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mercoledì 27 aprile 2016

I PRIMORDI DELL'ASSOCIAZIONE PUGLIESI DI MILANO


SORTA IN VIA TORINO NEL ‘21 SI RIVELO’ CON UNA MOSTRA

 

Ventiquattro gli artisti partecipanti con 185 opere. 
 

I tempi di Alfredo Violante e poi quelli dello scrittore Nino Palumbo, del commercialista Giacomo Lezoche e del pittore Filippo Alto.  



Il sodalizio ebbe momenti di sonnolenza ma seppe risvegliarsi.





Franco Presicci
Via Torino

La prima mostra di artisti del Tacco a Milano fu inaugurata il 22 settembre del 1929. Artefice l’Associazione Pugliesi, che allora aveva la sede in via Torino 34, numero di telefono 83974. Il catalogo, firmato da Alberto Violante, allineava foto di alcune opere appese alle pareti: 185 fra disegni, tele, sculture, con paesaggi, figure, giochi di strada…, e forniva brevi notizie del percorso dei 24 partecipanti: di Giuseppe Fiore, nato nella città di San Nicola il 15 giugno del 1885, ricordava che era stato allievo di Michele Galiani, aveva ricevuto la borsa di studio della Provincia di Bari e per 4 anni aveva studiato nel Regio Istituto di Belle Arti napoletano, completando la formazione a Torino nella Regia Accademia Albertina, con la guida del maestro Giacomo Grossi. Aveva preso parte a molte esposizioni, e in una svoltasi a Gallipoli aveva venduto al Governo un quadro destinato alla Galleria d’arte moderna di Roma. Notevole anche l’attività del pittore, scultore e architetto Luigi Schingo, di San Severo, il paese del vino e del poeta Umberto Fraccacreta. Studi a Napoli, mostra nel 1913 a Firenze, altre a Palermo, Milano, Monza, Lecce e a Roma, a Palazzo Salviati.
Mazza e Piastrino di A. Testi
Tra gli acquirenti, la Regina Elena e il ministero della Pubblica Istruzione. Notevoli i suoi monumenti per i Caduti e per Pio XI. Il leccese Realino Sambati, del 1890, nella città natale aveva continuato gli studi iniziati a Napoli con il professor Girosi; e nel 1924 esposto alla Prima Biennale Salentina; l’anno successivo alla mostra d’arte di Galllipoli; nel ’26 nuovamente alla Biennale; nel ’27 alla collettiva del paesaggio pugliese alla Fiera di Milano. L’acquafortista e pittore Vito Leonardo Amodio, di Rutigliano, diplomato alla Regia Accademia di Brera, era presente con “Noria” e “Via vecchia di Conversano”. Alfredo Petrucci, critico d’arte, scrittore (tra l’altro dirigeva “Monografie di arte e storia pugliese” per l’editore Pilone di Foggia) e incisore era ospitato nella Galleria d’arte moderna, nel Gabinetto Nazionale delle Stampe e nel Museo Mussolini in Campidoglio. Donato Gramegna, del 1893, autodidatta, di Bitetto, in provincia di Bari, scultore, ideatore di esemplari che si trovano nel Cimitero Monumentale di Milano e a Varese... “Della commissione ordinatrice – precisava il catalogo – sono stati chiamati a far parte gli avvocati Arbore, Calia Centuori, Ricca, Cioffrese, il commendator Columella, il cavaliere ufficiale De Napoli, il dottor De Santis, lo scultore Gramegna, il pittore Macina, il pubblicista Rasi.
M. Azzella e N. Palumbo
Segretario il dottor De Palma”. L’Associazione li ringraziava “per il contributo entusiastico e operoso”. Violante confidò che la manifestazione era stata realizzata in fretta, per cui non si era avuta la possibilità di annoverare altri nomi di valore. Il successo comunque non mancò, a giudicare dall’affluenza del pubblico e dall’attenzione della stampa non solo nazionale. “Questa esposizione, presentata da Romolo Caggese – parole di Violante - forma una nota che non sarà facilmente dimenticata e richiamerà i pugliesi al dovere di tornare spesso in Puglia in amoroso pellegrinaggio, e ai non pugliesi a recarsi in questa terra non di soli pampini e di ulivi ricca, per constatare che tutt’Italia è fiorente di bellezze materiali per impagabile dono divino”. Nello stesso anno l’Associazione varò un’altra iniziativa che non passò inosservata: il concerto vocale e strumentale dei musicisti pugliesi, che ebbe luogo con la guida del maestro Pasquale Di Cagno nel Regio Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano.
