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mercoledì 24 aprile 2019

I cinquant’anni della biblioteca di Crispiano



UNA STORIA ILLUSTRE IN UN VOLUME
AFFIDATO ALL’EREDE DEL GRANDE NUNZIO
 


Il Presidente del Senato Spadolini con Schena



Schena fu apprezzato da grandi personaggi,
tra cui Paolo Grassi, Giovanni Spadolini,
Alfredo De Marsico, il Dalai Lama, il Papa. Negli anni ’80 ricevette l’onorificenza, di “Chevalier dans l’ordre des artres et des lettres” dal governo francese e di Grand’Ufficiale al Merito dalla Presidenza della Repubblica italiana. Per
l’Università di Pavia pubblicò a tempo di record
un libro evitato da altri editori per l’urgenza
richiesta, meritando la laurea honoris causa in Lettere.







Franco Presicci - Premio "Vita da Cronista 2015"

“Un giorno dobbiamo andare insieme a Crispiano, a far visita a Michele Annese, direttore della biblioteca ‘Carlo Natale’. Crispiano è una cittadina tranquilla, dove durante la guerra si rifugiavano i tarantini per scampare alle bombe. La biblioteca è straricca di volumi interessantissimi e di documenti riguardanti Eugenio Montale. Nel 1996, il professor Giuseppe Milano, donando la sua collezione di libri e testimonianze sul Poeta vincitore del Premio Nobel, pubblicò su di lui un trattato. “E tu, che sei di Noci, dove vai ogni anno a villeggiare, come lo sai?”.
Il compianto Vito Plantone
“Mio fratello Donato lì è segretario comunale e ad ogni incontro, spesso in campagna da mio cognato Lino, sapendomi interessato a ciò che accade in Puglia, mi fornisce notizie anche sull’attività della biblioteca, che tra l’altro possiede un’emeroteca invidiabile”. Incuriosito, più volte lo sollecitai, quando stavamo lui a Noci e io a Martina tra vigneti gravidi, zolle rosse e coccodè di galline; ma all’ultimo momento un impegno di lavoro lo dirottava. Poi si ammalò e io Annese lo conobbi al funerale. “Verrò un giorno a Crispiano – gli dissi – l’ho promesso a Vito”. E mantenni la parola, con ancora il groppo in gola. Con Vito Plantone avevamo trascorso ore nei suoi uffici di dirigente dei distretti di via Poma e di piazza San Sepolcro, a Milano, quindi, promosso questore, in quelli di Catanzaro, Palermo, Brescia, Livorno… e serate a cena nelle rispettive abitazioni o da Enzo Caracciolo, che fu capo della Squadra Mobile severo e infaticabile, prima di andare in pensione anche lui da questore.
Filippo Alto
Serate allietate da amici cari, immancabili, con la moglie Ada, il pittore cantore della Puglia Filippo Alto, barese trapiantato a Milano. Argomento delle nostre conversazioni spesso la nostra terra. Di Noci Vito era innamorato. Sosteneva che il suo centro storico fosse più bello di quello di Martina, più pulito, più fiorito, più luminoso, più silenzioso; e quando mi invitava, sulla tavola trionfavano le mozzarelle e le salsicce del luogo, oltre alla “‘nduria”, che io non avevo mai neppure assaggiato. Aveva la virtù dell’ospitalità tipicamente pugliese. L’amicizia per lui era sacra. La lealtà un bene inviolabile. E sapeva scherzare, raccontare barzellette. Una sera degli anni ’70 lo sorpresi in un ristorante con la moglie Emma, a gustare le fave con la cicoria. Lo avevo intervistato una sola volta durante una mia inchiesta sulla Milano di notte (lui allora dirigeva la sezione antirapine in questura), m’invitò a sedermi, ordinando per me lo stesso piatto. Quella sera nacque un’amicizia preziosa. Ma mai, dico mai, mi privilegiò nel mio lavoro di cane da tartufo; e io non lo misi mai in imbarazzo con domande indiscrete. Era inflessibile: le notizie, quando poteva senza compromettere le indagini, le distribuiva indiscriminatamente a tutti i cronisti. Aveva lavorato con Mario Nardone, un mito della polizia, e sui fatti passati non scomodava mai i nomi dei protagonisti (“Possono aver cambiato vita, avere figli all’università…”). Quando mi accennò a Crispiano eravamo già come due fratelli. E fu per me una sofferenza andarci da solo. Annese mi ricevette nel suo quartier generale con molta cordialità.
Aprì un armadio e tirò fuori un grosso libro arieggiato con immagini di ulivi, carte topografiche, volti di contadini e massari, sagome di briganti, stalle, cappelle, cortili e facciate di masserie, tra le quali Le Mesole, la Pizzica, la Monti del Duca, le Monache, l’Amastuola, il cui sottosuolo, indagato da esperti dell’ateneo di Amsterdam, ha restituito sopravvivenze archeologiche di grandissimo valore... Lo sfogliai, sorvolando i saggi, che una volta a casa trovai importanti, stimolanti: firmati da Silvia e Michele Annese, Angelo Carmelo Bello, Tony Fumarola, Pasquale Pellegrini, Renato Perrini, Nicola Colucci, Domenico Luccarelli, prefazione del sindaco Francesco Paolo Liuzzi.
Un gioiello, che Annese mi volle regalare, dopo avermi sottolineato che era ”la sintesi di un lavoro di documentazione storico-architettonica delle masserie – durato vent’anni – che ha caratterizzato il territorio con la denominazione di ‘Le cento masserie del territorio di Crispiano’”, che dava il titolo al libro. Informandomi, mi accompagnava in una visita ai diversi locali, tutti con libri ordinati su lunghe mensole e pile di quotidiani e settimanali su un tavolo. Fui colpito da una decina di anziani intenti alla lettura del giornale e da studenti, che impegnati nelle tesi di laurea, trovavano alimento nella biblioteca. Non si sentiva volare una mosca.Due signore, collaboratrici esperte e premurose, in un baleno estraevano i libri richiesti e li consegnavano. Mimino Tagliente e Tonino Palmisano, che tra l’altro suona da maestro la chitarra in un precedente complesso, “Crispianapoli”, catalogavano i nuovi arrivi. Io avevo bisogno di consultare un’opera di Giacinto Peluso, storico della bimare: “Taranto: dall’Isola al Borgo”, che non ero riuscito a reperire altrove, e mi fu subito fornito da Comasia Basta, che insieme a Rina Lofano assicurava i servizi al cittadino.
Mass.Monti del Duca:Donato Plantone
Fui conquistato dalla Biblioteca di Crispiano, che a Michele Annese era costata tanta fatica.“Annese per noi è indispensabile – mi confidò una persona che mi era stata presentata in un bar da Donato Plantone – Pensi che anni fa, vincitore di un concorso, aveva deciso di andarsene al Nord, a Torino, e un gruppetto di concittadini lo raggiunse alla stazione, tirandolo giù dal predellino del treno”, proprio perché si curasse della biblioteca, ancora in embrione. I frutti si videro. In biblioteca lievitavano idee anche originali. Una di queste, libri in condominio: si mandavano titoli direttamente nelle portinerie, negli studi medici, nelle palestre; la gente li leggeva e li restituiva anche in postazioni diverse, dove trovava la possibilità di prendere altri libri. “Tutti onoravano puntualmente l’impegno della restituzione”.

