Pagine

Print Friendly and PDF

domenica 30 luglio 2023

E’ scomparso Franco Bompieri

IL BARBIERE CHE TAGLIAVA

Franco Bombieri

I CAPELLI A ENRICO CUCCIA

 

Il suo primo impegno emozionante

da garzone fu quello di fare la barba

a Totò all’Hotel de Milan. Il suo

salone in via Morone era frequentato

dalle personalità più famose di

Milano, e non.

 

Franco Presicci

E se n’è andato anche Franco Bombieri, il barbiere-scrittore titolare dell’Antica Barbieria Colla di via Morone. Non stava bene da tempo e si era ritirato. A Tellaro, dove aveva la casa delle vacanze, a poca distanza da quella di Mario Soldati, non lo incontravano più nelle passeggiate quasi quotidiane e se ne meravigliavano. Era gentile, per strada si fermava a scambiare due parole con tutti, e a volte anche con chi non aveva confidenza. A Milano lo conoscevano quasi tutti, non soltanto le personalità che affidavano le loro chiome alle sue forbici. Tra questi, i Falk, Cesare Romiti… Nel suo albo d’oro elencava Guido Piovene, Enrico Cuccia, Leonardo Mondadori, Raoul Gardini, Il critico letterario Giuliano Gramigna, Indro Montanelli…, scomparsi da tempo.

Bompieri ed Emilio Tadini

Per tutti questi personaggi scrisse uno dei suoi libri: “Presi per i capelli”, indicando caratteri, comportamenti, preferenze, tic. Sempre con garbo. Enzo Bettiza, il grande inviato del “Corriere della Sera” ed esperto dei Paesi dell’Est, quando andava da lui si portava una camicia e una cravatta di ricambio. Un giorno una tazza di tazza portatagli dallo stesso tonsore, si rovesciò e macchiò indumento e striscia di seta. Bettiza rimase imperturbato e raccomandò al responsabile, impallidito, di non preoccuparsi perché tanto doveva tornare a casa. Un gentiluomo non si smentisce mai. Piovene uscì con la faccia ancora insaponata, perchè si era ricordato improvvisamente di un appuntamento. In “Presi per i capelli” i racconti di Bompieri sono brillanti e divertenti. Il suo primo volume, “Il freddo nelle ossa”, edito da Longanesi, sul “Giorno” fu recensito da Marco Nozza, una delle firme più prestigiose del quotidiano. Fu in quella occasione che io conobbi il tonsore-scrittore.

Franco Bompieri e Lalla

Andai a trovarlo in via Morone, lo colsi in un momento di riposo e mi feci raccontare la sua storia, partendo dai tempi, in cui, ancora garzone nell’Antica Barbieria Colla, fu mandato all’Hotel de Milan a fare la barba al principe De Curtis, in arte Totò. Parlava con voce bassa, ma con ordine, intervallando battute di spirito ai dettagli della sua vita e del suo lavoro. Scriveva di notte e nel tempo libero: e usava il computer anche a Tellaro tra una camminata e l’altra. Se una persona che lo conosceva di nome gli rivolgeva il saluto, lui si fermava e lo inondava di domande. Era di Volta Mantovana, in provincia di Mantova, dove tornava quando aveva voglia d’irrorare le sue radici. A Milano non conosceva soltanto i vip soliti a frequentare il suo salone, che era elegante, con una vetrina piena di attrezzi storici del mestiere e barbitonsori seri, cortesi e abili, che si avvicendavano con discrezione nel servire i clienti. Gli volevano bene tutti, da Gad Lerner a Nanni Svampa, da Emilio Tadini a Enzo Jannacci. Enzo Bettiza gli dedicò un’intera pagina della “Stampa”. Al tempo dei calendarietti dei barbieri ne creò uno suo, originale e spassoso: lui con un cerino in mano vicino a un finto cervo con un bel palco sulla teta, e ad un amico seduto vestito da Babbo Natale.

Lalla
Giovanni Morandi con Gorbaciov
Stare con lui era uno spasso. “Andiamo al bar a bere qualcosa, poi torniamo, ti siedi sulla poltrona girevole e ti taglio i capelli”. Non so più quante volte me lo ha detto e io mi sono sempre tirato indietro: non me la sentivo di occupare uno di quei posti prestigiosi, dove di solito si sedevano, o si erano seduti, deretani illustri: Marcello Mastroianni, Luchino Visconti, Roberto Benigni, quando erano a Milano, e tantissimi altri.
Bompieri non se ne vantava. La sua barbieria s’identificava con via Morone, che svirgolando da via Manzoni sfocia nella bellissima piazza Belgioioso, dove si aprono le finestre di casa Manzoni, il “Boeucc”, il lussuoso ristorante che vanta la bellezza di 600 anni e il palazzo in cui abitò il Giovin Signore del Parini. Titolare Monica Brioschi, che mancò all’esame da notaio per l’improvvisa morte del padre. In quel locale glorioso fui ospite di Giancarlo Vigorelli, critico letterario e scrittore, oltre che amico di Krusciov. Una mattina Giancarlo mi invitò nella casa di “don Lisander” e mi regalò tre suoi grossi volumi sull’autore de “I Promessi Sposi”. Partecipai a tutte le presentazioni dei libri di Franco Bompieri. All’ultima, quella di “Arriva il principe”, fra i relatori c’erano, fra gli altri, Scheiwiller, l’editore, il sindaco di Milano Carlo Tognoli, Enzo Jannacci, la giornalista di “Repubblica” Natalia Aspesi. La sala era affollata. Un libro che sprizzava ironia: era stata preannunciata la visita del principe e la gente si era impegnata molto nel fare il belletto alla città, che per l’avvenimento doveva presentarsi nel migliore dei modi. Ma sua altezza si fece attendere molto. Quando mise piede in paese tutti erano a letto a dormire e lui non ebbe alcuna accoglienza. Aveva un bisogno idraulico da smaltire e se ne  liberò come un comune mortale annaffiando un muro. Un libro divertente che alla fine della lettura si ha voglia di riaprire. Potevo considerarmi suo amico.
Catania con Ottavia Piccolo e Lotito

Quando andai in pensione, il direttore Enzo Catania mi invitò a sottoscrivere un contratto di collaborazione, confermato poi da Giovanni Morandi, bel volto greco, che una mattina mi chiese una pagina sui calendarietti dei barbieri, ormai non più profumati nelle teche dei collezionisti più appassionati. Chiamai Bombieri per avere qualche notizia in più sull’argomentò e lui, fra l’altro, mi fece dono di quello che aveva fatto eseguire tantissimi anni prima: un pregevole, caro ricordo. Grazie a lui, potetti scrivere un articolo sulla storia di quei quadratini di carta ricchi di immagini di attori, di auto, di biciclette… Uno era sul primo bacio cinematografico, un altro sulle guerre d’Africa, altri su attori e attrici.
 
