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mercoledì 26 giugno 2019

Il gioiello che vedo dal mio balcone


                 RAMPONIO, IL PAESINO DI FRONTE A LAINO ADAGIATO SU UN FIANCO DELLA MONTAGNA


Arvedo Leoni e il cigno con la coda di paglia

Ha visto dimezzare nel tempo i suoi abitanti, e tante case sono in vendita.

Chi è rimasto gli è molto affezionato. 

L’incontro con il pensionato

Arvedo Leoni, 78 anni, che realizza animali e altre opere con il legno che raccoglie nel bosco.  

Scrive anche poesie, che definisce
ricami di vita quotidiana.





Franco Presicci
Dal mio balcone lo vedo, il paesello delizioso: Ramponio; lo osservo, accucciato sul fianco della montagna, quasi attaccato a Verna, in origine un villaggio minuscolo. E quando non gli rivolgo lo sguardo, impegnato a godere il profumo dei fiori del mio giardino grande quanto un foglio di quaderno, mi attira un raglio d’asino, quasi un pianto, e il rumore di una sega, che mi dicono non appartenere a questo agglomerato, a differenza dello scampanio, a scadenze fisse, della chiesa, che spesso riprendo con l’obiettivo, incorniciato dai rami del boschetto che ho a due passi. 

Case di Ramponio
La gerla
Mi avevano detto che Ranponio, un gioiellino, si è svuotato e che gli 800 abitanti di una volta si sono dimezzati. Non c’è lavoro, i giovani se ne vanno in Svizzera, a Como o a Milano, e se ne sono andati anche tanti anziani, ma da un’altra parte. M’informa Alberto Sala, 69 anni, ex impiegato comunale ed ex vicesindaco, con una passione speciale: la raccolta di vecchie foto di personaggi, mestieri, negozi, tutti scomparsi, “fatta eccezione per un esercizio di alimentari… Fino a una ventina di anni fa, c’era un po’ di turismo: gente che quando a Milano il caldo si faceva rovente si riparava da noi per rinfrescarsi”, ad assaporare la tranquillità e il silenzio; a godersi l’aria pura. “C’era miseria, qui; i contadini avevano galline, conigli, la mucca, il cui latte nutriva le famiglie e il di più alimentava tre latterie”.

La casa di Leoni
Oggi molte case sono scatole vuote e gli esercizi commerciali sono spenti. A Ramponio come in tutta l’Alta Val d’Intelvi formicolava il movimento clandestino delle sigarette: i contrabbandieri attraversavano i sentieri, le mulattiere con le loro bricolle in spalla con la complicità del buio. La gente li conosceva e non li giudicava: era un mestiere che consentiva il sostentamento, un rimedio all’indigenza. “Durante la guerra si faceva la fame, come nel resto del Paese, e bisognava arrangiarsi”. Sala, un omaccione dal volto rasserenante, gli occhi vivaci, disponibile, racconta in breve e con una punta di malinconia, la sua culla, vincolata dai Beni ambientali fin dall’inizio del ‘900. E’ un posto ridente, suggestivo, riposante; ma amareggiano anche chi lo visita per la prima volta tutte quelle porte serrate, molte con la scritta “vendesi”. Sala torna alle sue foto (che hanno partecipato ad una mostra importante), di cui dev’essere geloso come tutti gli appassionati custodi del passato.
La piazzetta
A quell’esposizione accenna anche Massimo Vigli, 54 anni, ex forestale, che si è aggiunto a noi nella sala consiliare, spaziosa, ariosa, elegante, del municipio, adagiato sulla piazzetta che scivola verso la chiesa di San Giovanni, che gli sta di fronte: il cuore amministrativo e la sede della celebrazione del culto. A proposito di fauna, quali specie popolano il territorio? Risponde Vigli: “Cinghiali, che però non sono autoctoni, cervi, caprioli, qualche camoscio, volpi, faine, martore, tassi. Minacciati dal bracconaggio, non soltanto qui, ma in tutta la valle. I cervi compaiono la sera, verso le 10, e ovviamente scappano appena si disegna davanti a loro una figura umana. Sono meravigliosi, i palchi spettacolari”. Dove abito io, pur sempre diffidenti e guardinghi, si espongono un tantino di più: se mi limito a fotografarli a distanza di sicurezza, magari rimanendo seduto su un sasso, pasteggiano sotto un albero del boschetto; ma se solo mi alzo saltellano e spariscono nella vegetazione.

La volpe mi osserva



La volpe viene a passeggiare sul balcone o si apposta sul muretto grondante di gelsomino del giardino e mi guarda come se mi studiasse. Credevo di poter stabilire un rapporto di amicizia…, “ma queste cose – interviene Vigli - appartengono alla finzione cinematografica: in ‘Due passi dal cielo’, il lupo scruta Terence Hill, lo esanima, lo segue con cautela e alla fine si convince che può avere fiducia”. Ho un desiderio e lo confesso: incontrare un anziano impegnato in un hobby. Sala fa fatica a pescarne uno nella memoria. “Mio padre, Giovanni, non c’è più: lui, quando andò in pensione, per passatempo si mise a fare ceste, gerle, zoccoli, rastrelli di legno e altri attrezzi per la campagna”. 

