Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 29 giugno 2022

Quanti treni viaggiano su Facebook

Dal finestrino del treno da Milano
PANORAMI AMMIREVOLI

SCHEGGIANO DAL FINESTRINO

D’UN “FRECCIAROSSA”

Se si ha voglia di viaggiare e non si

può lo si fa nella propria stanza,

premendo un pulsante. 

Basta un po’ di fantasia e di

esperienza, e si parte verso

qualunque destinazione.


Franco Presicci

Passaggio a livello a Martina
Treni che passione! Aspettarne uno, sedersi in uno scompartimento vicino al finestrino per ammirare paesaggi, architetture rustiche, rogge, case, casupole, lunghe code bloccate a un passaggio a livello, agglomerati urbani con tetti a capanna, terreni coltivati, contadini al lavoro e il fischio della locomotiva prossima a una stazione sono una grande emozione. Già quando entro nella stazione di Milano e vado verso il marciapiedi, dove è in sosta il mio treno per il Sud, provo dentro di me una gioia, che non confesso a nessuno per timore di essere giudicato infantile. Poi ho scoperto che è una moltitudine la gente che ama il treno. E fa collezioni di vagoni, locomotori, rotaie, stazioni, marmotte... Molti realizzano plastici a due, tre piani, con scambi, gallerie, quattro, cinque binari, da cui partono contemporaneamente più macchine con la loro coda di carrozze. Sono ingegnosi, pazienti, esperti, questi costruttori d ferrovie in miniatura, che realizzano anche video attraenti. Starei a guardarli per ore, questi percorsi che riproducono gli ambienti con una capacità che rasenta la genialità.

I miei treni

Ne vedo tanti su Facebook: treni con macchine di ogni tipo, una più bella dell’altra, persino la Frecciarossa, che mi è capitato tante volte di veder correr viaggiando in auto sull’autostrada Milano-Bologna. Che linea, ha questo treno ad alta velocità! Elegante, simile alla fusoliera di un aereo, il muso da delfino.

Treno Martina-Crispiano
Se c’è una piazzuola riservata alla sosta, mi fermo, se faccio in tempo, ad ammirarla. Qualcuno ha scritto che tutti, dai marmocchi ai padri, ai nonni, sono catturati dalla magia delle ferrovie, anchedi quelle in miniatura. Nessun mezzo di trasporto ha esercitato tanta influenza sulla fantasia quanto il treno. Chi fa un plastico, è orgoglioso della sua opera equando preme il pulsante per mettere in movimento i convogli si sente un po’ come un capostazione, e magari indossa il cappello rosso e aziona il congegno che riproduce il fischio della macchina. A Milano- riferiva Massimo Alberini –un signore,tra l’altro già esperto di circo,aveva praticato dei fori sotto la parete di ogni stanza per consentire alle sue locomotive di girare in tutta l’abitazione. Sin dove può arrivare una passione! C’è chi impiega due o tre anni per perfezionare il suo plastico su una plancia di compensato.

Treno ripreso da Messia tantissimi anni fa

“Tantissimi anni fa – mi racconta un conoscente -feci un plastico, di cui conservo ancora scambi, rotaie, locomotive, vagoni, e anche la Littorina. Ma il mio non aveva niente a che vedere con i gioielli che vedo nei video che si susseguono su Facebook, dove c’è addirittura un gruppo di appassionati che invita gli interessati ad iscriversi. Molti di questi costruttori di sogni si associano, forse si scambiano idee o realizzano una strada ferrata insieme. Tempo fa andai ad intervistare un professionista che custodivauna nutrita serie di treni. Tutta un’abitazione per locomotori, convogli, materiale ferroviario…E parlava di treni con la competenza di un addetto al settore. In un paese vicino a Milano incontrai nel suo laboratorio un signore che costruiva locomotori su scala. Impiegava anche un anno e più per completare il suo lavoro, il cui risultato era perfetto e affascinante. Nel gennaio del 2008 un amico mi indicò un collezionista di treni eseguiti da lui stesso.

 

Roberto Trionfini

Si chiamava Roberto Trionfini. Gli telefonai e mi dette appuntamento in casa sua per il giorno dopo. Aveva 72anni, era alto, un bel paio di baffi alla Francesco Giuseppe, l’atteggiamento severo. Non incline a lunghi discorsi, ma se affrontava questo argomento non lo fermava nessuno. I suoi treni erano ben in vista su uno scaffale, ben protetti per evitare il danno della polvere e altri su un tavolo. E altri ancora in capienti scatole di cartone. Infilò i guanti,per non lasciare impronte, prese alcuni esemplari e li sottopose alla mia attenzione, spiegandomi i dettagli. La sua collezione comprendeva modellini italiani, svizzeri, austriaci e una motrice Reno della Virginia & Truckee” ricavata da una fotopubblicataa corredo di un articolo sul Far West sulla rivista “Life”. “L’ho fatta negli anni ’50, in legno, alluminio e cartoncino. Trionfini era stato tagliatore grafico in una tipografia; e non avendo molti soldi a disposizione, incontrava difficoltà a nutrire la sua passione, acquistando locomotori della Lima o della Rivarossi, che hanno alimentato le chimere di tanti ragazzini, oltre che di tanti papà. Così dette il via al ”fai da te”. Le sueprime opere risalivano al 1989, in occasione dei 150 anni delle Ferrovie italiane: una Bayard del 1839, che percorreva la tratta Napoli-Granatello di Portici, anticipando di una anno la Milano-Monza, a cui seguì la Milano-Treviglio. Mi mostrò poi una locomotiva a vapore E 3/3 in servizio turistico nella Val Moira, due di quelle che circolavano nella Repubblica Democratica Tedesca; una A 3/5 delle ferrovie del Giura svizzero, “inaugurata prima che le ferrovie diventassero federali; e un esemplare della trancia Verese-Luino.

Logo del treno storico

“Con l’età della pensione mi è venuta l’idea di confezionare locomotive in cartoncino nero, partendo da una foto. “Effettuo il disegno delle varie parti e le assemblo rigorosamente in scala. Non sono quindi soltanto un piccolo collezionista. Il mio è un ‘hobby’ meraviglioso”. Gli riempiva le giornate, anche perché leggeva molto sulla storia dei trasporti, sulle caratteristiche di una motrice, su questa o quella compagnia ferroviaria. 

Ed era un piacere sentirlo parlare del rapido tedesco “Rheinpfeil” con cupola belvedere; o del “Mistral”, che viaggiava tra Parigi e Lione; dei ponti girevoli che consentivano alle locomotive a vapore di entrare in rimessa; dell’automotrice Fiat diesel ALN e del18.616, che partiva da Stamberg diretto a Monaco, attaccato al tender mediante un gancio corto che garantiva la distanza ridotta anche nelle curve. 

