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mercoledì 26 ottobre 2022

Una scrittrice in erba simpatica

IL SUO PRIMO LIBRO PRESENTATO

NEL MERCATO DI PORTA ROMANA

 

 

 

 

 

Durante la cerimonia aleggiava la

voce di Giorgio Gaber, che a quella

Porta di Milano dedicò una canzone.

Serata bella,  divertente, appassionante

 

Franco Presicci

Porta Romana bella Porta Romana: aleggiava l’altra sera nel mercato della zona la voce di Giorgio Gaber; mentre alle 18 la gente faceva la spesa fra peperoncini piccanti appesi fra luci policrome e cime di rapa e in un angolo andava in scena la presentazione di un bellissimo libro di Emma Sedini, “Risolatte a colazione”. 

Ingresso del mercato
L’autrice, una ragazzina di 22 anni, spigliata, velocista della parola, determinata, vulcanica, elegante, una coppola alla Enrico Montesano a “Ballando con le stelle” sui capelli biondi, sorriso aperto, dolce, schietto, che fioriva all’inizio delle domande e si spegneva al termine delle risposte. Che non sconfinavano mai ed erano sempre efficaci. Emma Sedini, per gioco, si definisce Giamburrasca, e non le crede nessuno. Tra il pubblico ha diffuso una ventata di simpatia: ha fatto ridere ed emozionare e anche divertire. Vuol dare l’impressione di essere un po’ sbarazzina, invece dev’essere scrupolosa e volitiva, studia “management per i beni culturali” alla Bocconi e tra un libro di economia e l’altro ha scritto il suo, dove presentandosi alla sua maniera dice di essere nata nel “capoluogo del risotto allo zafferano e della schiscetta… quando il calendario ha sostituito dopo un millennio la sua prima cifra. “Un momento, manca l’ingrediente segreto di ogni ghiribizzo creativo: quella metà di sangue etrusco dovuta alle origini perugine che rimandano al dialetto del Lago Trasimeno”. Bene, messa da parte la seconda guerra punica, sostiene di essere una specie rara e curiosa. Animale mattutino, solitario, dall’aria squisitamente pittoresca (l’aggettivo torna spesso nella sua tessitura linguistica: n.d.r.). Ama i toni pastello, il gusto vintage e i dettagli naturali. Si nutre quotidianamente di pane con lievito madre di segale…Sono parole sue, non ci metto lingua. E’ un po’ cangiante: “Un giorno si sveglia pittrice, quello dopo stilista, scrittrice o illustratrice-… “.
 
Banchi con peperoncini appesi

E a giudicare dalle illustrazioni che danno più luce al suo libro, devo dire che ha anche una mano felice, oltre a una penna galoppante, una scioltezza di stile. E’ piacevole seguirla anche nell’autobiografia. Gioisce pedalando per le vie di Milano, magari anche per esplorarle, visitando i vecchi negozi, la natura, le cose autentiche di un tempo, facendo la spesa, conversando con chi sta oltre il banco, ammirando i colori e le forme del punto-vendita. “Ci vado, vedo una cosa strana e voglio comperarla, per scoprirne la storia, le caratteristiche”. Se vede un’opera d’arte è interessata ad andare oltre, individuare la personalità dell’artista e apprenderne la vita, le vicende, i peccati e le virtù. Emma è una persona creativa, ama scrivere e dipingere per riempire – dice - la quotidianità. Il risolatte è come una tela bianca per legare il mondo delle favole e quello dell’arte”. Dipinge ogni giorno, quindi cibo e arte sono ricorrenti, nella sua vita. “Gli ingredienti per me sono un libro aperto”. Non si sottrae ad alcuna domanda. E’ schietta, limpida, trasparente come un fiume incontaminato.

Il fronte del mercato di Porta Romana
Mitraglia le risposte come avesse un gobbo invisibile davanti, e indica più volte il nonno Sergio, “senza il quale io, la risolartista, non avrei mai imparato a disegnare”. Un mito è per lei, il nonno. Uomo alto, in forma, empatico, In gioventù ha giocato nel Milan e conserva uno stile atletico. Classe 1933. Al termine della cerimonia lo aggancio per fare due chiacchiere, e sono due davvero, per ricordare Nereo Rocco, centrocampista, prima e allenatore dopo e per inneggiare all’anno che ci arresi coetanei. Donato Abbascià, fratello del grande, indimenticabile imprenditore Dino, che ho abbracciato quando l’ho pescato fra il pubblico, ha un bel po’ di anni in meno, ma non lo ha confessato per vanto. Il nonno, e la nonna? Ginia, cuoca, ha, come dice la nipotina, colorato la sua infanzia di Linguine con la sua “Conserva”’ e le ha trasmesso il piacere di fare la spesa nei posti giusti. “Per lei andare a fare la spesa non significa il carrello tra gli scaffali del supermercato (o meglio non solo). Piuttosto, si traduce nel passeggiare davanti ai banconi scintillanti e brulicanti di delizie dei negozi del centro. 
 