Massimo Vigli

Neppure Vigli ha un nome da proporre. Pensa, si consulta con un conoscente appena arrivato per parlare con il sindaco, che ha faccende da sbrigare altrove (“Sarà qui fra un quarto d’ora”, comunica un’impiegata presa da un mucchio di fogli), ma l’idea non sboccia. Poi improvvisamente nella testa di Sala si accende la lampadina: Arvedo Leoni, 78 anni. Sta a pochi metri da qui: prima di arrivare alla chiesa, volti a destra, scenda per un po’ e lo trova a sinistra. Se c’è, vedrà che ha oggetti molto belli da mostrare… “. Riflette e dice: “E’ meglio che venga anch’io”. Pochi minuti, parcheggia, chiama, dalla porta aperta non esce alcuna voce; da una finestra della casa, bellissima, un’architettura da fiaba, sbuca Arvedo: “Scendo, intanto accomodatevi”. Sala mi presenta, Arvedo ci fa entrare, mi offre una sedia in cucina, mentre l’accompagnatore saluta ed esce. Il padrone di casa ha appena finito di pranzare, la moglie e il figlio sono al piano superiore, e lui mi fissa in modo interrogativo.

Maschera eseguita da Arvedo
Pongo la prima domanda, avendo già adocchiato alcuni suoi pezzi appesi alle pareti: trottole, pipe, maschere e un piatto con uccelli fatto con migliaia di stuzzicadenti intrecciati; e su una mensola, una tartaruga che muove la testa e la coda, un falco eseguito con le pigne… un’altra tartaruga realizzata con un guscio di noce, un bastone istoriato e con il pomo a mappamondo... Quanta fantasia! E che abilità nei dettagli, nelle rifiniture! Arvedo parla poco, ma soddisfa con delicatezza le mie curiosità. “Vado nei boschi con i miei cani, Bo e Cleo, e prendo il legno che mi serve: il nocciolo, il faggio, il carpino”. Riproduce quasi soltanto animali. Allinea alcuni esemplati sul tavolo, dov’è rimasta la tovaglia, e tace. Com’era qui la vita una volta? ”Curare le capre, le mucche… Chi non ne aveva voglia si dava al contrabbando”. Il suo mestiere? “Il metalmeccanico in un’azienda di Milano”. Da ragazzo aiutava il padre a fare lavori in legno, soprattutto gerle per trasportare il letame, il fieno… Da quando è in pensione ha ripreso a maneggiare gli utensili necessari. Non si vanta del suo serraglio, anzi lo tratta come se non fosse stato creato da lui; e si stupisce quando gli dico che è degno di un’esposizione. Non è in vendita: lo tiene per sè. Tutt’al più lo regala.

La casa di Leoni
Usciamo sul suo piccolo terrazzo che si affaccia sulla valle, dove lui evidentemente si siede per ammirare il paradiso che lo circonda. A guardar bene comprende anche Laino, le cui case, data la lontananza, sono piccole come quelle di Lilliput. E riecco il campanile che svetta trionfando su queste gobbe enormi. E’ ora di andare, anche se Arvedo non ci mette fretta: è calmo, sereno, un po’ distaccato. Forse aspetta altre domande. Sono insaziabile e ne improvviso una: qualche curiosità? “Fino a un paio di anni fa arrivava puntualmente una volpe, che mangiava con i miei cani, senza alcun timore per la mia presenza. Poi non si è fatta più vedere”. Quando sto per imboccare l’uscita, Arvedo vince il pudore: “La prossima volta le farò vedere delle cose?”. “Cioè?”. “La prossima volta”. Insisto e cede: “Le mie poesie”. Anche poeta. Gli chiedo di recitarmene una. “La prossima volta. Sono ricami di vita quotidiana”. Traduce in versi ciò che vede, ciò che accade in questo paese seducente, nonostante quella scritta implacabile (“vendesi”) sulle porte delle case di pietra senza più anima. Arvedo mi accompagna per un tratto; quindi affronto da solo i “tunnel”, gli archi, le stradine, le scale, le salite che conducono allo slargo del Comune, dove a dispetto dell’ora alcune signore vanno, senza correre, facendo invidia a chi a Milano vive tra concittadini che hanno il passo dei maratoneti. Mi rimetto in macchina pensando alla cortesia di Arvedo, che mi ha invitato a tornare per leggere i suoi ricami poetici. Che bella giornata, questa del 14 giugno: il sole, la pace di Ramponio, il campanile che detta le ore con i suoi batacchi, il paesaggio, le persone che ho conosciuto. Mi soffermo un po’a guardare il cielo, dove - mi ha detto Vigli - spesso volteggia l’aquila reale, ma forse è già passata e adesso banchetta nel suo nido. Mi rifarò con il falco che quasi ogni giorno fa il girotondo sulla mia casetta. Risalgo in macchina, metto in moto, mi ritrovo sulla strada, stretta, che in fondo si biforca, andando a destra verso Lanzo, e a sinistra, verso San Fedele, dove fra tante curve declina in direzione di Argegno, Como… Sono contento: mi sento più ricco.