Franco Presicci. Michele Annese
Annese,Alfredo De Lucreziis,Vito Santoro
Si organizzavano corsi di ogni genere, tenuti da specialisti dei vari settori (computer, sartoria, ufficio-stampa, lingue straniere, recupero anni scolastici, strumenti musicali, recitazione, danza, ricamo…); si ospitavano mostre di fotografia e pittura. Si svolgevano letture di poesie, come quella di Giacomo Salvemini (nato a Manfredonia nel ’46, vive a Crispiano), autore tra l’altro di bellissimi versi raccolti in “Via Convertino 10”. Venivano invitati scrittori famosi, come, per esempio, Alberto Bevilacqua, che parlò dei suoi libri, del padre, delle sue origini letterarie, calamitando l’attenzione del folto pubblico nell’atrio della biblioteca, in via Roma 9. E poi ancora Marcello Veneziani, Stefano Zecchi e Folco Quilici; assegnate cittadinanze onorarie a personaggio importanti, come Francesco Paolo Casavola Presidente della Corte Costituzionale, Franco Punzi Presidente del Festival della Valle d’Itria, a mons. Guglielmo Motolese arcivescovo di Taranto ed altri. Da ricordare anche “La biblioteca in vetrina”, curata da Anna Sorn, che non aveva bisogno di pungolare i commercianti, subito impegnati in una gara tra chi montava lo spazio espositivo più scenografico.
Annese impostava spettacoli teatrali, concerti, presentazioni di “bèst sèller” nei cortili delle pregevoli architetture rurali, che per l’occasione si riempivano di spettatori provenienti da Taranto, Bari, Brindisi, Grottaglie, Martina, Ceglie Messapica… Centinaia e centinaia furono quelli che accorsero quando Giuseppe Giacovazzo, già direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, alla Monti Del Duca illustrò “Puglia, il suo cuore”, aggiungendovi particolari sconosciuti risalenti al tempo in cui lui faceva la campagna elettorale per Aldo Moro. In un’altra masseria Annese organizzò una manifestazione con figure in costumi d’epoca calate in lavori scomparsi, “sorvegliati” da briganti con tanto di fucile a tracolla. Su una fila di bancarelle erano allineati manufatti in legno, in pietra o in metallo: primeggiava un don Chisciotte stilizzato, eseguito con maestria autentica da Mimino Miccoli, uno scultore di Statte, che meriterebbe una maggiore considerazione al di fuori dei suoi confini. Alla Pilano andò in scena uno spettacolo con musiche polacche.