Jazz sul treno treno (foto di Lepore)
In casa Trionfini non aveva più spazio per i trenini, che per lui erano gioielli da tenere con molta cura. “Non si diverte mai a metterli in movimento?”. “Le ho fatte girare anche per necessità, per evitare che stando ferme si ossidassero gli ingranaggi”. Trionfni ha collaborato alla realizzazione del plastico dell’Afi, Amici ferrovia Italia, otto metri per due, iniziato nel ’92 e terminato l’anno dopo: rappresentava una linea italiana fra mare e monti, come quella da Milano a Taranto, passando per San Benedetto del Tronto. “La mia passione per le strade ferrate è forte, ma devo accontentarmi dei modelli più rappresentativi”. “Fa qualche volta un salto nella stazione Centrale a Milano, a vedere il movimento dei treni? “Certo. Quando è caduto il muro di Berlino sonoandato con mio figlio Stefano, che ho contagiato, a visitare le ferrovie a scartamento ridotto di Dresda e dintorni, oggi ridimensionate”. E sempre con suo figlio partecipava alle manifestazioni organizzate in Sassonia e in Turingia con viaggi da una città all’altra a bordo di convogli trainati da vaporiere storiche. “Le dico di più: quando nevica esco con la macchina fotografica o con la cinepresa per riprenderei treni che corrono nel paesaggio imbiancato”.

L'orchestra del Salento torna a casa di G. Lepore

Mi disse anche che collezionava cartoline con soggetti ferroviari; e che per gli auguri natalizi spediva biglietti con l’immagine di locomotive che sbuffano all’uscita da gallerie o sui binari fiancheggiati da alberi ad alto fusto. Insomma, uscii più istruito, dall’abitazione di Trionfini, un uomo cortese, ospitale, disponibile. Non ricordo se il suo nome figurasse nel Brogliaccio di Vito Arienti di Lissone, che dedicò una vita al collezionismo, ma di tarocchi storici (aveva oltre 10 mila mazzi), campo nel quale era davvero un’autorità. Non mi sono mai chiesto da che cosa derivi questa passione per i treni, quelli che viaggiano su rotaie vere, passano sotto gallerie vere, attraversano scambi veri,e quelliche fanno sempre lo stesso percorso, cambiando direzione tramite gli scambi decisi dall’ingegno dell’autore del plastico; e non se lo chiese neppure Alberini, che sui treni e sui collezionisti e sui riproduttori si itinerari, paesaggi e quant’altro aveva tanto, ma proprio da dire. Sarà la volontà nascosta di correre a conoscere nuove città, nuovi uomini, nuovi mondi, nuovi costumi; o di provare quella sensazione che lo stesso viaggio su rotaie reali ti fa provare, il rumore delle ruote che sferragliano, il fischio della macchina mentre sta per arrivare allo scalo: tutte cose create ad arte nei plastici, addirittura la voce dell’altoparlante che annuncia arrivi e partenze. Sarà tutto quello si vuole, forse anche un impulso che proviene dal subconscio, personalmente adoro il treno e basta. Con ansia andai un’ora prima allo scalo di Martina, il primo agosto del 2015,ad spettare il Salento Express” per i turisti e scrivere un articol, intitolato Un treno chiamato jazz”, su “Minerva news”. E vorrei, ma non ne sono capace, fare un plastico grande quanto una stanza con quattro, cinque convogli che si muovono contemporaneamente. Di quello, elementare, che feci nel ’70 per mio figlio Gianluca che aveva tre anni e quando vedeva un treno vero agitava le mani egli brillavano gli occhi mi rimane una foto sbiaditae tutti gli elementi. Feci un altro plastico rudimentale per un mio nipote che in campagna si annoiava; un altro ancora per un mio figlioccio, che oggi ha più di vent’anni elo nella sua stanza e non permette a nessuno di toccarlo. Ma questi plastici non hanno niente a che fare con quelli che vedo su Facebook, “firmati” da autentici artisti del ferromodellismo. Per concludere, una confessione: quei plasticili feci forse per me, per esaudire un mio desiderio. Ho l’impressione che cresciamo, lavoriamo, accumuliamo esperienze, ma rimaniamo sempre marmocchi.





mercoledì 22 giugno 2022

Un vecchio, prezioso libro di Gino Angiulli

Gino Angiulli
 

SCOMPARSI

OVUNQUE DALLE

STRADE

I VECCHI, CARI

MESTIERI

AMBULANTI


 

Passavano urlando e le massaie accorrevano

per farsi aggiustare le sedie o farsi molare le

forbici o i coltelli o riparare il lume a petrolio

usato quando non c’era ancora la luce elettrica.

Gli ambulanti aprivano la scatola degli attrezzi,

si sedevano sul marciapiedi e si mettevano al

lavoro.

 

Franco Presicci

Sono passati molti anni da quando si sono spente le voci degli artigiani ambulanti che reclamizzavano urlando il loro mestiere, facendo sbucare le massaie dai portoni degli stabili. Ad Alberobello, a Taranto, a Martina Franca, in tutto il Sud e nel resto del Paese non passano più il calderaio, l’affilatore di forbici e coltelli, il venditore di pampanelle, il riparatore di sedie…

Dal libro di Angiulli, il calzolaio

E non c’è più il calzolaio che lavorava seduto al deschetto, sostituito dalle macchine introdotte dal progresso e dalla nuova abitudine di buttar via ciò che è vecchio e non serve più, rimpiazzandolo con ciò che spicca nelle vetrine dei negozi. Gino Angiulli, attento, appassionato, paziente e meticoloso ricercatore dei fatti, dei personaggi, degli oggetti, delle abitudini del tempo andato, ha attraversato mille strade per incontrare i sopravvissuti delle varie categorie o i vegliardi dalla memoria inossidabile per farsi raccontare vita e fatiche di queste figure, che di volta in volta pubblicava su “Umanesimo della Pietra”, l’interessante rivista diretta a Martina Franca da Nico Blasi. Ne ha trovati parecchi e ha scavato nei loro ricordi. Ha quindi raccolto la mietitura in un libro ricco di notizie, uscito nel 2009 grazie alla disponibilità dello stesso Blasi. La pubblicazione mi era sfuggita, e quando anni fa intervistai nella città delle case a cappuccio, ad Alberobello, Angiulli, su un’altra sua opera riguardante i modi di dire nel dialetto del suo paese (P’ Mod D’ Dèisc”) questa raccolta, “Mestieri tradizionali estinti o in via di estinzione ad Alberobello e nella Murgia dei trulli”, era ancora di là da venire. L’ho scoperta in questi giorni, quasi per caso.

Copertina libro
L’ho divorata, cominciando dalla prefazione, precisa e circostanziata, scritta nel solito stile severo e godibile dal direttore di “Umanesimo”, nemico della retorica e del compiacimento. L’opera di Angiulli è davvero preziosa, anche perché contiene molte informazioni sull’attività di questi artigiani e anche sulla storia dei loro mestieri. Il taglia vermi, per esempio, che poteva essere maschio o femmina. Angiulli entra nei particolari, descrive le varie fasi dell’attività e rammenta una sua esperienza personale affrontata quando era ragazzo: “Oltre a passarmi i dolori di pancia provavo in quei momenti una sensazione di calma e di benessere”. Dice anche come si fa ad apprendere quest’arte, se si ha la fortuna di trovare la persona disposta ad aprirsi. Chi esercitava questa attività ne era gelosissima. L’ereditava dal padre o dalla madre e se era il caso ne trasmetteva le modalità e i segreti a un conoscente fidato soltanto in un certo giorno. 

