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mercoledì 17 aprile 2024

I giorni della seconda guerra mondiale

 LI AVEVAMO QUASI DIMENTICATI MA RIECCO I RUMORI SPAVENTOSI






I disastri, i drammi, il dolore, il terrore raccontati in un volume appena uscito di Vincenzo Di Michele.
Si è  ripresentato il ricordo delle bombe su Roma, Milano, Taranto, Pescara, Palermo... Le atomiche 
su Nagasaki e Hiroshima. “Homo homini lupus”.


















FRANCO PRESICCI




Vincenzo Michele in controcopertina 
La guerra non è un’avventura, come qualcuno ha sentenziato. Non è un’esperienza di vita.
La guerra sconvolge uomini e paesi, li incenerisce, li annienta. La guerra lascia ferite, drammi, traumi che non si dimenticano mai. Il tuono delle bombe, il sibilo delle sirene, le corse ai rifugi antiaerei, le maschere antigas per i capi fabbricato, i pali messi a sostenere i soffitti dei pianterreni per evitare che un ordigno li faccia sprofondare, la paura, il terrore, gli urli delle mamme, i pianti dei bambini, il coprifuoco, le tessere annonarie, le fucilate contro persone innocue, gli stupri.
Sentii dire che la guerra ha una funzione economica, anche perché disincrementa le nascite e assottiglia le popolazioni. Cinismo, disumanità, ignoranza, e magari interessi nascosti in chi durante la guerra fa lievitare il conto in banca.
Ho novant’anni e negli anni della guerra ero in grado di assimilare ciò che stava succedendo. Con i miei familiari ero sfollato a Martina Franca, dove arrivavano le voci dei disastri. E dal piazzale del trullo la notte potevamo vedere l’orizzonte che s’infiammava. Lì c’era Taranto. Da bambini ci dicevano: arrivano gli americani, i liberatori, chissà se passeranno da qui; e se lo fanno che cosa sarà di noi? Sarà un bene o un male? I tedeschi, passati da alleati a nemici, evacuavano, facendo altre distruzioni, altri morti, altri feriti, provocando altre tragedie: per dispetto, per rabbia, per crudeltà.
Gli americani ci “regalarono” prima le bombe, poi le chewing gum, la cioccolata, le sigarette Lucky Strike, il boogy woogie. Alcuni sposarono le nostre donne, altri le lasciarono spegnendo in loro il sogno americano, altre vennero stuprate e lasciate sulla strada. Ricordo la borsa nera, il pane razionato, gli ordigni atomici su Nagasakj e Hiroshima… Terminato il conflitto, la gente sentì il bisogno di distrarsi, di dimenticare, di disperdere l’angoscia, affollando le balere. Dimenticò davvero?
Poi abbiamo vissuto quasi 80 anni di pace, con l’illusione che mai più l’uomo avrebbe perduto i lumi della ragione. E invece ci ritroviamo nell’inferno con l’Ucraina quasi rasa al suolo e la striscia di Gaza infiammata, con la tregua che balugina tra un giorno e l’altro, insanguinati. La televisione manda immagini terrificanti: palazzi crollati, sventrati, scheletri di cemento, gigantesche macerie che seppelliscono migliaia di vittime che i superstiti bagnano di lacrime. Ci domandiamo con paura: E se questa follia coinvolge altri Paesi? E se un potente fuori di testa, andando oltre le minacce, decide di sganciare davvero la bomba atomica? Sarebbe l’apocalisse.
L’uomo dissolve ciò che tocca. Chi odia la guerra e chi la teme sono impotenti, indignati, terrorizzati, disgustati nel vedere chi ordina la distruzione di massa sorridere davanti alle telecamere fra le mimose, simbolo di delicatezza, virtù delle donne, di riscatto da una condizione di ingiusta inferiorità. Che c’entra con la mimosa l’uomo che annulla un Paese con disumana freddezza? E gli altri? Hanno le loro colpe.
La galleria Vittorio Emanuele

L’abbiamo già vissuta, dunque, la guerra in casa: non vorremmo che proseguisse, sconfinasse, accrescendo i lutti e il dolore. Immagino la sorpresa di Arrigo Benedetti quando entrò a Tombolo e incontrò i contadini che si tenevano lontano dai campi che erano stati minati; e nelle baracche degli Alleati erano ammonticchiati farina, birra in scatola, pizza preconfezionata, zucchero… Curzio Malaparte, futuro autore de “La Pelle” (uscirà nel ‘49), descrisse i drammi di Napoli tra “segnorine” e sciuscia, fame, miseria, disastri, tormenti, una città meravigliosa, quasi unica, sconvolta. A Livorno, e non solo, i tedeschi disseminarono le strade di penne stilografiche e altri oggetti trasformati in ordigni che strapparono dita o mani o gambe, la vita a chi ebbe l’imprudenza di toccarli. La malvagità fatta persona. Oltre a Napoli, Palermo, Roma, Pescara, Livorno.... bombardate. A Milano la pioggia di fuoco mutilò la Scala, la Galleria Vittorio Emanuele, piazza San Fedele, demolì una scuola elementare a Greco. Ricordi non in ordine di data, ma lancinanti.
A scatenare la memoria non sono stati soltanto i conflitti in Ucraina e nella striscia di Gaza, ma anche un libro di Vincenzo Di Michele intitolato “Le scomode verità nascoste nella seconda guerra mondiale”, interessante, stile limpido, scorrevole. Di verità nascoste ce ne sono state tante. Un esempio? Le foibe. Occultate per anni. Migliaia di corpi gettati negli anfratti, nelle grotte per sottrarli alla scoperta. Quante donne sono state violentate nella seconda guerra mondiale, in casa, in strada, ovunque. Quanti soprusi sono stati perpetrati contro le donne, ridotte allo stato di schiave anche nei posti di lavoro. Quanti uomini ridotti a scheletri nei campi di concentramento?
Piazza San Fedele

“Sul fronte orientale i tedeschi violentarono le donne russe, mentre in Ucraina e Bielorussia rastrellarono e sterilizzarono le giovani donne e poi le assoldarono per soddisfare i desideri sessuali del loro esercito… La Germania era totalmente distrutta e in una situazione di grave indigenza”. Pagine crude, senza voli stilistici: si inoltrano nei crimini nazisti, negli orrori dei campi di concentramento, dove la vita non aveva alcun valore, dove l’annientamento di massa era fatto sistematicamente: una vita si trasformava in fumo che usciva dai comignoli dei forni crematori. “Tu passerai per il camino”. E migliaia di esseri umani ci passarono. Di Michele dà spazio ai racconti delle donne ebree che sono riuscite a salvarsi dai campi recintati col fil di ferro spinato, con ferite sul corpo e nell’anima che non si cancelleranno più. Pagine ansiogene: “Avrei voluto essere un cane, perché ai nazisti piacevano i cani… i tedeschi non avevano una coscienza o un barlume di ragione… Consideravano subumani i prigionieri: tutti esseri deboli, fisicamente tarati e sempre con le mani alzate in segno di resa, perennemente propensi alla sconfitta e al pianto.... Nel loro comportamento squilibrato i soldati di Hitler non facevano altro che infliggere violenze e umiliazioni… aizzavano i cani che mordevano i genitali agli uomini e il seno alle donne. A seguire premiavano queste bestie con carezze e coccole in maniera smisurata”. E ancora: Uomini e donne per la fame e le scudisciate erano scheletri con gli occhi infossati. Uomini e donne, persone, certi di non sopravvivere fino al giorno dopo. I racconti di chi c e l’ha fatta sono tremendi. Umiliante è il numero che portano ancora sul braccio: numero che sta a testimoniare la condizione in cui erano ridotti: un numero e basta. SeLa guerra non è un’avventura, come qualcuno ha sentenziato. Non è un’esperienza di vita. La guerra sconvolge uomini e paesi, li incenerisce, li annienta. La guerra lascia ferite, drammi, traumi che non si dimenticano mai. Il tuono delle bombe, il sibilo delle sirene, le corse ai rifugi antiaerei, le maschere antigas per i capi fabbricato, i pali messi a sostenere i soffitti dei pianterreni per evitare che un ordigno li faccia sprofondare, la paura, il terrore, gli urli delle mamme, i pianti dei bambini, il coprifuoco, le tessere annonarie, le fucilate contro persone innocue, gli stupri.
La Scala