Lalla, l'assistente
Franco Bompieri
I calendarietti erano distribuiti dai tonsori nelle loro barbierie, erano attesi e molti si sarebbero rapati a zero pur di averne uno e magari due in più. E divennero oggetto di collezionismo. Qualche anno fa a Martina Franca me ne regalò qualcuno Peppino Montanaro, che leggeva i ricordi d’infanzia di Gaetano Afeltra sul “Corriere della Sera” e conosceva tutto degli autori di Martina, comprese le pagine di Aminta Scialpi.

Franco Bompieri aveva una bella storia da raccontare. Commovente quella del barbitonsore ragazzino che si trovò di fronte aTotò, con l’incarico di raderlo. Era emozionato, quasi gli tremavano le gambe. Il compito era più grande di lui, ma riuscì a portarlo a termine con onore. Ho saputo da Tellaro della sua morte. Me l’ha comunicata mio figlio Gianluca. Poi Lalla, sua assistente per una vita, mi ha mandato un messaggio: “Abbiamo perduto il nostro Franco”, accompagnato da qualche sua foto (una lo ritrae sulla soglia della sua Antica Barbieria Colla, di cui è stato l’ultimo titolare) e da un ritaglio del quotidiano “Il Giorno”.

Piazza Belgioioso con il Palazzo di Manzoni
Via Morone

Sono a Martina Franca e non posso essere presente ai suoi funerali. Ma lo porterò per sempre nel cuore (per sempre forse è un po’ esagerato, perché ho la sua età: 89 anni, e l’ultimo tremo mi aspetta alla stazione dalla quale si parte senza possibilità di ritorno). Come dimenticare Franco Bompieri? La sua simpatia, la sua sagacia, la sua umanità? Amava tanto Milano, le sue viette: oltre a via Morone, dove ebbe il suo salotto letterario la contessa Clara Maffei, via Bigli, dove abitò Eugenio Montale; via Borgonuovo, il poeta e critico d’arte tarantino Raffaele Carrieri; i Navigli, dove si continua ad onorare Alda Merini.
L'abbraccio

Amava il suo regno, rispettava i suoi collaboratori, accoglieva a braccia aperte tutti i suoi clienti, come Leonardo Mondadori e Enzo Jannacci. “Facciamo due passi”, mi disse un pomeriggio. Io preferivo piazza Belgioioso, dove si avvertono ancora i respiri e i passi di Stendhal, invece prese una direzione diversa: Brera, luogo storico, sacro, non tanto per l’Accademia ma per gli artisti che negli anni 50-60 lo frequentarono, sedendosi ai tavoli del Bar Jamaica a discutere di arte e di altro. Ricordo che quando festeggiarono i cento anni della barbieria dovettero chiudere quel nastro d’asfalto, tanta era la gente affluita anche per vedere le personalità di cui parlavano i giornali, da Cesare Romiti ai Provera. C’erano tutti, o quasi. Fu anche donato a tutti un libro sull’Antica Barbieria Colla, di cui Franco era il sovrano. E adesso…? Si chiederebbe Hans Fallada. Adesso non si sentirà più la voce di Franco Bompieri, il barbiere-scrittore, rasoi, forbici e computer, fantasia e concretezza, galantuomo di antico stampo, autore prolifico. Mi viene da dirgli ciao, come se dovessi rivederlo domani, per passeggiare davanti alla Scala o in Galleria Vittorio Emanuele o in via Monte Napoleone, il salotto di Milano. Ma se non proprio domani, dopodomani lo rivedrò, con quel suo sorriso che gli illumina il volto. Ma non potrà dirmi: “Siediti su quella poltrona, perché voglio tagliarti i capelli”.









mercoledì 26 luglio 2023

Taranto antica., il suo ventre

Mara Sarotto
PASSEGGIANDO A MARE PICCE

FRA TANTI TESORI MILLENARI


 

Colloquio con una gentile

signora, Mara Sarotto, sulla città 

vecchia, la sua culla, di cui ha 

conservato la musica del dialetto.


Franco Presicci

Gradirei sentirti parlare, Mara, del borgo antico, agglomerato di case e di persone che parlano un dialetto molto più ricco di suoni di quello in uso al di là del ponte di ferro, che lega due città diverse.

Strittele
 
Gradirei sapere, per esempio, di vico Madonna del Pozzo, “’nu strìttele” - come direbbe Alfredo Nunziato Majorano, poeta ed etnologo - dove, quasi 70 anni fa, peregrinando, notai, unico ricordo, una porta chiusa “cu ‘na stascèdde ‘nchiudàte”, e nemmeno un ragazzo che giocasse e una voce che rompesse il silenzio. Ascolterei con attenzione i tuoi racconti su “’a vieremìenze”, che da ragazzo percorsi molte volte, diretto alla chiesa di San Domenico, i cui gradini erano una penitenza per i vecchi che non volevano rinunciare alla cerimonia serale. Curiosavo davanti ai negozi che vi si aprivano: in uno, attraverso la vetrina, sbirciavo un signore anziano con la testa china su un oggetto, forse un orologio. Ho desiderio di sentirti descrivere Piazza Fontana di una volta, alla quale un altro grande poeta, Diego Marturano, dedicò versi struggenti, che, leggendoli ti s’imprimono sul cuore. Li ripesco spesso, gentile Mara. Tu nella città vecchia sei nata e cresciuta, e dovresti avere memoria di luoghi, abitudini, vicende, persone, volti, atteggiamenti, caratteri, vite private. Individuai un pittore che custodiva dentro di sé tanti aspetti di questo borgo, che mi segue idealmente ovunque, e li traduceva sulle tele stando seduto davanti al cavalletto nell’atrio del suo stabile, invecchiato, screpolato, striminzito, neppure immaginabile dall’esterno. Una lama di sole vi s’infilava quasi clandestina e lo illuminava. La sorella era stata la mia professoressa d’italiano alle medie: una donna pallida, senza sorrisi, timida, quasi schiva. 
Via Duomo

L’artista mi portò da lei e lei mi accolse con un semplice “ciao”, ritirandosi subito. Non arrivava qui il profumo del mare, eppure la città vecchia dal mare è abbracciata: anzi, due mari, il Piccolo e il Grande, “’u peccerìdde” e ‘u Màre Grànne”, che ha al largo “l’anìedde de san Catàvete”. Tu giuri di saper poco di quel gioiello che emerge dall’acqua come un dio greco, perché generata come dici ai suoi margini, all’inizio di corso Vittorio Emanuele. Peccato. Posso solo invidiarti, per avere respirato quell’aria. Giacinto Peluso, scrittore esimio, aveva avuto i natali anche lui nella città vecchia e delle sue esperienze ha riempito libri pregevoli che calamitano il lettore: “Taranto, da un borgo all’altro”, il primo titolo che mi viene in mente. In quelle pagine ritrovai i giorni del lume a petrolio, imparai i nomi dei suoi vari elementi: ‘”u bècche”, “’a gazzettèlle”, quel nastrino che scende nel serbatoio, pescando il liquido che alimenta la fiammella. E appresi che “’a bonafeciàte”, cioè la ricevitoria del gioco del lotto, era in un punto dell’Isola, ma non so più dove precisamente. Sono state quasi sempre solitarie le mie passeggiate nella città vecchia: luogo sacro, per me. “Marturano e Maiorano scrissero fra l’altro “Tàrde vècchie mjie”, con la dolcezza di chi sentiva di appartenerle. Maiorano ci andava anche per ascoltare la musica del dialetto, quello che fioriva sulle labbra “de le cuzzarùle” e dei pescatori. Anch’io pendo da quelle labbra quando faccio la ronda ai bordi del Mar Piccolo. Alcuni anni fa mi accompagnavo a Piero Mandrillo, docente dalla cultura poliedrica e dall’umanità toccante. 