Trulli di Alberobello

Al centro camastre e trapano d'u conzagraste

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ad Alberobello circolava “U capeddère”, nome Francesco Pontrelli, data di nascita 1883, di morte il 1962. “Una volta la settimana sempre lo stesso giorno, perché negli altri si recava nei paesi vicini, transitava per le strade e per i vicoli… facendo echeggiate il suo caratteristico grido “Capille per l’aghe” (capelli in cambio d’aghi). Le casalinghe accorrevano per scambiare i propri capelli con oggettini di vario uso. La maggior parte delle donne un tempo aveva capelli lunghi, che acconciati a trecce venivano raccolti sulla nuca fissati da forcine,“i ferrettèine, nella tipica crocchia (tupp)”. E così via con tanti altri dettagli, dai quali riemerge la vita quotidiana dell’epoca. “U surgiauròule”, che in Italia e nel mondo faceva parlare spesso i giornali del pericolo di cui i topi sono portatori.

E riporta i titoli delle cronache, e le stesse cronache, diffuse dai quotidiani di mezzo mondo: “Giardini e piazze i topi ballano”; “Salverò New York dai topi”; “Scuola, l’assedio dai topi”. “In India da qualche anno è forte il timore del ritorno della peste”. “Negli Stati Uniti hanno già previsto che nel 2020, se non prima, i topi diventeranno una delle più gravi calamità del nostro pianeta”. “In Australia è guerra totale”. E aggiunge che nel nostro Paese “pochi ricordano la figura del contadino specializzato, che nelle contrade era considerato il nemico numero uno, lo sterminatore dei topi campagnoli”. Qualcuno ricordava il pifferaio magico. E l’accalappiacani? Io ce l’ho ancora in mente. Chissà quante volte spuntava nella mia via, a Taranto, spiando dall’angolo con via Dante per vedere se vi stazionava qualche Fido da prendere al laccio. Se noi ragazzini lo sbirciavamo,ci mobilitavamo per mettere in salvo l’animale. Una beffa che alcune volte riusciva. 

Il sediaio
Nelle case di una volta c’erano tanti oggetti di terracotta: piatti, “capase”per tenerci melanzane sott’olio, alici o peperoni sotto sale (oggi nelle nostre cucine non si usano più). E quando subivano una “ferita” interveniva “u conzapiattèreròtte”. A Taranto si chiamava “conzagraste”, che con il trapano a mano di legno “munito di punta acuminata di metallo, ai margini della rottura faceva dei buchi cucendo con fil di ferro. Lavorava acculato sul marciapiede della casa della committente e alla fine – informa Angiulli - veniva remunerato con denaro o con generi alimentari. Squillavano anche le voci dell’aggiustatore di sedie, del canestraio, del calderaio, dell’ombrellaio. Il trainiere si occupava del trasporto di ogni tipo di merce comprese le angurie che andava a prendere alle “Caggiune”, una zona periferica della città, per portarli al mercato. Una decina di anni fa ne ho visto uno sulla vecchia strada per Noci, a Martina, precisamente in via Papa Domenico, ma aveva il cassone vuoto. Chi dimentica il carbonaio, che nella mia città, alle Tre Carrare, aveva il deposito in via Dalò Alfieri e vendeva anche il petrolio per i lumi prima dell’avvento della luce elettrica. Quando si rompeva la campanao difettava il becco o si consumava ‘”agazzettelle”, si aspettava “’u conzalùme”, che vi provvedeva. Giacinto Peluso ha ritratto molto bene questi oggetti che illuminavano le nostre abitazioni. E poi c’erano folle di ragazzi, che nella città vecchia e oltre vendevano in strada per 5 centesimi foglietti colorati con i numeri del lotto appena usciti.
 
dal libro 'u conzagraste

Pialletto p'ù gràtta-gràtte
Tutti scomparsi, anche quello che tra via Dante e via Giovan Giovine a Taranto preparava “’u gratta-gratte”: cristallini di ghiaccio ottenuti con un pialletto da un lungo blocco, messi in un bicchiere e innaffiati di essenze di limone, di arancia… Un mondo intero sparito. Nel libro di Gino Angiulli, leggiamo tante annotazioni storiche che fra l’altro indicano le dimensioni della sua fatica d’investigatore:”Dal punto di vista della scienza e della tecnica, una delle epoche più feconde dell’intera storia dell’umanità fu quella dei sumeri (3.000-1900 a. Cristo), perché fu presso questo popolo che assunsero capitale importanza gli artigiani di ogni genere: tessitori, sarti, fabbri, falegnami, scalpellini, fornai…”. 

Il carrettiere

 

Il testo è intervallato da tante immagini d’epoca: un cavallo “cu le uardemìende” realizzati da uno specialista: “u guardemedère” nel dialetto locale. Segue la storia di quel popolo e uno stralcio dell’Iliade: “Curarono i cavalli e li aggiogarono, li vestirono con splendidi finimenti, misero il morso tra le mascelle, tesero le redini, verso il carro ben connesso…”. Quindi una poesia sul calzolaio con il deschetto e foto d’uno di questi nella sua tradizionale bottega di Ostuni. “U scarpère, poverièdde/ Sèmbe azzèise au bangarìedde i prepère i capetìedde/ ticche i tàcche, ticche i tacche/ U scarpère mètte i tacche/ I a ccevole/ Mètte poure i mènz sole…”. 

La forma del calzolaio
 
 
 
 
Ed ecco una foto con le forme di ferro sulle quali si eseguivano tutte le riparazioni, e gli altri attrezzi, cominciando dalla “sugghie”. In un’altra pagina ciò che serve al lavoro del sellaio: bucatrici, tenaglie, foratrici… Angiulli racconta anche i frantoi; i palmenti in cui l’uva si pigiava con i piedi; lo stagnaro e i caratteristici monaci, copri fumaioli girevoli. Nella prefazione Blasi scrive che “vanificata dalle mode e dalle novità indotte dalla galoppante evoluzione tecnologico-scientifica, la sapienza di quella cultura non è stata, però, presaga del proprio futuro, perché ha ormai finito di innervare comunità urbane e rurali…”. E a Milano? Qui c’erano i venditori ambulanti di castagne, polli, ghiaccio, fragole… Questi ultimi gridavano: “Fresche e belle le magiostre”. E c‘era Gigi de la gnaccia, il primo toscano impegnato nella vendita del castagnaccio. Gli studiosi parlano di “quel del cafè del geneoeucc”, cioè il caffè ottenuto con i fondi di altro caffè. Questo ambulante si piazzava dalle parti di piazza Duomo e serviva i nottambuli e anche chi esercitava i mestieri più umili, come lo spazzino, al lavoro già all’alba, e qualche passeggiatrice. Volatilizzati anche gli spazzacamini, gli“ombrellèe”, il banditore che “in su la piazzael ‘rivava/ a son de la tromba/ la gentciamava…” e leggeva gli ordini dell’autorità. Un mondo muore, ne nasce un altro, si dice: “Si stava meglio prima”. Bah! Avrei chiesto il parere di Gino Angiulli. Di sicuro questa che ho davanti è un’opera di grande interesse. Angiulli aveva un grande desiderio d vedere riuniti in un volume le chicche che andava pubblicando su “Umanesimo”. Nico Blasi gli fece una promessa e la mantenne. Ed eccolo su “Umanesimo”, uscito dalla tipografia di Artebaria. Ci sono libri che vanno riletti.