Bruno Marzo
L’Associazione Pugliesi del capoluogo lombardo era stata battezzata nel 1921. Stentati i primi passi, ma nel ’29 – informa il “Cenacolo professionale Solferino”, di cui era anima e corpo il commercialista tranese Giacomo Lezoche – Leonardo Dragonetti e Alfredo Violante suonarono la sveglia, assumendo, l’uno incarichi amministrativi e l’altro culturali e organizzativi. Nel 1930 venne eletto presidente l’avvocato Marco Cioffrese, che incoraggiò l’attività di Dragonetti e Violante che con Arnaldo De Palma, di San Severo (data di nascita febbraio del 1904), fondò “Terra di Puglia”, rivista che ebbe come collaboratori il poeta Umberto Fraccacreta, al quale poi nella nostra regione sarà intestato un Premio, assegnato nel ‘57 a Vittore Fiore con “Sono nato sui mari del tonno” (“dove lo Jonio mostra la sua dolcezza e all’inverno il suo terribile moto…”).
Filippo Alto
Alla cerimonia di consegna, il 16 giugno, al Teatro Comunale di San Severo, c’era anche il padre del poeta, Tommaso, di cui ricordiamo “Un popolo di formiche”, vincitore del Premio Viareggio nel 1952; “Il cafone all’inferno”; “Incendio al municipio”; “I corvi scherzano a Varsavia”… Nel ’30 – si leggeva in “Terra di Puglia” - Milano contava già 45mila pugliesi e numerosissimi “Trani”, i locali per la vendita di vino aperti da immigrati dell’omonima città pugliese. Oggi il termine è sconosciuto soprattutto ai giovani, se non hanno letto “Il Trani di via Lambro” (edito nel ‘91 da Mursia) di Vincenzo Pappalettera, che nel ’66 si aggiudicò il Premio Bancarella con “Tu passerai per il camino”. Il dottor Giacomo Lezoche, commercialista con studio in corso Venezia 8, a Milano era la memoria storica dell’associazionismo pugliese nella città del Porta e un appassionato sostenitore della ricostituzione di un sodalizio in cui i suoi corregionali si potessero ritrovare. Realizzò il proposito nel ’76, formalizzando l’atto di costituzione alla presenza del giornalista della Rai Mario Azzella, del pittore Filippo Alto e di altri. Presidente lo scrittore Nino Palumbo, che nato a Trani da un artigiano, si era trasferito nel ’39 a Milano, vi si era laureato, aveva stabilito contatti con Elio Vittorini e altri nomi illustri, aveva scritto “Pane verde”, “Il serpente malioso”… (morì nell’83 a Genova dopo un intervento chirurgico). Tra i soci,
Giacomo Lezoche a Trani
il giornalista della Rai Antonio Velluto, di Troia. Conversare con Lezoche era edificante per chi amava approfondire le storie dei pugliesi a Milano. Una telefonata e partiva l’invito nella sua splendida casa delle vacanze, a Trani, il cui terrazzo si affaccia sul porto. E dopo un pranzo a base di pesce nel ristorante sottostante spalancava il proprio archivio pieno di carte, libri, documenti, lettere, fotografie, copie di “Terra di Puglia” e dell’altra rivista, “Ipotesi”, una delle quali dedicata a Nino Palumbo, con un testo di Carlo Bo e un intervento critico di Geno Pampaloni. E spiegava, illustrava, indicava nomi importanti, ne descriveva l’attività.Era una fonte inesauribile. Parlava anche della mostra del 1929, della quale conservava testimonianze; della corrispondenza con Palumbo; della sua amicizia con il baritono della Scala Giuseppe Zecchillo, e con il pittore Filippo Alto, barese con studio meneghino, allora, in via Calamatta 17, mèta di critici, pittori, scultori, giornalisti, scrittori... Giacomo Lezoche se ne andò qualche anno fa. E non fu la sola perdita. Non ci sono più Filippo, l’ingegnere Martino Colafemmina, di Acquaviva delle Fonti; Chechele, di Apricena; Mario Azzella, giornalista e documentarista; Bruno Marzo, leccese, collezionista di giornali salentini dell’800, che pilotò l’Associazione nella sede di piazza del Duomo. Memorabili le iniziative concretizzate, con sapienza e senza esibizionismi, da lui e da Filippo Alto, responsabile dei programmi culturali.