Taranto Vecchia
 
Visitavamo la Dogana (“’a Duàne d’u pèsce”, come si chiamava allora), dove facevamo scorpacciate di frutti di mare. Piero stava studiando la parola “chiùdde” e la sua derivazione, parola che io non uso, perché ha diversi significati e tutti poco lusinghieri. Mi affascina, il nostro dialetto, che tu, Mara, non hai rinnegato, anzi lo hai innaffiato. E mi attira il grido del titolare del banco: “Na’, uàrdele, l’uècchie de ’stu pèsce”, jè vìve. mìene l’acqua uagnò’”. E fresco è, appena scaricato “d’a paranze”. “Facènne ddò’ pàss’a Tàrde vècchie”, c’è tanto da vedere e da apprendere. ”’U pònde de pètre” è anche un balcone sul tratto di mare che ospita le case galleggianti, gli yacht”, che destano invidia in tanti, e orgoglio in chi li possiede. E svoltando a destra ecco la Ringhiera che porta al Castello, al borgo. Vagabondando sul “marciapiedi” d’“u pònde de fìerre” godi “ l’addòre d’ù màre” e non faresti un altro passo per paura di perderlo. Non mi lascerei mai alle spalle Taranto vecchia, panorama benedetto. Domando a un pescatore che, acculato sul pavimento, rammenda la rete: “Scusi, come si traduce barca nel suo diletto?”. “Schife”. Ci penso e mi dico: “Già, schife, scafo”. “E in tasca?”. “’Mbòte”. Servito. Ma non posso schivare la domanda: “Tù’ d’addò avìene? Sì’ furastìere?”. Mi addolora sentirmi definire così nella mia terra, comunque sono un transfuga, un espatriato, forse anche un traditore. E non ho il diritto di cercare la mia città nelle sue pieghe”. Ma almeno posso assaporare il vernacolo, gustarlo. E qui le voci sono suoni, che si susseguono, si accavallano, s’intrecciano, s’inseguono. Un’orchestra. L’armonia del nostro dialetto a volte mi stupisce. M’inoltro in una “nchiostra” con un corredo di nasse per terra, appese al muro, attorno ad un uomo incartapecorito con l’uncino in mano intento all’opera di restauro. Scatto una foto, lui sorride, si mette in posa, ne aspetta un’altra. Che gioia, Mara, assistere a questi spettacoli.
 
Nicola Giudetti
Scendo verso la via principale e “’nu cuzzarùle” improvvisamente urla a squarciagola per reclamizzare la merce: “Le còzze, le còzze d’u Màre Peccerìdde, òre so’!”. Sono davvero l’oro di Taranto, i mitili: dalla bella sagoma e dal sapore eccezionale. Mi viene in mente una poesia di Saverio Nasole sul venditore di cozze, anzi su quello che le coltiva, che “no’nge jè sciardenìere e tène ‘nu sciardìne”. Grandi i poeti di Taranto. I giovani li leggono, Mara? Hanno sfogliato le pagine di Nerio Tebano o di Diego Fedele? O di Antonio Torro, a cui Antonio De Florio ha dedicato un video su facebook?”. Devo bloccare il flusso della memoria, altrimenti vado oltre, rispolverando “’U rafanìedde” e “’U caggiunìere”, dove trionfa l’ironia, il doppio senso, ma con garbo, quasi con eleganza. Fin dall’antichità Taranto ha avuto i suoi poeti. Perfino Orazio, amico di Mecenate, decantò il Galeso, che però non piacque al Gissing, arrivato molto più tardi. Io, Mara, il Galeso, lo adoro.
 
Via Garibaldi
Bisogna averne cura, venerarlo. Taranto non rispetta le sue glorie. Placido, silenzioso, il Galeso continua a percorrere la storia ed è trascurato, ignorato, vilipeso. Svegliati, Orazio, lancia il tuo “cahièr de dolèance”. Tu che avresti voluto essere sepolto su queste sponde, ai tuoi tempi frequentate da pecore dal vello pregiato. Vedi, Mara? Taranto è una città amabile, ricca di luce, con tramonti policromi, angoli suggestivi, ma alcuni suoi tesori non sono valorizzati. So che prima o poi metterai ordine nei tuoi ricordi e mi parlerai della città vecchia dei giorni della tua giovinezza. Io ricordo qualche nome e qualche soprannome. E tu? Sul pendio di San Domenico intercettai “Cicce ‘a caggiòle”, che volava con le braccia spalancate come volesse imitare il gabbiano. E alla stazione ferroviaria un uomo conosciuto da ragazzo che mi aprì la porta del suo tassì. Un mondo mi si spalanca, Mara, quando rimetto piede in quel pezzo di città che sa di antico, non di vecchio.
 
Piazza Fontana
Toh, altro ricordo: la cappella sconsacrata che don Stefano Ragusa trasformò in teatro per consentirci di organizzare delle recite, come “Il piccolo ateo”, un testo scritto da me rubacchiando qua e là. Tu, figlia di un ufficiale piemontese, parli bene il dialetto, modello tua madre, che non ti ha imposto l’italiano come la mia, che lo considerava poco dignitoso, deviante. Io disubbidivo e quando lei non c’era il seme di pomodoro era “sumènde” e l’ostrica “òscre”. Mi dilettavo con “buffettòne”, “furbòne”, “càpe de cèfale”, “’ndrufulàrse”, “’ndurtegghiarse”. E con termini onomatopeici, come “’U travàgghie d’u màre”, di Alfredo Lucifero Petrosillo, un canto che ti coinvolge, ti trascina, ti esalta e ti commuove. Cercavo di far capire alla mia mamma che il dialetto è la nostra anima, che lì prolificano le nostre radici, ma lei non voleva saperne. Seguivo le orme di Alfredo Nunziato Maiorano nella città vecchia e anche nel mio esilio non smetto di usare la parlata che mi è cara. E sfoglio “Zazzarèddere”, un piccolo libro dello stesso Maiorano, dove campeggia una sua foto in cui tende l’orecchio alle confidenze di un anziano. Desidero tanto avere una guida per esplorare i punti meno visibili di questa città. Nicola Giudetti? E chi lo smuove dal suo museo. Da lui posso raggranellare “fògghie” di vernacolo cataldiano e conoscenze di famiglie che abitarono la sua …corte, ma, incardinato com’è fra ricostruzioni di settimane sante in terracotta e pezzi di modernariato, sarebbe difficile distrarlo. Concludo il giro in piazza Fontana, che non è più quella di un tempo: rifatta da un artista assiduo alla Biennale di Venezia, Nicola Carrino, che conobbi una vita fa nello studio del pittore Giuseppe Pignataro, che era nell’androne di un palazzo di via Di Palma, di fronte al negozio di scarpe di Luigi Protopapa, artista a sua volta (usava i rimasugli delle pelli). Un giorno, Mara, spero di poter cogliere fra i tuoi fiori di campo ciò che “addòre de Tarde vecchie”. Taranto antica: il suo ventre.