mercoledì 15 giugno 2022

La Sagra di San Simone quartiere di Crispiano

Massimo Biagi con Presicci
UNA GRAN BELLA SERATA IN ONORE

DI SUA MAESTA’ IL PEPERONCINO


Rimasta ferma per il coprifuoco imposto

dal Covid, si spera che rinasca con più

vigore e non si lasci accalappiare dalla

pigrizia. Gli adoratori di questo tizzone

taumaturgico e apotropaico rimarrebbero

delusi e amareggiati. Forza, all’opera.


 

 

Franco Presicci

Non avevo mai avuto dimestichezza con diavoli e diavoletti prima di essere invitato da Alfredo De Lucreziis degli “Amici da sempre”, gruppo che amalgama anche mogli e figli, nuore e generi e nipoti alla Sagra del peperoncino piccante, a San Simone, appendice di Crispiano.

A destra De Lucreziis
Persone che mi invitavano a pranzo e a cena ne spolveravano un pizzico sulla pasta con il sugo e sui legumi e su altro; e chi ha più passione per questo tizzone ne usavano più del dovuto. Una volta, ospite in casa di un’affascinante signora lucana, mi si infiammò la bocca, e fui sul punto di chiamare i pompieri. Roba da non credere. Sentii fare quel nome la prima volta quando ero un marmocchio e mio nonno mi disse, con una punta di orgoglio, che ero come ‘nu diavulicchie asquande”. Gli chiesi che cosa volesse dire e mi dette una rapida e vaga spiegazione, per cui, data anche l’età, non ci capii molto. E quando quella sera di settembre di qualche anno fa, accolto la prima volta l’invito alla sagra del mito, mi accodai con Michele Annese alla fila che dondolava come i confratelli (le “perdune”) alla Settimana Santa a Taranto, allargai la mia conoscenza.

I peperoncini nel mondo

Vidi siepi di gente davanti ai vari “stand”: chi prendeva il gelato, chi le friselle, chi le polpette, chi la pasta con i fagioli cucinate dallo “chef” Simone Rodio… tutto cosparso di peperoncino. Poco dopo si unì a noi il dottor Michele D’Addario di Oria e ci sedemmo ad un tavolo appartato, dove una squisita signora ultraottantenne, con capelli bianchi con striature di grigio, esile e bassina e con un sorriso dolce, ci offrì spaghetti al ragù spalmati di una dose accettabile di peperoncino. Piccante naturalmente. E giacchè c’ero, mi accinsi a inondare di domande D’Addario, che al suo paese era presidente della sede locale dell’Accademia della famosa spezie intitolata Club Habanero, autrice di una manifestazione molto seguita che aveva in programma l’elezione di miss peperoncino. Il medico ricevette una telefonata e si appartò.

Tavolozza begetale di Biagi

La mia attenzione fu attratta da un gruppetto di quattro o cinque signori, poco distante da noi, fra cui spiccava un tale che somigliava allo Smilzo di Giovannino Guareschi. Teneva banco argomentando sul peperoncino: “A quanto pare sì, il peperoncino ha qualità afrodisiache e ha una serie di poteri terapeutici: aiuta la digestione, è vasodilatatore: “Fa guerra al colesterolo e alla depressione... Si usa anche nella cosmesi”. E ancora: “Nei tempi antichi interveniva nella preparazione di filtri d’amore e molti superstiziosi, per la sua forma e per il suo colore simili al corno napoletano, gli attribuiscono anche capacità apotropaiche. Nessuno ha riscosso nel mondo il successo che è toccato a questa spezie. Se ne conoscono 1600 varietà”. Si avviarono verso il cuore ondeggiante della sagra e le sue parole mi giunsero un po’ sfumate: “Il peperoncino ha origini nel Messico meridionale e nel Sud America. In Europa arrivò dopo il ritorno da un viaggio di Cristoforo Colombo verso il 1493. E da allora ha furoreggiato”. Improvvisamente lo Smilzo a voce alta disse: “Sua maestà”; e, curioso per natura e per mestiere cercai tra i più vicini a noi chi per qualche ragione fosse stato insignito di quel titolo; invece appresi che quell’onore veniva attribuito proprio a quella specie di virgola rossa che dominava la festa. E a giudicare dalla folla che fluttuava, sfilacciandosi nella piazza con la chiesa dedicata all’Arcangelo Michele, l’espressione non era un’iperbole. 

Giorgio Di Presa
Il peperoncino ha origini lontanissime, aveva detto il saputo del gruppo. Secondo alcuni studi era conosciuto e usato già 9 mila anni fa. In tempi più vicini ai nostri, è comparso, e compare, anche sulle tavole delle personalità più rinomate. Scrittori e poeti in lingua e in dialetto lo hanno reso protagonista delle loro opere. Tra questi, Cesare Pascarella. Gabriele D’Annunzio lo definì: “Rosso ardente, diavoletto folle”. Anche attori del livello di Aldo Fabrizi, che amava gli spaghetti con aglio, olio e peperoncino, vera prelibatezza della cucina rustica; e Ugo Tognazzi, di cui vengono ancora celebrate le penne infuriate. Tra gli amanti di questo folletto adorato troviamo Greta Garbo, Anna Magnani, Gregory Peck, Tom Cruise, Mao Tsé-tung, Bertrand Russell, autore della Storia della filosofia occidentale e tante altre opere. E non mancano i superstiziosi, che per la sua forma e per il suo colore simili a quella del corno, lo considerano apotropaico, cioè capace di tenere a debita distanza gli influssi malefici. A Milano Incontrai un giocatore del lotto che ne aveva un cassetto pieno.

Campionato di oria
Mi venne voglia di saperne un tantino di più. E allora D’Addario mi dette appuntamento nel suo studio a Oria e mi regalò una bellissima rivista in carta patinata diretta da Enzo Monaco, giornalista, gastronomo di Diamante, specialista autorevole, tenace sostenitore del “capsicum”, ideatore del “Peperoncino Festival” che da anni si svolge ai primi di settembre nella città calabrese, il cui programma tra l’altro comprende convegni medici, mostre di pittura e di satira… Monaco ha anche scritto diversi libri su questo regno e nel 1992 ha creato l’Accademia nazionale del Peperoncino, il cui libro d’oro è ricco anche di glorie del palcoscenico, tra cui, se non sbaglio, Giorgio Albertazzi. Del peperoncino Monaco la storia in tutte le sue pieghe, e anche le leggende.

