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mercoledì 26 agosto 2020

Un grande cronista si raccontò piacevolmente

Gabriele Benzan

 GABRIELE BENZAN, UN “NERISTA”

DALLA MEMORIA INOSSIDABILE


 

In un’intervista degli anni 80, già
ottantacinquenne, parlò con molta
nostalgia degli anni passati a seguire
delitti, grandi rapine, bande spietate.
Diceva che la “nera” era la parte più
Interessante di un giornale.

 

 

 

 

 

 

Franco Presicci

Guido Gerosa, a destra, e il direttore del Giorno Lino Rizzi

   Se un novizio del giornalismo avesse voluto apprendere un po’ di storie di malavita (persone, fatti accaduti con le relative date…) si sarebbe dovuto rivolgere a lui, Gabriele Benzan, purtroppo deceduto da qualche anno. Quando lo sentii l’ultima volta, nel marzo del 2008, aveva 85 anni, e ancora una memoria solida. Bastava fare un nome e lui subito ne raccontava le imprese. Pietro Cavallero? E passavano davanti agli occhi dell’interlocutore, come un film, le tragiche ore seguite alla rapina di largo Zandonai del 25 settembre del ’67, con la banda che per sfuggire alla polizia che la inseguiva, sparò all’impazzata, insanguinando le strade della città. Raccontava anche i dettagli, Benzan, e faceva nomi e cognomi delle pellacce, gli sconvolgimenti che avevano provocato e il momento della cattura.
   Alla sua età non aveva perso l’entusiasmo e la passione per questo mestiere, che ha avuto nella sua lunga storia grandi personaggi, a cominci
are da Tommaso Besozzi, una gloria, un mito. 

 

Giancarlo Rizza, dietro di lui Maurizio Acquarone

Nel libro “I giornali non sono scarpe”, edito da Baldini & Gastoldi, Enrico Mannucci, ricorda che quando nel febbraio del ’49 Besozzi si presentò alla ”congierge” del Brufani, un vecchio albergo di Perugia, “alla fine del corso che traversa la città, nella piazza che guarda alla valle verso il Trasimeno, per assistere al processo ali assassini di don Pessina, fu trattato come un re, l’albergo era ai suoi piedi, il giovane Biagi, che era con lui, si sentì dire: ‘Enzo, ricordati cos’è la celebrità’.  Ma per la verità ho la sensazione che lo avessero scambiato per Nino, un grande attore famoso, che lavorò con Irma Gramatica, Ruggero Ruggeri, Andreina Pagnani, Vittorio De Sica…. Comunque, Tommaso in fatto di notorietà non gli era da meno.

Tanto per fare un esempio, da inviato a Palermo narrò in un’inchiesta, pubblicata da “L’Europeo” il 4 novembre del ’45, snocciolò la storia vera dell’uccisione del 

bandito Salvatore Giuliano, rispondendo alle domande: “Chi è stato a tradirlo? Dove è morto? Come? E quando’…”.  Benzan, quel giorno, affrontò anche l’argomento della grandezza di Tommaso Besozzi, di cui ormai pochi parlano. Tra l’altro i giovani apprendisti la nera non vogliono neppure sentirla nominare, mirando ad altri settori del giornale, ritenuti dagli stessi più prestigiosi. “Non sapendo – commentò Benzan – che la cronaca nera è avvincente e richiede preparazione, passione, coraggio”.

   Era un piacere ascoltarlo, questo gentiluomo alto, con i baffetti bianchi e un sorriso dolce. Continuava a collaborare con la televisione, se non ricordo male, del Trentino e pensava con grande nostalgia a Milano e al lavoro che qui aveva svolto per anni anche per il quotidiano “Il Giorno”. Nella sua carriera aveva conosciuto tutti, colleghi, poliziotti… quindi quando nel capoluogo lombardo accadeva qualcosa, lui veniva subito a saperlo. In questura campeggia una foto che lo ritrae con il suo solito sorriso spontaneo fra tanti altri cronisti colleghi dell’epoca, tutti di grande spessore: Arnaldo Giuliani, Max Monti, Fabio Mantica de “Il Corriere della Sera”, Gaetano Gadda e Giancarlo Rizza , de “Il Giorno”, Salvatore Conoscente de “L’Unità”, Mario Mercuri, di “Avvenire”, Alfredo Falletta, passato al “Corriere” da “L’Italia”, Mario Berticelli, de “L’Unità”, “Zsù-Zsù”, che forse perché ancora stanco per la grande camminata fatta nel ’45 dalla Germania, chiamava il taxi anche per spostarsi di qualche metro. 