mercoledì 19 luglio 2023

Quando a Milano c’erano le bische

Tanti anni fa la bisca in piazza Tirana
VIA PALMANOVA ERA UN FORTINO

SI GIOCAVA ANCHE IN LUOGHI CHIUSI


Un giocatore s’impegnò la moglie e

un altro la tredicesima della figlia.

Un servizio per la trasmissione con

Davide Riondino su Raitrè, realizzato

all’alba. Milano cambia faccia e dove

una volta rotolavano i dadi zampilla

una fontana.

 

 

 

Franco Presicci

Una struttura decrepita, scheletrica, tetra. In una via stretta, grigia, quasi deserta, che sfociava in un’arteria molto trafficata. E oggi modernizzata. Era incastrata fra due stabili dignitosi, tranquilli. Le scale non c’erano più: trasformate in uno scivolo per bambini. Al primo piano, una porta blindata.

Interno stazione

Chi si avventurava nell’androne, se così si poteva definire quello spazio consunto, si chiedeva che cosa ci potesse essere oltre quella difesa. Quando con la mia “Graziella” peregrinavo per Milano con lo scopo di scoprire novità e curiosità da raccontare, in quel budello ero capitato un paio di volte. Poi un giorno un conoscente mi sibilò che all’alba del giorno successivo la Squadra Mobile, avendo ricevuto una soffiata, sarebbe andata a controllare. Il mio interlocutore aveva captato la notizia al bar di fronte alla questura da due poliziotti che sorseggiavano un caffè“, non immaginando che il loro dialogo, sia pure sommesso, potesse essere… intercettato. “Se mi fai sapere l’orario preciso, ti ringrazio”. “Lo conosco già. Alle 5. Spunteranno una ventina di agenti guidati da un maresciallo”.

Fontana di piazza Tirana
Chi si avventurava nell’androne, se così si poteva definire quello spazio consunto, si chiedeva che cosa ci potesse essere oltre quella difesa. Quando con la mia “Graziella” peregrinavo per Milano con lo scopo di scoprire novità e curiosità  da raccontare, in quel budello ero capitato un paio di volte. Poi un giorno un conoscente mi sibilò che all’alba del giorno successivo la Squadra Mobile, avendo ricevuto una soffiata, sarebbe andata a controllare. Il mio interlocutore aveva captato la notizia al bar di fronte alla questura da due poliziotti che sorseggiavano un caffè“, non immaginando che il loro dialogo, sia pure sommesso, potesse essere… intercettato. “Se mi fai sapere l’orario preciso, ti ringrazio”. “Lo conosco già. Alle 5. Spunteranno una ventina di agenti guidati da un maresciallo”.

La stazione San Cristoforo

Non avevo ancora esperienze di bische, quindi non sapevo che la polizia, entrata usando una parola d’ordine, che evidentemente si era affrettata a scucire a un confidente, doveva identificare ad uno ad uno i presenti, controllare le loro dichiarazioni tramite il cervello elettronico di via Fatebenefratelli e poi seguire le altre pratiche previste dalla legge. Fallito il tentativo d’intrufolarmi anche a causa della porta di ferro chiusa e della mia incapacità di smaterializzarmi, mi detti da fare per trovare un’anima buona disposta a darmi qualche osso da spolpare. E qualche dettaglio l’annotai. Un cardellino mi riservò un canto e io potetti prendere nota: proprio alle 6 del mattino il gestore della bisca scodellava per i giocatori affamati un pentolone di spaghetti, versando su del sugo contenuto in una scatola; e che alle pareti erano appesi quadri realizzati da pittori della domenica.

Giambellino

Eravamo, credo, nel ‘78 e quella era, come detto, la prima bisca di cui mi occupavo da cronista avido e instancabile. Le bische, o “belande” o “rondinòn”, come si chiamano questi luoghi nel gergo della malavita, a quei tempi a Milano, e non solo, erano tante. Annidate per lo più in locali che davano sulla strada mascherati con l’insegna di circolo culturale; o all’aperto, rumorosamente. Passò il tempo, i miei amici si moltiplicarono e aumentavano le pagine della mia antologia sull’argomento.

Una, all’aperto, era sotto un cavalcavia, dotata di sentinelle in punti strategici, così se veniva avvistata una “pantera”, un segnale calato nella ricetrasmittente la faceva evacuare. Mi accompagnarono nel fortino quando era stato definitivamente smantellato. Vi trovai tre o quattro persone che curiosavano; e una donna sui sessanta, vestita di nero che raccoglieva come fossero lumache gli scarti del gioco: tantissimi dadi, che infilava in un sacchetto di plastica.

All’epoca, a volte in piena notte mi sono piazzato ai bordi delle bische all’aperto in piazza Tirana e all’Arena, osservando le facce, i gesti, le espressioni, i gestii di rabbia per l’accanimento della sfortuna.

Il tram 14 che sfiora piazza Tirana

In una di queste occasioni era con me una collega del “Corriere della Sera”, Benedetta De Micheli, fiorentina bravissima anche a impallinare i concorrenti. Era più alta di me mezzo metro, e i miei compagni di viaggio, i colleghi di cronaca del “Giorno”, che amavano prendermi in giro, affettuosamente, appesero a una colonna del salone in cui scrivevamo, telefonavamo e ricevevamo chiamate, una foto che mi ritraeva con Benedetta aggiungendovi la scritta: “Franco non è all’altezza del “Corriere”. Sicuramente c’era lo zampino di quel buontempone del vice capocronista (poi vicedirettore) Giulio Giuzzi (mi chiamava Franchine), che quando me ne andai in pensione mi invitava a scrivere articoli d’appoggio, una volta per la morte del compianto pubblico ministero Francesco Di Maggio, un’altra volta per la morte di un membro della banda autrice della famosa rapina di via Osoppo, che finì in un libro sui fatti criminali più clamorosi.