Il professor Massimo Biagi

A San Simone mi presentarono il professor Massimo Biagi dell’Università di Pisa e grande esperto della spezie. Nel suo “stand” con l’insegna “Peperoncino nel mondo” aveva allestito un tavolo lungo e largo più di quello da ping-pong, che sembrava una tavolozza per i tanti piatti colmi di peperoncini di ogni tipo. Su una mensola troneggiava una pianta pensata e coltivata da lui stesso. In un’intervista gli chiesi il nome del primo della classe: “Qualche anno fa era l’habanero, che si produce nello Yucatan, poi questo è stato defenestrato e il vincitore ha fatto dignitosamente la stessa fine. Da non dimenticate lo Scotch Bennet. Sono uno più piccante dell’altro e fanno a gara a chi meriti il posto più alto nella classifica”. Sono tante le domande che l’uomo della strada invaghito del peperoncino farebbe a uno che abbia esplorato tutti i segreti di questo “taumaturgo” ardente, che domina le cucine di tutto il mondo. In Italia sua maestà regna in Puglia, Basilicata, Calabria, Molise. A proposito al campionato del peperoncino di Diamante (provincia di Cosenza) un anno vinse un concorrente che aveva ingoiato 750 grammi e l’anno dopo uno che ne aveva mandato giù un chilo, accompagnandolo con pezzettini di pane. Espressi la mia perplessità al professor Biagi, ma il docente fu fagocitato da un gruppo di curiosi e poi dimenticò di darmi la risposta.

Lo stand delle fecazzèdde

Davanti allo “stand” di De Lucretiis, “Fecazzèdde”, addobbato con cornetti rosso-cremisi in ogni angolo, grappoli, corolle a forma di cercine sulla testa delle assistenti, belle e gentili, pronte a soddisfare le domande più strane, più esigenti, io e Michele Annese ci soffermammo a commentare la realizzazione di quella iniziativa, poi fermata dalla clausura antivirus. Mi piacciono le imprese che attirano tantissima gente, proveniente anche dai paesi vicini e meno. Da Oria arriva anche il cestaio, che intreccia i suoi vimini con abilità e arte; da altri centri artigiani che come il primo si esibiscono, calamitando l’interesse del pubblico, che girella sorbendo un grosso gelato o gustando una mozzarella spalmati di peperoncino. Dosato saggiamente. Altrimenti, suggeriva un esperto seduto accanto a me e ad Annese sul muretto del corso che dovrebbe essere dedicato a Sua Maestà, non c’è bisogno d’invocare i pompieri: basta un bicchiere di vino o, meglio, tanta mollica d pane. Aspetto con ansia i primi di settembre, quando va in scena la Sagra del Peperoncino a San Simone. Non ne ho mai perso un’edizione. Anche perché ogni volta vi trovo amici con i quali ho condiviso serate in allegria, in una masseria o in una casa privata. I crispianesi sono persone ospitali e amano lo stare insieme. Ricordo tante manifestazioni organizzate da Michele Annese alla Monti del Duca, dove venne presentato li libro “La Puglia il tuo cuore”, di Giuseppe Giacovazzo, o alla Pilano, che una sera ebbe come ospiti musicisti dell’Est.

Insegna della Sagra
Mi auguro che quest’anno la Sagra abbia anche una bancarella cosparsa di libri sul peperoncino: non ne ho mai vista una, qui, a San Simone. Anzi un anno una libreria ambulante si acquartierò in un angolo semibuio, con libri di ogni genere, ma nemmeno uno sulla spezie che mette il fuoco in bocca. E spero che con le sue “performance” intervenga ancora Giorgio Di Presa, un signore simpaticissimo e dotato di laurea, “verve” brillante e coinvolgente, che a Martina Franca ha un negozio di erboristeria su via Taranto. La Sagra del Peperoncino deve continuare a vivere con vigore; non deve lasciarsi fiaccare dagli arresti domiciliari imposti a suo tempo per colpa del cecchino che continua a dare colpi di coda. Quel bastardo ha bloccato tante iniziative memorabili, come appunto quella di Crispiano, una città che è stata sempre in movimento. Si pensi alle mille attività della biblioteca “C. Natale”, che con il suo valente gruppo di collaboratori sensibilizzava i cittadini alla lettura (ricordo i “I libri in condominio”) e allo studio; e convocava scrittori importanti a parlare dei loro libri e della loro biografia (ricordo la serata per Alberto Bevilacqua). La Sagra di San Simone deve rinascere più bella, più attraente, data l’intelligenza e lo spirito degli “Amici da sempre”. Ho tantissimi ricordi legati alla storia della manifestazione di San Simone, che un anno si tinse di giallo. Mentre su un palcoscenico improvvisato bravissime parrucchiere acconciavano i capelli di seducenti fanciulle, ispirandosi a ‘”u puperùsse asquande”, dietro le quinte qualcuno s’impossessò delle ghirlande di peperoncino, che dovevano “vestire” quelle occasionali vestali per un corteo. Non c’era più neppure un diavoletto caduto per caso dall’architettura” durante il trafugamento. Si cercò di tenere il segreto sul fattaccio, per non disturbare la serata, ma la voce si sparse, creando indignazione fra il pubblico, numeroso e in attesa della sfilata. Che si svolse senza cornetti rossi tra i capelli delle modelle.








mercoledì 8 giugno 2022

E’ morto Claudio De Cuia

POETA, SCRITTORE E XILOGRAFO

CANTO’ LA CITTA’ DEI DUE MARI

Claudio De Cuia
 

 

Se n’è andato una settimana fa. Quando

La notizia si è sparsa, moltissimi cittadini

hanno partecipato al lutto della famiglia.

De Cuia era molto amato. Tanti ricordano

i suoi pellegrinaggi nella città vecchia per

ascoltare il nostro dialetto dai vecchi

pescatori.  (Foto di Antonio De Florio)

 

                                               

 

 

Franco Presicci

Si è spento un poeta, amato e ammirato. Taranto piange un mito: Claudio De Cuia. Che l’ha cantata in migliaia di versi. Lungo l’elenco delle persone che su facebook hanno dato le condoglianze alla famiglia, oltre al gruppo “Taranto com’era”, guidato da Antonio De Florio, che ringrazio per le foto. Claudio aveva compiuto 100 anni qualche settimana fa e in quell’occasione il gruppo virtuale di De Florio, tra cui Enrico Vetrò e Antonio Fornaro, gli avevano dedicato un brindisi in una sala della biblioteca Pietro Acclavio, che una volta alloggiava nel Palazzo del Governo e oggi in via Salinella.