Lenoci, Emma Sedini e Erika Dosso

Il ‘Peck’ rimane il suo preferito…”. Si sono avvicendati spesso, i nonni, nel suo dialogo con Erika Dosso, che scavava nella sua personalità. Ma non poteva mancare, anche tra i personaggi del libro, la mamma, Monica, “a cui piace moltissimo il cioccolato, e non è difficile intuirlo. Cioccolato in tutte le se forme. A partire dai biscotti, i frollini al cacao, con farina semintegrale biologica. Da quando li ha scoperti (circa un paio di anni fa) sono diventati i compagni inseparabili di ogni suo caffè del dopo pranzo. In effetti già solo il colore le si addice: l’impasto di quei biscotti racchiude tutte le tinte dei suoi capelli”. Il cacao, poi, è legato ai suoi bei ricordi d’infanzia: quelli che hanno il sapore di pane e nutella… “Il cacao infine si riconduce al budino al cioccolato, uno dei dolci fatti dalla nonna Ginia”. Queste pagine seducono l’attenzione e la curiosità; ti deliziano, ti rinfrancano. Che spasso! “A sentir parlare di quel composto gelatinoso e ondeggiante subito drizza le orecchie (Monica: n.d.r.) e prepara il cucchiaino. Sarà anche qui il colore che si intona con i capelli o, forse, quella consistenza morbida ed elastica. Mistero. Sta di fatto che il cacao, e i frollini al cacao di conseguenza, parlano di lei più di tante parole…”. Seguono l’elenco dei meriti di Monica e una birichinata dell’autrice: “La mamma è anche lo chef di casa. E’ lei ad essere dietro ogni tavolozza cucinata a pranzo e cena… In realtà ciò che accade nella cucina di via C.A. è un’opera d’arte collaborativa. E’ la figlioletta ad avere le idee, e la mamma a renderle concrete...”. L’avevo detto che Emma, pur così simpatica da entrarti subito nel cuore, qualche volta infilza soavemente le parole con sciabolate da ribalta. Concludendo, da figlia modello, ecco una qualità molto rara, ma che caratterizza proprio la mamma Monica: la sua sensibilità profonda e sottile, capace di cogliere e apprezzare anche le piccole cose quotidiane. E il babbo, Antonello? Beh, lui non comincia bene la giornata se non ha i suoi frollini integrali da riempire di marmellate di pesche. E’ convinto che fanno bene, anzi che sono biscotti che fanno meno male degli altri. Antonello è un signor ingegnere, uno spirito calmo che ama fare le cose con altrettanta calma., perché ama farle nel miglior modo possibile. Tanto che certe cose come le fa lui non le fa nessuno. Uomo poliedrico, è pronto ad intervenire in ogni emergenza: il rubinetto s’incapriccia, la lampadina è affetta da fremiti e lampeggia a singhiozzo, il televisore agonizza? C’è lui, il pronto soccorso di casa. Ma non chiedetegli di dissetare le piante. E’ bravo ad aggiustare i fornelli, ma non ad usarli. Che birba! Dispensa zucchero e sale...

Altro aspetto del mercato
Quindi attenzione! Il papà, oltre che un professionista di talento, è a sua volta un artista. Si racconta (“e se ne vedono testimonianze per casa) della sua antica passione per gli acquerelli. Oggi non lo si vede mai con i pennelli tra pollice e indice, ma si sospetta che sia stato proprio lui a imprimere l’amore per l’arte alla figlia scrittrice. Questo libro, mentre lo assapori, ti rende, ripeto, gioioso. Non riesco a deporlo neppure per andarmi a sedere a tavola, dove gli spaghetti con il sugo fumano e aspettano. Queste pagine mi hanno catturato; mi hanno coinvolto in un viaggio affascinante nel mondo di questa giovane autrice, che – dice - ha trovato per caso il suo editore, non ancora trentenne, Paolo Giacovelli, già barbitonsore, e oggi anche assessore a Locorotondo, il paese di Giuseppe Giacovazzo, che fu direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno e realizzatore del primo documentario a colori per la tv. Anche qui Milano e la Puglia si stringono la mano, come ha detto Francesco Lenoci che l’altra sera ha preso la parola al Mercato di Porta Romana per dire la sua sul libro e sull’autrice allieva e lui docente in università diverse.
Enzo Rocca e Ema Sedini
Una serata “sui generis”, che ha avuto come presenze importanti Enzo Rocca, già vice direttore generale di un istituto di credito, ed eccellente fotografo, e professionisti di rilievo. A proposito, dopo la lista dei pregi e dei difettucci di nonni, papà e mamma e del bassotto Artemisio, ecco nel libro anche il profilo della risolartista: fa colazione ogni mattina con una ciotola di risolatte, solo stimolatore del suo spirito pittoresco e della sua creatività. Ma per darle i colori necessari (anche i colori sono dietro l’angolo per sbucare sovente in questi racconti, che si snodano tra una fantasia feconda e una realtà quotidiana) sono necessari ingredienti giusti. Il suo risolatte non è di quello comune, ma di un tipo particolare, cioè latte che viene da mucche che pascolano su prati fertili costellati di fiori di montagna… Poi la frutta di stagione, che cambia a seconda dell’estro del momento. “Passiamo alle note dolci e zuccherine dalle deliziose sfumature dorate. Miele d’acacia, miele millefiori, miele di castagno. Sono queste le varianti sinfoniche da cui poter pescare con il cucchiaino”. Insomma, anche il libro è una tavolozza. Emma è attirata dai negozi storici, come quello di Mazzolari, negozio magico di ieri che continua a procurare fragranze nella Milano di oggi. Adora la vecchia Miano come Alberto Lorenzi e Guido Lopez, Alfonso Gatto e Gaetano Afeltra. Adora Brera, “il vero ambiente naturale degli spiriti creativi, che gironzolano ad ogni ora del giorno, e in piena libertà”. Oggi meno di ieri. Negli anni Cinquanta lì potevi incontrare Guttuso, Quasimodo, Confalonieri, Kodra e persino Mussolini, che ogni mattina passava dal bar Giamaica. La risolartista ha anche un po’ giocato, in queste righe. Le piace giocare con le geometrie della vita che osserva dal balcone di casa. Quando deve fare la studentessa e aspirante businesswoman, resta china sui libri, di economia, ma anche di arte e cultura anche l’intera mattinata. Quando invece deve indossare i panni di risolartista si dà “alla pazza creatività”. E scrive anche della sua casa, un luogo pittoresco abitato da persone pittoresche; e quella dei nonni, che più che una casa è un museo, comprendente anche una raccolta di piatti Petit Fleur. Da qui ai Racconti: “Il primo Gelato in barattolo rosa pastello (compostabile)”; “Il primo giorno di lavoro”; “Un mazzo di fichi fioroni”; “il mirtillo del banchiere”, “Un saluto al sole color albicocca…”. Quanta inventiva e quanto talento in questa gemma di 22 anni, capace di dipingere anche le parole, d’infiorettare i discorsi, di ricamare frasi, di dire solo l’essenziale nella descrizione di persone e ambienti. Un plauso anche all’editore, Formica di Puglia.