Sentii dire che la guerra ha una funzione economica, anche perché disincrementa le nascite e assottiglia le popolazioni. Cinismo, disumanità, ignoranza, e magari interessi nascosti in chi durante la guerra fa lievitare il conto in banca.
Ho novant’anni e negli anni della guerra ero in grado di assimilare ciò che stava succedendo. Con i miei familiari ero sfollato a Martina Franca, dove arrivavano le voci dei disastri. E dal piazzale del trullo la notte potevamo vedere l’orizzonte che s’infiammava. Lì c’era Taranto. Da bambini ci dicevano: arrivano gli americani, i liberatori, chissà se passeranno da qui; e se lo fanno che cosa sarà di noi? Sarà un bene o un male? I tedeschi, passati da alleati a nemici, evacuavano, facendo altre distruzioni, altri morti, altri feriti, provocando altre tragedie: per dispetto, per rabbia, per crudeltà.
Gli americani ci “regalarono” prima le bombe, poi le chewing gum, la cioccolata, le sigarette Lucky Strike, il boogy woogie. Alcuni sposarono le nostre donne, altri le lasciarono spegnendo in loro il sogno americano, altre vennero stuprate e lasciate sulla strada. Ricordo la borsa nera, il pane razionato, gli ordigni atomici su Nagasakj e Hiroshima… Terminato il conflitto, la gente sentì il bisogno di distrarsi, di dimenticare, di disperdere l’angoscia, affollando le balere. Dimenticò davvero?
Poi abbiamo vissuto quasi 80 anni di pace, con l’illusione che mai più l’uomo avrebbe perduto i lumi della ragione. E invece ci ritroviamo nell’inferno con l’Ucraina quasi rasa al suolo e la striscia di Gaza infiammata, con la tregua che balugina tra un giorno e l’altro, insanguinati. La televisione manda immagini terrificanti: palazzi crollati, sventrati, scheletri di cemento, gigantesche macerie che seppelliscono migliaia di vittime che i superstiti bagnano di lacrime. Ci domandiamo con paura: E se questa follia coinvolge altri Paesi? E se un potente fuori di testa, andando oltre le minacce, decide di sganciare davvero la bomba atomica? Sarebbe l’apocalisse.
L’uomo dissolve ciò che tocca. Chi odia la guerra e chi la teme sono impotenti, indignati, terrorizzati, disgustati nel vedere chi ordina la distruzione di massa sorridere davanti alle telecamere fra le mimose, simbolo di delicatezza, virtù delle donne, di riscatto da una condizione di ingiusta inferiorità. Che c’entra con la mimosa l’uomo che annulla un Paese con disumana freddezza? E gli altri? Hanno le loro colpe.
L’abbiamo già vissuta, dunque, la guerra in casa: non vorremmo che proseguisse, sconfinasse, accrescendo i lutti e il dolore. Immagino la sorpresa di Arrigo Benedetti quando entrò a Tombolo e incontrò i contadini che si tenevano lontano dai campi che erano stati minati; e nelle baracche degli Alleati erano ammonticchiati farina, birra in scatola, pizza preconfezionata, zucchero… Curzio Malaparte, futuro autore de “La Pelle” (uscirà nel ‘49), descrisse i drammi di Napoli tra “segnorine” e sciuscia, fame, miseria, disastri, tormenti, una città meravigliosa, quasi unica, sconvolta. A Livorno, e non solo, i tedeschi disseminarono le strade di penne stilografiche e altri oggetti trasformati in ordigni che strapparono dita o mani o gambe, la vita a chi ebbe l’imprudenza di toccarli. La malvagità fatta persona. Oltre a Napoli, Palermo, Roma, Pescara, Livorno.... bombardate. A Milano la pioggia di fuoco mutilò la Scala, la Galleria Vittorio Emanuele, piazza San Fedele, demolì una scuola elementare a Greco. Ricordi non in ordine di data, ma lancinanti.
A scatenare la memoria non sono stati soltanto i conflitti in Ucraina e nella striscia di Gaza, ma anche un libro di Vincenzo Di Michele intitolato “Le scomode verità nascoste nella seconda guerra mondiale”, interessante, stile limpido, scorrevole. Di verità nascoste ce ne sono state tante. Un esempio? Le foibe. Occultate per anni. Migliaia di corpi gettati negli anfratti, nelle grotte per sottrarli alla scoperta. Quante donne sono state violentate nella seconda guerra mondiale, in casa, in strada, ovunque. Quanti soprusi sono stati perpetrati contro le donne, ridotte allo stato di schiave anche nei posti di lavoro. Quanti uomini ridotti a scheletri nei campi di concentramento?
“Sul fronte orientale i tedeschi violentarono le donne russe, mentre in Ucraina e Bielorussia rastrellarono e sterilizzarono le giovani donne e poi le assoldarono per soddisfare i desideri sessuali del loro esercito… La Germania era totalmente distrutta e in una situazione di grave indigenza”. Pagine crude, senza voli stilistici: si inoltrano nei crimini nazisti, negli orrori dei campi di concentramento, dove la vita non aveva alcun valore, dove l’annientamento di massa era fatto sistematicamente: una vita si trasformava in fumo che usciva dai comignoli dei forni crematori. “Tu passerai per il camino”. E migliaia di esseri umani ci passarono. Di Michele dà spazio ai racconti delle donne ebree che sono riuscite a salvarsi dai campi recintati col fil di ferro spinato, con ferite sul corpo e nell’anima che non si cancelleranno più. Pagine ansiogene: “Avrei voluto essere un cane, perché ai nazisti piacevano i cani… i tedeschi non avevano una coscienza o un barlume di ragione… Consideravano subumani i prigionieri: tutti esseri deboli, fisicamente tarati e sempre con le mani alzate in segno di resa, perennemente propensi alla sconfitta e al pianto.... Nel loro comportamento squilibrato i soldati di Hitler non facevano altro che infliggere violenze e umiliazioni… aizzavano i cani che mordevano i genitali agli uomini e il seno alle donne. A seguire premiavano queste bestie con carezze e coccole in maniera smisurata”. E ancora: Uomini e donne per la fame e le scudisciate erano scheletri con gli occhi infossati. Uomini e donne, persone, certi di non sopravvivere fino al giorno dopo. I racconti di chi c e l’ha fatta sono tremendi. Umiliante è il numero che portano ancora sul braccio: numero che sta a testimoniare la condizione in cui erano ridotti: un numero e basta. Senza un nome. Senza più una storia. Fantasmi in cammino, chi aveva ancora la forza di muovere le gambe per fare un passo.
Alla fine della guerra, davanti ai tribunali i responsabili di questi crimini si difesero dicendo che avevano obbedito agli ordini. Questo li assolve? Kappler fuggì dal Celio, un giorno di agosto. Forse raggomitolato in una valigia? L’ipotesi s’impose. Ma chi fu complice della fuga?. Erich Priebke anche dinanzi al tribunale mantenne la sua boria senza allentarla un momento, sicuro di aver fatto il suo dovere. Così quando lo si vedeva comparire sul piccolo schermo. Chi è stato complice delle fughe dei nazisti che dovevano rendere conto delle loro azioni? Di Michele risponde senza esitazioni, senza dubbi. C’è un uomo – ricorda ancora l’autore - che tenacemente, instancabilmente, cercò ovunque i criminali nazisti, acciuffandone non pochi. Si chiamava Simon Wiesenthal, ed era stato liberato dagli alleati nel maggio del ‘45 dal campo di sterminio di Mauthausen. Di Michele incalza. Episodio dopo episodio, storia dopo storia. Compresa quella della scomparsa di Ettore Majorana, il fisico scomparso la sera del 25 marzo ‘38, a 31 anni. Era molto stimato da Enrico Fermi, che scrisse al duce per sollecitarne la ricerca.
ll libro contiene anche una serie di immagini, tra cui quelle terribili delle bombe su Hiroshima (il 6 agosto) e su Nagasaki (il 9) del 1945. Scorrono anche quelle di Pierre e Marie Curie nel loro laboratorio all’Istituto di Fisica e Chimica di Parigi, e tante scene delle brutalità della guerra. Ce n’è abbastanza. Speriamo di non vedere più affisso sui muri il manifesto con la scritta “Tacete, il nemico vi ascolta”. E speriamo di non vedere più nemmeno la foto della donna anziana vestita di nero che si aggira tra le macerie del suo paese.nza un nome. Senza più una storia. Fantasmi in cammino, chi aveva ancora la forza di muovere le gambe per fare un passo.
Pagina interna del libro