Inge Shoener e Franco Presicci
Diego Marturano
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non usciva da casa da tanto tempo, De Cuia, ma per quell’evento fece un’eccezione. Lo stesso Nicola Mandese, titolare della storica “Casa del Libro” di via D’Aquino, che non lo vedeva da un paio d’anni, è rimasto amareggiato alla notizia della scomparsa. Mi aveva regalato “Arie de Pasche”, che a suo tempo avevo recensito e ogni anno postavo la copertina su facebook. Era una persona riservata, Claudia, schiva, chiusa. Una volta, anni fa, entrò nel tempio di Nicola per parlare di poesia ai ragazzi, che lo ascoltarono con grande attenzione. Fu un momento in cui Claudio spese più parole che nel resto delle sue giornate. Lo conobbi nel ’58 nello studio del pittore Salinari, in via Di Palma, di fronte all’edicola Zappatore.

Mar Piccolo

A Taranto stavano girando il film “Promesse di marinaio” con Antonio Cifariello, Renato Salvatori, Nick Pagano, Alberto Bonucci, Rosario Borrelli e l’attrice tedesca Inge Shoener. Alcune scene erano ambientate in piazza Maria Immacolata, altre a San Vito, dove il “cast” si sedette a tavola per assaporare ottimi spaghetti ai frutti di mare. Ci andavamo in tanti, da Salinari: Mario Sossi, direttore del periodico “Il Rostro” e critico d’arte molto apprezzato da Palma Bucarelli, a quei tempi direttrice della Galleria d’arte moderna di Roma; Raffaele D’Addario, professore di disegno, che aveva lavorato come scenografo a Cinecittà e, rientrato a Taranto, aveva ripreso l’insegnamento e realizzava splendidi presepi in sughero in scatole di cartone, opere che metteva nella vetrina nella drogheria del padre quasi accanto alla Dreher, all’angolo tra via D’Aquino e piazza Maria Immacolata. Era l’anno in cui all’Istituto talassografico si svolse la prima edizione del Premio Taranto, che portò nella Bimare artisti di grandissimo livello, da Cassinari a Pirandello, da Cantatore a Migneco, che suscitarono le ire di qualche pittore locale, tra cui Giuseppe Pignataro, che aveva il laboratorio nell’androne di uno stabile di via Di Palma, di fronte al negozio di scarpe di Protopapa, a sua volta autore di paesaggi e ritratti eseguiti con scampoli di pelle di ogni colore (la presentazione del catalogo di una sua mostra recava la firma di Piero Mandrillo). L’oppositore più accanito del Premio era proprio Pignataro, che con l’amico Nicola De Nicolò e un paio di altri scriveva sui muri “Viva Giotto e abbasso gli sgorbi incorniciati”, spingendo il critico Oronzo Valentini a contraddirli dalle pagine de “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Claudio De Cuia
Tornando a De Cuia, lo vidi spesso, da Salinari. Io cercavo di dialogare con lui, ma ogni tentativo naufragava. Uno scoglio che non si basava sulla superbia, per carità. Un pomeriggio gli chiesi di leggere un mio sfogo in versi, una specie di sonetto, e lui, con molto garbo, si accinse a fare un “labor limae” senza esprimere giudizi, ma un sorriso cordiale. Rimasi colpito dalla sua delicatezza. Avrebbe potuto consigliarmi di buttare il foglio nel cestino; invece si comportò come un insegnante burbero, ma di animo buono, non uso a suggerire all’allievo di risparmiare inchiostro. Aveva stile, Claudio De Cuia. C’erano altri poeti del suo livello: Diego Marturano, Alfredo Nunziato Majorano, Diego Fedele, Nerio Tebano, Alfredo Lucifero Petrosillo, che per un periodo diresse “’U Panarjidde”… E c’era Marche Poll che vendeva il periodico fondato da Leggieri, andando di strada in strada, macinando chilometri ogni giorno. Un giorno mi capitarono tra le mani le relazioni di un convegno sul dialetto tenuto a San Marco in Lamis, e tra queste c’era quella in cui Claudio si chiedeva tra l’altro, retoricamente, quale fosse il tipo di dialetto da usare, se quello delle parole “ciuppenesciàte” invece de “mazziàte”, cioè quelle comprensibili a tutti, soprattutto ai giovani, o quello che ti costringe a ricorrere ad ogni parola al vocabolario. Scrivendo di un pilastro di Taranto, Giacinto Peluso (che collaborò molto con Claudio), che con Piero Mandrillo e Giuseppe Barbalucca frequentai assiduamente, telefonai a Claudio per chiedergli il motivo per cui non trovavo nel Gigante la traduzione della parola “sorriso”. “Aspìette, ca voc’a vvède sus’a quìdde de Rohlf”. Dopo aver consultato il dizionario dell’autore della “Grammatica italiana e dei suoi dialetti”, tornò al telefono per darmi la risposta. “No nge stè’ mangh’addà”. E mi elargì utili consigli. E poi, scambiandoci due parole prima di salutarci, aggiunge: “U sé’ quand’ànne tegn’je? Novamdadòje”. Un altro giorno andai a fare visita ad Angela Schena, alla casa editrice che stava, a Fasano, nella via oggi dedicata al padre, Nunzio, un uomo eccezionale, che nello stabilimento aveva ricevuto Spadolini, il Dalai Lama e altre eminenti personalità. Angela mi mostrò proprio “Arie de Pasche”, invitandomi a tenerlo. Non le dissi che lo avevo già letto, innamorato com’ero, e sono, del mio dialetto, che amo scrivere, anche perché attraverso quelle parole ricche di suoni, di armonie, di onomatopee, mi sento più vicino alla città che è stata la mia culla, “’a nàche”.

Cerimonia per De Cuia
La lettura dei versi di Claudio mi dava un senso di serenità, di pace, mi faceva volare verso i due mari, il Galeso, adorato da Orazio, da Virgilio e da tanti altri poeti moderni; il ponte di pietra e quello di ferro. Vivevo come in un sogno, e mi pesava lo scrupolo di avere lasciato quei tesori: i tramonti che si accendono sul Castello, “’u màre peccennùdde” sul quale dondolano le lampare e le paranze. Leggevo i versi di De Cuia, come quelli di Marturano e di Petrosillo, e mi trovavo nel giardino delle cozze o nella piazza Fontana restaurata dallo scultore Nicola Carrino, che tra l’altro partecipò a una Biennale di Venezia. E non mi domandavo come fosse possibile quel miracolo di ubiquità: essere a Milano e a Taranto nello stesso momento. Sapevo che quel miracolo sorge dall’amore. Quando su “Foto Taranto com’era” ho letto l’annuncio, dato da Antonio De Florio, della morte di questo poeta che lascia una traccia indelebile non solo a Taranto, ho avuto l’impulso di scrivere in versi il mio dolore: cosa da poco, come mi capita spesso, aggravata dal fatto che sono un pessimo utilizzatore di telefonini e computer, non aiutato dalla vista quando non trovo gli occhiali. Ho inserito le mie parole nel lungo elenco di cittadini che hanno reso pubblica la loro commozione, pentendoli subito dopo averli visti pubblicati. Ho telefonato a Nicola Mandese per dargli la notizia che mai avrei voluto dargli. Una notizia sconvolgente, un pugno nello stomaco, un mattone caduto sulla testa da un palazzo con il restauro in corso. 