mercoledì 19 ottobre 2022

Il mercatino delle pulci della Salinella

U “CURRUCHELE” CON LE “AZZUGNATE”

VALEVA DI PIU’ DI QUELLO INTEGRO

Viale Magna Grecia

Erano il segno delle sconfitte, ma anche

delle volte che aveva combattuto. Le aveva

anche date e le tracce le portava l’avversario.

Quanti ricordi fluivano al mercatino nei pressi

di viale Magna Grecia. Tanti ne scorrono

anche oggi.


Franco Presicci

La prima volta che andai alla Salinella cercavo delle chiavi vecchie: soprattutto quelle con il buco dietro, che, durante la mia adolescenza, riempivamo di teste di fiammiferi a legno, lasciando lo spazio per un chiodo da conficcarvi, legavamo uno spago alle due estremità, reggendolo, spingevano il congegno contro un muro e provocavamo uno scoppio. Un gioco che facevo quando difettava la sorveglianza della nonna, che di solito sferruzzava stando alla finestra. “E’ pericoloso”, cantilenava; e io facevo orecchio da mercante. Quando, ormai grande ed emigrato al Nord, seppi che alla Salinella la domenica si svolgeva un meratino delle pulci, durante i miei soggiorni a Taranto, ci andavo.

'a levòrie

Un giorno acquistai una decina di chiavi di ogni dimensione da aggiungere, nel box, alle altre cose di fronte alle quali mi soffermo con nostalgia quando sto per sedermi in macchina. L’oggetto che mi interessava più di ogni altro era però la “livoria”. Ispezionai ogni bancarella e non trovandovene traccia, interpellavo i venditori sperando che la potessero reperire. “Na’, e ci l’hà’ viste cchiù, ‘a levòrie?”. Ce stè’ arruccàte ‘mbra le zazzarèddere de ‘ngorchedune jè ‘nu meràcle; e no nge t’a dè’: pùre pe’ ijdde jè ‘nu recuèrde. Mìttete l’arne ‘mbàce, sìnd’a mmè?”. Un vecchietto basso, un po’ ricurvo, quasi calvo, mi si avvicinò guardingo e mi sussurrò: “Je sàcce addò pòzze acchiàrle e sàcce pure ca còste armène cìend’èure”. E promise che me l’avrebbe portata la settimana successiva. “Ne ‘ngundràm’acquà stèsse”. Ma dovetti ripartire e detti l’incarico a un mio parente, descrivendogli il tipo della persona e il luogo convenuto. Ricevetti promesse aleatorie e capii che dovevo rinunciare. Soprattutto le grosse sfere d’acciaio erano merce rara. Nel dopoguerra era più facile trovarle, perché venivano, mi dissero, dai cuscinetti delle ruote dei camion americani; ma oggi tutt’al più da un meccanico puoi ottenere palle di metallo molto, ma molto più piccole. E ne ho un bel po’. Spesso osservo le foto che compaiono su Facebook, con persone sui cinquant’anni o giù di lì e giovanotti con le la paletta di legno in mano pronti a lanciare la propria palla contro quella avversaria o verso “’a schìgghie”, tra le reti e le barche della città vecchia.