Inquilini delle bische non erano soltanto elementi dalla malandra, ma anche gente normale che sfidava la dea bendata, rimettendoci le penne. Su quel mondo circolavano molte voci. Si raccontava per esempio che un tale si era giocato la moglie e un altro la tredicesima della figlia. I familiari scrivevano lettere alla polizia, chiedendo di essere salvati dal disastro. Una signora disperata, dissanguata dal vizio del marito, scrisse anche a me al giornale. Mi riferirono tra l’altro che in una bisca al chiuso un cinquantenne con una tuta macchiata di calce, pregò il maresciallo di lasciarlo andare, perché lui era lì non per giocare ma per riscuotere il ricavato di una giornata di lavoro da un cliente che gli aveva dato appuntamento in quel posto. Sceneggiata? Richiesto di indicare la persona interessata, si mostrò confuso.


Ex imbarco auto sui treni

Per un servizio su Raitrè, (“Fuori orario”, condotto da Davide Riondino,) una sera piombai con la “troupe” in una belanda in un mezzanino del metrò. L’operatore, riprese la polizia che prendeva le generalità dei presenti e i presenti che tentavano di giustificare in vari modi la loro presenza. Il gioco? Quando mai. “Io ero uscito per comperare le sigarette e per caso mi sono trovato in questo casino”. Un altro: “Maledetta insonnia, per sua colpa mi trovo qui, fra questa siepe umana”. Un altro: “Sono un fabbro, vi pare che io possa avere soldi da buttare?”. Il servizio fu trasmesso la puntata successiva con un Riondino perplesso, ignorando tutto di quell’ambiente. E mentre io commentavo le immagini, parlando dei frequentatori delle “belande”, della loro storia, dei casi umani, lui guardava rapito. Avevo anche agganciato il caporione (lo si capiva dall’atteggiamento), e gli avevo fatto qualche domanda, alle quali, mostrandosi sdegnato, rispose: “Bisca, questa? Vogliamo scherzare? Poco lontano da qui troverà qualche altro gruppo appena uscito da un’osteria che di solito chiude tardi o da un locale notturno. Li vuole mettere nei guai segnalandoli come biscazzieri? Ma che discorsi sono?”. Non era il caso di replicare.

La fontana

Una mattina dalle parti della stazione Centrale feci domande a un personaggio che reggeva il gioco delle tre tavolette, e mi rispose: “Gioco d’azzardo? Lei, se ha l’occhio svelto può seguire il movimento delle mie mani e intercettare la carta vincente. Occorre solo abilità”. Improvvisamente un suo “apostolo” gli sussurrò: “La polizia!” e lui come un fulmine smontò il tavolo e scomparve tra la folla.

Una bisca al chiuso era in un bar della zona Corvetto. A mezzanotte il locale abbassava la saracinesca e cominciavano le danze. Un sottufficiale venne a sapere del movimento e aspettò il momento giusto per far saltare il banco, con i suoi uomini. Controllando i documenti d’identità si scoprì che erano tutti sudamericani di Santiago del Cile che viaggiavano molto sui mezzi pubblici: dalle loro tasche volarono infatti tanti biglietti dell’Atm e nessuno di loro potette dimostrare il lavoro che diceva di svolgere. Dichiaravano di essere rappresentanti della stampa del loro Paese e mostrarono anche un tesserino, naturalmente artefatto.

Uno di loro aveva la chiave di un’auto e non sapeva indicare il punto preciso in cui l’aveva parcheggiata.

Piazza Tirana oggi
 Allora un brigadiere riuscì a individuare il posto, aprì la vettura, di grossa cilindrata, la ispezionò, ma non trovò niente di illegale. Si appurò che erano borseggiatori che agivano sui tram e sui treni della metropolitana, nelle ore di punta, quando i mezzi sono più affollati, quindi luogo ideale per i colpi dei “farlocchi” o “mani di velluto”, che agguantano il portafogli soprattutto quando il mezzo frena bruscamente (è una delle tecniche). Ai giorni nostri sono impegnate in questa attività anche ragazze sui vent’anni o trenta, ben note agli uomini della sicurezza. Sono scaltre, sfrontate, pericolose.
   Ora non so se le bische esistano ancora, a Milano. Quelle di una volta certamente no. Piazza Tirana, dove le belanda era attiva dalle 14 alle sei del mattino, è scomparsa e la piazza ha un altro aspetto: bene arredata e con tanto di fontana zampillante e giardini. Stanno per essere abbattute le case minime di via Giambellino e non so se saranno sostituite daparchi o da nuove costruzioni. Milano cambia, si fa più bella. Dispiace soltanto che i vecchi negozi chiudano, come l’antica merceria che stava quasi all’angolo. Chi arriva a Corsico seduto sul jumbotram 14 o a piedi o in bicicletta da piazza Napoli forse sente ancora cantare Giorgio Gaber.

mercoledì 12 luglio 2023

Sempre mèta di molti visitatori

LA FORNACE DI ALBERTO CURTI

E’ UN GIOIELLO DA AMMIRARE

 

Curti davanti alla produzione della fornace

Di fronte all’ingresso di via Walter

Tobagi, su un’altana, si stagliano i

busti di Leonardo e di Benedetto

Croce. Alle pareti, appesi stemmi di

grandi famiglie, fregi architettonici e

nel cortile vasi di ogni dimensione e

altre opere. Anche da qui è passata

la storia di Milano.


Franco Presicci 

Il cortile della fornace
Gigi Pedroli
Tanto tempo fa andavo alla Fornace Curti, in via Water Tobagi, due passi dalla chiesa di Santa Rita, e spesso nel cortile incontravo Alberto, il titolare, con il quale mi fermavo a conversare. Soltanto una decina di minuti. Per la verità, parlavo quasi sempre io, perché lui preferiva ascoltare e qualche volta annuiva. Poi salivo le scale fino agli studi per visitare i miei anici pittori e scultori, cominciando da Riccardo Saladin in arte Sarik, genovese, e Gigi Pedroli, milanese doc, eccellente acquafortista con torchio sull’alzaia Naviglio Grande, vicino all’enorme negozio di divise militari di Graziana e Paolo Martin. Alla fornace si respirava e si respira un’aria che sa di antico, avendo il luogo origini che risalgono al ‘400. Ne avevo letto la storia e scritto un capitolo in uno dei libri della Celip di Nicola Partipilo, il libraio di viale Tunisia, che non per sua volontà ha spento le luci e con una stretta al cuore abbassato definitivamente la saracinesca. Entrando nella Fornace (l’altro ingresso, poco usato, è in via Gattamelata) non potevo non ammirare il banano sulla destra e i grossi busti di Leonardo e Benedetto Croce, che sembrano vigilare sull’ambiente dall’altana di fronte. Colossi in vita e nella terracotta, messi quasi a guardia della vita odierna e passata del complesso. Ho un amore particolare per la vecchia Milano e per questa Fornace, amore che m’ispirò un’iniziativa di letteratura e di musica: la presentazione di un volume della Celip con fotografie anche a piena pagina di Mario De Biasi, un pilastro della rivista “Epoca”, che lo mandava in giro per il mondo per riprendere curiosità e bellezze. Al termine dei commenti sul volume, Gigi Pedroli imbracciò la chitarra e si mise a cantare i suoi brani sui barboni, sulle giornate sull’alzaia e sulla ripa all’epoca in cui erano abitate prevalentemente dai meridionali, e sul canale, che inizia il suo viaggio dal Ticino e corre verso la darsena, da dove parte un altro naviglio: il Pavese.