Via Garibaldi

Tante volte avevo desiderato di chiamarlo, Claudio, ma ho sempre temuto di disturbare. Lo immaginavo nei suoi pellegrinaggi nella città vecchia, in via Garibaldi, alla Dogana (“’a duàne d’u pèsce”), ad ascoltare il dialetto dalle labbra screpolate dei vecchi pescatori, che ancora oggi dicono “’mbòte” per tasca, “schìfe”, per barca, sineddoche sonora, almeno per me, che preferisco parlare “accùme m’hà’ fàtte ‘a màmma mèije”, anche a Milano, la terra di Carlo Porta. Per gioco, sollecitando un collega a cui avevo promesso un caffè al bar di fronte al giornale (che aveva la sede nel Palazzo dell’Informazione, dove Mussolini confezionava “Il Popolo d’Italia”) dissi: “Ce ama scè sciàme…”. Il collega, Nino Gorio, bravissimo camuno, basso, camminata da montanaro, ermetico nel viso e nella parola, ma con il cuore in mano come Milano, rimase colpito dalla frase e la fissò nella memoria, pretendendo la traduzione.

Nicola Giudetti con il trapano d'u conzagraste
Una quindicina di giorni dopo mi ripetè pari pari l’espressione e mi impose di impararla in bresciano. “No, io uso soltanto il mio dialetto, non faccio parte della categoria di pugliesi “contrabbandieri” che assorbono il meneghino per non fare scoprire la propria origine. Pratica stigmatizzata anche da Giuseppe Giacovazzo (aveva collaborato con Paolo Grassi per qualche anno nel capoluogo lombardo) nel suo libro “Puglia il tuo cuore”. Gorio, anche lui partito per altri lidi, mi invitò a deliziarlo con frasi del vernacolo della città delle cozze. Lo accontentai, declamando alcuni versi di Claudio, ma poi capii di essere stato un gigione che il capocomico Arturo Vetrano, della compagnia di varietà che sbarcava allora a Taranto, all’Arena Corallo e non solo, mi avrebbe depennato dall’elenco dei suoi attori. Ma dopo la traduzione Nino si commosse. Nei giorni scorsi li ho sentiti recitare da Antonio Fornaro, che fa coppia con Antonio De Florio nei video di “Taranto com’era”.

De Cuia alla sua festa
Poeta, scrittore, xilografo, Claudio De Cuia era tra l’altro socio della Società di storia patria per la Puglia. Tradusse in dialetto “La Divina Commedia”, scrisse “Pasche e Primavere”, “Ore, ‘ngienze e mmirre”, ”’U Briviarie d’a nonne”, “Vecchia Suamana Sande”, “Vocali e consonanti nel diaetto tarantino”, gli accadimenti storici di Taranto. Insomma, con lui si è spenta una voce appassionata e autorevole della nostra città e a me piace salutarlo azzardando: “Te n’è sciùte citte-citte, all’andrasàtte/ pegghiànne l’ùrteme trène mmèr’u cìele/ addò vònne le grandòme accum’a ttèje/ E’ cundàte Tarde nuèstre cu ‘a pènne e c’u còre/ indr’a “Arie de Pasche” le travàgghie de Gese Criste/ e po’ indr’ a ‘na mòrre de suspìre / ‘a beddèzze d’u bùrghe andìche/ ‘u màre peccennùdde, ‘u canale ca ‘u ‘nzòre cu Màre Grànne/ Mò’ hà’ rrevàte ‘a sènza nàse”/ è t’hà’ purtàte affòrze appìess’a jèdde/ sènza dìcere nìende a nesciùne/ U sé’ ca è fàtte scevulà’ tanda gòcce sus‘a fàcce de ci te vòle bbène?/ Nesciùne te po’ scurdà’ acqu’abbàsce”. Parole non da poeta, perché tale non sono, ma da estimatore che un poeta vero, grande, accoglierà con benevolenza, se lassù potrà leggerle. Ora sento dire che la domenica mattina si fermava a parlare con Diego Marturano sul dialetto e a volte andava in quella specie di piccolo museo di antiche cose tarantine che Nicola Giudetti, pittore e autore di una ricostruzione dei “Misteri” in gesso, ha in via Duomo nella città vecchia.




mercoledì 1 giugno 2022

La strada ferrata da Taranto a Martina

DA QUALCHE PARTE VIAGGIA ANCORA

LA VECCHIA, AFFASCINANTE VAPORIERA

 

Vaporiera collezione Antonio De Florio

 

La si ritrova nei versi di

Giosuè Carducci e in quelli di

Francesco Guccini. 

E’ un vero gioiello di

architettura.

Il suo fumaiolo emette dense

nuvole di fumo, che si

gonfiano, si allungano, si

schiariscono, si disperdono,

mentre la macchina corre,

corre fischiando.


 

Franco Presicci

“…tra i rami stillanti di pioggia/ sbadigliando la luce sul fango/ flebile, acuta, stridente fischia/ la vaporiera da presso. Plumbeo/ il cielo e il mattino d’autunno…”. Sono alcuni versi colti nell’ode “Alla stazione…”, di Giosuè Carducci. Non una celebrazione “d’a Ciucculatère”, che sbuffava come la macchinetta del caffè e mettendosi in moto ansimando, emetteva un “ciuf ciuf” gioioso: dopo che il macchinista, con una pala, aveva rifornito il focolare di carbone. “Ciuf ciuf”, prima stazione, Nasisi, ai margini dei Tamburi (un quartiere oggi tormentato), sulle rotaie che tagliano la strada per Martina. Allo scalo di Taranto arrivavo mezz’ora prima al binario morto, che sta a ridosso del muro che dà sul piazzale, su cui si fermano gli autobus e una volta anche i tram; sostavo due minuti sul terrazzino della carrozza, uno sguardo ai treni in sosta, al ponte che sovrasta la strada ferrata… e poi dentro, ad occupare un posto rimasto libero in terza classe, l’unica. Dopo pochi minuti, la partenza: Statte, Crispiano, Madonna del Pozzo, San Paolo, Martina Franca, dove la corsa si concludeva. Un tragitto che conoscevo a memoria, tante erano le volte che passavo sui sedili di legno “d’a Ciucculatère”.

La piattaforma girevole

La vaporiera (foto di G. Lepore)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A Martina, città che da sempre appartiene al mio cuore, la vaporiera, staccata dai vagoni, raggiungeva lo scambio, e da lì a marcia indietro la piattaforma girevole, che le consentiva di invertire il senso di marcia. Il macchinista, il berretto d’ordinanza in testa, azionava una leva, poi un’altra, faceva movimenti rituali, dava un’occhiata al “tender”, mentre arrivava un altro ferroviere, il volto annerito e uno straccio in pugno. 