Guglielmo Zucconi

   Benzan andava d’accordo con tutti, per la sua cortesia e la sua lealtà. Mai scorretto. Se coglieva al volo una notizia e la metteva in pagina, non si mostrava orgoglioso, superiore agli altri, come facevano cronisti degli anni ’90, che consideravano “scoop” l’arresto di un “pusher” scoperto con due chili di eroina addosso. “Scoop” fu quello di Nino Gorio, giornalista giudiziario del quotidiano di via Fava, che catturò la notizia di un quadro famosissimo rubato in Italia ed esposto in un altrettanto famoso museo straniero. Enzo Catania, vulcanico vicedirettore e capocronista de “Il Giorno”, pubblicò l’articolo a otto colonne in pima pagina e Gorio ebbe il Premio “Cronista dell’anno”, a Senigaglia.
   Bei tempi. In cronaca si stava sempre all’erta. Appena trapelava la notizia, via sul posto con il fotografo a bordo di un’auto del giornale guidata da un autista esperto. Ricordo anche loro: Gramigna, padre e figlio, Gusmaroli, Camarda, Ricciardi, Valentino, che conoscevano le strade a memoria e in un baleno ti portavano sul teatro di un delitto, dove emergeva l’abilità del nerista, la sua pazienza, la sua meticolosità, il suo intuito, la sua conoscenza degli uomini.

Cronisti di una volta in sala stampa

 Benzan descriveva luoghi,episodi…“Non si potevano attraversare al buio i boschetti di Trenno senza essere aggrediti e depredati. Anche l’attrice Emma Gramatica fece la sua brutta esperienza mentre percorreva piazzale Lotto in carrozzella (io la vidi recitare con Elsa Merlini in “Venerdì Santo” di Cesare Giulio Viola al Teatro Orfeo di Taranto). “Era bella, la nera”, ripeteva il vecchio e saggio cronista. E quasi conta i passi spesi per raccogliere i dettagli di un fatto. E per raccoglierli bisognava bussare a tante porte per cercare testimoni, per far parlare chi conosceva la vittima, chi aveva visto lo svolgersi della scena. “Non era facile strappare parole alla gente, che taceva per prudenza, per indifferenza”.
   Si rivede sotto una finestra della questura per captare per esempio le risposte che Rina Fort dava al “Gatto”, come definivano Mario Nardone. “Max Monti finse di fare la pipì contro la parete per giustificare il suo appostamento. Allora non c’era la sala-stampa, in va Fatebenefratelli, e noi eravamo davvero dei segugi. Quasi era più facile parlare con un elemento della malandra che con un poliziotto alla guida di un’indagine. Qualche anima buona ogni tanto si rendeva conto dei nostri sacrifici, della nostra stanchezza,  per non dire della nos
tra avidità, e ci elargiva qualche frammento utile.

 

Arnaldo Giuliani e Vito Plantone

Uno che capiva le nostre esigenze era Vito Plantone, che quando usciva da un interrogatorio anche a mezzanotte veniva con noi a mangiare un panino e ci diceva quello che ci poteva dire senza complicare le indagini. Gli volevano tutti bene non solo per questo, ma perché era un signore, un poliziotto acuto.
   Nardone non scuciva neppure una parola anche se gli puntavi contro una mitraglia. Jovine era un po’ come Plantone. Lorenzo Reali anche. Il maresciallo Ferdinando Oscuri, grande poliziotto anche lui, che conosceva tutti i meandri della mala, era rigido come una st
atua, pur avendo buoni rapporti con la stampa. Rimanemmo al telefono per un paio d’ore. Benzan parti dalla rivolta di San Vittore del 21 aprile ’46; dalla banda Bezzi e Barbieri, che terrorizzò Milano con la sua Aprilia nera. “La rivolta del carcere fu guidata da Barbieri con altri cinque elementi e portò alla morte del giovane agente Salvatore Rap. Per poter osservare meglio l’entrata del carcere noi salimmo al secondo piano di un palazzo in costruzione all’angolo tra viale Papiniano e via Dugnani”. Poi un maresciallo dei carabinieri, che Benzan aveva conosciuto quando si faceva spesso ospitare dalla mensa dei carabinieri in via Moscova a causa dello scarso stipendio che gli dava l’agenzia Orbs prima di traslocare al “Giorno”, gli disse che in una cella stava per avvenire un incontro tra i rappresentanti dei rivoltosi e un maggiore dell’Arma. Lui riuscì ad infilarsi nel luogo della trattativa e assistette al comportamento spavaldo del cosiddetto “conte Mino”, che dettava le sue condizioni e l’ufficiale che l’invitava a deporre le armi.

   Dopo un po’ di tempo sarebbe stato istituito il “777”, il numero della centrale della polizia (in seguito diventato “113”, che ogni giorno viene sopraffatto anche dalle telefonate più strane) sul modello londinese della “Flying Square”. Il primo mezzo a disposizione una Lancia Asturia. 
Le prime auto della polizia

   Non sfuggiva nulla a questa memoria inossidabile. Benzan ritornò sul tema delle bande del dopoguerra, dalla Banda Dovunque, che sembrava imprendibile e dotata del dono dell’ubiquità, a quella del bandito gentiluomo, che dopo l’assalto, uscendo, lasciava la… mancia al cassiere.  Nell’80 lo conobbi, questo signore. Avanzava verso di me un po’ claudicante e mi chiese di scrivere un articolo su di lui. Lo feci e dopo qualche giorno dall’uscita del pezzo fu invitato al “Maurizio Costanzo show”, per ripetere la sua storia. Una storia lunga senza mai una vittima, senza mai ostaggi, senza colpi intimidatori di pistole. Come normali operazioni bancarie. A proposito, mi disse Benzan al termine della conversazione: “Ricordi che cosa diceva Guglielmo Zucconi, prima direttore della ‘Domenica del Corriere’, poi del ‘Giorno’? Tre sono le ‘S’ che fanno vedere i giornali: “Sangue, soldi e salute”. “Sì, lo disse anche a me un gioco, mentre lo accompagnavo dal questore Marcello Carnimeo, il successore di Antonio Fariello. 

mercoledì 19 agosto 2020

Alberto Curti, un personaggio da ricordare

 

Fece il giro di mezzo mondo

in sella alla sua bicicletta

 

Alberto Curti sfoglia un libro

Scrisse quaranta volumi in cui raccontava

paesaggi, emozioni, persone, monumenti.