Alla fine della guerra, davanti ai tribunali i responsabili di questi crimini si difesero dicendo che avevano obbedito agli ordini. Questo li assolve? Kappler fuggì dal Celio, un giorno di agosto. Forse raggomitolato in una valigia? L’ipotesi s’impose. Ma chi fu complice della fuga?. Erich Priebke anche dinanzi al tribunale mantenne la sua boria senza allentarla un momento, sicuro di aver fatto il suo dovere. Così quando lo si vedeva comparire sul piccolo schermo. Chi è stato complice delle fughe dei nazisti che dovevano rendere conto delle loro azioni? Di Michele risponde senza esitazioni, senza dubbi. C’è un uomo – ricorda ancora l’autore - che tenacemente, instancabilmente, cercò ovunque i criminali nazisti, acciuffandone non pochi. Si chiamava Simon Wiesenthal, ed era stato liberato dagli alleati nel maggio del ‘45 dal campo di sterminio di Mauthausen. Di Michele incalza. Episodio dopo episodio, storia dopo storia. Compresa quella della scomparsa di Ettore Majorana, il fisico scomparso la sera del 25 marzo ‘38, a 31 anni. Era molto stimato da Enrico Fermi, che scrisse al duce per sollecitarne la ricerca.
ll libro contiene anche una serie di immagini, tra cui quelle terribili delle bombe su Hiroshima (il 6 agosto) e su Nagasaki (il 9) del 1945. Scorrono anche quelle di Pierre e Marie Curie nel loro laboratorio all’Istituto di Fisica e Chimica di Parigi, e tante scene delle brutalità della guerra. Ce n’è abbastanza. Speriamo di non vedere più affisso sui muri il manifesto con la scritta “Tacete, il nemico vi ascolta”. E speriamo di non vedere più nemmeno la foto della donna anziana vestita di nero che si aggira tra le macerie del suo paese.

mercoledì 10 aprile 2024

Facendo due passi ti arricchisci




A MILANO OGNI STRADA
UN BRICIOLO DI CULTURA



Caffè Biffi in Galleria Vittorio Emanuele
In corso Venezia si ammira il
palazzo Castiglioni, del 1901,
costruito in stile Liberty: in via
degli Omenoni, cariatidi enormi
incastonate nell’architettura. Le
cascine, i Caffè, i monumenti.



 
 
 
 
 
 
 
Franco Presicci

Non si contano le strade che a Milano raccontano condensati di storia. Tantissimi anni fa Raffaele Bagnoli li raccolse in cinque volumi, allineando arterie e percorsi di periferia, da via Cesare Correnti alla via Cascina Barocco, detta così perchè a suo tempo conteneva tante strutture rurali, in massima parte scomparse, lasciando il ricordo sulle targhe di marmo incassate negli angoli, in alto.
Il Savini in Galleria

Sono passati molti anni da quando per motivi di lavoro entrai in via Cascina Barocco, all’estremo limite della città: il titolare di un’officina meccanica della zona, portando una sera a spasso il cane, su uno spazio spettinato con mucchi di rifiuti notò una grossa bambola che bruciava; al ritorno guardò meglio e si accorse che era il corpo di una donna., probabilmente uccisa altrove e gettata lì come un sacco di juta. Arrivai verso le 22 e cercai di mietere il maggior numero possibile di particolari sull’accaduto e non badai ad informarmi sull’origine del nome di quella specie di sentiero. Mi proposi di farlo in un momento più tranquillo. Da tempo m’impegnavo nella lettura di “Strade di Milano” di Bagnoli, scrittore prolifico e avvincente, che faceva parte della Famiglia Meneghina. Quei cinque volumi erano una sorta di pozzo di san Patrizio di informazioni sulle vie, le loro caratteristiche, la storia, le curiosità, le preziosità architettoniche, le trasformazioni subite, le demolizioni, che hanno riguardato anche le cascine.

Il piccone, per fare spazio a edifici moderni, ha inferto li suoi colpi, per esempio, alla Cascina Merlata, dove, nei boschi, durante la dominazione spagnola, imperversavano i briganti, i cui capi, Giacomo Leporino e Battista Scorlino, vennero poi catturati e condannati alla forca.
Piazza Cavour

Non tutte le strutture rurali hanno fatto la stessa fine: ecco la Cascina Bellaria e la Cascina dei Pomi, questa in via Melchiorre Gioia, a qualche metro di distanza dal punto in cui la Martesana smette di scorrere allo scoperto e si tuffa in un lungo tunnel. Resiste il fabbricato, sia pure pieno di rughe, dove una volta i milanesi andavano a riposarsi e a rifocillarsi, quando facevano le loro gite fuori porta o per recarsi a Monza a piedi, in carrozza, in bicicletta o con i barchetti. C’è stato anche Carlo Porta, di cui sono noti i brindisi.

In via Cesare Corrente, nome di un personaggio che nato a Messina e trasferitosi a Milano nel 1811, prese casa in via della Spiga, alimentò le riunioni segrete che si conclusero con i moti del ‘48; inviò un proclama che sollecitava il governo austriaco a prendere decisioni liberali.
via Della Spiga

Nominato senatore nell’86, ebbe anche incarichi ministeriali. In questa via sorgeva la Pusterla dei Fabbri, che dava ispirazione a molti pittori. Sull’arco campeggiava una scultura che si pensava rappresentasse il dio protettore dei nubendi, e per questo gli veniva tributato omaggio dagli sposi. La decisione di cancellare dal tessuto urbano la Pusterla scatenò molte proteste in Consiglio comunale, ma il destino era ormai segnato e ai primi del 900 venne abbattuta.

Milano ha sempre avuto il bisogno di rinnovarsi, nel bene e nel male. Come oggi tante belle donne si sottopongono a interventi chirurgici, qualche volte addirittura dannosi, nell’ansia di correggersi il naso o le labbra…

A volte la ruspa è stata necessaria, per eliminare qualche bruttezza, come il Bottonuto, via squallida e malfamata, in cui tra l’altro si esercitavano affari di sesso.
Via Dante
La città – affermava Carlo Romussi in “Milano che sfugge” del 1899 … è famosa per le sue vie: il sindaco Belinzaghi soleva anzi dire a questo proposito che al proverbio di raddrizzar le gambe ai cani si poteva sostituire quello di raddrizzar le vie di Milano. Ma è la nostra storia che vuol così: perché Milano tante volte distrutta risorse sempre dalle rovine…”. . Anche Vittore e Claudio Buzzi hanno scritto un bel libro, “Le vie di Milano”, molto interessante, perché racconta le vie, la loro storia, i personaggi che hanno dato lustro alla città, la vita quotidiana, i mestieri che si esercitavano.... Piazza Vetra, a Porta Ticinese, per esempio, è famosa perché in essa venivano giustiziati i condannati che non appartenevano alla nobiltà; via dei Fontanili prende il nome dalle sorgenti di acqua di falda che irrorava i campi; via Della Spiga, che va da corso Venezia in via Manzoni, si chiama così per un’antica insegna a forma di spiga di un’osteria; piazza Belgioioso, celebrata per la sua armonia come la piazza più bella di Milano, ricorda i sospiri d’amore di Stendhal per Matilde Dembowscki Viscontini; corso San Gottardo (da piazza XXIV Maggio a via Meda), le cui case hanno cortili simili a vicoli che sfociano in via Ascanio Sforza, lungo il Naviglio Pavese, viene ricordato come luogo in cui ai primi del ‘900 si custodivano 200.000 “ruote” di formaggio (“Ghe n’è de forma tonda/ quadra e guzza/ Che n’è che sa de bon/ ghe n’è che spuzza...” .
Piazza Belgioioso

Queste pagine sono un racconto lunghissimo, che comprende i monumenti, le chiese, le attività commerciali, i caffè, dove non si beveva soltanto, ma si trascorrevano ore di spensieratezza, conversando, facendo pettegolezzi, discutendo a volte in modo acceso dei fatti accaduti, di politica, di costume, argomenti che calamitavano gruppi di avventori di ogni lignaggio. “La Ca’ de la comaa” apparteneva a una non meglio identificata Caterina de Padroni, che vendeva paglia e fieno ai proprietari di quadrupedi, ma faceva anche la levatrice. Forse perché stanca di fare l’uno e l’altro mestiere, anziché escluderne uno cedette il locale ad Antonio Cova, che dette al locale ben altra dignità e brillantezza, attirando una clientela di altissimo iivello anche per il suo panettone speciale e i gelati insuperabili.

Caffè, teatri, signorili luoghi di ritrovo. Ecco il Caffè Teatro della Scala, frequentato da artisti e uomini politici; il “Gambrinus” in Galleria; il Caffè Greco, di fronte al Duomo, meta di Petro Verri; il Caffè Campari, aperto in Galleria Vittorio Emanuele; il Caffè dell’Accademia, luogo di riunione di critici musicali e artisti; il Caffè dei Servi nell’omonima corsia; il Caffè del Duomo, dai milanesi denominato Caffè dei muti, perchè le parole non dovevano distrarre i lettori di giornali.