Masseria "Le Monache": cucina
Cappella Lupoli: Crocifisso in legno
Cortina: Silvia Laddomada, Michele Annese
Alle Monache fu celebrato il gemellaggio fra Crispiano e la Grecia, con una memorabile esibizione di Vito Santoro, virtuoso della fisarmonica e divertente affabulatore. La biblioteca vantava dunque collaboratori validissimi ed entusiasti, come Anna De Marco e Pina Solito, addette alle visite guidate nel territorio: alla masseria Russoli, dove abitano un centinaio di asini di Martina, razza apprezzata in tutto il mondo; alla Francesca, che tra i suoi cavalli murgesi ospita quello che balla la pizzica…
Proprio la De Marco anni fa mi pilotò alla masseria Lupoli di Luigi Perrone, dotata di una chiesetta con un Cristo in croce sulla sinistra dell’ingresso, e di un ben fornito museo della civiltà contadina. Passando da un salone all’altro, mi veniva in mente Tommaso Nicolò D’Aquino: “tra mirti fresca ombrosa valle/ ergesi a manca un clivo, ed a l’in suso/ di fruttifere ombreggia olive sparte…”. Le iniziative della “C. Natale” contribuivano alla conoscenza di luoghi antichi e attraenti e delle attività che ancora oggi in alcune di loro si sviluppano. Come appunto la Monti Del Duca, che ha, tra l’altro, una scuderia di cavalli imponenti.
Angolo del museo alla Masseria Lupoli
La Biblioteca era un opificio, guidato, ripeto, da Michele Annese dinamico, appassionato, coinvolgente, promotore di cultura. Tanto che quando il sodalizio é entrato crisi, lui e Silvia hanno istituito a Crispiano l’Università del tempo libero e del Sapere, che propone molte occasioni d’incontro. Leggo di una serata dedicata a Dante e di una a Montale, gestite da Silvia, che è professoressa in pensione di lettere, e giornalista. Insomma, questa coppia non riesce a stare mai ferma. Adesso ha affidato alla casa editrice Schena, di Fasano, governata da Angela, figlia di Nunzio, una pubblicazione sui cinquant’anni della biblioteca. Non poteva che essere Schena a fornire i caratteri a questo volume, per la sua storia gloriosa, iniziata con Nunzio, ammirato da grandi personaggi: Giovanni Spadolini, Paolo Grassi, il Dalai Lama, Alfredo De Marsico, avvocato di grido e docente universitario di diritto (nei salotti napoletani le signore commentavano le sue arringhe, di nascosto, perché lui non gradiva), e ministro della Giustizia all’epoca di Mussolini. Schena era stimatissimo anche all’università di Pavia, per la quale aveva stampato a tempo di record un volume evitato da altre case editrici per l’urgenza richiesta. La Grafischena in tutta la sua lunga vita ha dato alla luce migliaia di titoli importanti e giornali creati e confezionati dallo stesso fondatore, che andava da un paese all’altro in bicicletta, a tratti con una mano stretta ad un appiglio della corriera per fare più presto. Un formicone di Puglia, un faro adesso acceso nelle pagine di questo libro, che certamente riceverà molti consensi fra chi ha amato la biblioteca “C. Natale” e Nunzio Schena, a cui Fasano ha giustamente intestato una via. La percorro quando vado alla stazione per accogliere un parente o un amico, e mi commuovo. Due anni fa proprio davanti alla Grafischena si bruciò la frizione della mia macchina e colsi l’occasione per dire ai miei ospiti che oltre quel cancello aveva lasciato le sue tracce l’intelligenza e la laboriosità di un uomo che ha fatto onore alla Puglia e al Paese.









mercoledì 17 aprile 2019

Quando Piero Colaprico faceva la “nera”


RACCONTAVA SCRUPOLOSAMENTE LE IMPRESE E I “BOSS” DELLA MAFIA





Scrive libri gialli di successo e saggi,
pubblicati da case editrici importanti:
Garzanti, Rizzoli, Saggiatore. Cominciò
a scriverli con Pietro Valpreda e con
il maresciallo Binda come protagonista.
Da mesi è caporedattore a Milano del
quotidiano “La Repubblica”.










Franco Presicci

Era quasi mezzanotte e in un ristorante di via Tertulliano, in periferia, conversavo con un amico, che spesso mi soffiava notizie interessanti. E mentre sorseggiavano un bicchiere di bianco di Martina Franca, commentandone l’eleganza, il profumo, il sapore, una telefonata mi segnalò una imponente operazione che polizia e carabinieri insieme, con mezzi blindati, cani-poliziotto, un elicottero, stavano per compiere, alle 5 del mattino, in uno dei più attivi mercati della droga.