Taranto di notte
Sono immagini d’epoca, postate anche da Antonio De Florio, tarantino doc., in “Foto Taranto com’era”, facendole seguire da foto recenti, da video pregevoli e da cartoline illustrate di tanti anni fa, scovate chissà dove. Questi preziosi rettangoli di carta erano allineati anche sui banchi della Salinella, protette da buste di cellofane. E la gente vi si assiepava più che alle postazioni con “capase”, “vrascère”, “brustelatùre”, “scarfalìette” “‘na ‘ndìcchie sciangàte, “strecatùre”, “attacapànne”… C’era anche un banco disseminato di accendini di tutte le forme: sedie, poltrone, bombole, barattoli con la scritta “Coca Cola”, macchine fotografiche… Tra fumetti e libri da “souspense” della Mondadori (copertina gialla, autori Jean Sareil, Collin Vilcocs, Agata Christie, Freda Hurt…) capitavano testi scolastici importanti, come i due volumi della “Storia della Letteratura Latina” di Concetto Marchesi; e della “Letteratura Greca” del Perotti, a un euro ciascuno e, a 8, qualche vocabolario dell’Istituto Geografico De Agostini. E se si era fortunati, ci si poteva imbattere in un compagno di giochi di cui si erano perse le tracce, se non addirittura la memoria; o in un lontano parente. Mi capitò una domenica di sentirmi battere una mano su una spalla: “Sei…?”. “Sì, sono io”. “Io sono… Madò’, t’hàgghie sùbbete recanusciùte, no ng’jè cangiàte pe’ nìende… Tànda vòte t’hàgghie penzàte e decève ce sàpe ce fìne hà’ fàtte?”. E si ridestò un mondo di giochi di strada fatti assieme, “’u spezzìedde”, “le cinghe” pètre, le corse dietro il cerchio di legno spinto da una mazza; mentre riprendevamo lo slalom fra le bancarelle, arrivando a quello che proponeva gabbie e canarini.
 
All'ombra degli alberi, a Taranto
Alla Salinella ho trascorso parecchie ore, anche soltanto per curiosità. Passavo da un punto all’altro, sbirciavo la gente che acquistava e quella che consultava senza spendere, forse non per tirchieria ma per incertezza sugli oggetti esposti. Un giorno un signore imponente, barba e baffi umbertini, un bastone con il pomo a testa di lupo, occhiali scuri, giacca e cravatta, cappello di Panama, passo lento, una sorta di nobiluomo vecchio stampo, figura fuori posto in quel contesto, cercava un giocattolo di latta, con una rana a corda che girava senza mai uscire dalla pista. Lo aveva chiesto a un venditore che tra l’altro proponeva radio e radioline, fra cui una dotata di giradischi, di quelle che dopo la guerra aveva fatto ballare nelle feste in famiglia (si smontava il letto matrimoniale e si creava la pista) . Al signore fu risposto: “Ho tutto quello che vede, di latta: i due trenini che entrano e escono dalle due gallerie, il ragazzo che va in bicicletta, le farfalle… Tutto come se fosse nuovo”. Lui cercava proprio quello che aveva chiesto e basta. E riprese il passo con una lentezza da tartaruga. Pochi giorni or sono ho chiesto a un mio amico molto disponibile se mi poteva accompagnare alla Salinella. Volevo cercare una maschera antigas, di quelle che indossavano i capifabbricato al sibilo della sirena durante la guerra.
 
Concattedrale

“Il mercatino? Quale? Ah, quello della Salinella. Sono anni che non c’è più. Non mi domandare il motivo perché lo ignoro. Anch’io lo frequentavo, perché mi piacciono le ‘cipolle’, quegli orologi che i nostri nonni portavano sul gilet fra un taschino e l’altro: ne ho una piccola collezione, di scarso valore, di quelli che vendono gli extracomunitari. Qualcuno è fermo e non ho voglia di cambiare la batteria. Li ho comperati tutti lì, alla Salinella”. Mi è dispiaciuto. Ero attirato anche dall’ambiente pittoresco, dalla parlata dialettale…

Taranto
 
 
 
Il mercato dell’antiquariato che allestiscono ad agosto a Martina, è prestigioso, ben dotato, ma meno popolare, con venditori che arrivano da ogni parte e oggetti in buone condizioni: lo scrittoio o il cassone antichi, i lumi a petrolio decorati, le culle a dondolo…. E anche lì cartoline illustrate, libri, oltre a una vecchia moto e a un lampadario Liberty…. Anni fa era in bella vista una carrozza ben tenuta, bianca, la scritta “Non toccare”: un gioiellino, che mi ricordava quella che veniva ricoverata in un piccolo locale vicino casa mia, settant’anni fa, il cui conducente, quando passò ad altra vita, venne portato via con il carro dell’”Amore di Dio”, come diceva allora il popolino. La moglie, che qualche volta saliva con lui in cassetta, la chiamavano contessa per il suo modo di vestire. Sono molto legato a quel tempo e ai personaggi che lo popolavano. Ricordo i monopattini di legno che si facevano da sè i ragazzini (qualche sopravvissuto l’ho intravisto proprio alla Salinella); “’a cadàre”, in cui tra l’altro si cuocevano i pomodori per la salsa, quando le cucine erano in muratura, le “camastre”, “’a stadère”… Anche questi ho notato in quel mercatino aperto la domenica in una zona periferica di Taranto, detta ‘a Salinelle”.
 
Via Dante

Per me, che ero diventato forestiero (almeno così considerano gli emigrati alcuni tarantini), arrivarci era complicato: sostavo in viale Magna Grecia e da lì avevo bisogno della guida: mi sentivo sperduto, nella città che mi aveva visto nascere. Che amarezza! Pensavo: “Lo vedi? Questa non è più casa tua. Hai bisogno di essere portato per mano”. Sì, avevo bisogno di un cicerone.