La Fornace

Ho scritto tanto della Fornace, dei suoi cotti, dei suoi tetti, dei figuli che sagomano vasi ed opere pregevoli. Qui trovavo un’atmosfera diversa da quella del resto della città. Mi attiravano il silenzio, la tranquillità, la pace e le opere con tema le cascine di Giuliana Consilvio e la Milano antica, scomparsa, di altri artisti, oltre che i loro manufatti in argilla. Giuliana si ispirava alle strutture rurali ancora attive, immerse nella campagna o sulle sponde dello stesso naviglio fra distese di verde. La mia mentre andava a quelle demolite dal piccone, perché ormai ridotte pelle e ossa.

La Fornace è anch’essa una cascina, che grazie alla sensibilità del titolare è sempre un gioiello, ma proprio di fianco a questa ce n’era una che a poco a poco era diventata un rudere in attesa di essere demolita. Vedendola, mi sentivo male, anche ricordando altri luoghi che avevano fatto la stessa fine. Una domenica mattina trovai Alberto più loquace; e, avendomi sorpreso a guardare il banano, mi disse: “Lo sai? Porta i suoi frutti, non ha una funzione ornamentale”. Quella pianta era un po’ il suo orgoglio. Poi mi invitò a una piccola passeggiata fra le tante testimonianze sparse nel cortile. “La Fornace San Cristoforo, nota come Curti, elabora questi oggetti da secoli e con tanta accuratezza da diventare leggendari. Come anche i suoi cotti. Non per niente la costruzione dell’Ospedale Maggiore - dai cittadini soprannominata Ca’ Granda – promossa nel 1400 da Francesco Sforza e da sua moglie Bianca Maria Visconti, autore del progetto il Filarete, mobilitò la famiglia Curti. E in seguito altri cotti vennero impiegati per il restauro dello stesso complesso e per tanti altri non solo a Milano. Quindi meritatissimo arriva il premio di Apa-Confartigianato di Milano, che riconosce alla storica fucina il primato in fatto di tradizione”.

Alberto Curti

Alberto Curti è persona riservata, gentile, cordiale, ospitale. E quando ha voglia di lasciarsi andare snocciola curiosità e brani di storia: per esempio che la Fornace sorse nel 1428 alle Colonne di San Lorenzo. In quegli anni anche l’architetto indaffarato nella Certosa di Pavia eseguì dai Curti molti fregi architettonici. Milano intanto si sviluppava e la Fornace cambiò sede, aprendo in Ripa di Porta Ticinese. Altro trasloco un secolo dopo: alla Conchetta, sul Naviglio Pavese. Ma qui si verificò un incidente di notevoli dimensioni, che coinvolse forme, mobili, fregi, medaglioni della Fornace per la città. All’inizio del Novecento, armi e bagagli via verso il regno di oggi, continuando a produrre il famoso e pregevole cotto lombardo. Insomma, la famiglia ha cambiato sede quattro volte, senza mai allontanarsi dal Ticinese, dal Naviglio Grande, allora attraversato dai barconi che portavamo il marmo di Candoglia alla Fabbrica del Duomo, sabbia e generi alimentari (al ritorno, andando controcorrente, venivano tirati dalla “rozza dei navigli”, cavalli bolsi e macilenti).

Alberto Curti
Quando aveva voglia di raccontare Alberto Curti era particolarmente simpatico, piacevole, anche divertente. Spiegava il lavoro, le idee, i progetti della sua famiglia, ricca di meriti e di premi. “Abbiamo contribuito al restauro di molti edifici, chiese e parchi di tutta la Lombardia: il nostro cotto era, ed è, apprezzato e richiesto. Abbiamo fornito l’Abbazia di Chiaravalle e quella di Morimondo, Santa Maria delle Grazie, l’Arcivescovato, il Teatro Fossati, il cimitero di Pavia… Architetti e artisti illustri sono venuti da noi: quelli di una volta e quelli di oggi, tra cui Manzù, Fontana, Minguzzi, Capello, Pomodoro... Siamo stati sempre a disposizione, anche quando ci venivano proposte idee complicate. Le abbiamo accettate e soddisfatte con entusiasmo. Le novità ci stimolavano”.

Un angolo della fornace
Ancora oggi sono tantissimi i visitatori della Fornace: giovani e anziani, attirati da tutti quei manufatti di ceramica appesi alle pareti e i vasi così grandi che possono contenere un ulivo dal tronco barocco, di quelli che si trovano dalle parti di Ostuni: carichi di anni e testimoni di mille vicende umane. Rivolgo lo sguardo all’altana che ospitano quei grandi. Mi viene voglia di dialogare con loro, di interpellarli. Ho l’impressione che ascoltino le parole di Alberto, non avvezzo alla retorica e alla gloria. Ha un attimo di pausa. Poi, come se parlasse a stesso: “L’argilla veniva estratta nel luogo in cui signoreggiava la Fornace. In seguito ci servivamo di quella ricavata dalla Cascina Buffalora. Oggi utilizziamo un composto di crete dell’Oltrepò’ Pavese e piemontese”. Si avvicina una signora alta, magra, elegante con un bel cappello in testa, borsa di coccodrillo, e domanda: “Scusate, dove posso trovare la pittrice (non si ricordava il nome) che dipinge i matrimoni del Marocco?”. Alberto, rivolto a me: “Fatti un giro tra i lavoranti della Fornace; mentre io accompagno la signora attraverso questi meandri”. Quella pittrice io la conosco, ha ottant’anni, amalgama i colori e realizza figure snelle molto espressive. Purtroppo, andando a memoria, non ne ricordo il nome. E’ un’artista brava e sensibile. Mi aveva detto che Alberto aveva aperto i locali solo ai pittori che avevano dimestichezza con l’argilla, materia non “sorda all’intenzion dell’arte”.