Colaprico, Presicci, il questore di Milano
Continuai a parlare con l’amico, un po’ imbarazzato per la presenza di un cameriere, immobile a due passi da noi, stanco e imbronciato, ma attento alle nostre parole, in evidente attesa che si spegnessero le luci. Ogni tanto guardavo l’acquario diventato troppo stretto per i due piccoli coccodrilli che vi abitavano, ricordando la femmina che una volta riuscì a varcare la vasca e a rifugiarsi in cucina. Poi avvertii mia moglie e in macchina andai ad appostarmi in una via vicina a quella dell’imminente irruzione, da dove però potevo vedere l’arrivo delle truppe. Verso le 4 arrivò Piero Colaprico, molto più giovane di me, tenace, ricco di talento, infaticabile. Mi vide, s’infilò nella mia 850 con molta cautela per evitare sospetti da parte di eventuali “sentinelle” e aspettammo l’evento. All’ora prevista spuntarono due “pantere”, seguite da una colonna che sembrava non finire mai. Dagli abitacoli sbucarono gli uomini, agenti e ufficiali, ispettori e commissari, che entrarono negli androni di quelle case screpolate, bussarono alle porte, salirono sui tetti, altri si appostarono in punti strategici, mentre qua e là esplodevano voci rabbiose di uomini sorpresi nel sonno, urli di donne. Frugarono dappertutto, piombarono negli orti, scavarono alla ricerca della “roba”, evidentemente sapendo per controlli eseguiti a distanza in precedenza che sotto le insalate e i pomodori, le zucchine, era nascosto il veleno che veniva fornito ai ragazzi.
L'ispettore Sala, Colaprico, Presicci
Con Piero seguimmo le varie fasi dell’operazione, salimmo anche noi sui terrazzi, vedemmo decine di persone, i polsi bloccati, agitate come animali in trappola; l’elicottero che sorvolava la zona; cordoni di folla contenuta da poliziotti inflessibili. Sollecitammo alcuni abitanti, che la curiosità aveva spinto sulla strada, a raccontarci la vita quotidiana nella zona, ma ricevemmo soltanto silenzi ostinati. Paura o disperazione per il degrado del contesto o tutte e due le cose insieme. L’operazione durò parecchie ore; e quando stava per concludersi, verso mezzogiorno, si presentarono i nostri colleghi, che avevano appreso la notizia alle 11, l’ora in cui di solito ci ritrovavamo nella sala-stampa di via Fatebenefratelli per fare il giro dei vari uffici, tra cui quello del capo della squadra Mobile, che allora era Ermanno Rea. Con Piero ci incontravamo spesso davanti a una banca rapinata o un morto ammazzato. Ricordo la volta in cui erano stati trovati a letto due giovani morti, pieni di sangue, e sul momento non si capiva se fosse stato un omicidio-suicidio o un duplice omicidio.
Colaprico e il prefetto Paolo Scarpis
Notai la meticolosità con cui svolgeva il suo lavoro, l’accortezza con cui faceva domande agli inquilini, ai vicini: domande che non erano mai banali. Ricordo anche il delitto nel centro storico, il 26 gennaio ’88, che a Milano e in Lombardia suscitò clamore, dominando le pagine di cronaca per settimane. Piero e io ci incrociammo e vendemmiammo insieme, portando a casa un buon raccolto. Ricordo la strage di via Selvanesco, il 29 giugno ’84; e il delitto di corso Magenta, il 26 dello stesso mese e dello stesso anno, per il quale qualche giorno dopo andai in aereo a Zurigo, presi alloggio all’hotel Bahnpost, dove avevano arrestato l’autrice del fatto, rientrando 48 ore dopo a Milano in treno, nello stesso vagone riservato alla giovane donna, seduta, con tre poliziotti (due svizzeri e un italiano) di fianco al finestrino con lo sguardo fisso al paesaggio. Milano trasudava di storie di delitti, in quegli anni. Anche uno o due al giorno. E due furono le vittime di una sparatoria in piazzale Susa. Uno fu ucciso in piazza Napoli un pomeriggio, dopo essere appena uscito da san Vittore. Il 18 novembre dell’81, la mattanza di via Delle Rose, al Lorenteggio: quattro uomini uccisi per vendetta dopo una “dura” in una bisca clandestina.
Piero Colaprico e Antonio Velluto
Con Piero abbiamo commentammo spesso quegli episodi: ha una memoria che non fatica a sfornare situazioni, personaggi e date, come quella dell’arresto, il 29 settembre dell’84 in zona Fiera, del re della coca e delle “rondini del fango” o case da gioco clandestine; le catture contemporanee, il 4 aprile dello stesso anno, di un capo delle Br vicino alla stazione Centrale, e di un altro sotto le finestre di un convento di suore; le grandi operazioni, da “Fiori di San Vito”, realizzata dallo Sco (Servizio centrale operativo della polizia), illustrata ai giornalisti dal vice questore Manganelli, che tra l’altro elencò le “doti”, cioè gli incarichi nella ‘ndrangheta o “fibbia”         (“santista”, trequartino, “vangelista”, “sorella d’ omertà”, “mastro di giornata”), i riti d’iniziazione dell’organizzazione criminale, le sue imprese; e la “Nord Sud”. Serio, grande volontà e bravura, leale, quando Piero addentava la notizia la spolpava. Ne ha consumate, di scarpe! Ne ha trascorse, di ore appostato davanti all’abitazione di un “trombettiere” che gli poteva riempire il carniere o in un posto dove poteva sorprendere uno della malandra da intervistare. A volte quelle attese le abbiamo fatte per caso insieme; e insieme abbiamo cercato elementi delle vecchie consorterie criminali, che avevano fatto assalti in banca rimasti nella storia della “nera”; e ancora insieme abbiamo interpellato i parenti di un ragazzo finito nei guai per fatti gravi allo stadio di San Siro. Ero convinto che Piero avrebbe fatto una carriera brillante. Non ha mai avuto la puzza sotto il naso: sempre calmo, sereno, saggio, rispettoso, disponibile, indifferente al collega, quasi vicino alla mia età, che guardava i giovani dall’alto in basso e continuava a tenere banco vantando una superiorità non legittimata.
Colaprico tra il giornalista Zelio Zucchi e lo storico Guido Lopez
Avrebbe dovuto invece prendere lezioni dal giovane pugliese, che non si fermava alle conferenze-stampa, ma indagava per conto suo senza risparmiarsi. Su “Repubblica”, dove oggi è caporedattore nella redazione milanese, pubblicò, in coppia con Oreste Del Buono, un’inchiesta di tre puntate su una famiglia che dettava legge a Quarto Oggiaro e se non ricordo male riuscì a parlare con chi guidava la compagnia. Insomma con il suo impegno faceva rivivere i vecchi tempi, quelli che nell’85 furono ricordati da Gabriele Bensan, che ormai ultraottantenne viveva ad Arco di Trento, rivolgendo spesso il pensiero a Milano, dove aveva lavorato anche al quotidiano “Il Giorno”, vivendo ore di ansia per captare una notizia. Gabriele parlò con me, che stavo rispolverando fatti, protagonisti, ambienti della malavita di un tempo e le fatiche affrontate dai vecchi cronisti per afferrare un particvolare. Erano Arnaldo Giuliani e Fabio Mantica, Salvatore Conoscente e Mario Berticelli, Patrizio Fusar, tanti anni al “Giorno”, Giancarlo Rizza, Falletta, che avrebbero con ragione potuto gloriarsi della stoffa di cui erano fatti e non lo facevano per pudore. Qualche anno fa Piero ha cominciato a scrivere libri di successo assieme a Pietro Valpreda, e con il maresciallo in pensione Pietro Binda come protagonista. 