mercoledì 20 aprile 2016

“Cinquant’anni di poesia” di Montale apparve con 10 opere di Kodra


 

 

Kodra artista di rinomanza 

internazionale

 

Uomo generoso, colto, affabile, pacato, schietto






  

Premio "Vita da Cronista 2015"

 


  Franco Presicci



 
Dieci anni fa, il 7 febbraio, si spense a Milano il grande pittore albanese Ibrahim Kodra, che da ragazzo era stato pupillo di re Zogu e della regina Gèraldine.
Kodra saluta dal Naviglio Grande
Innamorato del nostro Paese, soprattutto della città del Porta, che lo ospitò per circa 70 anni, soggiornò più volte a Positano, Catania, Palermo…, città in cui allestì importanti personali. E adorava la Puglia, il suo calore, i suoi colori, la sua gente. Ne parlavamo spesso, nella sua abitazione-studio all’ultimo piano del 2 di piazzale Lagosta (locali già appartenuti ad Antonio Ghiringhelli, sovrintendente alla Scala dal ’45 al ‘72), da dove si dominava, come dalla plancia di comando di un transatlantico, tutto viale Zara e parte del suo prolungamento, che porta il nome di Fulvio Testi. Kodra era un artista di rinomanza internazionale e un uomo generoso, colto, affabile, pacato, schietto. Abbigliamento un po’ stravagante, quasi una tavolozza, vaga somiglianza con Charles Bronson, lo si poteva incontrare all’Isola Garibaldi, dove spesso brevi passeggiate. Mi chiedeva di seguirlo, e a volte lo accontentavo, ascoltando i suoi progetti e i suoi impegni. Poi al ritorno nello studio dava gli ultimi tocchi a una tela, mentre saccheggiavo i ritagli di giornale che la signora bionda con funzione di assistente ammucchiava su un tavolo spazioso quanto un biliardo; o ammiravo i suonatori, le barche a vela, il paesaggio di Sciacca, i soldati geometricamente schierati appesi, incorniciati, alle pareti.
"La guerra per la pace"
Se per un po’ non mi sentiva, mi telefonava, invitandomi a cena o a pranzo; e io dovevo trovare sempre una scusa per dire di no, non gradendo i pasti fuori casa. “Alle 4 del pomeriggio”, gli promettevo. “Arrivo alle 4”. Ed ero sempre puntuale. Quando con Filippo Alto ebbi l’idea del Premio Milano di giornalismo, lo proposi come presidente della giuria, che annoverava nomi rilevanti della televisione, della carta stampata, dell’arte…Ibrahim accettò di buon grado, e non cercò mai d’imporre un proprio candidato. Si limitò a sorridere benevolmente alla scelta di Alberto Cavallari, che poi sostitui Franco Di Bella, premiato con lui “ex aequo”, alla direzione del quotidiano di via Solferino. Cavallari inviò un telegramma da Parigi, dov’era corrispondente, assicurando la sua partecipazione alla cerimonia di consegna.  E mantenne la promessa. Rivedo il suo abbraccio affettuoso con Ibrahim, che volle seduto accanto a sè. Nato in un piccolo villaggio, Ishmi, il 22 aprile del ’18 (in questi giorni avrebbe compiuto 98 anni),
Kodra con una scolaresca
Kodra arrivò in Italia nel ’38 con una borsa di studio per l’Accademia di Brera. I gerarchi del regime lo accolsero a Roma festosamente e gli chiesero di tenere un discorso in onore del capo del fascismo. Ma lui conosceva soltanto tre o quattro parole del nostro vocabolario, e manifestò il proprio imbarazzo. Quelli insistettero, suggerendogli di usare la sua lingua; e lui allora colse al volo l’idea di contare da uno a cento, intervallando i numeri con le espressioni all’epoca considerate sacre “duce”, “fascismo”, “Mussolini”, scatenando applausi fragorosi e commenti entusiastic:i “Eccezionale, Kodra, discorso affascinante”. Nel ’39 era a Milano. E frequentando il quartiere di Brera ben presto divenne leggendario. I primi tempi furono magri, anzi magrissimi. Gli urli della fame li placò nella latteria delle pie sorelle Pirovini,
Kodra con le sorelle Pirovini