Durante i suoi viaggi spesso dormiva nei

fienili o sulle spiagge. Poi utilizzò una Fiat

Uno, che trasformava di giorno in sala da

pranzo e di notte da camera da letto. Lo

incontrai quando aveva 90 anni e ancora

la voglia di viaggiare.


 

 

 

 

Franco Presicci

Lo incontrai la prima volta nel luglio del 2008, nella libreria di viale Tunisia di Nicola Partipilo, chiusa da qualche mese non per scelta del titolare, ma per le condizioni che hanno fatto abbassare le saracinesche a tanti templi della cultura, compresa quella della Ca’ Granda, l’ospedale di Niguarda. Alberto Curti – di cui parlo - allora novantenne, stava chiedendo a Nicola se fosse disposto a pubblicare i libri da lui scritti al ritorno da suoi numerosi viaggi in mezzo mondo. 

Gianni Brera, secondo a destra, nella libreria di Partipilo,    secondo a sinistra    



Pur apprezzando il suo talento di narratore, l’editore gli dovette dire di no, perché la sua Celip, specializzata nella pubblicazione di volumi su Milano e la Lombardia, aveva già fatto alcune eccezioni, dando alle stampe tre volumi: “Mille ricette più una”; “I segreti del varietà” di Alberto Lorenzi; nel 1990 “Il lusso di sognare l’Italia” (tremila lettere di emigrati), di Annibale del Mare, personaggio di grande spessore, che il 22 ottobre del ’43 annunciò sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” il ripristino della libertà di stampa e tenne vivo il legame con gli italiani all’estero, per i quali creò parecchie ’iniziative: “La Nave del ricordo fraterno”, tesa a costituire piccole biblioteche in ogni Paese; nel ’48 la rivista “Cronache per l’Italia”… Io, che lo frequentai e sapevo che aveva fatto anche parte dell’ufficio stampa del governo Badoglio, ed era una persona discreta, appassionata del nostro mestiere, scrupolosa, appresi con dolore della sua morte, avvenuta in una clinica milanese nel 2011. 

L'editore Schena con Spadolini

Conservo gelosamente l’edizione di Schena, di Fasano, del “Lusso di sognare l’Italia”. Avevo questi pensieri mentre l’inesausto viaggiatore parlava con Nicola, mentre fuori la sua bicicletta era nei desideri di un malintenzionato, a sua volta controllato da un giovane commesso della libreria. La figura di Alberto Curti stuzzicò la mia curiosità, soprattutto quando disse che aveva macinato chilometri e chilometri a cavallo della sua due ruote e che alla sua rispettabile età aveva ancora intenzione d fare qualche pedalata. “Ho viaggiato tantissimo. Sono stato dappertutto: prima con la bici, poi con il motorino, poi con l’auto, e non sono ancora stanco”. Aveva scritto 40 libri sui percorsi attraversati, sulla gente che aveva conosciuto, oltre che suoi luoghi visitati, dal tempio di Abu Simbel alla Medersa Ben Youssef, la più grande scuola coranica del Maghreb. Gli chiesi un appuntamento e m’invitò a casa sua, in via Uruguay, 14, al Gallaratese. Impiegai più di un’ora in pullman, un paio di giorni dopo, per arrivarci, e lui aveva raggiunto viale Tunisia in sella in minor tempo. Mi mostrò i suoi libri dattiloscritti senza darsi arie, dicendo: “Ho fatto il giro del Mediterraneo su un velocipede, ho dormito su spiagge e in stalle. E ho visitato in lungo e in largo anche l’Italia, che è un autentico gioiello, di una bellezza incantevole. Non sono di quelli che corrono all’estero e ignorano ogni angolo della propria terra. Io viaggio per fare esperienza, per appagare la mia curiosità, la mia sete di cultura, di conoscenza…”. E riprese in mano una sua opera. “Ecco, se ha voglia di leggerli, li troverà interessanti: vi ho raccolto notizie storiche, dialoghi, sensazioni. Ho descritto paesaggi, personaggi, chiese, monumenti. A giorni ripartirò per andare in auto a Venezia, dove esporrò i miei libri in piazza San Marco, quindi a Firenze e a Roma”.