Sala di esposizione
Ci sono giorni, soprattutto a maggio, che Alberto Curti, degno discendente di questa stirpe di maestri vasai, tiene aperto tutta la giornata. In quelle occasioni mi è capitato di imbattermi in conoscenti, amici, sempre alla scoperta di luoghi che sanno di antico. Una volta vi trovai Luciano Visintin, giornalista del “Corriere della Sera”, grande conoscitore di Milano e autore di libri di poesie in dialetto e anche sui monumenti della città, Duomo compreso. Visintin con la sua barbetta scura e i suoi capelli lisci era persona aperta al dialogo costruttivo. Era sempre presente nelle grandi occasioni: alla Festa del Naviglio, per esempio, e sulla Fornace aveva scritto vari articoli, tutti molto interessanti. Tornando ad Alberto Curti, va detto che è nato e cresciuto in questa bella cascina, la Varesina, appartenuta nel Seicento alla famiglia Porro e poi ai Videserti. “Non mi sradicherei mai da qui”, commentò. “Anche perché qui ho tanti ricordi, che nel silenzio raccontano secoli di storia”. “Una gran parte della storia di Milano, vero, Alberto?”. “Come no!”. “Questa cascina io ce l’ho nel cuore. Come tante altre di Milano, dalla Guardia di Sopra alla Cascina Grande di Rozzano. E poi qui c’è la Fornace. ”A proposito, sento dire che vuoi adibire uno dei tuoi grandi locali a sala di conferenze, congressi, presentazioni di libri e altro”. “E’ vero, te lo avrei detto. E’ quel locale lì, lo vedi quanto è grande? Ci sto pensando seriamente”. Purtroppo sono anni che non vado alla Fornace e mi sento colpevole.







Pomeriggio nel Salotto Cinese di Martina

FASCI DI RICORDI EMOZIONANTI
DAGLI AMICI PER ELIO GRECO

 

Aneddoti, curiosità, notizie su un

personaggio che passò la vita a

organizzare manifestazioni in

ogni dove anche per far

conoscere la sua città e per

diffondere cultura. Creò la

Fondazione Nuove Proposte, il

Premio Menichella e altro.

 

 

Franco Presicci 

“Bouquet” di ricordi il pomeriggio del 30 giugno nel salotto cinese di Palazzo Ducale a Martina Franca. Al microfono, per la verità un po’ afono, si sono avvicendati cittadini illustri e qualche forestiero, portando ciascuno un suo gambo in omaggio a Michele Elio Greco, pilota della Fondazione Nuove Proposte, deceduto un mese fa.

Eugenio Caliandro,Cinzia Greco,Carlo Di Lonardo e Nico Blasi
La sua figura è riemersa chiara e netta nei vari racconti di chi lo ha conosciuto e apprezzato: Emilia Lamaro, direttrice della biblioteca della Camera dei Deputati; Nico Blasi, instancabile e coltissimo direttore della bellissima rivista “Umanesimo della pietra”; Francesco Lenoci, esimio docente di economia all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano; monsignor Franco Semeraro, già rettore della Basilica di San Martino; Lucia Basile, figlia del nota artista martinese, Salvatore, con il quale Elio costruì le basi della Fondazione Nuove Proposte; Michele Annese, abile direttore di questo giornale… E tra un contributo e l’altro, il baluginare di nomi importanti che con Michele Greco hanno avuto contatti significativi: il pittore Filippo Alto, il presidente del Festival Franco Punzi, il giornalista Michele Campione…, tutti elencati dalla Lamaro. E curiosità, aneddoti, notizie, dettagli, situazioni, cenni storici.
Francesco Lenoci

Blasi ha accennato ai fermenti culturali di Martina, (con i ragazzi che si riunivano nel centro storico per fare musica e altro), mentre la Fondazione si sviluppava, facendosi conoscere. Sempre preciso e circostanziato, Blasi, dopo aver ricordato di aver conosciuto Elio Greco nel ’76, ha rievocato alcuni periodi della sua attività. Brevemente Lenoci ha parlato del Premio Menichella, di cui è stato segretario generale per dodici anni… Un estimatore è venuto apposta da Palermo per portare la sua testimonianza. Tra un discorso e l’altro, tra un brano di vita e di idee si è fatto strada il suggerimento, rivolto all’amministrazione comunale, di dedicare a Elio Greco, già “patriae decus”, una via o una piazza in un punto non periferico di questa città luminosa, ricca di gemme, abitata da persone intelligenti e laboriose.
Ho conosciuto anch’io Elio Greco e ho anche frequentato la sua casa di campagna sulla via per Ceglie. Una volta l’ho accompagnato in via Mottola, nei pressi della zona industriale, in un deposito - concesso da un imprenditore sensibile - che lui utilizzava per il parcheggio di cataste di libri da distribuire a scuole, carceri, circoli, attraverso le persone insignite del Premio Ciaia.

Guido Le Noci con Fontana

 

Venne più volte a Milano, premiando giornalisti noti e stimati, tra cui Piero Lotito, penna elegante del quotidiano “Il Giorno”, Piero Colaprico, di “Repubblica”, Olga Piscitelli, allora del “Corriere della Sera”, nella sala Montanelli strapiena del Circolo della Stampa in corso Venezia. In un’altra occasione dedicò un pomeriggio a un personaggio martinese indimenticabile, Guido Le Noci, famoso anche oltreconfine, amico di Pierre Restany, padre del Nouveau Realisme, al quale dedicò il ”Libretto rosso”, in cui scrive, nelle prime pagine, “Gli amici di Restany sono miei amici”. Le Noci teneva in grande considerazione Elio Greco. Lo incoraggiava, gli dava consigli, come risulta anche da una lettera che gli scrisse molti anni fa. Posseggo alcune foto che li vedono cordialmente insieme e un messaggio di poche righe. Le Noci ha dato lustro a Martina non soltanto a Milano.

Nico Blasi

Nico Blasi, che collaborò con lui, avrebbe tante cose da dire su questo concittadino geniale, che aprì la sua prima Galleria a Como, la “Borromini”, chiusa dal fascismo perché in una mostra ospitava l’opera di un artista ebreo e perché al regime non piaceva l’arte d’avanguardia. Guido allora aprì in via Brera 6, nella città di Carlo Porta, l’”Apollinaire”, frequentata dagli intellettuali milanesi più in vista, da appassionati, da conoscitori d’arte eminenti, soprattutto dal giornalista, pittore e scrittore Dino Buzzati, che quando quel tempio spense definitivamente le luci pubblicò un necrologio su “Il Corriere d’Informazione”, quotidiano del pomeriggio di via Solferino. Elio Greco gli rendeva onore quando veniva a dispensare libri a Milano. Guido Le Noci era già volato via da tempo, lasciando un ricordo vivo delle sue brillanti iniziative, compresa una grande manifestazione in piazza del Duomo, che ottenne intere colonne su tutti i giornali anche stranieri. Al Circolo della Stampa Elio Greco era di casa. Il presidente lo accoglieva con cordialità e faceva esporre nel corridoio i 50 volumi del Premio. Fra i libri da consegnare al liceo classico Beccaria, c’era quello di Piero Lotito, “Il pugno immobile”.
Le Noci su una moto impacchettata da Javaceff