che gli proposero di convertirsi al cristianesimo in cambio della cancellazione del suo conto, allungatosi quanto un’autostrada anche per colpa delle pance degli amici. Dalle Pirovini al bar “Giamaica” il passo era breve. E lì, dentro e fuori, s’intrattenevano Gianni Dova, Lucio Fontana, il giornalista Guido Vergani, il critico cinematografico Pietrino Bianchi, il musicologo Giulio Confalonieri, Intra, Gaber... “Mamma Lina”, al secolo Lina Mainini, ricordava Benito Mussolini, che si faceva servire il cappuccio senza schiuma, prima di andare alla sede del “Popolo d’Italia”, in via Lovanio. Gli episodi che riguardavano Kodra trasmigravano dall’uno all’altro in un baleno. Avete saputo? L’altra notte in via Fabio Filzi due banditi armati gli hanno intimato di consegnare la borsa. Quale borsa? Non aveva l’ombra di un centesimo. Era pronto a farsi perquisire per dare la conferma. Si sono impietositi e gli hanno dato la mancia. Era il ’44. Venne investito da una moto americana, gli ingessarono un braccio e tutta la sua compagnia sperava in un ottimo risarcimento, e per questo lo supplicavano di tenere la protezione oltre il tempo previsto..
Kodra con P. Ballo e A. Petruso
Tutti conoscevano la sua storia. Alcuni la raccontavano, e i cronisti ne prendevano nota. In Albania aveva imparato le buone maniere alla corte di re Zogu, ma il giorno in cui doveva fare l’inchino alla regina Gèraldine sbagliò un gesto e corse il rischio di cadere coinvolgendo sua altezza. A portarlo al Palazzo era stato il questore di Durazzo, che, dal suo tavolo in una trattoria, si accorse che il pivello che gli stava dirimpetto lo guardava, abbassava la testa e faceva fremere una matita. Gli si avvicinò incuriosito e vide il proprio ritratto su un foglio. “Sei davvero bravo! Complimenti!”. E subito dopo: “Che cosa fa tuo padre?”. Era un capitano di lungo corso sempre in navigazione, e la madre aveva perso la via di casa. Allora il questore pensò di presentarlo alla regina, che in seguito lo spedì in Italia con la borsa di studio. Destinazione l’Accademia di Brera. Una manna per il giovane, che amava la musica, oltre alla pittura, suonava il banjo, aveva vinto il campionato di giavellotto e aveva diversi hobby.  Ibrahim era deciso a farsi strada, e la fece. Ecco in estrema sintesi il suo percorso. Nel ’39 cominciò a seguire, a Brera, i corsi di Carpi, Carrà, Funi; nel ’43 conseguì la maturità artistica. Aprì il primo studio e uscì un libro con disegni suoi, di Birolli, Vedova. Nel ’46, Antonio Tullier scrisse la presentazione nel catalogo di una sua mostra. Nel ’52 fu al “Maggio di Bari”. Nel giugno del ’57 Marco Valsecchi recensì sul “Giorno” la sua esposizione alla Galleria Bergamini. Nel ’58 Guido Ballo gli dedicò un articolo sull’”Avanti!”…. E poi una prima pioggia di critiche di Mario Lepore, De Micheli, dello stesso Cavallari… Viviane Bost parlò di Kodra su “Nice-matin”; Davide Lajolo su “Vie Nuove” titolò “Un albanese per le vie di Milano” sottolineando nel sommario che “la semplice, tenace magia di Kodra rintraccia le scaglie luminose dei vecchi mosaici bizantini”. Lucio Cabutti su “Bolaffiarte” ne “L’albanese in via Brera” ricorda l’adesione del pittore a “Oltre Guernica” nel ’45 e il suo incontro con Paul Eluard, che lo definiva “il primitivo di un’altra civiltà”, proseguendo con l’accenno “all’impronta geometrica sempre più marcata, nella sua pittura” “Cinquant’anni di poesia” di Montale apparve con 10 opere di Kodra. Nella monografia “Kodra in corpo 8”, pubblicata dalle Edizioni d’arte La Tela di Palermo, sono incluse, fra tantissime immagini, centinaia di articoli sull’intensa attività di questo artista geniale, che a detta di Mario Stefanile “pungolò la fantasia anche dei critici con i misteriosi e orfici incanti della propria pittura”. Per settant’anni protagonista della vita milanese, l’albanese di Ishmi se ne andò nel 2006. Fui invitato da una tivù di Tirana a parlare della sua arte e della sua umanità; e mi vinse l’emozione.


mercoledì 13 aprile 2016

Hai le ali? Vola sempre più in alto ma non dimenticare mai la tua culla



GIA’ NEL TITOLO E’ BELLO

IL LIBRO DI GOFFREDO PALMERINI

Le radici e le ali” presentato da Francesco Lenoci
all’Aquila mentre si compiono i sette anni
dal disastroso terremoto.