Enzo Biagi e Partipilo a sinistra
Era indeciso se piazzare un suo punto-vendita itinerante nella Capitale, vicino al Vaticano. Mi puntò gli occhi schermati da un bel paio di occhiali per catturare le mie idee. Aveva sempre un sorriso stimolante; era brillante, cordiale, spontaneo, Albertino il vecchio, come amava soprannominarsi. Era anche un po’ irrequieto. Era difficile vederlo seduto un momento. Pensavo: “Quanta passione in quest’uomo, piccolo di statura, ma ricco di umanità. Parla delle cose notevoli che ha visto in Algeria, Siria, Irak, Iran, Giordania, Israele, Grecia, Olanda, Svezia… scatenando l’immaginazione di chi ascoltava e la voglia di mettersi al volante e partire. “I viaggi mi hanno aiutato a crescere, ad amare di più il prossimo, ad apprezzare le bellezze incastonate sul nostro territorio. In Sicilia, per esempio, Selinunte, Agrigento, i siti della civiltà antica, le spiagge dorate, la natura. Dopo la Sicilia sentii anche il bisogno di andare a visitare gli altri scrigni archeologici, sparsi qua e là. Davanti a una colonna sentivo l’impulso d’inginocchiarmi, perché m’immaginavo la città alla quale era sopravvissuta. A Tagiura, in Libia, che vanta una bella moschea del ‘500, un italiano mi mostrò la sua azienda agricola, una vasta estensione di arena ricca di ulivi, vigne, alberi da frutto, orti., mentre un motore pompava acqua limpidissima succhiata da una grande cisterna e tutt’intorno lo spettacolo di un panorama gioioso”. Alberto il vecchio pianificava scrupolosamente le sue “spedizioni”. “Tappe irripetibili, ogni anno un Paese diverso, un nuovo mondo da scoprire”. E se sul suo cammino incontrava qualche difficoltà, non si scoraggiava: trovava sempre il rimedio. 

Il caldo (viaggiava durante le ferie, in luglio o in agosto) non lo abbatteva. “Bevevo cinque litri di acqua al giorno e misuravo le distanze non a chilometri ma a litri d’acqua: quelli necessari per raggiungere la località stabilita. Facevo 150 chilometri al giorno: 10 all’ora, perché non dovevo fare il Bartali, il Coppi o il Girardengo, dovevo contemplare, apprezzare i tesori a cui mi avvicinavo”. Con il tempo Albertino avverti qualche problema a pedalare; così applicò un motorino alla bici. “Durò un ben po’: fino al ‘92”, quando il viaggiatore decise di ricorrere a una Fiat Uno, che di giorno fungeva da camera da letto e di giorno da sala da pranzo. Aveva acquistato un fornello a gas e con quello si faceva da mangiare. “Sono un uomo libero: per me le comodità sono una schiavitù. Aprì le pagine di uno dei suoi libri, messi uno sull’altro: un pilastro eretto su un lato del tavolo, intitolato provvisoriamente: “La quarta sponda” (Libia), e lesse alcune righe di un capitolo: “La ballata del casco”. Disse: “Guardi, quante cartine geotopografiche, fotografie di statue, scene di vita quotidiana, paesaggi. Il povero è più generoso del ricco: il contadino mi dava la coperta e mi faceva dormire nel fienile; il possidente anche: mi offriva un letto di paglia e la coperta, ma voleva il mio passaporto. Una volta, al confine tra l’Algeria e la Tunisia un contadino espresse il desiderio di dormire la notte con me sulla spiaggia. Diffidando, nascosi la macchina fotografica, il binocolo, la radio a cuffia e i soldi sotto la sabbia su cui stesi il materasso; ma quello, volendo soltanto farmi compagnia, russò fino all’alba, tenendomi sveglio. Trascorsi una notte sulle cocenti sabbie di Abu Simbel con due coppie di francesi, che erano arrivate con me a bordo di un battello partito da Assuan. E sa che dispiacere dover chiudere gli occhi sotto quel cielo stellato?”. 

Nicola Partipilo
Lo ascoltavo volentieri, questo vecchio (“absit injura verbis”) che a 90 anni aveva uno spirito giovane. “Sono nato a Borgofortezza, in Romagna, Mio padre era un trovatello, raccoglieva la canapa con mia madre (erano stagionali)”. Venne a Milano quando aveva appena 9 anni. Poi trovò un posto come guardiano all’Alfa Romeo e fece studiare tutti e quattro i suoi figli”. Alberto Curti frequentò i corsi serali di ragioneria, e faceva 20 chilometri ogni sera, fra andata e ritorno, da viale Espinasse, dove abitava in una casa di ringhiera, a piazza Fratelli Bandiera. Fu assunto come impiegato dalla stessa casa automobilistica, ma voleva fare il maestro. Andò in guerra. Dopo 4 anni cominciò a viaggiare. “Ho preso da mio nonno, che probabilmente era uno zingaro”. Quando lo conobbi era rimasto vedovo, la bicicletta che aveva cavalcato per anni lungo tanti percorsi era finita nel suo “museo” degli oggetti carichi di storia ed era stata sostituita da una specie di “Graziella”, palpitando in lui ancora la voglia di riprendere i suoi viaggi. Intanto cercava un editore, esprimendo il desiderio di raccontare. Lo rividi un paio di volte, venne anche a trovarmi a casa, sempre pedalando, ma poi non l’ho più sentito. Ho perso anche il suo numero di telefono. Sarà ancora in vita? Gli uomini come lui non muoiono mai. Anche perché c’è sempre qualcuno, come me, che li ricorda come personaggi da scrivere nell’albo d’oro di Milano.









mercoledì 12 agosto 2020

Ricordo di Alberto Dall’Ora



UN PREMIO PRESTIGIOSO 
Alberto Dall'Ora

A UN PRINCIPE DEL FORO 


Nato a Verona, aveva onorato Milano e la sua città.