Un primo fischio, poi un altro, prolungato, e la vaporiera all’orario stabilito riprendeva la corsa, prima piano, poi veloce, ruggendo, verso la città dei due mari e dei giardini delle cozze. Chissà quante volte Il macchinista fece lo stesso tratto negli anni. Sapeva tutto della vaporiera; la considerava una cosa sua e la curava con scrupolo, quasi con amore. Era un mito, una conquista, un vanto del progresso, un gioiello di architettura. Forse non l’avrebbe mai lasciata per condurre un esemplare di nuova generazione.

Vaporiera di Eugenio Messia

Nella stazione di Martina Franca, seduto sulla panchina in ferro, indugiai, un giorno del dopoguerra, ad osservare la linea della vaporiera, la cabina di guida, il forno, lo stantuffo, il “tender”… Il capo stazione sbucò dal suo ufficio, fischiò la partenza e la locomotiva si mosse. Il fumaiolo, una grossa pipa, emise una lunga scia di fumo, prima densa e nera, poi più chiara, bianca e rarefatta. Ancora stronfiando, la macchina cominciò ad accelerare, seguita dal mio sguardo finchè non scomparve. Amo la “Ciucculatère”. Quando ero a bordo, dal finestrino vedevo passare, fulminei, gli alberi, le case, i casolari, le vigne e magari un contadino al lavoro: un paesaggio che vive ancora dentro di me; e pensavo a mio nonno, che mi aspettava in campagna riparandosi dal sole sotto un arco di bouganville; mentre oggi, vedendo quei treni su facebook, vado ai versi di Francesco Guccini (“… e sul binario stava la locomotiva/ la macchina pulsante sembrava fosse cosa viva/ sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno/ mordesse la rotaia con muscoli d’acciaio…”).

Salento Express

L’avevo persa di vista, la vaporiera. La potevo ammirare, in anni più recenti, una volta all’anno, quando rimpatriavo, nella stazione successiva a quella di Bari (credo Mungivacca, cinque minuti dal capoluogo), bella, solenne, superba, affascinante, gloriosa: un monumento, testimonianza di un’epoca lontana, custodita nella memoria, carica di corse e di storia. Dopo anni, mi trovai fra le mani una foto con l’immagine di una vaporiera arrugginita. “Dio mio” – pensai - è un rottame, tenuta lì come un oggetto inservibile, ingombrante. No, non può essere quella che mi emozionava mentre con un treno tirato da uno di quei locomotori che l’avevano sostituita attraversavo, per andare alla città dei trulli, Rutigliano, Noci, Alberobello, Locorotondo, sempre affollato, d’inverno, di scolari e studenti. Un giorno di agosto seppi che gli amici dell’Asap di Bari stavano organizzando un convoglio, “Salento Express”, per i turisti, che durante il tragitto dal capoluogo a Martina sarebbero stati deliziati dal suono di trombe e sassofoni e avrebbero gustato prelibatezze del nostro territorio. Andai presto alla stazione, sognando la vaporiera in testa al convoglio. Suonò il campanello che avverte l’arrivo dei treni e tornai nel mondo reale: “’a Ciucculatère” non c’era: al suo posto un locomotore anni 50 o 60.

L'orchestra del Salento torna a casa di G. Lepore

I viaggiatori prima di scendere indugiavano sul terrazzino e si guardavano intorno; l’orchestra sceglieva la postazione quasi vicino all’uscita, a un passo dalle vecchie carrozze non so più da quanto parcheggiate sotto il marciapiede, e riprendeva a suonare.

Adesso di vaporiere, magari con la scritta Ernesto Breda sulla fronte, ne vedo tante, su facebook, in foto e in video. I viaggiatori prima di scendere indugiavano sul terrazzino e si guardavano intorno; l’orchestra sceglieva la postazione quasi vicino all’uscita, a un passo dalle vecchie carrozze non so più da quanto parcheggiate sotto il marciapiede, e riprendeva a suonare.

 
Adesso di vaporiere, magari con la scritta Ernesto Breda sulla fronte, ne vedo tante, su facebook, in foto e in video.
 
Orchestra sul treno 

Listenersalento express arriva 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ogni tanto, ritorno in quella stazione, per vedere i treni che arrivano da Bari, la littorina da Lecce o vanno verso quelle città. Il nome littorina partorito da un giornalista fantasioso, richiama un periodo non felice della nostra storia; tuttavia le sono affezionato, tanto che, durante uno dei miei viaggi a Brindisi, a bordo di questa freccia, proposi e ottenni di stare vicino al conducente. Che bello! La macchina divorava le rotaie, sostando a tutte e stazioni. Andavo a Brindisi una volta la settimana per confezionare “Il Meridionale”, settimanale dell’avvocato Margherita, assieme al giornalista professionista De Luca, che aveva lavorato al “Corriere Lombardo” di Milano e si divideva tra “Il Corriere del Giorno” e questo giornale. Ricordo la figura snella e alta di uno dei collaboratori più presenti, che ogni tanto veniva da Bari: si chiamava, se non sbaglio, Cacciapuoti. Scriveva molto bene, ma aveva un carattere ruvido e faceva molta fatica ad abbozzare un sorriso; mentre De Luca era come un nonno saggio e paziente. Avevo vent’anni e il giornalismo nel sangue. Parlando di Littorina, non intendo mettere da parte la vaporiera, per carità. Mi sono chiesto tante volte se il convoglio che viaggiò per primo sulla prima rete ferroviaria nella nostra penisola, la Napoli-Portici, voluta da Ferdinando II di Borbone e solennizzata il 3 ottobre 1839, alle ore 10, era tirato da una vaporiera Bayard. Ho poi letto che era una Longridge, di fabbricazione inglese, battezzata con il nome “Vesuvio”. In una carrozza, quel giorno di festa - informa Raffaele De Cesare, nel suo libro “La fine di un regno”, viaggiava il sovrano e nell’ultima era acquartierata la banda della guardia reale. La locomotiva a vapore o vaporiera è detta “Ciucculatère” nel mio dialetto, come gli altri ricco di suoni e di onomatopee, ma non so se questo appellativo le faccia onore. Mi sa tanto che sia anche un po’ riduttivo. Ma, nomignolo a parte, la vaporiera rimane un prodigio, inventato agli albori del XIX secolo, da George Richard Stephenson e altri. Non ho nostalgia dei miei anni giovanili. Ma della vaporiera sì. Tra l’altro stimola tanti ricordi. Ho ancora in mente scene e scenate accadute tra i suoi sedili. C’era ancora la guerra con le atrocità e i disastri e una sera tra la folla diretta a Martina sul treno zeppo come una scatola di sardine tra un martinese e un tarantino scoppiò una lite. Ebbi paura che venissero alle mani, soprattutto quando il secondo disse al primo: “Hai ancora in mano la zappa!”. Una espressione squallida: lavorare la terra non è una vergogna. Anzi.