Franco Presicci

E’ già nel titolo, “Le radici e le ali”, la bellezza del recente volume di Goffredo Palmerini: Vola, esplora altri mondi, incontra altra gente, stringi nuove amicizie, corri nel luogo che ti dà lavoro, ma non dimenticare mai la culla. Se cedi a questa tentazione, non hai più un paese. Il vecchio può non riconoscerti più, il nuovo non sarà mai completamente tuo. Tanta gente che per bisogno ha fatto fagotto, costretta a stabilire la dimora in terre lontane, non manda in archivio la via da cui è partita; continua a sospirarla, ripercorrendola con il ricordo. Molti tornano e ritornano, e sono accolti con un abbraccio. E’ come se non si fossero mai allontanati. Goffredo li segue, li ascolta, li racconta. Mario Fratti, uno degli autori di teatro più famosi al mondo, aquilano di nascita, si è stabilito a New York dal ’63, ma per lui ogni occasione è buona per rivedere la sua città, tormentata e offesa. L’ultima volta l’anno scorso per la prima al Teatro Comunale del suo Frigoriferi”, uno dei suoi brillanti lavori, tradotto in “musical” dalla Compagnia Mamo e dall’Orchestra Sinfonica Abruzzese diretta dal maestro Luciano Di Giandomenico.
Lenoci e Palmerini
E ci andrà ancora a settembre per la presentazione del suo romanzo “Diario proibito-L’Aquila anni Quaranta”. Fratti è come Palmerini: gira il mondo, presenta le sue opere (ne ha scritte circa 90 tradotte in 22 lingue) e scopre nuovi sentieri. Vola in Brasile, Canada, Argentina… e ripiomba a New York. Cronista scrupoloso, attento, indagatore, Palmerini prende nota dei successi dello scrittore, lo incontra, lo intervista e ne scrive pagine belle e sentite.
Goffredo Palmerini e Francesca Alderisi
Laura Benedetti, aquilana anche lei, nel gennaio scorso ha ricevuto a Wasinghton l’ambito riconoscimento: Three Wise Women conferito dall’Organizzazione Nazionale Donne Italo-americane. La motivazione indica i suoi meriti nella critica letteraria, ma anche l’infaticabile impegno da lei speso nella diffusione della cultura italiana. E Goffredo riferisce la notizia in ogni dettaglio, indugiando sugli scritti della Benedetti sulla letteratura medievale e sulla sua attività di curatrice della voce letteratura italiana per l’Encyclopedia Britannica Year in Rewiew, inanellando i tanti seminari incontri, convegni che ha organizzato, come “Dopo la caduta: memoria e futuro”, tenutosi a L’Aquila nel giugno 2010. Nulla sfugge a Goffredo. Informato di tutto, viaggiatore accanito, sempre alla ricerca di storie da narrare. Non esita a prendere un treno o un aereo per raggiungere un luogo, una persona, un talento da descrivere, per farli conoscere agli altri. Nell’agosto di tre anni fa è stato a Cellino San Marco per la Settimana della promozione della Puglia nel mondo: “Ospitalità dalla terra dei Messapi al Salento”. E ha illustrato il patrimonio artistico, paesaggistico, culturale, enogastronomico, storico della nostra regione, accennando alle sue origini magno greche.
Palmerini con Dan Fante
Ha seguito gli ospiti nelle visite al sito archeologico di Muro Tenente, a Mesagne, alle Colonne Romane di Brindisi, al grandioso, festoso Barocco di Lecce, ai trulli di Alberobello; e cita anche le persone che svolgono incarichi meno rilevanti, come il brigadiere Capoccia, che, avendo l’incarico di agevolare i rapporti con e tra i forestieri, si è distinto nel fare gli onori di casa all’ambasciatore d’Albania Neritan Ceka, che – ha confidato - quando dall’altra sponda pensa all’Italia, la prima terra che immagina è la Puglia, molto più conosciuta delle altre dalle sue parti. E ha parlato di Albano Carrisi, definendolo “ambasciatore di Puglia straordinario ed amatissimo”.