I Caffè possiamo ammirarli anche nell’arte. In principio erano aristocratici, poi divennero borghesi e infine proletari. Tutte le città più importanti, Napoli, Torino, Roma, oltre a Milano, hanno avuto i loro Caffè famosi, frequentati da celebrità, dalla Callas a Toscanini, da D’Annunzio a Eduardo De Filippo a Totò.

E’ lunghissima la serie dei Caffè di Milano, ognuno con le sue vicende. Al “Caffè dei Pompieri”, secondo gli esperti, nacque la famosa “Barbaiata”, inventata dal proprietario, che si chiamava appunto Barbaia.

Andrei ancora oggi, potendo, in giro per Milano con il naso all’in su per leggere i contenuti delle targhe e scoprire per esempio che via Della Palla, nei pressi di via Torino, fu battezzata con questo nome, perché a quanto parte vi si praticava un gioco molto in voga nel XVI secolo; che in via degli Armorari, la figlia di un artigiano si vedeva uscire dalla casa di un feudatario, che la sedusse e l’abbandonò togliendole la figlia e lasciandola a piangere e cantare “vezzeggiando” una bambola; (parola di Romussi); che via Olmetto faceva parte di un’antica contrada in cui sorgeva un olmo secolare; che via Caminadella fu battezzata così per un’abitazione munita di camino, allora privilegio esclusivo e diventato comune nel XIII secolo.
Corso Venezia

In corso Venezia si possono ammirare facciate di palazzi affascinanti in stile Liberty, come quella di palazzo Castiglioni; via Sant’Andrea come altre arterie vanta magnifici cortili con aiuole policrome, semiarchi, fontane, sculture, pozzi... Ed ecco via degli Omenoni, nei pressi di piazza Belgioioso, così denominata per le grandi cariatidi, giganti incastonati nell’architettura di uno stabile, costruito dall’artista Leoni Leone ((1509-1590) e obiettivo dei fogli satirici dell’800, che li immaginavano in divertenti colloqui con il “sciur Carera”, l’”omm de preja”, l’uomo di pietra, al quale venivano appiccicati le proteste, le polemiche, le indignazioni, gli sberleffi dei cittadino contro il potere: il Pasquino meneghino. Insomma a Milano ogni strada, a voler guardare bene e avendo tempo e voglia, contiene indicazioni che ci arricchiscono.






mercoledì 3 aprile 2024

Uno stimato personaggio pugliese

 IL BARESE PEPPINO STRIPPOLI DIMENTICATO RE DEL VINO





Peppino Strippoli
Negli anni Cinquanta-Sessanta a Milano aprì molti ristoranti: “’Ndèrre a la Lànze” il più noto. A Saronno il supermercato del vino, dove allestiva manifestazioni per celebrare il nettare che domina le tavole. Nato a Cerignola, tutti credevano fosse del capoluogo pugliese.














Franco Presicci



Fu il grande pittore Filippo Alto, barese doc, a parlarmi per primo di Peppino Strippoli, detto l’apulo-milanese. Eravamo a tavola con un nutrito numero di amici e il discorso cadde su Chechele e Nennella, ambasciatori della nostra terra nel capoluogo lombardo; e da lì a Strippoli il passo fu breve.
Filippo lo conosceva bene. Qualche volta lui bussava alla porta di via Calematta, la casa del commendator Guglielmo Miani, altro nostro corregionale che ha dato lustro alla Puglia, dove l’artista abitava, salutava, gustava un paio di polpette, se era domenica, guardava il quadro in fase di esecuzione, qualche battuta e via.
Vincenzo Buonassisi e Jbrahim Kodra

Un giorno Filippo portò me in uno dei ristoranti aperti da Peppino e ne ebbi un’ottima impressione: pulito, ordinato, con camerieri pronti al servizio, gentilissimi, proprio come avevo sentito dire da chi a quei tavoli si era seduto più volte. Poi un tale nato nei dintorni di Bari e preso da quel sentimento che porta ad essere contro quelli che sono nati “fuori” (tra l’altro sdegnava il suo dialetto per non sfigurare con i milanesi, di cui voleva essere copia conforme), aggiunse che la cucina di Strippoli era esemplare e che nei suoi locali i pugliesi si sentivano a casa. Come se da Strippoli ci andassero a gustare le pietanze soltanto i “terroni” (uso il termine con orgoglio). Un’altra volta fu Chechele a chiedermi di accompagnarlo a Saronno, al supermercato del vino dell’apulo-pugliese. E incontrai per la prima volta Strippoli, con cui scambiai solo poche parole.
Dopo qualche tempo organizzò una serata memorabile: belle ragazze che a piedi nudi pestavano l’uva da trasformare in vino, gioia di stare insieme pugliesi e meneghini, bergamaschi e bresciani... Avevo in mente di scrivere un pezzo per il giornale e lo intervistai, catturando un suo sfogo: “Il vino nei contenitori di cartone? Un sacrilegio”.
I questori Caracciolo e Plantone

Ogni tanto coinvolgeva Gillo Pontecorvo, che era d’accordo. “Il vino va tenuto in bottiglia – ripeteva – da dove viene questa novità?”. Io ero in compagnia di Paolo de Barros, già comandante di Jumbo, che mi aveva fatto tanta compagnia in un viaggio in mare da Trieste a Smirne; e insieme simpatizzammo con tante persone, ammirando anche la biblioteca ricca di libri sul nettare, mentre tutti, noi compresi, assaporavano un bicchiere di quello inebriante.
Strippoli lo conoscevano tutti, non solo a Milano. C’è stato un periodo in cui si parlava più di lui che di Gino Bramieri o di Piero Mazzarella, che furoreggiavano uno in televisione, l’altro al Teatro Gerolamo. In un lungo periodo, sin dagli anni Cinquanta, aprì ristoranti, trattorie, cantine, dove serviva orecchiette a giornalisti, scrittori, artisti. Spesso, se al “Corriere della Sera” avevano bisogno per un’emergenza di parlare con il capocronista Vittorio Notarnicola, lo rintracciavano da Strippoli, dove si potevano trovate Salvatore Giannella, che dirigeva l’importantissimo periodico della Mondadori “Airone”; il sindaco Carlo Tognoli, Vincenzo Buonassisi, il commendator Guglielmo Miani, personaggio venuto da Andria e famoso non solo per i suoi eleganti negozi nel pieno centro di Milano, ma anche per aver ospitato nella sua abitazione il principe Filippo di Edimburgo e per aver ricevuto, per i suoi meriti, l’Ordine della Giarrettiera. Da sarto era diventato molto importante: vestiva i vip con pregiata stoffa inglese e andava a cena con il prefetto, come scrisse sul “Giorno” Nantas Salvalaggio, giornalista dallo stile brillante.
Vernola, Strippoli, Alto

Del Mare, Tognoli, Vernola
Da Strippoli ci andava anche Luigi Veronelli, che scriveva sul vino sullo stesso quotidiano dell’Eni, articoli insaporiti di poesia. Coltissimo, vero esperto della bevanda, Veronelli abitava a Bergamo Alta. Persona cortese, mi invitò a casa sua ad assaporare uno dei suoi vini pregiati. Gli avevo telefonato per conoscere la sua opinione su Edoardo Raspelli, e mi rispose che era stato proprio il giornalista de “Il Corriere d’Informazione”, passato a scoprire cascine, attività agricole, casearie, sapori, usi e tradizione dei diversi borghi dell’Italia per Canale 5, a creare la critica gastronomica.
Veronelli mi disse anche che lui non andava nei locali di Strippoli soltanto per gustare la cucina pugliese, ma anche per informarsi sulla Puglia, sulle sue bellezze e sui modi di vivere dei suoi abitanti. A “’Nderr’a la lànze, uno dei locali dell’apulo pugliese, vicino all’Università Statale, si faceva vedere Mario Capanna, “leader” del Movimento studentesco, che un giorno, in un contesto di alti personaggi, fece un discorso tutto in latino in risposta a chi aveva accusato i sessantottini di essere perditempo ignoranti che manifestavano per marinare la scuola. E a volte si videro Vito Plantone, non ancora questore, e la moglie Emma, sempre in compagnia degli amici più cari. Plantone, amante delle fave con la cicoria, a richiesta raccontava di Strippoli tutte le attività e lo sapeva delineare molto bene anche nel carattere. Ricordava anche com’era vestito una certa sera. Plantone amava frequentare i locali, di notte e di giorno. Era di Noci, paese di cui adorava soprattutto il centro storico. E amava la buona cucina; e la Puglia, la terra del sole, delle masserie, degli ori di Taranto, delle cozze. La Puglia che vanta lo splendore di Martina Franca, di Lecce, centri storici come quelli di Locorotondo con fondali e quinte di teatro.
Una sera dal ristoratore pugliese si sedette tutta la compagnia del Teatro Bolscioi, a cui lui in persona servì il pane fatto venire da Altamura, che condivide con laterza la fama e il merito dei forni più prestigiosi e fra le altre delizie il vino, che Strippoli cercava in Puglia, girando per i luoghi che lo producevano, compresi Martina Franca e Manduria, di cui parlò anche Mario Soldati nel suo volume “Vino al vino”. Di vino Strippoli era un vero esperto. Non aveva bisogno di fare i gesti filodrammatici che caratterizzano certi personaggi nell’atto di sentenziare sul sangue dell’uva. Era un difensore del vino pugliese, e non perdeva occasione per osannarlo. Da Milano scendeva spesso nella terra amata da Paolo Grassi e da Filippo Alto, che la celebrava nei suoi dipinti. Era un po’ l’ambasciatore di Puglia, prima che questo onore venisse assegnato a Michele Jacubino, detto Chechele, titolare del ristorante “La Porta Rossa” di via Vittor Pisani.
Chechele Jacubino