Stimato e amato e rispettato da tutti, primeggiò in molti processi importanti. 

Alla serata per la consegna del Premio “Le Porte di Milano”, presero parte tante alte personalità: magistrati, ufficiali dell’Arma. 

Il questore, il sindaco e molti giornalisti








Franco Presicci


Gresti e Dall'Ora
I meriti di Alberto Dall’Ora, principe del foro e docente universitario, nato nel ’23 a Verona e milanese d’adozione, erano molti: volò ad Alcamo, in Sicilia, per assumere gratuitamente la difesa della ragazza che, rapita e violentata il 26 dicembre del ’65, divenne famosa per aver rifiutato il matrimonio riparatore, mandando in carcere l’uomo che le aveva strappato l’illibatezza (era stata tenuta sequestrata per otto giorni prima in un casolare ai margini del paese, poi nell’abitazione di un familiare del rapitore), fu eletta a simbolo dell’emancipazione femminile, tra l’altro ispirando il film di Damiano Damiani “La moglie più bella”); il 9 settembre dell’85, in una memorabile arringa di quattro ore in tribunale sostenne l’innocenza di Enzo Tortora, il presentatore dalla cultura immensa e dalle altissime qualità morali; tre anni prima aveva intestato la biblioteca dell’Ordine degli avvocati milanesi, di cui era presidente, al collega Giorgio Ambrosoli, un “eroe borghese” ucciso l’11 luglio del ’79 dalle forze del male.
Uomo integerrimo, Alberto Dall’ora era famoso in tutt’Italia, amato e stimato dai suoi colleghi e dai milanesi. 

il discorso di Dall'Ora
Quindi la giuria del Premio “Le Porte di Milano”, sorto a sera del 9 giugno del 1986, con lo scopo di assegnare un riconoscimento prestigioso a un’illustre personalità che non avesse avuto i natali a Milano, non poteva che puntare l’attenzione su una figura come quella dell’esimio patrocinatore, che quando parlava, come ai tempi del duce Alfredo De Marsico, calamitava folle di appassionati. La giuria, della quale facevano parte, tra gli altri, Domenico Porzio, giornalista e scrittore, già capo ufficio stampa della Mondadori e assistente del presidente Arnoldo (“In primi piani” ha delineato la vita e le opere di grandi personaggi da Kerouac a Soldati, a Nabokov, a Guttuso, a Buzzati, a Moravia, a Chiara…), Piero Colaprico, giornalista e scrittore, oggi direttore della redazione milanese di “Repubblica”, fu unanime nel votare il nome di Dall’Ora e quando gli telefonai per dirgli che gli avevamo dato il Premio, ringraziò con la sua solita cortesia, promettendo che sarebbe venuto a ritirarlo, la sera della cerimonia di consegna. 
il Naviglio Grande
A quell’appuntamento furono presenti numerose autorità: il procuratore generale Beria di Argentine, il procuratore capo Mauro Gresti, il prefetto Enzo Vicari, il presidente del tribunale civile Alessandro Alessi, il suo vice Papi, il questore Antonio Fariello, il sindaco Carlo Tognoli, Gaetano Afeltra, già direttore del “Giorno” ed ex colonna del “Corriere della Sera” e del “Corriere d’Informazione”, Lino Rizzi, allora sulla plancia del quotidiano dell’Eni, il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo De Martino, alti ufficiali dei carabinieri, della finanza, magistrati, Piercamillo Davigo e Francesco Di Maggio, e tanti giornalisti della carta stampata e delle televisioni. Dopo la lettura della motivazione, letta dal segretario del Premio, che era il sottoscritto, Dall’Ora tenne il suo discorso senza toni enfatici, ascoltato in un silenzio totale. Alla fine i rappresentanti della stampa, che lo ammiravano, in attesa degli spaghetti all’aragosta, ricordavano alcune sue arringhe, tra cui quella nel processo all’americana Terry Broom, accusata dell’assassinio, avvenuto la sera del 24 giugno del 1984, di Francesco D’Alessio, figlio del re degli ippodromi (la donna, fermata a Zurigo pochi giorni dopo nell’Hotel Bahnpost, a due passi da Casermstrasse numero 5, estradata e accompagnata in Italia dal vicequestore Enrico Macrì, capo della sezione omicidi di Milano, e da tre poliziotti svizzeri, venne arrestata a Chiasso dagli uomini della Squadra Mobile). 