Colaprico a un convegno
Poi l’anarchico ballerino è morto e Piero ha continuato da solo. Alcuni titoli, tutti di successo: “La nevicata dell’85”, che mise in ginocchio Milano; “Trilogia della città di M.”, “La quinta stagione”; “La donna del campione”; “Mala storie”; “Quattro gocce d’acqua piovana”, edito da Marco Tropea. Ancora: “Il giallo e il nero della vita metropolitana”, dal Saggiatore; “Le cene eleganti” da Feltrinelli; “Kriminalbar”, da Garzanti; “La strategia del gambero”. Ricordo la presentazione di una fatica di Colaprico alla Feltrinelli di piazza Piemonte -presente anche il questore Paolo Scarpis -, in cui il vicedirettore di “Repubblica” Dario Crestodina confidò di non capire dove potesse trovare il tempo di compilare libri un cronista così preso dal lavoro per il giornale. Li ha scritti, il resto importa poco. E ha scritto anche diversi saggi, tra i quali ”Duomo connection”, con Luca Fazzo; “Manager calibro 9 - Vent’anni da malavita a Miano”, anche di questo coautore Fazzo; “Mala storie: il giallo e il nero della malavita metropolitana”, edizione Il Saggiatore; e chissà quante pagine ha nel cassetto in attesa del “labor limae”. Il 4 aprile, in una sala di Corsico, in un incontro sulla legalità, ha raccontato la mafia nell’Hinterland di Milano, mentre la dottoressa Dolci Alessandra, procuratore aggiunto, capo direzione distrettuale antimafia di Milano nel suo intervento, ha invitato a leggere i segnali, quai sono e come capirli. Nato a Putignano – nel Barese - paese posseduto per secoli dai Cavalieri di Malta; noto per il carnevale, dalle origini antiche; le grotte carsiche e la farinella, un cibo tipico del luogo; laurea in giurisprudenza, da sempre a “Repubblica”, dove è stato anche inviato e oggi titolare, fra l’altro, di una rubrica di risposte ai lettori. Quando si occupava prevalentemente di “nera” curava ogni dettaglio, e la lettura dei suoi articoli era sempre piacevole, avvincente. Ricordo a memoria l’attacco di un suo pezzo scritto in occasione della cattura di un esponente rilevante di “Cosa nostra”, eseguita dalla polizia: “Sul tavolo fumava ancora un piatto di spaghetti al pomodoro…”. Oggi Piero Colaprico non segue più la “nera”, ma è impegnato con la stessa energia di un tempo e con la stessa volontà, forse con un po’ di nostalgia per le strade bazzicate e anche per la sveglia che gracchiava alle prime ore del mattino.


SU "MINERVA NOTIZIE" - SITO ASSOCIAZIONE MINERVA CRISPIANO:

UN'ALIMENTAZIONE SANA DI ALDO CAPOZZA







mercoledì 10 aprile 2019

Mancava un gommone per una gita nel sottosuolo



LA DISCESA NELLE FOGNE DI MILANO

FU UN’ESPERIENZA INDIMENTICABILE




Secondo alcuni lettori del

“Giorno” sentiti per telefono,

occorreva includere il

percorso in un programma

turistico. Oltretutto,

sarebbe stato istruttivo.

Nessuno conosceva il ventre

della città.


La grata del Naviglio Martesana




      