Palmerini è un infallibile “trait-union” tra gli italiani che sono rimasti e quelli che hanno cercato il pane altrove; tra i nostri connazionali e i fratelli stranieri. I suoi scritti invogliano alla conoscenza di quanto accade nei nostri confini e oltre; esortano a vedere se stessi nel prossimo, al dialogo, alla solidarietà reciproca. “C’è un antico rapporto d’affezione, quasi d’amore tra New York e l’Italia”, dice. E così titola un capitolo: “A New York e Princeton con nel cuore l’Aquila candidata a capitale europea della cultura nel 2019”.
Il duomo de L'Aquila
E snocciola episodi antichi, con un tono da favola: “Lì, a New Amsterdam , nel 1635 andò anche a risiedere il marinaio veneziano Pietro Cesare Alberti. Il primo italiano. La città andò avanti quasi in tranquillità fin quando il governatore Peter Styvesant nel 1657 fece sapere ai quaccheri inglesi, nel frattempo arrivati, che non erano molto graditi”.
Affascinano, le pagine di Goffredo Palmerini. Leggendole si ha la sensazione di compiere viaggi edificanti da un Paese all’altro; di essere fisicamente di fronte a persone mai viste, di ascoltare le loro voci, le loro esperienze. Palmerini ama la gente, non solo quella abruzzese sparsa per il mondo. Va a cercarla e ne traccia un ritratto palpitante. Con uno stile limpido, scorrevole, delicato. Avvincente. Espone i fatti con lealtà; penetra nei personaggi con notevole capacità d’introspezione psicologica. I suoi scritti sono affollati: situazioni, protagonisti di grandi eventi, maestri della scrittura e della tavolozza… Ed ecco, in “Le radici e le Ali”, “Taranto. Oltre la notte”, illustrato a Roma nella Biblioteca del Senato, per tenere viva l’attenzione sui drammi della Bimare e dell’Aquila”.
Palmerini (al centro) in un programma RAI
Con un intervento di Tiziana Grassi, che invoca un patto di fratellanza fra le due municipalità.. “E per quanto arduo sia un parallelo tra i problemi delle due città – dice Palmerini - l’una martoriata nel suo ‘habitat’ ambientale, l’altra devastata dal terremoto, resta comune il fatto che la loro rinascita passa per un forte impegno del sistema Paese congiunto in un sapiente impegno sociale”. Impegno che lui ha dimostrato nel consiglio comunale della sua città e poi nella veste di assessore e vicesindaco..
C’è un tesoro in “Le radici e le ali” (che comprende anche scritti di altri autori), fatto di vite vissute, di iniziative intraprese…di luoghi memorabili. Charleroi, per esempio, dove nell’agosto del ’14 i tedeschi sconfissero i francesi e dal 27 al 29 settembre 2013 si è svolta l’assemblea del Consiglio regionale Abruzzesi nel mondo. Palmerini naturalmente era presente. In una giornata di sole, “di quelle tiepide, come promettono le incipienti ottobrate romane…Man mano che l’aereo guadagna il nord s’increspano nuvole candide e cirri, disegnando al suolo arabeschi d’ombre lungo la costa toscana e sulla campagna frammentata di colture cangianti nelle tonalità del verde e delle terre di Siena…”.
“Le radici e le ali” ha un ampio corredo di foto: panorami e brani di paesaggi, chiese, monumenti, feste patronali con processioni, palazzi patrizi, vedute dall’alto. In appendice lo splendido discorso che fece a Milano Francesco Lenoci sul libro dello stesso Palmerini “L’Italia dei Sogni”. Seguono “L’Italia dei sogni è un paese possibile”, di Lucilla Sergiacomo; “L’Italia dei sogni, dove la natura fa parte del risveglio”, di Flavia Cristaldi… Il sottotitolo di “Le radici e le ali”: storie, curiosità e annotazioni sulla più bella Italia nel mondo”.

mercoledì 6 aprile 2016

La bella avventura dei professori Franco Marasca e Mario Pernice


DA LONDRA A FOGGIA A BORDO DI UN TAXI



Acquistato a Edimburgo per 7 milioni, era un gioiello. Marciò spedito tra saluti, baci volanti, applausi da chi incontrava, soprattutto dai giovani, sui piazzali di sosta e agli autogrill. Un viaggio tra gioia e timori conclusosi con un trionfo. Avrebbero voluto girare l’Europa, ma si stavano riaprendo le scuole.