Lo stesso anno mi coinvolse e consegnammo mini biblioteche alle carceri di San Vittore e di Opera, dove spiegò ai detenuti il programma della Fondazione e in piazza Filangieri fu intervistato da un recluso che si occupava del giornale della casa circondariale, direttore illuminato Luigi Pagano. A Opera ci seguì il gallerista Mimmo Dabbrescia, titolare di Spazio Prospettive d’arte, che ai libri di Elio aggiunse quelli pubblicati da lui, “Visti da vicino”, con biografie di artisti consacrati: Remo Brindisi, Ernesto Treccani, Ibrahim Kodra, Attilio Alfieri, Gianni Dova, Filippo Alto… 

Parte del pubblico
Altri libri al carcere minorile Beccaria, dove la direttrice ci accolse come ospiti speciali e alla fine della cerimonia ci offrì un piccolo “buffet”. Lo stesso giorno Elio donò 50 titoli anche a una biblioteca “in fieri” in zona Niguarda. Le giornate milanesi di Elio Greco erano dense di incontri, telefonate, appuntamenti. Sempre al Circolo della Stampa dedicò un pomeriggio a Guido Le Noci, presenti fra gli altri la moglie del gallerista, Eugenia, e la figlia, Marina, che fa la psichiatra, non avendo voluto seguite le orme del padre, martinese doc, vicino a un altro grande uomo con radici a Martina, Paolo Grassi, cofondatore del Piccolo Teatro con Streheler, e in seguito sovrintendente alla Scala e presidente della Rai, oltre che alimentatore del Festival.. Elio quella volta dette l’incarico di delineare la figura di Le Noci a Elio Santarella, pittore tarantino che organizzava le mostre di pittura alla Rotonda della Besana e di scultura in corso Vittorio Emanuele, per conto del Comune di Milano. Santarella, artista a sua volta, parlò di Guido con commozione, passando poi la parola a Francesco Lenoci. 

A Milano Elio era molto conosciuto.

Alle sue iniziative c’erano spesso Livia Pomodoro, magistrato di alto profilo, Giuseppe Gallizzi, allora presidente della casa dei giornalisti, che lo riceveva con piacere, e tanti giornalisti delle varie testate. Ovunque andassi sentivo parlare di Elio Greco, di Fondazione Nuove Proposte, del Premio Ciaia, delle pubblicazioni di Nuove Proposte.
 
Feci un salto a Fasano per un’intervista all’editore Nunzio Schena e la figlia, Angela, mi consegnò una piccola opera su Ignazio Ciaia realizzata per Nuove Proposte. Conosceva tutti, Elio, non soltanto le persone più autorevoli che sedevano magari in Senato o negli uffici della Presidenza della Repubblica o dirigevano una biblioteca importante come quella di Lucera; e con l’attestato dell’alto compito che svolgeva in favore della cultura trovava spesso le porte aperte. L’altra sera nel Salotto Cinese di Martina, già Sala degli Uccelli, qualcuno ha detto che era andato persino in Canada per consegnare un riconoscimento ad un nome molto prestigioso. Non aveva confini, Elio Greco. Gli anni gli si accumulavano senza toccarlo. Sfidava il tempo, gli spazi, le forze fisiche. La vista calava e lui procedeva con l’energia che gli veniva dalla passione, dalla voglia di fare. Per lui non c’era mèta inarrivabile. E’ stato un diffusore di cultura, promotore di studi su luminari di fama, amico del Festival della Valle d’Itria, ormai noto e seguito in tutto il mondo, della Fondazione Paolo Grassi, diretta da Rino Carrieri. Elio Michele Greco ha lasciato un vuoto.
Franco Punzi
La targa su una via la merita tutta, come la merita Franco Punzi per l’impegno che ha profuso per rendere sempre più grande la rassegna musicale martinese. Un oratore ha accennato ad Alessandro Caroli, che quella manifestazione creò con ogni sforzo, facendone poi la storia in un piccolo libro, che venne presentato da Giuseppe Giacovazzo, giornalista che amava il paradiso decantato da Cesare Brandi;, come Antonio Rossano, che ogni anno su Raitrè faceva le cronache del Festival, a cui dedicò un volume: “Miracolo in Valle d’Itria”. Tornando alla serata del 30 giugno, moderata da Eugenio Caliandro, giornalista del “Nuovo quotidiano di Puglia”, presenti il sindaco Gianfranco Palmisano, e l’assessore alla Cultura Carlo Di Lonardo, va aggiunto che parlando di Elio Greco alcuni hanno ceduto all’emozione.
 
1997-Liuzzi consegna il Premio Crispius a Violante
Michele Annese
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ha chiuso la lista degli interventi Michele Annese, già segretario generale della Comunità Montana, direttore della Biblioteca “C. Natale” di Crispiano e oggi guida dell’Università del Sapere e del Tempo Libero della stessa cittadina, oltre che direttore di “Minerva News”. Annese ha dato le ultime pennellate al ritratto del dinamico promotore culturale, ricordando alcuni episodi: il 17 marzo del 1997, per la celebrazione del bicentenario della Crispiano moderna arrivò nella cittadina Luciano Violante, allora presidente della Camera, invitato dal sindaco Francesco Paolo Liuzzi e accolto dalla popolazione con scrosci di applausi. Il Consiglio comunale unanimemente gli assegnò il Premio Crispius.
 
Annese a colloquio con l'on.le Violante
Nell’occasione, Violante visitò il Centro Montaliano realizzato dalla Biblioteca. E’ poi tornato a incontrarsi con Annese a Martina, arrivando in bicicletta dal suo trullo di campagna, per concordare la cerimonia di presentazione del libro sui 50 anni della stessa Biblioteca. La presentazione dello stesso libro di Annese, nella sala consiliare di Martina, venne presieduta da Franco Punzi e da Elio Greco. Relatore di eccellenza della serata l'on.le Violante. Ad tutte le iniziative, Elio Greco collaborava con entusiasmo per il msuccesso delle stesse. A Martina assistetti ad alcune attività di Elio: al chiosco di San Domenico, dove consegnò i premi ad alcuni giornalisti, tra cui Salvatore Catapano, di Raitrè, e in un locale dalle parti della villa, entrambe affollate. Un’altra volta fui tra gli spettatori mentre consegnava il premio a una signora che da molti anni veniva da Milano a villeggiare a Martina, la città che lui amava molto, forse più di se stesso. Al liceo Beccaria a Milano, davanti a una scolaresca attenta e interessata, parlò della città dei trulli e della sua storia; del Festival e delle bellezze architettoniche che calamitavano l’attenzione del regista Pierluigi Pizzi, suscitando emozione fra i banchi, La professoressa di latino e greco Marisa Mauro, che aveva riunito gli studenti, mi disse: “Quest’uomo dovrebbe essere nominato ambasciatore della sua regione”. Un uomo dalle mille relazioni. Un uomo che ha lasciato il segno. Non soltanto nella ridente, affascinante Martina: una donna d’antan che non ha perduto il suo splendore.