     Il fotografo Zanni, un Tecnico e   Presicci pronti per entrare    nel tombino




Franco Presicci

Una sera a cena in un ristorante di via Tertulliano, dalle parti del Corvetto, sentii un vicino di tavolo accennare alla Milano sotterranea. Qualche mese dopo fu un amico, funzionario del Comune, a propormela come luogo da visitare. Colsi la palla al balzo. Andare lì sotto, nel ventre della città, di cui la maggioranza dei cittadini ignorava l’esistenza e il resto riteneva irraggiungibile, forse anche oscuro e sinistro, mi esaltava. La curiosità è una delle caratteristiche di chi sceglie il mestiere che ho scelto io; e mi trovai davanti all’assessore Giulio Polotti per ottenere l’autorizzazione necessaria. Trascorsero due giorni e alle 9 del mattino, un mercoledì, con il geometra Cighetti, della divisione fognature, e il fotografo Duilio Zanni, ero già in via Melchiorre Gioia, all’angolo con viale Lunigiana, dove il tecnico m’impose la vestizione: stivali fino all’inguine, guanti di gomma, incerata gialla, elmetto con lampadina; e mi esortò all’immersione.
La Cassina de' Pomm
Un addetto sollevò il tombino e mi lasciai ingoiare da quell’esofago, attento a dove mettevo i piedi su staffe conficcate sulla parete, per non commettere errori che mi avrebbero fatto travolgere dalle acque del naviglio Martesana, che passa sotto pelle, veloce e con fragore, e senza spazzatura, che viene bloccata dalla griglia sistemata all’altezza della Cassina de’ Pomm, quasi a ridosso del ponte oltre il quale si apre piazza Greco, dove troneggia il campanile della chiesa di San Martino, testimone della strage di bimbi della scuola elementare avvenuta il 20 ottobre del ‘44. Quella gola non portava da nessuna parte, o presentava ostacoli per me troppo pericolosi, non ricordo bene, e risalii. La squadra di pronto intervento stappò un altro tombino un po’ più avanti, all’imboccatura di via Stresa. Altro tentativo di discesa in questa specie di boccaporto di sommergibile. Zanni, sempre professionale e instancabile, puntava l’obiettivò su un collettore che sputava acqua verso due condotti “gemelli” accostati che lo fronteggiavano, mentre un rostro “tagliava” il liquido e questo, biforcandosi, si ripartiva in due grossi tubi. Alcuni impiccioni facevano commenti a voce alta, assimilandomi a Jean Valjeant de “I Miserabili”; e Zanni indagava con lo sguardo per catturare il guizzo di uno di quei topi grandi come gatti, che passeggiavano sulle sponde del canale quando scorreva a cielo aperto, incuranti delle perplessità della gente che si fermava ad osservarli.
Il Palazzo del Giorno
Li vedevo anch’io, quei sorci, anche di notte, quando uscivo nei primi anni 60 dal “Giorno”, che aveva la sede in via Fava, tra la chiesa che si apre su Melchiorre Gioia e il villaggio dei giornalisti. Lo dissi al geometra, che mi rassicurò: nella pancia della città i topastri non avevano più “habitat”. Tornai in superficie: secondo Cighetti occorreva seguire un’altra strada, più agevole. Quindi salimmo su un gippone per avviarci verso piazza Bonomelli, mentre ventilava la battuta di uno dei ficcanaso: “Raggiungeranno gli inferi da un’altra parte”. Duilio Zanni non vedeva l’ora di arrivare a destinazione. Quel percorso lo aveva immaginato più volte, ed era stato contento alla notizia che al cronista incapace di tenere il didietro inchiodato alla sedia, fosse venuto in mente di esplorare il sottosuolo, pensato come nauseabondo e tenebroso; e invece, nonostante fosse stato costruito nel 1901, se non aveva l’aria profumata, non era certo rivoltante. E non aveva un mattone lebbroso, screpolato. Vi arrivammo, scendemmo una decisa di scalini, che se non erano quelli dei trionfi della Wandissima, erano comunque integri e puliti. L’interno, altro che sinistro. Mi aspettavo che ci mettessero a disposizione un gommone per una gita tra quei meandri, ma questo non accadde: l’imbarcazione era impegnata altrove. Peccato.
La Martesana
Avrebbe consentito un’avventura più attraente. Le ripercorro oggi sul filo della memoria, quei tunnel che si snodano e s’intersecano affiancati, qua e là con stecche di cemento tra pavimento e volta, simili alle colonne che separano le navate; e i punti in cui il sottosuolo riproduce in miniatura certe caratteristiche della città sovrastante, comprese le targhe stradali, che ogni giorno abbiamo sotto gli occhi; persino la “nebbia”, da atmosfere sulfuree, che si alza dal collettore di Nosedo, che in via San Dionigi si congiunge alla Vettabbia, incrociato dallo scaricatore di piena che va al Redefossi. Così la ricordo quella parte della Milano silenziosa e tranquilla che scivola sottotraccia.
Nelle fogne
Si affacciò stranamente l’ironia di Zanni, che mi invitava a fargli sapere se per caso mi capitasse di incontrare Caronte. Ma lui era di poco dietro di me con l’attrezzatura tracolla, quindi lo avrebbe visto subito anche lui. Passammo alla cabina di comando facendo lo slalom tra manovelle che aprivano le paratie. Fu una giornata memorabile, che mi faceva pensare alla bellezza del mio mestiere, che mi consentiva di provare quasi ogni giorno un’esperienza nuova: oggi in volo su un aerostato tedesco a oltre mille metri di altezza; domani su una mongolfiera; dopodomani su un elicottero della polizia che sorvolava il traffico di ferragosto, un altro giorno ospite di una gara di canoa sul Naviglio Grande, affrontando i dislivelli che t’inzuppano; negli altri giorni su strade del centro o rurali a seguire episodi di “nera”. Ritornerei in quelle vene di Milano, in quel grembo nascosto, inimmaginabile. Lo stesso fotografo, di solito freddo e inespressivo, tipico dei professionisti che ne hanno viste tante, si disse stupito di quello scenario. Le sue parole furono interrotte da un brivido, che ci colse quando scorgemmo alcuni operai sul punto di iniziare un lavoro nelle vicinanze di quattro sifoni pronti a risucchiarli alla minima disattenzione. 
La Martesana com'era

“Questo ‘paesaggio’ – m’informò il geometra – comprende 1257 chilometri di canali, 196 corsi d’acqua tombinati e 247 scoperti. Nacque con Milano libera su proposta, nel 1866, dell’ingegner Emilio Bignami (gli hanno dedicato una via nel quartiere Bicocca), che delineò il progetto sul ‘Politecnico’. Due anni dopo, la delibera comunale”. Nell’81 la manutenzione ordinaria era costata 700 milioni e 800 quella straordinaria; 13 miliardi il costo di nuovi progetti. Negli ultimi quattro anni (eravamo nel febbraio ’82) sono stati spesi 90 miliardi per progetti contro i 20 del quadriennio precedente; i lavori in corso al 31 dicembre ’81 ammontavano a 23 miliardi e quelli ultimati a 5. 
La Martesana
“Non c’è tregua – mi disse poi l’assessore Giulio Polotti – per i lavori eseguiti per il completamento della rete delle fognature, che non hanno nulla da invidiare a quelle di Parigi; anzi, sono più giovani, più funzionali, più moderne”. E aggiunse: “La nostra soddisfazione è che il magistrato del Po ha detto che siamo stati la città che più di tutte è intervenuta in questo settore, il meno visibile e quindi il meno gratificante ai fini della pubblicità”. Era gentile, disponibile, Giulio Polotti. E aggiunse: “Il Comune ha anche istituito una squadra di 15 operai, che su segnalazione dei cittadini sblocca gli ingorghi che si creano negli allacciamenti tra le abitazioni e le fogne”. E i difetti? Ci saranno pure dei difetti. 
La Martesana
O no? “Sono rappresentati da pezzi di quartieri periferici sprovvisti di fogne e dal problema della depurazione dei liquami neri, che adesso sono scaricate nelle marcite in superficie. Rientrato al giornale, il capocronista e vicedirettore Guido Gerosa, uomo di grandissima cultura e pazienza, avendo a che fare con uno come me che una ne pensava e cento ne faceva, voleva far precedere la mia firma dalla dicitura “dal nostro inviato”. Lo pregai di non farlo. Non mi piaceva. E lui ci rinunciò. Il giorno dell’uscita dell’articolo alcuni lettori mi telefonarono per dirmi che era sicuramente interessante calarsi in quell’intestino; e mi domandarono come mai nessuno avesse mai pensato di inserirlo in un itinerario turistico, che tra l’altro sarebbe istruttivo, soprattutto la parte più antica, quella tra via Manzoni (dove si scende di notte, quando gli scarichi sono meno frequenti) e il Carrobbio. “A Parigi, almeno sino a dieci anni fa lo si faceva e nessuno al pensiero di scendere nelle fogne si tappava il naso. Dovrebbero consentire a tutti la possibilità di conoscere Milano anche laddove nessuno la vede.