(Franco Presicci) Fu una passione improvvisa quella di Franco Marasca e Mario Pernice, il primo insegnante d’inglese; il secondo di storia dell’arte, per i meravigliosi taxi di Londra.
Durante una vacanza nell’agosto del ’91 nella città attraversata dal Tamigi ne videro a decine incolonnati ad un semaforo, li osservarono, si scambiarono un’occhiata e s’intesero. Il viaggio di ritorno a Foggia l’avrebbero fatto guidandone un esemplare. Nessun indugio. Chiesero a destra e a manca dove avrebbero potuto soddisfare la cotta; e di indirizzi ne ebbero, ma ovunque il costo non scendeva al di sotto dei 10 milioni. “Andate a Edimburgo: lì sicuramente troverete quello che cercate - suggerì alla fine qualcuno – Da quelle parti il mercato è meno esigente”. Ed eccoli ad Edimburgo, una delle città più visitate, nota per aver dato i natali al filosofo ed economista Adam Smith, all’attore Sean Connery, ad Arthur Conan Doyle, padre di Sherlock Holmes; per il Castello dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, per il festival del teatro apprezzato in tutto il mondo... Qui altre sgambate, perché un taxi in vendita non era certo facile da scovare.
Franco Marasca con Renzo Arbore
Ma, come si sa, la fortuna assiste chi s’impegna, e come per incanto comparve “Edimburgo 443”, 10 anni, 300mila chilometri all’attivo, motore Austin, 2520 centimetri cubici, colore nero, targa ASG 55W, prezzo 7 milioni. Affare fatto. Consegna a settembre: anche se la macchina godeva di buona salute, una guardatina bisognava pur darla, per sicurezza.
E arrivò il giorno sospirato, accompagnato però da qualche legittima preoccupazione: “E se ‘Edimburgo’ non ce la fa, dove andiamo a sbattere la testa? Deve percorrere 3mila chilometri, che non sono uno scherzo. E’ anzianotto, quegli anni per un taxi non sono pochi. Può perdere fiato, bloccarsi, lasciandoci a piedi. E poi?”. Dovete andare tranquilli, siete su un mulo di ferro, vedrete che non sarete delusi, risposero alcuni tassisti con i quali si erano confidati. Si fidarono, ingranarono la marcia e via verso l’Italia.
Mario Pernice
A Doncester li aspettava una scena da teatro comico: nell’abitacolo si trovava momentaneamente solo Mario Pernice, quando un tale aprì la portiera, si sedette sul divanetto posteriore e indicò l’indirizzo al quale era diretto. Pernice cercava di spiegargli che il taxi era fuori servizio, aveva altra destinazione, privata e non pubblica; ma non conoscendo una sola parola di inglese non riusciva a farsi capire nemmeno con i gesti dall’altro, che, persa la pazienza, alzò il tono della voce, si agitò, tanto che, se non fosse sopraggiunto Franco Marasca a spiegare l’equivoco, la situazione avrebbe richiesto l’intervento del poliziotto di quartiere. Il battibecco finì dunque in una bolla di sapone, il mancato cliente si trasferì su un altro taxi e i due professori, tirando un sospiro di sollievo, partirono.

Erano entusiasti. Stavano vivendo un’esperienza invidiabile, passando da un posto ad un altro ricevevano saluti, baci volanti, fischi di acclamazione, complimenti per la bellezza fiera di “Edimburgo”. Ma a Dover, mentre stavano per imbarcarsi, si risvegliò la paura: il taxi aveva sputato acqua. “E adesso? Questo, sì, che è un guaio serio. Chi ci salva? E’ sabato, dove andiamo a rintracciare un meccanico aperto e disponibile? Avremmo fatto meglio a metterlo su un treno…”. Povero “Edimburgo”, stava facendo il suo dovere e gli toccava prendersi una colpa che non aveva. E non ne avevano neanche i due piloti (al volante facevano i turni): chi aveva versato il liquido aveva esagerato e il radiatore aveva vomitato il superfluo. “Tutto qui, può capitare”, predicarono i presenti. Peccato veniale.