Fu Mario Dilio a dire a Filippo Alto e a me, ospiti di una delle tante manifestazioni che il pugliese, come lo chiamava Gaetano Afeltra, aveva organizzato con la sua genuinità. “Quest’uomo fa per la nostra regione quanto non fanno più ambasciatori messi insieme”. Qualcuno lo sentì e dopo un po’ di tempo la voce si diffuse e Chechele si trovò insignito di quel titolo che gli fu riconosciuto da tutti, avventori e non.
Tornando a Peppino di Strippoli, era nato a Cerignola, ma barese sulla bocca di tutti. Era stimato non soltanto da Luigi Veronelli, ma anche da Edoardo Raspelli, che con Vincenzo Buonassisi e altre personalità fece parte della giuria del Premio Milano di Giornalismo (Gino Palumbo, direttore de “La Gazzetta dello Sport”, Raffaele De Grada, illustre critico d’arte, Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno”, Giuseppe Giacovazzo, sulla plancia de “La Gazzetta del Mezzogiorno”…), che si teneva appunto alla “Porta Rossa” di Chechele.
Ma oggi chi parla più di Peppino Strippoli? Se si domanda di lui ai giovani, non si ottengono risposte. Ma anche molti anziani non ricordano più neppure il nome di Peppino Strippoli. La memoria dell’uomo è corta: un deposito che si esaurisce presto, un fiume che si prosciuga, una batteria che si scarica. Peccato. Tra i ristoranti che ha aperto quanti ricordano “’Ndèrre a la lànze”?
Edoardo Raspelli
O il locale che stava vicino al Piccolo Teatro, che ebbe come frequentatore Paolo Grassi e Piero Valpreda e il corrispondente de “La Gazzetta del Mezzogiorno” e autore di libri Annibale Del Mare, che bazzicava la libreria di viale Tunisia, di Nicola Partipilo, barese emigrato a Milano, che con la sua casa editrice gli pubblicò un libro. Essendo io amico di Nicola, mi conforta sapere che lui non ha dimenticato Strippoli, il ristoratore venuto da Bari, terra di uomini intraprendenti, di Tommaso Fiore, della Fiera del Levante, della Casa editrice Laterza, de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, dell’Università in cui insegnò Aldo Moro.
Un giorno il commercialista Giacomo Lezoche m’invitò a pranzo a Trani, sua città natale, nella sua bella casa con affaccio sul mare; e mi parlò tanto di tutti i pugliesi che avevano operato a Milano, soffermandosi sulla figura di Strippoli. Tirò fuori anche articoli di giornali che parlavano di lui e accennò ai “trani” (Giorgio Gaber), le osterie che i suoi concittadini a suo tempo avevano messo su a Milano. E mi parlò anche dello scrittore Nino Palumbo, autore fra l’altro di “Pane verde”, che aveva vissuto nel capoluogo lombardo per un un certo periodo di tempo, ritirandosi poi in Liguria, pur continuando a mantenere rapporti con Lezoche e con altri pugliesi.

mercoledì 27 marzo 2024

E’ ammaliato dalla figura della donna

LO SCULTORE ALFREDO MAZZOTTA HA LAVORATO CON LUCIANO MINGUZZI



Alfredo Mazzotta
Nato in Calabria da padre contadino e da madre casalinga, ha studiato scultura con Luciano Minguzzi e pittura con Domenico Purificato all'Accademia di Belle Arti di Brera e in seguito ha insegnato scultura per 40 anni al Liceo Artistico Statale di Brera; è stato assistente dello scultore Eros Pellini. Sue opere si trovano in varie parti del mondo.















Franco Presicci



Milano. Il volto da frate francescano e anche i modi, il sorriso dolce ispirano fiducia e simpatia. E quando racconta la sua infanzia, l’adolescenza, gli studi, i genitori, il paese in cui è nato, Nao, nei dintorni di Vibo Valentia, i maestri, Minguzzi soprattutto, cattura l’attenzione e non la molla.
Lo studio

Ho incontrato Alfredo Mazzotta, 73 anni, nel luogo in cui si raccoglie e medita, in via Donatello. Io e mia nipote Olimpia siamo entrati nel cortile, che ha al centro un’aiuola con bellissime camelie, che lui cura con amore, e ci è venuto incontro con un sorriso aperto e accogliente. “State guardando i fiori? Bellissimi, vero? Io li irroro, li poto, li vedo sbocciare e crescere. Appartengono al condominio”. Poi ci ha accompagnati nel suo sacrario, dove le pareti quasi non si vedono, coperte come sono da quadri suoi e di altri artisti. Sul tavolo alcune sculture, appena rientrate da una mostra nel castello di Melegnano. E sfila prima di tutti, nell’immaginazione, ma quasi reale da come la descrive, la nonna Rosa, che per ogni situazione aveva la soluzione e gli ha dato senza averne l’aria lezioni di vita. Ogni tanto accenna alle sue opere, alcune curve come becchi di bucero. Attraggono. quelle forme, affascinano, si lasciano contemplare.
Anche mia nipote è incantata, e sbircia le mie espressioni. Lui ha voglia di spiegare come nascono, e tu mai penseresti che a suggerirle è stata la curiosità tipica dei virgulti. Vide l’uovo, chiese notizie a nonna Rosa e lei gli illustrò senza veli il procedimento, che, si creda o no, è un miracolo. Alfredo, che aveva il cuore d’artista, già nei primi disegni impresse sulla carta l’ovale in tutte le forme che l’anima gli dettava: una continua trasformazione poetica.
“Dalla natura vengono le mie opere”. E si definisce essenzialista, proprio perché coglie l’essenza delle cose, rendendo il movimento, il gesto. In quella sintesi c‘è tutto. Anche quando parla non si allarga, non s’inoltra nel ginepraio delle parole, dei discorsi enfatici, della retorica, dell’eloquenza. Colpisce per la sua semplicità, per la sobrietà della narrazione, per la ricchezza dei particolari. I suoi ricordi fluiscono limpidi come l’acqua di un ruscello.
Figura in meditazione
Un po’ di storia: è nato nel ‘51 da Michele, contadino, e da Rosina, casalinga. Di loro parla con affetto e gratitudine. Non navigavano nel denaro, eppure, se necessario, davano agli altri, secondo gli insegnamenti di Gesù: quello che avete sulla tavola datelo ai poveri; quello che fate al poverello lo fate a me. Michele e Rosina fecero ogni sacrificio per farlo studiare; e lui nel ‘68, dopo aver preso la licenza media presso la scuola Bruzzano di Vibo Valentia, si diplomò Maestro d’Arte presso l’I.S.A. della stessa città. In quei tre anni “mi sono forgiato con i maestri Tumino e Manzari”: il primo silenzioso e meticoloso; l’altro più esuberante. Entrambi bravissimi. Poi i due consigliarono al padre di mandarlo all’Accademia di Belle Arti: a Napoli, a Roma o a Milano. Michele non ebbe alcuna esitazione: “E’ bene Milano? E Milano sia”, pronto a tutto per assecondare la vocazione di quel figlio talentuoso. La scuola di Michele era stata la terra, ma non voleva per il figlio facesse la stessa fatica e le sofferenze e le delusioni che la terra dà con la complicità delle intemperanze meteorologiche. Alfredo doveva avere il meglio, quindi, se Alfredo doveva andare a Brera, si aprissero pure per lui le porte di quell’Accademia.
Ed ecco Alfredo a Milano, con un sogno: avere come maestro Minguzzi, di cui già conosceva l’arte. E con Luciano Minguzzi si diploma nel ‘73 in scultura e si iscrive alla scuola di Domenico Purificato, quindi al corso di Cromatologia di Luigi Veronesi.
Figura in contorsione