Taranto-via D'Alò Alfieri
Dov’era, per esempio “’U Pezzòne”, dove andavo una volta con la fidanzatina? Dov’era quel sentiero che da viale Virgilio, all’altezza dei Salesiani, portava alla scogliera? Non riuscii neppure a trovare la via per il Galeso.
La cercai più volte; poi me la indicò un pastore che portava a spasso il gregge. Mi veniva da piangere. E’ cambiata in bellezza, la mia cittภma io ho perso tante strade, tanti luoghi dell’anima, della memoria. Del resto lo meritavo: dovevo pagare lo scotto per essermene andato via oltre mezzo secolo fa. Andare alla Salinella per me non era soltanto cercare, come un maniaco, cose che mi ricordassero giorni lontanissimi o soltanto vederle, e vedere le persone, le facce da cui risalire a un compagno di scuola, di giochi, di passeggiate. E mi veniva in mente “’a buàtte” messa capovolta nella terra con un pezzetto di carburo dentro, che facevamo scoppiare avvicinando un fiammifero al forellino praticato sopra. Andare alla Salinella era per me la ricerca di un mondo antico. “Zazzarèddere”, d’accordo, ma tra gli oggetti e la persona si crea un rapporto. “’U currùchele”, per esempio, anche se ammaccato per le “azzugnàte” che ha ricevuto, ti suscita ricordi, nostalgie. Quelle “azzugnàte” fanno anche pensare a quelle più forti, più profonde, più devastanti che moti prendono nella vita. I colpi di una palla contro l’altra nel gioco della “livoria”, gli spintoni, le gomitate, l’animosità tra chi corre per la carriera. “Recuèrde ‘u currùchele? Accussì’ me send’je”, mi disse un giorno un amico che sul lavoro veniva fatto girare a vuoto. Per alcune persone i giochi che si facevano un tempo sono paragonati a ciò che succede loro nella vita reale. “Erano altri tempi”, si dice. Alla Salinella sembra che io cercassi quei tempi soffiati dal vento.


mercoledì 12 ottobre 2022

Il teatro è la sua vita

L’ATTORE TARANTINO ANTONELLO CONTE

HA PORTATO ALLA RIBALTA MARCHE POLL

Locandina
 

Ha ripercorso la sua vita vera, dopo aver studiato, interrogato gente che lo aveva conosciuto bene, scoprendo dove viveva.

Prima di salire sul palcoscenico ha fatto insomma l’investigatore.


Franco Presicci 

Marche Poll, personaggio indimenticabile della nostra città. Basso, un tantino curvo, un basco sempre in test, il passo stentato, attraversava le strade del centro solitario e silenzioso, il capo spesso chino, un sorriso ingenuo. Appena intercettava qualcuno, gli chiedeva: “A vuè ’a schedine? Nà, accàttete ‘U pamarijdde”. Parte della fortuna del periodico fondato da Leggieri, tipografo in via Anfiteatro, di fronte alla piazza coperta, alle spalle del vecchio ospedale, era nelle mani e nella simpatia che questa figura riscuoteva tra i concittadini, oltre che nella fattura del foglio e del suo contenuto, dovuti al grande valore dei collaboratori, poeti e scrittori, tra i quali Alfredo Lucifero Petrosillo che per qualche tempo lo diresse. Era un giornale divertente, frizzante, a volte caustico… senza peli sulla lingua, in armonia con il sottotitolo, che recitava: “Quidde ca no nge làsse de pète a nesciùne”. Leggerlo era uno spasso.

Antonello e Marche Poll
Piazza Fontana

Marche Poll non era uno strillone, come quelli che ai primi del ‘900 anche a Milano urlavano i titoli più scoppiettanti per invogliare la gente ad acquistare il giornale. Era discreto, tranquillo, rispettoso, dai toni pacati. Se qualche marchese del Grillo tentava di esercitarsi su di lui in una burla, l’ometto, che appariva disarmato, non alzava la voce e a volte dava risposte spiritose e azzeccate. Lo si vedeva spesso in via D’Aquino con un fascio “de panarijdde” appeso al braccio destro, serio, lampi di sorrisi se i giovanotti lo assediavano e gli rivolgevano battute sapide. In occasione della festa della matricola del ’57 un manipolo di universitari decisero di portarlo in scena al Circolo dei Marinai nei pressi dell’Arsenale nella commedia “’U cuèrne de Marije ‘a canzìrre”, un atto di don Diego Marturano: doveva percorrere il palcoscenico da una quinta all’altra nella sua veste di ogni giorno e ripetere le frasi che tutti conoscevano: “’A vuè mo’?” e il resto. Appena comparve alla ribalta si scatenarono applausi scroscianti. Poi, qualche perditempo gli disse che il pugno di spiccioli che gli erano stati dati per la originale prestazione era una miseria rispetto ai milioni che prendono gli attori del cinema; e Marche Poll ogni volta che intercettava il “regista” chiedeva il saldo.

Scena dello spettacolo
Ma con naturalezza. Lo ricordo con affetto. Stando a Milano, dove nello studio conservo alcune statuette con la sua immagine modellata da figuli non professionisti, scrissi un articolo su di lui, e mi domandavo se gli avessero intestato una via, almeno in periferia o eretto una piccola statua come personaggio caratteristico amato e apprezzato nella Taranto negli anni ‘50.