Piero Lotito
I timori si riaddormentarono, e Franco e Mario ripresero la marcia, facendo tappa a Milano, dove sul piazzale di fronte al Castello Sforzesco, furono circondati da una piccola folla, che voleva sapere tutto di quel gioiello, la sua provenienza, le sue caratteristiche. Poi telefonarono a Piero Lotito, ammiratore delle auto d’epoca, giornalista attento e scrupoloso.
Lotito, foggiano anche lui, non si fece attendere, e l’equipaggio gli somministrò un’ampia dose di notizie sull’impresa che si stava svolgendo in quell’altalena di esultanza e di dubbi. Piero prese nota, si congratulò con loro, elogiò il taxi, dicendosi certo della bontà delle sue prestazioni. Taxi di quel tipo ne aveva visti e li considerava monumentali. Si congedò e i due amici, dopo un ultimo sguardo fugace al maniero, la cui storia s’intreccia con quella della città; e a via Dante che sfocia in piazza Cordusio, sfiorando il Teatro Strehler, riaccesero il motore.

Mario Pernice e Franco Marasca e il taxi
A Melegnano imboccarono l’autostrada e “Edimburgo” continuò a recitare il ruolo di mattatore, dando l’impressione di essere consapevole della sua qualità di oggetto del desiderio. Nei pressi di Pescara, fermi in una stazione di rifornimento, per fare il pieno e bere un caffè, Marasca e Pernice notarono un camionista inglese alto e robusto, biondo, testa pelata, in maniche di camicia, gli occhi fissi su “Edimburgo 443”. Cinque minuti dopo il motivo dell’attrazione venne spiegato: il padre del conducente del “bisonte” faceva il tassista e guidava proprio un confratello di quel campione. Aggiunse che non avrebbe mai potuto pensare che un giorno l’avrebbe visto circolare in un paese lontano dal suo.

Di nuovo in pista. “Edimburgo 443” andava spedito. Fagocitava l’asfalto con un rumore lieve che era musica per le orecchie dei padroni. Finalmente ecco la sagoma di Foggia, che si avvicinava velocemente. Franco e Mario avvertirono la stanchezza. Varcato il casello, entrarono in città, ne percorsero un tratto.

Antonio Velluto
Al termine del viaggio, un trionfo. “Edimburgo” fece colpo su tutti. Per i due docenti abbracci, pacche sulle spalle, acclamazioni, come se fossero corridori al traguardo del “Tour de France”, o assi su bolidi all’autodromo di Monza. L’avventura si concluse, quindi anche la festa. “Avremmo voluto girare tutta l’Europa con ‘Edimburgo’, ma non avevano più tempo. Le scuole stanno per riaprirsi. Chissà, magari l’anno venturo”. Ci fu chi si offrì subito di essere arruolato. “Vedremo”. Lessero l’articolo di Lotito sul “Giorno”, corredato da una foto che li ritraeva appoggiati alla “star”, e ne furono contenti. Lo lessi anch’io, quel pezzo, e l’ho riletto. Un pezzo da antologia.

Il duo, ricco di cultura e di umanità, è scomparso, ma a Foggia lo ricordano sempre con grande affetto anche per le opere che ha lasciato. Mario era pure scultore, autore tra l’altro di portali bronzei per chiese non solo della Capitanata: artista di alto livello, tanto che suoi lavori si trovano in molte collezioni. Franco, plurilingue (bravissimo tra l’altro a parlare il russo), fondatore di una casa editrice (le Edizioni del Rosone), che oltre a centinaia di libri sulla Puglia stampa ancora oggi tre periodici: “Il Rosone”, il “Provinciale”, “Carte di Puglia”, grazie alla moglie Falina, professoressa di lettere, e alla figlia Marida, laureata in materie bancarie. Era nato a Troia, città dalle sette vite come i gatti: tante volte distrutta e altrettante volte rinata. Persona gentile, riservata come Mario, soggiornò a Milano, dove “Il Rosone” fu battezzato, padrino il compianto Antonio Velluto, giornalista alla Rai, detto “il principe” per i modi garbati.

Non so se poi quel viaggio nei Paesi europei lo abbiano realizzato. Non ho fatto in tempo a chiederlo a Franco Marasca (che stimavo come uomo e come professionista). E non gli ho chiesto neppure notizie del destino di “Edimburgo 443”, il taxi che sapeva dare spettacolo.