Di maggio, Fariello, Abruzzo
Insomma Alberto Dall’Ora era un personaggio di altissimo livello e aveva onorato Milano e la città di origine. A lui sarebbe andato anche il Motta, dedicato alle persone che hanno fatto grande il capoluogo lombardo, se quel Premio fosse sopravvissuto. Fece in tempo ad averlo Gaetano Afeltra, che dalla sua Amalfi, come ricordava il grande critico letterario Giuliano Gramigna, era arrivato nel ’38 sulle sponde del naviglio. E se l’altro Premio, “Le Porte di Milano”, non avesse avuto una vita breve, per ragioni che non starò qui a spiegare, c’erano tanti altri nomi che avrebbero potuto averlo, a cominciare dal Nobel Eugenio Montale, che tra l’altro dalla sua casa di via Bigli rispondeva spesso e volentieri alle domande dei cronisti nelle grandi occasioni, come per esempio quando uscì il film su Garibaldi, caro a Bettino Craxi. 

Gaetano Afeltra e Carlo De Martino
La giuria pensava anche a Raffaele Carrieri - tarantino come Porzio – poeta e critico d’arte (scriveva su “Epoca” e sul “Corriere”) definito da Giacinto Spagnoletti moderno picaro; a Paolo Grassi – alla memoria – morto a Londra il 14 marzo dell’81 - di cui Porzio scriveva: “Sotto la coperta di pelle di guanaco, il suo corpo è irrequieto, insofferente: non è abituato a starsene a letto". Un mucchio di riviste, libri, programmi scaligeri per terra: cinque, sei giornali sui cuscini (federe bordate di beige come il lenzuolo), gli occhiali e il telefono su un tavolino a portata di mano…”; al camilliano Ettore Boschini, per tutti fratel Ettore, classe 1928, origini mantovane, che fino a una trentina di anni prima girava per Milano alla guida di un’auto rantolante con una statua della Madonna di Fatima sul tetto, per compiere la sua opera di carità. 
Nel suo rifugio di via Sammartini, che fu visitato anche da Madre Teresa di Calcutta, evento immortalato su una targa che campeggia sulla porta, di fianco all’uscita di un tun
Lo scrittore Porzio e il professor Garattini
nel della stazione Centrale, accolse tante persone senza tetto, immigrati compresi, fornì loro da mangiare e un cambio di vestiti scelto dal mucchio donato da gente caritatevole. Dormiva nella clinica Pio X di via Nava, ma passava infinite ore sulla strada. Anni fa fui ricoverato in questa clinica, il prete che venne a benedirmi gli riferì della mia presenza e lui piombò nella mia stanza per illustrarmi un progetto da realizzare. Il suo fervore mi coinvolse e gli dissi di lasciarmi le carte sul comodino. 


Poi quel Premio, che era stato esaltato da tutti gli organi di stampa non soltanto milanesi, finì su un binario morto. Le speranze che qualche “sponsor” illuminato gli desse nuova vita, naufragarono definitivamente. Un editore giornalista, che sfornava diverse riviste e aveva fatto parte della giura offrì la terrazza della sua sede nel centro di Milano per le riunioni della giurìa e per la serata della consegna (aveva approntato decine e decine di sedie da regista), ma l’ideatore dell’iniziativa aveva perduto l’entusiasmo. Peccato. La seconda edizione era stata assegnata al professor Silvio Garattini, bergamasco, fondatore e direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, libero docente in Chemioterapia e Farmacologia, autore di centinaia di opere scientifiche, definito “missionario laico consacratosi alla scienza”. Anche quello fu un evento di grande respiro, che provocò anche la sfioritura di un amore: un noto e bravissimo collega aveva promesso alla fidanzata renitente che avrebbe fatto soltanto un’apparizione a quella festa, ma poi, affascinato dalla conferenza che il premiato tenne per un’ora (tutti pendevano dalle sue labbra), vi rimase per l’intera serata, dimenticando l’impegno preso. Il caporedattore di un quotidiano, che era lì come semplice invitato, come tanti altri colleghi, telefonò al giornale per dire che l’articolo voleva scriverlo lui, sottraendolo al cronista.
Opera di Cortina


Io sognavo un’edizione per Alda Merini, anche se la poetessa dei navigli diceva di non amare più Milano come una volta. Il premio si spense prima, sorprendendo e amareggiando tutti. Evidentemente chi lo aveva sostenuto non aveva la stessa passione di Alberto Pepori, che nel suo ristorante, Bagutta, sorto nel 1924, dotato fra l’altro di un giardino di notevole bellezza, e opere di artisti affermati appesi alle pareti, tra cui quelle di Vellani Marchi, ha ospitato per decine di anni l’omonimo Premio fondato da Orio Vergani e altri per il libro più bello. Vita più lunga aveva avuto il Premio Milano di Giornalismo, che si svolgeva nel locale “La Porta Rossa” di Chechele e Nennella, nei pressi della stazione Centrale. Molte personalità ambivano a prendere parte alla premiazione e molti altri a ricevere il riconoscimento. Anche quella giurìa comprendeva nomi importanti, dal poeta e giornalista Alberico Sala al gallerista Renzo Cortina, autore di “Horca miseria”, che parafrasava “Horcynus Orca” di Stefano d’Arrigo, a Ugo Ronfani, vicedirettore del “Giorno” e scrittore, a Vincenzo Buonassisi, apprezzato critico gastronomico, come Edoardo Raspelli, che oggi sull’argomento conduce su Canale 5 una interessantissima trasmissione…. Ci sono Premi che resistono al tempo: qualcuno muore addirittura quando è ancora in fasce.

martedì 4 agosto 2020

Fu l’ultimo impiccato di Milano



Antonio Boggia dal libro della Meravigli
COLPEVOLE DI QUATTRO OMICIDII

CONSIDERATO TUTTO CASA E 

CHIESA


Antonio Boggia, nativo di Urio, centro

del Comasco, uccise con l’accetta per

sete di denaro. Salì sulla forca il 17

aprile del 1862, alla presenza di molti

spettatori, che poi andarono a giocare

i numeri al lotto.