Conte e Marche Poll

E adesso, sorpresa, lo vedo trionfare sul palcoscenico, grazie a un giovane, valoroso attore, Antonello Conte, che ha ereditato l’arte del teatro dal padre, il grande Lino, che, stando in vacanza a Martina, anni fa, sentivo citare spesso su una tivù privata (non ricordo quale) da una presentatrice spigliata e simpatica, non più giovanissima, ma ancora bella. E al nome di Lino Conte seguivano nella mia mente altri bravissimi attori conosciuti nei miei anni verdi (una ventina primavere, anzi di più) a Taranto: Falcone, Murianni, D’Andria, Mirabile, la Casavola, Murgolo, padre di Enzo Valli, Graziano… (alcuni frequentavano il Cral Arsenale). Non dimenticando l’autore di testi Bino Gargano, persona gioviale e intelligente, di professione parrucchiere.

Il ponte girevole
All’epoca le filodrammatiche erano almeno un paio. C’era anche quella dell’Enal, che tra l’altro portò in scena al Circolo Sottufficiali della Marina “Trenta secondi d’amore”, che aveva tra il pubblico Piero Mandrillo, seduto di fianco a me, che ero incaricato di recensire l’opera sul quotidiano romano Il Messaggero”, del quale era corrispondente Riccardo Catacchio (poi chiamato a guidare “Il Corriere del Giorno”). Il direttore dell’Ente era Tommaso Carmelo Imperio, che tra l’altro, scriveva poesie, e segretario del sodalizio, che aveva la sede in via Di Palma sul cinema Odeon, Cappuccio, un signore basso, snello, volenteroso, a cui spettava il compito di tener bene unita e salda la compagnia. Qualche volta a vedere le prove ci andai con Piero, ingordo di teatro al punto che se, per esempio a Firenze c’era uno spettacolo interessante, lui prendeva il treno e correva. Con me era spesso in platea all’Orfeo a vedere oggi Emma Gramatica ed Elsa Merlini in “Venerdì Santo” di Cesare Giulio Viola, domani Edoardo De Filippo o Paolo Carlini o Ernesto Calindri, che conoscerò meglio a Milano la sera prima di “Uno sporco egoista” al Teatro San Babila, uno dei successi da ricordare; e lo ricordai con lui a un tavolo del Caffè Donini. Calindri era una persona amabile. Mi ricevette in casa sua in via Statuto, per una seconda intervista e non lasciò senza risposta neppure una domanda.

Erano i tempi della pubblicità del “Cynar”, che lui faceva seduto su una sedia in mezzo a una strada. Anni dopo lo ritrovai in un albergo di viale Virgilio a Taranto, dove Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno” e critico d’arte e teatrale, oltre che direttore di una autorevole rivista del settore, aveva organizzato un convegno appunto sul teatro. Quando ho appreso che Antonello Conte stava preparando uno spettacolo su Marche Poll, a 40 anni dalla sua morte, l’ho cercato: sicuramente avrebbe avuto tante cose da dirmi sul personaggio incorporato nella vita della nostra città. Ci siamo sentiti diverse volte e l’ho invitato a raccontarmi Marche Poll così come era emerso dalle ricerche da lui fatte prima di portarlo in scena, parlando anche con persone vicine a lui e scoprendo le abitudini private, il luogo in cui abitava, la sua storia vera...
 
Antonello Conte

Ho visto Antonello recitare non al Teatro Padre Turoldo di Taranto, dove è entrato con tutta l’anima nel ruolo, facendo rivivere il personaggio, in un monologo pregnante, su un palcoscenico spoglio, con qualche elemento essenziale, e una riproduzione Marche Poll in alto. L’ho visto a Milano, in un video che mette in evidenza il talento di Antonello. Poi, pur non riuscendo a sottrarlo ai suoi numerosi impegni, gli ho chiesto di aiutarmi a ripercorrere le tracce di questa figura che è ancora nel cuore dei concittadini. Ed è venuto fuori un complesso di storia, cultura, tradizioni tra la fine del’800 e gli anni ’80 del secolo scorso, con il cantiere Tosi, l’Arsenale, la notte di Taranto nel ’40, durante la seconda guerra mondiale… sullo sfondo. Con tante gocce si forma un lago; e, partendo da Marche Poll, si configurano il Galeso, i due mari, la città vecchia, le paranze… e i maestri del dialetto, da don Diego Marturano a Claudio De Cuia, ad Alfredo Nunziato Majorano… Perché il soprannome Marche Poll, Antonello? Il padre, Giovanni, faceva il caricatore e il trasportatore di fiducia della nave “Marco Polo” e quando questa tornava in porto gli amici solevano dire: ‘Hà’ rrevàt’a Màrche Pòll’: da lì l’etichetta affibbiata al figlio, che consumando lunghi passi proponeva la schedina della Sisal, domandando “’A vuè mò?”, espressione che rivolgeva, scherzando, anche alle signorine davanti alla Sem, all’angolo tra via D’Aquino e via Giovinazzi. Oppure: “Nà, accàttete ‘U Panarijdde’”.

