zia. Per vivere fece la mondina, ma senza risolvere del tutto il problema della fame. 

Altro particolare camera
Dopo tre anni, al termine del conflitto mondiale, che aveva imposto paura, coprifuoco, lutti, mercato nero, la distribuzione delle patate regolata dalla tessera annonaria come il pane, le fughe al ricovero antiaereo all’ululato della sirena…, tornò a Milano a piedi e prese alloggio in ripa Ticinese 47, perché anche la sua casa era stata devastata dagli ordigni. “Lei – aggiunge Carpine - aveva 15 anni, era nata in viale Papiniano 57”, dalle parti del carcere di San Vittore. Il nostro interlocutore, che il 18 febbraio a Roma, nella sede del Cnr (Comitato nazionale delle ricerche), terrà una lezione sulla Merini, sa tutto di lei. “Era una donna straordinaria – esclama - con vedute strane. Sul naviglio parlava con tutti, con gli artisti e con la gente comune. Aveva frequentato il salotto di via Del Torchio (fino al 1865 contrada del torchio oleario, perché anticamente possedeva uno di quegli strumenti utili agli oleifici: n.d.a), nella casa di Giacinto Spagnoletti, dove conobbe Eugenio Montale, Pier Paolo Pasolini, Maria Corti, Padre Maria Turoldo, Salvatore Quasimodo… 
Gigi Pedroli
Davanti a queste personalità recitava le sue poesie, che Spagnoletti pubblicava nella rivista “Paragone”. E proprio nella casa di Spagnoletti - che era nato a Taranto – conobbe anche Giorgio Manganelli, traduttore, scrittore, critico letterario, che considerava uno dei suoi padri, con Montale e Quasimodo (aggiungendo in una bellissima intervista per Stampa Alternativa-Mille lire, curata da Gudo Spaini e Antonella Baldi: “Mah, direi che la mia paternità è al femminile. La psichiatria perlomeno è ambivalente”. Nella stessa intervista afferma che non le piaceva, pur rispettandola, la collega Emily Dickinson perché a suo dire molto amata da Michele Pierri, poeta prolifico (ricordiamo soltanto “Ritratto di donna”), che la Merini sposò il 6 ottobre dell’84 nella chiesa del Santissimo Crocifisso della Bimare). 
Pezzo di parete dietro la camera
Sono tante le manifestazioni che la Casa di via Magolfa organizza per ricordare la Merini, della quale mentre scrivo ammiro una foto in cui è al fianco di Graziana Martin, titolare con il fratello Paolo del famoso negozio “Abbigliamento militare e lanseria Martin Luciano” sul Naviglio, grande appassionata di musica, assidua frequentatrice della Scala e dell’Arena di Verona, amica dell’étoile Luciana Savignano, che mi regala un “flash”: “Ero seduta a un tavolo del bar “Ponticello” quando notai Alda che mi osservava da un tavolo di fronte. Poi lei mi si avvicinò, mi sorrise e mi disse: 'Sei una persona che mi piace'. Poi venne in negozio e mi espresse il desiderio di vederci e bere un caffè insieme. L’ho rivista tante volte. Mi raccontava di sé con il desiderio di essere ascoltata. Sapeva leggere nell’anima delle persone. Era speciale. Ma era incostante. C’erano giorni che non usciva da casa. Quando un amico puntò l’obiettivo verso di noi, fu lei ad appoggiarmi la mano sulla spalla, pur non amando essere ripresa”. Alla fine della conversazione ho chiesto a Carpine se i figli del primario traumatologo dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto, Michele Pierri, poeta solitario e schivo, come lo definisce Spagnoletti, che “fu salutato agli inizi da Betocchi e Pasolini", si fossero mai fatti vivi in via Magolfa, e mi ha risposto di no. “Mai visti né sentiti”. E non sa nulla del tempo in cui la poetessa dei navigli villeggiò a Crispiano, la cittadina dall’aria tersa e pulita in cui i tarantini, sfollati dalla città per scampare ai bombardamenti, si rifugiarono. Ho ancora in mente i palloni frenati che danzavano sulle nostre teste. Avevo 12 anni.









N.d.R. : In foto il villino Valente, in via Piave n. 26, a Crispiano, dove la Merini, negli anni di permanenza a Taranto, trascorreva qualche giornata estiva di relax.







Sul sito "Notizie ed eventi Associazione" (block notes con penna) la relazione di Silvia Laddomada "Alda Merini: la poetessa degli ultimi", riferita all'incontro di martedì 21 gennaio 2020