Un cammino lungo pieno di soddisfazioni. E che gioia nel momento dell’incontro con Minguzzi, alto, possente, autore della quinta porta del Duomo di Milano e della Porta del Bene e del Male della Basilica di San Pietro in Vaticano. L’aveva creduto irraggiungibile e invece era a due passi da lui. L’incontro lo stimolò maggiormente, gli dette energia, più voglia di dare forma alla creta, creare con la stessa, con continue innovazioni, con la ricerca, con soluzioni tecniche diverse. Lavorò per anni nello studio del maestro, felice come se avesse vinto un premio. Minguzzi era il suo mito e con lui aveva un bel rapporto.
Frequentando il quartiere di Brera cominciò a conoscere i pittori che si sedevano al bar Giamaica e quelli che si alternavano nella latteria delle pie sorelle Pirovini, dove aveva un conto chilometrico Ibrahim Kodra, albanese di grande talento, già amato e stimato, destinato ad attraversare la storia di Milano. Di Kodra conserva alcune opere e un grandissimo ricordo, tanto che non di rado fa un salto nel museo del pittore, in piazzale Lagosta, dove Fatos Fasilliu riceve scolaresche, appassionati dell’arte del pittore sempre presente nel cuore dei meneghini e non.
Ma Alfredo non è stato soltanto amico di Ibrahim, “il primitivo di una nuova civiltà”, come lo definì Romano Piccichè o l’artista dai “colori delle favole orientali”, il pittore che dalla corte di re Zogu, grazie al questore di Durazzo, che lo aveva presentato alla regina, entrò nel cortile di Brera.
Poi Alfredo Mazzotta è diventato grande anche lui, facendo mostre di prestigio, partecipando anche a collettive. Le sue sculture si trovano in tutto il mondo, dalla Cina alla Corea, agli Stati Uniti, in Giappone, in Albania… Eppure è rimasto un uomo alla mano, amante della compagnia, abile nell’arte culinaria, nonno a tempo pieno, due figlie, Monia, appassionata di danza, e Ilaria suora rosminiana. Alfredo piace anche perché, pur vivendo a Milano da tanti anni, non ha perso l’accento calabrese; anzi ogni tanto slitta nel dialetto. Calabrese doc, ama il peperoncino piccante (a Diamante, in Calabria, organizzano una gara sul tema) coltivato anche dai suoi genitori. Alfredo è rimasto calabrese, legatissimo alle sue radici.
Figura in contorsione

Con Olimpia, interessata all’arte contemporanea e a quella di Alfredo, che ha subito cercato d’interpretare senza fare domande, ho trascorso un paio d’ore con lui e auspico di poterlo rivedere per ascoltare tant’altra parte della sua biografia e godere della magia della sua arte.
L’ho pungolato più volte. E lui, tra un sorriso e l’altro, spuntati dalla sua barba e dai suoi baffi bianchi e neri folti, ha ripreso il racconto, a volte interrompendolo per metterlo bene a fuoco: “Da ragazzo ho fatto il chierichetto e suonavo le campane. Un giorno, scendendo dal campanile, notai sul pavimento una macchia - fatta dall’umidità” - che vagamente poteva sembrare il volto della Madonna. La contornai con il gessetto, dimenticando poi di cancellarlo, e i fedeli gridarono “La Madonna!, La Madonna’”. Intervenne il parroco, don Michele Tarzia, a spegnere il fuoco, prima che si propagasse la voce di un evento soprannaturale. Sempre da bambino, non avendo tutte le statuine per il presepe, plasmò lui quelle mancanti, modellando l’argilla che aveva trovato sotto un roseto nell’orto della nonna Rosa. Aveva sì e no 10 anni.
Lo esorto a continuare e lui non si fa pregare. Ha giocato al calcio con la palla di pezza;, in seguito le pedate al pallone le ha date sul campo nella sua regione e poi a Milano. Ha partecipato a una ventina di Stramilano; ha fatto anche l’allenatore per la squadra di un bar. Ama frequentare i mercatini di vintage. Per esercitarsi, sempre da adolescente, copiava le statue greche, da Prassitele a Fidia, poi all’Accademia si è ispirato alle modelle. Confessa di essere ammaliato dalla figura della donna e la racconta. “Del soggetto colgo l’essenza. La mia scultura nasce dalla vita. L’uovo è ancora presente nel mio lavoro. E’ contenitore di vita, La mia scultura nasce dalla natura”. Il titolo dei suoi lavori è “Figura in contorsione”: non il movimento fisico, il gesto, ma le difficoltà della vita, il dolore, il tormento. L’uovo da lui modificato, trasformato, trasfigurato, rimodellato.
Opera di Mazzotta

Non smetterei mai di ascoltarlo. Ogni sua parola è una perla. Non ha bisogno delle domande: sa ciò che può interessare all’interlocutore, che non si annoia. Ogni tanto alza lo sguardo alle vedute appese alle pareti e a quelle che stanno per terra per mancanza di spazio. Le ultime battute riguardano Brera, che non è più quella di una volta. Allora c’era un’altra atmosfera, tanti negozi, tanti personaggi, da Quasimodo a Confalonieri. Non c’è più neppure il rigattiere pugliese Domenico Lamantea, che arrivava con il suo triciclo carico di oggetti tutte le mattine alle 10 e chiudeva la baracca al tramonto. Morì in seguito alle ferite riportate in un incidente stradale, dopo aver ritirato una piccola vincita al lotto. Al funerale un violinista della Scala suonò l’”Ave Maria”.
Abbiamo parlato anche di altre cose con Alfredo. Alla fine ci ha invitati a pranzo in un ristorante vicino. Ma avevamo un altro impegno. Ci accompagna fino al portone, dopo una breve sosta davanti all’aiuola, che forse gli ricorda un lembo della terra coltivata dai suoi genitori. Ma ci può lasciare senza un ultimo accenno alla mitica Nonna Rosa?
Con Olimpia condivido il desiderio di rivederlo. Olimpia è volontaria all’Associazione “Aiutiamoli”, e accompagna nelle visite a cascine, mostre d’arte, vigne gruppi di utenti; e adesso gradirebbe che Alfredo, che è anche nel direttivo della Permanente, mostri loro come si plasma l’argilla, come da un pezzo di terra amorfa scaturisce un capolavoro. Grazie alle mani dell’uomo, ma anche alla stessa argilla sensibile...all’intenzione dell’arte.

mercoledì 20 marzo 2024

Presentato il libro di Michele Annese

IL TEATRO COMUNALE AFFOLLATO
PER “IMMAGINI... CRISPIANO”




Relatori: Silvia Laddomada, Luca Lopomo, Mario Volpe, Gianpaolo Annese, giornalista de “Il Resto del Carlino” di Modena. La serata ha avuto una conclusione spassosa con i tre musicisti Antonio Palmisano, Vito Santoro e Michele Vinci, che hanno inscenato parodie sull’attività di Annese in Biblioteca e nel paese.