Franco Presicci
Già la sua faccia incuteva paura: dura, inespressiva, occhi truci, il naso appuntito, abbigliato con tabarro nero: figura tipica dell’assassino, secondo la classificazione di Cesare Lombroso. Sto parlando di Antonio Boggia, nato nel 1824 a Urio, agglomerato di case sul lago di Como, a un tiro di schioppo dal confine con la Svizzera. Le prime volte in cui debordò nel codice penale fu una truffa e un fascio di cambiali non pagate. Per scampare alla galera fuggì, ma fu nuovamente acciuffato per reati di rissa e tentato omicidio. Evase per rientrare nel Lombardo Veneto, quindi venne a Milano, dove fu assunto come fuochista a Palazzo Cusani, che ospitava il Comando austriaco. 

Il naviglio in una vecchia stampa
E prese casa in via Gesù, già antico borgo del Gesù, la terza a sinistra dal salotto da via Monte Napoleone, oggi il salotto di Milano. Ma la cella non gli mise la testa a posto, anche se reggeva il baldacchino nelle processioni. Compì quattro omicidi, che lo portarono alla forca. Avvenne il 17 aprile del 1862 in una piazzuola tra le porte Vigentina e Lodovica. Non lo pianse nessuno. Era noto come il mostro di Milano. E quando qualcuno aveva comportamenti inaccettabili si diceva: “Re set un Boggia”. Giovanni Luzzi, nato nel 1901, ai tempi il più giovane laureato d’Italia, in giurisprudenza, milanese di origine emiliana, studioso di psicologia giudiziaria e di filologia, nel ’43 raccontò nei particolari la storia del personaggio e delle sue nefandezze del “Giallo della Stretta Bagnera”, pubblicato dalla Libreria Meravigli, e ripresa da Daniele Carozzi in uno dei capitoli di “Non si ammazza solo il sabato” (parafrasi di un romanzo di Giorgio Scerbanenco: “I milanesi ammazzano al sabato”), uscito per i tipi di Sartorio. Ed eccola, nei particolari, questa storia, iniziata nel 1849, quando Angelo Serafino Ribbone, nativo di Casciago, un centro nel Varesotto, orfano di entrambi i genitori e sempliciotto, giunse a Milano all’età di 16 anni. Erano i tempi – spiega Luzzi – della prima immigrazione di “foresti” provenienti dalle zone a nord della città e dalla Brianza e dai laghi della Bergamasca, che il popolino chiamava “bosini”, per il fatto che “Bosino” era la fascia che si estendeva tra Milano e Saronno. Questi braccianti si ristoravano all’Osteria dei muratori, con un cartoccio di “repubblica”, avanzi di salumi. Qui Angelo Ribbone incontrò il Boggia, che allora aveva una trentina d’anni, tutto casa e chiesa per chi riteneva di conoscerlo bene, che lo prese a lavorare con sé in un’impresa prossima al fallimento. Il capomastro cambiò città in attesa dell’amnistia e l’allievo fu preso come aiutante di uno spaccalegna che forniva di ceppi da ardere al comando militare di via Cusani. Il principale morì e Angelo Serafino prese il suo posto con un compenso di tre “svanziche” al giorno. Quindi, tutto contento, pensò di essere ormai in grado di chiedere la mano di Rosetta, la figlia del droghiere Bosisio. Aveva accumulato 1400 svanziche, che aveva affidato a una cugina che stava a Casciago.

Via Nerino
Rosetta non ne volle sapere perché il ragazzo non rispondeva ai suoi gusti e lui, afflitto, andò a consolarsi dal Boggia, che, rientrato a Milano, era alloggiato in via Nerino, nome derivante da un canale più piccolo del Nirone, che fluendo sul lato della via si portava via i rifiuti. E lì, confidenza dopo confidenza, ingoiando qualche calice di troppo, fece accenno ai suoi risparmi. Il Boggia gli consigliò di andare subito a riprendersi il capitale, forse facendogli balenare la possibilità di un affare. Ma Angelo non se la sentì di fare offesa alla parente. Il giorno dopo il Boggia andò con un carretto al comando militare e disse che, essendosi l’uomo dei ceppi trasferito a Lodi, doveva ritirare la sua roba. E per essere credibile esibì una procura che lo autorizzava a rappresentarlo, occupandosi dei suoi interessi. E si diresse a Casciago. Ma la cugina, Maria Mentasti, non si lasciò ingannare e si rivolse al pretore di Varese, che, visto l’atto, volle un documento specifico. 