Antonello Conte
Antonello è autore dunque anche del testo del lavoro su Marche Poll: un autore serio, rigoroso, attento. E un attore vero, padrone del palcoscenico; un attore nato e cresciuto prima dietro le quinte, osservando, imparando, studiando, ammirando il papà mentre si esibiva con la sua compagnia. Insomma, Antonello è, come si dice, un attore nato. “Marche Poll ce lo ha restituito (si fa per dire) con verità e amandolo. I giovani presenti in platea, che non lo hanno conosciuto, se lo sono visto sfilare davanti agli occhi: Antonello si è calato pienamente ed efficacemente nella parte, tra momenti di canti e di balli. Ha riesumato una storia, con garbo, intelligenza, sensibilità, dopo essersi trasformato in investigatore scrupoloso. ”Il teatro la mia vita”, dice; e la sua vita per il teatro. Il teatro è stato il suo obiettivo; e ora la sua conquista, la realizzazione di un sogno. Per arrivare a calcare le tavole di un palcoscenico, agire fra luci, quinte, fondali occorrono sacrificio e passione; e Antonello ha seguito un itinerario brillante, lavorando duramente, guidato dall’istinto e dall’esempio di Lino. Non è retorica affermare che vive per il teatro. Sempre preso com’è da testi da portare in scena, da prove estenuanti, mosso dal suo impegno di dare sempre il meglio di sé a un pubblico appassionato che ha fame di teatro. Antonello Conte è giovane, farà tanti altri passi, con tutte le doti che possiede. Per lui il teatro è gioia, cultura, vita. Entrare nei panni di un altro, farlo proprio è una grande soddisfazione. Il suo è un lavoro meraviglioso, ma non si sente un mattatore davanti alle luci della ribalda e alla pioggia di applausi.












mercoledì 5 ottobre 2022

I trent’anni dalla morte di un pugliese doc

Mostra di Alto a Cisternino nel '60
IL GRANDE PITTORE FILIPPO ALTO

DIPINSE LA PUGLIA CON AMORE


Viveva a Milano e trascorreva le

vacanze a Figazzano, a un tiro di

schioppo da Cisternino, Martina

e Locorotondo. Faceva mostre in

ogni parte d’Italia e all’estero. Era

amato e stimato; piaceva ai critici

più consacrati, da De Micheli a 

De Grada.

 

Franco Presicci

“Ti racconto - dopo quasi una vita – perché una domenica ti trascinai dalla città a vedere com’era fatto il mio paese. Tu ora lo dipingi. Iolo riscopro nella tua pittura. E mi è chiedo qual è il senso dell’immediato sortilegio, e per quali ragioni interiori alla ‘bugia’ dell’arte rinasce sempre viva l’emozione di trovare nell’aria le case pulite, le ‘commerse’ nel cielo issate, come stendardi, le strade tagliate dal vento, insomma quella forma ‘oggettiva’ che va sotto il nome di Locorotondo e che anch’io cerco di disegnare: come, con le parole”.

Figazzano

Filippo Alto
E’ l’inizio di tre pagine che Giuseppe Giacovazzo, giornalista e scrittore scrisse in occasione della pubblicazione di una cartella di litografie di Filippo Alto, il pittore barese con studio a Milano, che scendeva spesso in Puglia per ritrarre la bellezza dei suoi paesi, da Martina Franca a Cisternino: le case con il tetto a cappuccio, i trulli, le viti, gli ulivi dai tronchi scultorei, la terra rossa della città del Festival della Valle d’Itria. E quando la musica inondava il magico paesaggio di Martina qui Filippo era sempre presente: passeggiava nei tratturi, fra l’intrico di vie del centro storico, alcune solitarie, altre affollate, con le vecchiette a sferruzzare sulla soglia di casa, e s’inebriava.
 
Un'opera di Alto
 
Colucci,Caracciolo,Muscau
Qualche giorno prima della mia partenza per Martina, in treno perché da Bari in giù volevo godere dal finestrino le meraviglie che scorrevano con la velocità del convoglio, è venuto a trovarmi un amico e da una borsa ha estratto una “brochure” contenente appunto “Paese vivrai” di Giacovazzo. Rilessi le righe che ho riportato all’inizio e gli dissi che lo sapevo a memoria. “Bene, ma vogliamo dimenticare questo pugliese che prima nella sua casa di via Calamatta, che era di un altro eminente pugliese, Guglielmo Miani; e poi in quella di via Porro Lambertenghi raccontava la puglia nelle sue opere e le proponeva ai milanesi che avevano la Puglia nel cuore? Gli si dovrebbe dedicare una grande serata nel più bel luogo di Milano, magari a Palazzo Reale o in corso Venezia (non al Circolo della Stampa, perchè quello ormai non c’è più: ha lasciato nel ricordo la sua storia gloriosa).

Perché non istituire un Premio alla sua memoria. Lui ha creato vari Premi con te, tu ora dovresti crearne uno in suo nome”. Sono prossimo ai novanta, ma per Filippo riuscirei a tirar fuori le energie necessarie per una iniziativa del genere per una “formica di Puglia” che ha fatto conoscere a tanti i tesori della sua “culla”: la Cattedrale di Trani, i balconi spanciati di Martina, un pezzo di masseria di Noci affiancato a un campanile di Massafra, tutto “legato” da un ramo d’ulivo o da un tralcio di vite o da un frammento di strada.

Nome sulla ringhiera
 
“La strada è incontro”, ha scritto Giacovazzo. E’ spesso sulla strada che ritrovi un amico non vedi da tanti anni, ripercorri la sua storia trascorsa insieme e vuoi conoscere quella che da lì è andata avanti. Sono state tante le strade attraversate da Filippo, uomo generoso, colto, intelligente, artista autentico, dai discorsi essenziali, consapevole del significato delle parole. Un uomo che amava ascoltare e meditare. E non parlava mai di sé. Mai chiedergli un commento sui suoi quadri. “Sei tu che devi dire a me. Io dipingo e lascio giudicare a chi osserva”.