Franco Presicci



Era prevedibile una così vasta partecipazione di gente al Teatro Comunale per la presentazione dell’ultimo libro di Michele Annese “Immagini...Crispiano”. E un’attenzione così vigile, commossa alle parole dei relatori. Nell’aria si avvertiva la presenza dell’ex direttore della Biblioteca “Carlo Natale” e segretario generale della Comunità Montana e dalle parole usate per lui, meritate, meritatissime, lontanissime da ogni retorica, si capiva che quell’uomo che aveva il passo di chi non ha fretta se non di realizzare le idee che ha messo in cantiere, era amato e stimato da tutti.
Teatro comunale di Crispiano

Un uomo di grande esperienza, che non aveva tempo né voglia di perdersi in chiacchiere, di promettere con l’intento di non mantenere; un uomo che ha fatto di tutto per diffondere il libro, contribuendo allo sviluppo culturale della comunità. Un uomo seguito, starei per dire un mito, anzi no, lo dico. Ha dato tutto quello che poteva per la sua Crispiano, ha messo a disposizione di tutti la sua saggezza, la sua conoscenza del territorio, la sua esperienza di “costruttore” infaticabile, dando fra l’altro consigli illuminanti a chi amministrava la città e chi ha fatto orecchio da mercante ha capito dopo che Michele Annese era una fonte di luce.
Io vivo a Milano, ma telefonavo spesso a Michele, che consideravo un fratello minore a cui non avevo niente da insegnare, se non qualche barzelletta che scandalizza chi ha falsi pudori. Con lui si poteva parlare, dialogare, scherzare, fare dell’ironia. Sapeva ascoltare anche a lungo e rispondeva con parole brevi ma efficaci. Era spiritoso, a volte, ma sempre garbato, rispettoso. Era un uomo colto, intelligente. Amante della musica. Assiduo al Festival della Valle d’Itria a Martina Franca, dove conosceva tutti, da Franco Punzi, che della rassegna era il presidente, a Nico Blasi, direttore della rivista “Umanesimo della Pietra”, Elio Greco, presidente della Fondazione “Nuove Proposte” e amico di Guido Le Noci, gallerista di livello internazionale a Milano (nato a Martina). Fu promotore del volume “Le cento masserie di Crispiano”, apprezzato dappertutto.
I relatori, da sx Mario Volpe, Luca Lopomo, Silvia Laddomada e Gianpaolo Annese

Michele parlava raramente in prima persona. Ha promosso mille iniziative, accolte con entusiasmo. Si ricordano il libro nei condomini, Il libro nelle vetrine dei negozi, il libro presentato dagli stessi autori. Usava sempre il pronome “noi”, includendo nel discorso anche i suoi collaboratori, tutti straordinari.
La morte era già in agguato e lui pensava al libro presentato l’altra sera e al periodico che aveva fondato: “Minerva News”, che doveva continuare a vivere. E allora chi poteva assumere la sua eredità meglio di ogni altro se non Donato Basso, suo genero, a cui l’altro giorno ho detto: “Sei tu adesso il direttore”. E lui: “Il direttore è sempre Michele”, facendomi piangere: la mia reazione ogni volta che si nomina Michele, soprattutto in quella veste, anche se con Donato ho un rapporto meraviglioso.
Silvia Laddomada
Ho assistito alla presentazione di “Immagini”, grazie ai “video” che mi ha mandato Donato e ho notato la sua emozione e quella del figlio di Michele, Gabriele, seduto in prima fila. (Gabriele è un solerte e preparato e volenteroso consigliere comunale, che ha accolto volentieri qualche suggerimento di quel papà eccezionale che non si vantava mai di niente, anche se aveva inventato e portato a termine tante opere che rimarranno negli annali di Crispiano).
La vita e le opere di Michele sono state dunque ripercorse l’altra sera dalle persone scelte per quel compito. Una di loro ha detto: “E’ presente nel ricordo dell’amore che ha avuto per la città, per la sua cultura. Ha fatto conoscere il valore dei libri. Era la rappresentazione – ha detto Mario Volpe, già commissario del Comune - di come deve essere un uomo di cultura: curioso, aperto, disponibile... Investire nella crescita delle nuove generazioni, con l’invito alla cultura e alla libertà di pensiero”. Angela Schena, editrice del libro, colpita quella sera dall’influenza, ha mandato una lunga lettera in cui dice che anche attraverso i suoi libri Michele Annese continua a vivere oltre il ricordo di coloro con cui ha condiviso tanti momenti operosi”.
Gianpaolo Annese presenta un estratto delle foto
La moglie Silvia Laddomada, giornalista come Michele (per anni corrispondente de “La Gazzetta del Mezzogiorno”), già professoressa di italiano in una scuola di Martina Franca, direttrice dell’Università del Tempo Libero e del Sapere, ha illustrato il volume, la cui presentazione era prevista per la celebrazione del centenario dell’autonomia di Crispiano, nel 2019. “Per varie vicende non è stato presentato per quella data, per cui questo terzo volume è stato pubblicato a cura dell’autore, nel rispetto delle attese dei concittadini che avevano aderito all’”Operazione cassetto”, inviando foto vecchie e nuove per la realizzazione del progetto. Nelle ultime pagine del libro, completato a dicembre del 2023 -ancora Silvia - ha inserito diverse foto della collezione di famiglia per lasciare il ricordo di una vivace e soddisfacente vita familiare fino all’epilogo, dignitosamente affrontato, di una vita terrena impegnata a dare lustro al proprio territorio”. Quando Silvia ha accennato alla famiglia, ai nipoti, che lui amava moltissimo, è stata colta dall’emozione, riprendendosi con l’incoraggiamento degli applausi. Silvia, con voce pacata e colloquiale, ha ripercorso un po’ la storia dei tre volumi, dedicati alla gente di Crispiano. Il saluto ai convenuti è stato dato dal sindaco Luca Lopomo. Ha condotto la serata Gianpaolo Annese, giornalista del “Resto del Carlino” di Modena, fondato nel 1885. Il valente cronista per 40 minuti ha tracciato un’analisi antropologica di una notevole quantità di immagini, che sono state proiettate su uno schermo gigante mentre lui descriveva l’evoluzione dell’abbigliamento, i mestieri, le posizioni delle persone ritratte, l’atmosfera.
Per concludere la serata sono saliti sul palco Vito Santoro, noto virtuoso della fisarmonica e fine dicitore, Michele Vinci e Antonio Palmisano, già fedele e premuroso collaboratore di Michele nel suo tempio della cultura. I tre hanno fatto divertenti parodie sull’attività di Michele in biblioteca, suscitando valanghe di applausi. In ultimo l’intervento della figlia Marzia che ha voluto ricordare il suo papà condividendo con i presenti alcuni vividi ricordi.
Momento musicale

Se nell’aldilà c’è una finestra con affaccio sul mondo terreno, Michele ha vissuto ogni attimo della manifestazione e sarà soddisfatto del modo in cui è stato celebrato il suo terzo libro su “Immagini… Crispiano” e del gran numero di crispianesi che hanno affollato il teatro dalla prima all’ultima fila (c’era gente anche in qualche palco). Presenti in prima fila anche la figlia Antonella e anche i nipotini, che un giorno potranno dire con orgoglio: “Quello era nostro nonno”.
Non poteva andare meglio di così il tempo dedicato a una figura così elevata, dotata di carisma, di un rilevante calibro umano e intellettuale, di una grande capacità comunicativa: un personaggio che tra l’altro sapeva dire la parola giusta al momento giusto. Che dire di più?. Ho una biografia conservata nella memoria, che se ne lascia andare un frammento travolge le pagine del giornale, che non sono di gomma. Ma qualcuno un giorno sentirà il dovere di scrivere un libro su quest’uomo straordinario, che lascia tracce incancellabili, non soltanto a Crispiano. Tornerò ancora in quel brandello di terra pugliese, che grazie a Silvia e a Michele mi ha accolto tante volte; tornerò anche per rendere omaggio a un personaggio che ha dato molto anche a me, tra l’altro facendomi tessere solidi rapporti umani.

mercoledì 13 marzo 2024

Foto ed acquerelli di Salvatrice Renda

 COGLIE LE BELLEZZE DI MILANO CON PASSIONE E INTELLIGENZA





Salvatrice Renda


Preferisce le persone e il paesaggio, 
ma anche le strade del centro storico e della periferia, le facciate dei palazzi, oltre ai cortili interni delle case patrizie.