mercoledì 3 aprile 2019

La televisione di Legnano, in Lombardia

Colleghi della cronaca del Giorno


BATTEZZATA CON UN INCONTRO DI BOXE

TRA I CAMPIONI MAZZINGHI E ADKINS


Direttore dei servizi giornalisti era Enzo Tortora

 

 









Il telegiornale era confezionato

da un gruppo di cronisti del quotidiano

“Il Giorno”, in una “stanza” al quarto

piano di via Fava. Fra le trasmissioni più 

seguite, “La macchina della verità” e

“Caffè doppio”, protagonista la moviola

a bordo campo.

 



Franco Presicci

Enzo Catania
Antennatrè Lombardia venne inaugurata nei primi di novembre del ’77 con un incontro di pugilato tra Mazzinghi, 39 anni, e Adkins, alla presenza di oltre 1200 persone; e con grossi titoli su quotidiani e settimanali: “Parte la televisione di Tortora”; “L’emittente di Tortora fa le cose in grande”. Il presentatore se ne aveva a male e puntualizzava: “Non è la mia tivù: Antennatrè Lombardia è il luogo in cui presterò la mia attività. Io sono soltanto il responsabile dei servizi giornalistici. “E’ vero che lei ha detto che il suo ufficio sarà grande quanto uno stadio?”. “Nel senso dello studio in cui lavorerò… Poi i giornali hanno personalizzato la frase”. Lo diceva con la sua solita eleganza e cortesia. Lo studio della tivù in cui eravamo era enorme, con una scalinata che arrivava quasi al soffitto. E sulla scalinata file di poltrone.

Una trasmissione di Antennatrè







Vi si svolse anche la selezione delle annunciatrici: ragazze impacciate si avvicendarono al microfono e lessero con voce tremante i testi che venivano loro consegnati da Ettore Andenna, sempre brillante e spiritoso. Ma nessuna delle candidate arrossì alla domanda: “Scusi, lei si spoglierebbe?”. Una domanda provocatoria, alla quale una mostrò perplessità, un’altra indecisione, un’altra ancora rispose seccamente di no. Certo però che se non arrossì rimase di stucco Renzo Villa, quando una concorrente, già di casa nelle sale di trasmissione, disse che, sì, si sarebbe svestita, a patto però che lo facesse anche lui. Risate a non finire. Ettore Andenna, un giovanotto alto, spigliato, preparato, era già meritatamente gallonato per il lavoro fatto a Telealto Milanese, per cui era spesso “catturato” dalle copertine dei settimanali. Qui i suoi programmi si annunciavano ricchi di idee per i ragazzi e di quiz per adulti. “Quiz di tipo nuovo, perché il pubblico oggi si è svegliato, è diverso e non gli si possono ammannire le stesse cose … Guardiamo agli americani, che hanno raggiunto livelli importantissimi…”, commentò. Si notava che era stanco. Tutte quelle domande anche per scegliere la voce per “Il Giorno”, il quotidiano incaricato di curare i servizi giornalistici. Si sedette sugli scalini del “ring” e strinse le mani sulla nuca: “E ora che cosa chiedo?”.