Enzo Caracciolo colto da Piero Lotito

 

Rispose così al questore Enzo Caracciolo, che a casa mia si soffermava su un quadro di Filippo appeso nel soggiorno. Non amava quelli che si autocelebravano. Quelli con il tempo si spengono e lasciano tracce della loro pochezza. La casa delle vacanze di Filippo è a Figazzano (lui non c’è più dal ’92, ma ci vanno la moglie Ada, i figli Giorgio e Diego con le mogli e i rampolli). E Figazzano, quando c’era lui, era un pellegrinaggio di amici che arrivavano da ogni parte. Una sera v’incontrai Mario Mazzarino, già sottosegretario alle Finanze, con il quale frequentai l’oratorio del Sacro Cuore nella via parallela alla mia; un’altra sera il ministro Vernola; e poi il famoso critico d’arte Raffaele De Grada, il poeta Egidio Pane.

Don Oronzo, il contadino narratore
Chechele

E conobbi don Oronzo, un contadino di 80 anni, che gli domandava come mai tra viti, ulivi, querce, pioppi non si delineasse la figura di un uomo, magari con il cappello di paglia in testa come lui. Filippo sorrideva. E una volta, in una serata piena di gente, gli consegnò il microfono per fargli raccontare la vita della campagna. Nei panni di Silvio Noto, l’attore, presentatore, cantante barese, don Oronzo si trovò a suo agio e parlò di vendemmie, raccolte di olive, di canzoni, di dialoghi e d’innamoramenti tra le “ceppune”. Un successo, Il pubblico, applaudendo, si alzò in piedi. Per do Oronzo Filippo era “’u prufessòre”, un mito. Era simpatico, un po’ brusco, ma buono, don Oronzo. Un po’ curvo per le tante fatiche affrontate, basso, magro, occhi vispi, battagliero, ballò con Raffaele De Grada, ospite di Filippo, e poi mi condusse nel suo trullo, attaccato alla casa di Filippo, mi offrì un bicchiere di vino e una bottiglia. Gli scrissi un lungo articolo e mi disse semplicemente grazie. Filippo sapeva trattare bene le persone.

Vito Plantone

Aveva una lunga schiera di amici e di estimatori, a Milano (Giacomo Lezoche, Sebastiano Grasso, critico de “Il Corriere”, Vito Plantone, Costantino Muscau, invito dello stesso quotidiano di via Solferino,…) a Bari, Macerata… Leonardo Mancino, direttore didattico e scrittore, su di lui scrisse un lungo saggio, che conservo come una reliquia.
Conoscevo la scrittura felice di Mancino. Avevo letto le sue poesie, le avevo recensite sul “Giorno” e avevo letto la sua storia dei fischietti in terracotta su un catalogo di una mostra nell’atrio del palazzo comunale di Ostuni. La pittura di Filippo apre un libro pubblicato dalle Edizioni del Rosone, di Franco Marasca, che da Milano si era trasferito nella sua Foggia.
Discutevo spesso con Filippo, a casa sua, nella mia, al Circolo della Stampa, da Chechele e Nennella… “Urgono le visioni di Puglia – mi disse a un tavolo de “La Porta Rossa”, di Chechele, dove sedeva anche Mario Azzella, giornalista e documentarista della tivù, durante una delle manifestazioni che l’uomo di Apricena improvvisava - più vissute con il passare degli anni. Le radici anziché rinsecchire si ispessiscono. Non è il periodo del ritorno, ma quello della maturazione, di una maggiore consapevolezza di ciò che perduto, il desiderio di far diventare universale il paesaggio che mi porto dentro”. E seguiva con gli interni spagnoleggianti della Sicilia”. Morto Filippo, dopo diversi anni Ada gli volle allestire una mostra in una sala di Cisternino. Siccome era agosto non riusciva a trovare nessuno degli amici per la presentazione dell’artista e delle sue opere. Erano tutti in vacanza, chi emigrato al mare a Peschici; chi in montagna chi non aveva lasciato recapiti.
 
Ibrahim Kodra
Chiamò me, rifugiato come sempre nella mia campagna di Martina, all’ombra di un ombrello dalle foglie lobate dotate di un grande picciolo: il fico che nasconde i suoi anni e raccoglie qualche volta i miei pensieri. Le dissi subito di sì e mi ritrovai, una delle poche volta, seduto al tavolo dei relatori, a spiegare la personalità di Filippo Alto, amico, confessore, consigliere, sostenitore, sempre presente nelle giurie e nell’organizzazione dei Premi, e dei suoi lavori allineati sulle pareti. E feci appena in tempo a concludere l’ultima frase contenendo la commozione. Confesso che parlando lo cercavo nel pubblico, convinto che mi ascoltasse, come aveva fatto tante volte. Vorrei sapere dove si trovi adesso, in quale parte del cielo. Ah, il fico. Ricordo l’elogio che fece Giacovazzo in un’altra cartella di litografie di Filippo dedicata agli alberi di Puglia: la quercia, l’ulivo, il fico. Quel fico cresce anche sulle pareti dei sentieri e non ha bisogno d’acqua per svilupparsi e dare frutti. Un albero di grande dignità. Il mio no, ha tanto spazio intorno e allunga i suoi rami fino ad un confratello, che gli resiste, non si ribella, anche se è “fascianèse” e potrebbe perdere la pazienza.