Franco Presicci



“I quadri, i disegni, le stampe d’epoca con le vedute primaverili della vecchia Milano ci inducono a pensare a quanto dovesse essere piacevole e distensivo fare quattro passi per la città. Con tranquillità e poca gente, come oggi non si riscontra neanche il giorno di Ferragosto…”, ho letto da qualche parte. Beh, non esageriamo. Anche oggi chi lo desideri può scarpinare per la metropoli senza avere fastidi, in piazza Duomo come in Galleria, ai Giardini pubblici come al Parco Sempione.
La Galleria di Milano

Basta avere un po’ di prudenza la sera, non inoltrandosi in strade isolate, perché lì, complice la penombra, si può nascondere il pericolo. Se così non fosse, io sarei da mettere al gabbio, quando suggerisco ai miei vicini pensionati di non starsene seduti su una panchina dei giardini sotto casa ad osservare i passanti con la carrozzina del bambino, ma di spingersi per esempio in piazza Belloveso ed entrare nella chiesa che svetta sulla sinistra e ha tante belle cose da mostrare. E all’occorrenza tirando fuori il telefonino, se non la macchina fotografica per ritrarre, per esempio, la cascina Passerini e qualche casa di ringhiera dei dintorni.
Il mio caro amico dentista Peppino Bruno, da sempre si fa a piedi i suoi percorsi catturando immagini degne di una mostra: edifici storici, i navigli, l’Arena, che apre la memoria sull’esibizione del circo di Buffalo Bill nel 1890, vie importanti, come la Morone con la casa del Manzoni, con affaccio sulla piazza più bella, la Belgioioso.
Peppino mi ha donato un bellissimo ritratto di Domenico Lamantea, il rigattiere di Brera, che si acquartierava all’angolo con via Fiori Chiari, taciturno, severo, immobile come una statua, le braccia incrociate e le gambe accavallate. Lo amavano tutti e quando morì, ai funerali il compianto baritono Giuseppe Zecchillo (200 opere in repertorio cantate nei maggiori teatri del mondo) incaricò un violinista della Scala di suonare l’Ave Maria nella chiesa di San Marco.
Piazza Belloveso

Io Milano l’ho girata in lungo e in largo e non ricordo più quanti forestieri mi sono portato appresso, soprattutto sul Naviglio Grande, mostrando le chiese, i ponti, gli studi dei pittori, il torchio di Gigi Pedroli, grande acquafortista e cantautore in vernacolo, che prima di Natale su un palco improvvisato nel cortile del negozio di abbigliamento militare di Graziana e Paolo Martin sul Ticinello si è esibito in alcune sue divertenti canzoni.
Non mi stancavo mai di girare per Milano, di andare fino a Baggio ad assistere alla corsa degli asini o alla Darsena, che ospitava la fiera di Sinigaglia. Ed esortavo gli altri, amici e parenti a seguirmi. Quante volte ho stimolato Salvatrice Maria Renda, la mia bravissima dottoressa di base, a impugnare la macchina fotografica di fronte alle meraviglie di Milano, come faceva con molta bravura Luisa Motolese, poi diventata presidente della Corte dei Conti.
Salvatrice mi sorprese: “Ma io vado già a scuola di fotografia, a Monza, da Franco Marzio”, che tra l’altro aveva divorato tanta strada per raggiungere Maglie, che vanta una nobile tradizione anche intellettuale per riprendere le grotte di Porto Badisco e, giacché c’era, la casa di Aldo Moro. E mi ha sorpreso ancora una volta quando mi ha rivelato che alla fotografia adesso preferisce gli acquerelli, che espone su un tavolo del soggiorno per mostrarmeli: un vecchio contadino con una catasta di fascine sulle spalle, un muro oltre il quale s’intravede un gruppo di case, un ritratto di giovane donna… Ha una bella mano, Titti: mi congratulo con lei, che non si dà le arie e dice che deve continuare ad andare alla scuola di acquerello, in via Passerini a Niguarda, tenuta da Stefania Favaro. Ma non intende abbandonare la prima passione, quella della fotografia.
Il Naviglio Grande

Salvatrice è siciliana, nata a Sommatino, in provincia di Caltannissetta. Si trasferì a Pavia nel ‘70, per frequentare l’Università; e a Milano nel ‘76. Nel ‘78 iniziò l’attività di medico, per circa 10 anni come assistente volontario alla divisione di cardiologia De Gasperis di Niguarda, diretta dal professor Fausto Rovelli. Ha esercitato come medico di medicina generale nella stessa zona di Niguarda, in via Frugoni e poi in via Grivola. Nel 2020, in pieno covid, “sono stata costretta ad andare in pensione”. Non avrebbe mai lasciato quello studio accogliente, sempre pieno di pazienti, in quella via silenziosa, stretta e corta, che sbocca quasi direttamente in via Ornato, tagliata dai binari del jumbotram.
Salvatrice si confida: “Amo Milano, ma amo anche la mia città. Quando sono a Milano ho nostalgia di Sommatino e viceversa. Quando vado giù mi dico: ‘Che bello. sono a casa! Lo stesso quando torno a Milano”. Fin da piccola mi piaceva disegnare, su qualunque foglio. Poi ho cominciato a suonare il pianoforte. Ho frequentato il liceo classico, mi piacevano in particolare Socrate e Catullo, Orazio e Platone. Continuo?”. “Certo, sono curioso, interessato alla vita degli altri, ascolto volentieri e non mi distraggo mai quando una persona si racconta”. Ho adottato due bambini, che adesso sono grandi: uno colombiano, uno boliviano. In quei Paesi (nell’85 in Bolivia, , nel ‘90 in Colombia), sono rimasta due mesi, colpita dai negozi di bare, soprattutto per bambini. Sono curiosa anch’io e ho impiegato quei giorni a visitare i luoghi, e ho visto la miseria dei poveri e la ricchezza dei notabili. In Bolivia sono stata a La Paz, in Colombia a Bogotà e a Manizales. Avevo già girato l’Europa. Prima di cominciare a lavorare sono stata 4 mesi negli Stati Uniti, visitando la California, l’Arizona… In Pensilvenia ho visitato gli “amish”, che rifiutano la modernità e come mezzo di trasporto usano le carrozzelle…”
Veduta di Renda

Salvatrice parla piano, a voce bassa, qualche sorriso e qualche sguardo alle immagini fotografiche sparse sull’altro lato del tavolo. Non ha bisogno di cercare i ricordi; li snocciola con calma, senza enfasi, come se fosse abituata a quel flusso. L’interlocutore preme, incalza e lei, serena, riprende: “Da bambina maneggiavo giocattoli costruiti da me stessa in legno”.
E’ molto intelligente, colta, le piace stare con gli altri, ama la Puglia, dove qualche anno fa ha fatto un giro tra Martina Franca, Alberobello, Locorotondo e Ostuni, dove è entrata in alcuni negozi, soffermandosi in via Cattedrale in quello di fischietti in terracotta provenienti da Caltagirone, Bassano del Grappa, Grottaglie, Rutigliano. La Puglia, dice, è ricca di fascino; Martina Franca un gioiello, con le sue case incappucciate, i suoi ulivi, le sue vigne, la terra rossa, la Valle d’Itria, il sole, i sapori, i profumi.
Torniamo all’acquarello. “Impiego colori gioiosi, adoro il paesaggio, urbano e rurale. Dipingendo, mi emoziono”. Quel contadino con le fascine sulle spalle emoziona anche me. Mi ricorda il papà del mio amico Peppino, che attraversava ogni giorno il nostro tratturo con zappa e rastrello; altre volte carico di rami e rametti derivanti dalla potatura degli alberi. E mi ricorda mio zio Luigi, che a San Severo ha passato una vita a curare un lenzuolo di terra alla Zamarra per sfamare la famiglia.
Esercizio di Salvatrice Renda

E ricordo un amico di quassù, che lavorava in una cascina, alzandosi all’alba e tornando a casa al tramonto carico di fascine per alimentare il fuoco del camino sotto il paiuolo della polenta: piatto che non nutriva soltanto i cosiddetti polentoni, ma anche noi terroni, soprattutto in tempo di guerra. Ricordo la polenta con le cozze: l’oro di Taranto. “Ah, che buona!”, sospira Salvatrice, che non ha messo da parte la fotografia. Amante dell’arte com’è, quando non deve tenere i nipoti i “quater pass” li fa sempre. Come si fa a non andare in vico dei Lavandai, che il poeta Beonio Brocchieri definì una chiesa di pittori, con gli studi dei mai dimenticati Aldo Cortina, Guido Bertuzzi, Riccardo Saladin, pseudonimo Sarik, Spampinato, Formenti, la galleria di Cottino”? Era, secondo molti, la Montmartre di Milano. Ci girarono anche molte scene del commissario Maigret.
Spesso apro il libro della Celip con le foto di Roiter, il grande fotografo veneziano, e compio un viaggio ideale, spesso con la Viscontea, l’imbarcazione ideata dall’architetto Empio Malara, ammirando le cascine, le ville, i castelli, il viale delle passeggiate.
E’ bella Milano. Seducente, affascinante. Chi dice il contrario non la conosce. Basterebbe andare in via Bigli, dove abitava Eugenio Montale, in via Borgonuovo, in via Spiga, in via Bagutta, dove si svolge la mostra “en plein aire” e aveva lo studio il grande artista Casarotti, più volte alla Biennale di Venezia. Andate in quella via, che sfocia in piazza San Babila, dico. L’ultimo giorno della mostra arrivano tutte le autorità accolti dalla banda musicale. Del comitato fecero parte De Cerce, barbuto e combattivo; Calderini, pacioso e lento; Cortina, concreto e dinamico. Bagutta ricca di colori anche sotto la pioggia.