Lucio Flauto, Annamaria Rizzoli, Cino Tortorella
Renzo Villa, uno dei tre dirigenti, pronto a dargli una mano davanti alle telecamere, fu distratto dal movimento che si animava a pochi metri, nel raggio degli operatori: le segretarie, tutte affascinanti, facevano la spola tra Gino Monferrari, direttore amministrativo, e Roberto Montresor, segretario generale degli studi. Cino Tortorella, il mago Zurlì, che qui avrà i compiti di regista e di narratore della storia dello “Zecchino d’oro”, se ne stava tranquillamente in poltrona con aria pensosa. Andenna poi fu calamitato dal telefono per rispondere a chiamate che arrivavano da ogni parte, persino dalla Svizzera. All’improvviso s’impose una voce che con entusiasmo si congratulava con lo “staff”. “Ecco un quiz per tutti. La voce è nota, chi l’ascolta deve indovinare a chi appartiene”. Si accese una gara tra chi l’attribuiva addirittura a Gilberto Govi e chi ad altri. Alla fine si fece largo un nome plausibile: “Non sarà Enzo Tortora?” (che se era andato a casa). “Enzo Chiama!”. Sollecitò Andenna; Enzo chiamò. “Sì, ero io”. Erano i primi momenti di quella che venne salutata come “la più grande Tv libera d’Europa”. 
Presicci intervista Walter Chiari e Patrizia Caselli
Folta di nomi dello spettacolo, da Walter Chiari a Lucio Flauto, al regista Davide Rampello, che vedemmo all’opera di fronte a una scacchiera di piccoli televisori mentre impartiva ordini con tono secco: “Uno…due…un po’ più a destra…tieniti pronto…due…uno”. Le immagini scorrevano: gruppi, primi piani. La cabina di regia era affollata di tecnici. Roberto Montresor mi invitò a una passeggiata fra gli studi. Molti erano ancora da allestire. Gli operai erano impegnati ad assicurare l’illuminazione ad alcuni locali. ”Lo studio 3 sarà per scenografie fisse. Vi si ambienteranno programmi per ragazzi, rubriche gastronomiche. Il telegiornale, che verrà confezionato da voi del “Giorno” (Piergiorgio Acquaviva, Giangaspare Basile, Carlo De Barberis, capo Aldo Catalani), verrà trasmesso dallo studio cinque, che sarà adibito anche alle rubriche culturali: avrà una piccola gradinata di 36 posti. Il due dovrà ospitare balletti, sceneggiati... E’ circondato da un ciclorama, su cui sfileranno i fiondali. Il quattro è destinato ai “cabaret” e agli special musicali. Il controllo di tutto, il cosiddetto C.C.U, dove si correggeranno i difetti delle immagini. In un locale, è sistemato un computer pronto a memorizzare 120 effetti luminosi senza l’aiuto di nessuno”. L’antenna – mi spiegò Gino Monferrato – può arrivare fino a Ravenna, Torino, Cuneo… Ma non lo faremo, perché i nostri programmi saranno probabilmente ripresi dalle televisioni delle altre regioni.
E. Tortora e F. Musazzi della Compagnia dei Legnanesi
Per quanto riguarda appunto i programmi, Ettore Andenna condurrà “Classe di ferro”, una specie di “Chissà chi lo sa” (guidato per anni sulla Rai da Febo Conti, il famoso Ridolini televisivo), con due squadre di ragazzi delle scuole medie in gara; Lucio Flauto, “Il pomo fiore”; Enzo Tortora, “Aria di mezzanotte”; Renzo Villa, “Il tombolone”, che avrà un notevole successo. E arrivarono anche i legnanesi, con Felice Musazzi in prima fila, che con le loro commedie, interpretate da attori vestiti da donna, scatenavano risate a crepapelle. Musazzi firmò il contratto per la rubrica “La posta di Teresa”, none di uno degli interpreti della Compagnia. Insomma, quest’antenna, con sede a Legnano, era attrezzata a dovere: tra l’altro un pullmino per le riprese esterne, costo 240 milioni; tredici telecamere a colori e tantissimo altro. Successivamente, per “Il Giorno”, andai ad a scambiare due parole con Ettore Andenna, che abitava in una cascina nei pressi di Varese. Fu come al solito ospitale, gentile, ottimo conversatore e mi accennò alla sua storia e alle idee che aveva in mente e a quelle che si stavano realizzando nella televisione.

Caffè doppio, trasmissione di Antennatrè Lombardia

Si soffermò su alcune trasmissioni: quella di Enzo Catania, capocronista e vicedirettore del “Giorno”: “Parliamone stasera”, che andava in onda il mercoledì; “Caffè doppio”, regista Beppe Recchia, conduttore Gianni Magni, attore e cabarettista, allora popolarissimo “Meneghin” del Carnevale ambrosiano, interventi di Anna Mazzamauro e del mago Aldexander (protagonista l’occhio vigile della moviola a bordo campo, iniziava con una partita di calcio); “La macchina della verità”, di cui era regista Cino Tortorella, Mago Zurlì, e conduttore il giornalista e scrittore Nantas Salvalaggio (si ricorda fra gli altri il libro “Il letto in piazza”). Vi si sottoposero anche diversi personaggi che erano stati coinvolti in fatti di cronaca clamorosi. Il “poligrafo ”, alias” macchina della verità, arrivava direttamente dagli Stati Uniti, dal New Jersey, e fu presentata da un grande esperto americano, Clarence Kirkland, allora sessantenne. 
L'americano Clarence Kirkland, a sx e il prof. Vincenzo Jannone
Colsi l’occasione per intervistarlo e mi disse che i parametri analizzati dal poligrafo erano la respirazione, l’alterazione cardiovascolare, la sudorazione. Aggiunse che la parte riguardante il set psicologico, cioè le emozioni recondite del soggetto, ha bisogno dell’intervento dello psicologo … ”perché potremmo trovarci di fronte a un individuo afflitto da sensi di colpa e disposto quindi a confessare azioni che non ha commesso. Secondo il professor Vincenzo Jannone, 48 anni, napoletano, psicologo che aveva fatto un corso oltreoceano per conseguire il titolo di “polygraph examiner”, e lo stesso Kirkland (che negli Usa usava lo strumento per la polizia e per le aziende intenzionate ad assumere personale), questo giudice meccanico dava un responso azzeccato al 99 per cento. Subito dopo la domanda, i cinque aghi che oscillavano come un sismografo portavano su un foglio gli elementi necessari, tra cui, come detto, le alterazioni della pressione del sangue, l’incremento dei battiti cardiaci e altre manifestazioni fisiologiche, che consentivano il responso. Mi disse anche che la macchina era nata da un’esigenza eterna dell’uomo: sapere se l’amico lo ha tradito. Gli chiesi ancora se un vero colpevole avesse osato sfidare il poligrafo e mi rispose che era capitato “per il fatto che in ognuno di noi c’è un senso di onnipotenza”.