In fondo l'odierna via Bagnera
Boggia ottenne anche quello e il malloppo passò di mano. Il 13 gennaio del 1850 a un’asta pubblica avvicinò il mediatore Giuseppe Marchesotti, che amava la bottiglia e le donne avvenenti, e gli propose un affare in una vendita privata. Marchesotti accettò e il 15 si avviarono verso via Morigi - già contrada della torre dei Morigi, dalla dimora di una famiglia patrizia – luogo dell’incanto. Durante il percorso Boggia volle passare prima dal magazzino, che era a due passi, alla stretta Bagnera, per mostrare degli scaffali in legno. Otto giorni dopo all’Osteria del Ponte Vetro, si ritrovarono Angelo Marchesotti, fratello di Giuseppe, e due suoi amici. Seduto a un tavolo c’era Boggia, che accusò il mediatore di essere sparito per non restituirgli cospicue somme. Nel marzo del 1851, all’osteria dei “Tre Scagni” il comasco incontrò il fabbro Pietro Mezza, detto il “bauscia” (in milanese bava), che aveva bottega al Carrobbio, in fondo a via Torino (da “Carruvium” degli antichi romani che vollero la zona bella e spaziosa). L’uomo, che era vedovo e vacillava tra l’assillo dei creditori e la latitanza degli esigui debitori, chiedeva un sostegno per scansare il naufragio; e il Boggia fornì la scialuppa (si fa per dire): il magnano, il fabbro, doveva salirvi e andare, per schivare l’assillo di ogni pretesa, ad impalmare una sua cugina, di nome Liberata, a Urio, dopo avergli rilasciato una procura e riparato una serratura nel magazzino della stretta Bgnaera. Scomparso il Meazza, Boggia alienò l’officina, intascando il ricavato. 

Via Santa Marta
Ma non finì qui: Ester Maria Perrocchio, una vecchia arzilla, settuagenaria e un po’ maniaca, titolare dello stabile di via Santa Marta 10, bigotta e superstiziosa, ingobbita, non amante del prossimo, ma di gatti galline e piccioni, viveva da sola in quattro stanze al secondo piano, dal giorno in cui il figlio, Giovanni Maurier, aveva sposato una ragazza che le stava sullo stomaco e se n’era andato a vivere con lei nel sobborgo di San Cristoforo sul Naviglio, dove lavorava nella fabbrica di terraglie del cavalier Giulio Richard, come pittore di porcellane. In quei giorni i milanesi erano preoccupati, temendo sconvolgimenti e danneggiamenti per la guerra, e la vedova Perrocchio aveva sofferto molto. Una mattina Giovanni, non vedendola da un po’, andò per farle visita e la portinaia gli riferì che aveva fatto fagotto e si era trasferita a Como, nominando capomastro e amministratore dei propri beni il Boggia. Sorpreso, incredulo, lo cercò, e questi gli assicurò di non sapere dove si trovasse la donna, di cui aveva eseguito le disposizioni. Aveva anche fatto strage dei pennuti e dei polli. Il 16 gennaio del 1860, Maurier denunciò la scomparsa, ma il Boggia aveva mostrato alla polizia documenti ritenuti inoppugnabili; e rinunciò all’idea di mettere in vendita gli appartamenti. Ma per lui la trappola era dietro l’angolo. Aveva architettato una serie di inganni e cominciava a capire che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: scoperto, arrestato, interrogato, confessò di aver ammazzato con l’accetta Ribbone, Marchesotti, Meazza, la Perrocchi, occultando i corpi nello scantinato della sua abitazione, nella stretta Bagnera.

Banco lotto
Alla sua esecuzione assistette una gran folla. La corda che lo aveva strozzato, fatta a pezzi, andò a ruba. Poi tutti alla ricevitoria del lotto a giocare i numeri penso 44, l’omicida; 18, il sangue; 4 i morti ammazzati; 11, l’impiccato; 80, la folla). Pochi mesi dopo – informa Luzzi – venne istituita la Corte d0 Assise. La stretta Bagnera è ancora su una targa stradale nei pressi di via Torino. E c’è ancora la chiesa, da dove usciva la processione con il Boggia che reggeva, con altri tre, il baldacchino. Raccontata la storia, che fa venire davvero i brividi, mi pare doveroso accennare a Giovanni Luzzi, che non ha smodato soltanto le vicende di colui che per anni e anni dopo i fatti fece parlare Milano e non solo. A Luzzi, tra l’altro appassionato cultore del dialetto milanese, si devono raccolte di poesie (“I cinquanta sonett del Padrin Pepiatt”, “Milan e poeu pu” …), commedie, in lingua e in dialetto, come “L’avvocat di lader”; e anche “Parla el tassista” e “Parla el Luisin tassista”. Data la sua attività di avvocato penalista, incontrando molti malavitosi, conosceva il loro linguaggio e compose un dizionario del gergo della malavita milanese: “Inscì parla mala”, edito nel 1982 dalla Libreria Milanese. “Il giallo delle stretta Bagnera” è il frutto di anni di ricerche ed è ricco di dettagli, descrizioni di ambienti e personaggi. Si legge con piacere. Molte le espressioni dialettali disseminate nelle pagine: “Hop, hop, va à Pinella”, “Offelèe fà el tò mestèe”, “Ciappa su che te l’hemme fada!”.