mercoledì 19 giugno 2019

Ha preso per la gola anche Kissinger


Antonio Marangi


LA BRILLANTE CARRIERA CULINARIA

DEL PUGLIESE ANTONIO MARANGI



Ha cucinato per George Bush e per
Steven Seagal, attore ed esperto in
arti marziali (cintura nera).                                  

E’ stato allievo della scuola alberghiera di
Castellana Grotte ed ha conquistato successi.

Ha lavorato come “chef” nei più
Grandi locali internazionali.











Franco Presicci

Prese per la gola persino Henry Alfred Kissinger, l’uomo politico americano divenuto il più prestigioso portavoce della Casa Bianca e si adoperò per una soluzione pacifica nella guerra contro il Vietnam, ottenendo il premio Nobel della Pace nel ’73. Antonio Marangi, “chef” noto ed apprezzato in tutto il mondo, mi fu presentato da Dino Abbascià, costruttore di un impero commerciale a Milano e “dominus” in tante aziende rilevanti non soltanto milanesi, oltre che vicepresidente dell’Unione Commercianti, in corso Venezia (scomparso da qualche anno).
Dino Abbascià tra il prof. Lenoci e Maura Arlunno
Una sera, durante una manifestazione nella sede dell’associazione pugliesi del capoluogo lombardo, parlando di cibi e di vini, ma soprattutto della storia del nettare di Manduria con Francesco Lenoci e della nostra Martina Franca, così luminosa e così seducente, il docente universitario allora numero due del sodalizio regionale, mi disse: “Ti presenterò un maestro della cucina che sicuramente apprezzerai. E’ un giovanotto di grande esperienza culinaria, famoso e disponibile, dalla parola affascinante”. Lenoci iniziò il suo giro di conferenze in l’Italia, e a far da tramite fu Abbascià, uomo intelligente, generoso, pieno di idee, piacevole parlatore, propulsore dell’associazionismo, lontano dall’abitudine di dire le cose tanto per dirle. Mi fissò l’appuntamento alle 10 del mattino del 15 maggio del 2008, un giovedì, e puntuale, mi presentai a Palazzo Bovara, in corso Venezia 51, dove incontrai Marangi, executive chef, all’AFM Banquetim, una delle aziende leader in Italia nell’ambito del “catering”, tra l’altro responsabile della ristorazione alla Borsa di Milano, alla Terrazza Martini, al circolo dell’Unione del Commercio, in alcune aree dell’autodromo di Monza e in “shoroom” di grandi della moda. Stando seduto dietro un tavolo lungo e largo, un gomito sul ripiano e la mano sotto il mento, aspettava le domande senza mai essere interrotto da uno dei 40 uomini alle sue dipendenze. Ma il telefono era ostinato. Una chiamata dopo l’altra, tutte professionali. Spuntò per un saluto Ruggero Fregonese, “chef” personale di Marina Berlusconi, in procinto di partire per un soggiorno di lavoro in Francia e gli prese una decina di minuti.
Gualtiero Marchesi e Antonio Marangi
Marangi dopo un’ora aveva un appuntamento in piazza della Scala con Gualtiero Marchesi (ritenuto il creatore della nuova cucina italiana), ma non mi dette fretta. (“Ci andiamo insieme, così potremo continuare a parlare tranquillamente”). Non arrivavano voci, nella sala; soltanto aromi: la cucina, che era in un ampio spazio attiguo era un sacrario. Marangi si raccontava, guardandomi fisso negli occhi. Lo interruppe una telefonata dal Giappone, e fu educato ma breve. Lo avvertivano che avevano spedito una spezie da lui ordinata. Mi dette notizie della sostanza, avendo intuito che ero interessato. Da piccolo sognava di diventare asso dei fornelli. E sapeva che avrebbe dovuto studiare parecchio per conquistare quel traguardo. Sapeva anche di avere intelligenza e costanza e che niente lo avrebbe distratto. E grazie alle sue qualità, che gli venivano riconosciute e incoraggiate, anticipò probabilmente qualche tappa. Era ancora giovane quando sfornellò per Kissinger, e per altre alte personalità, tra cui George Bush, Woody Allen, Zubin Metha e per “vip” della finanza internazionale.
Antonio Marangi
Un “curriculum” di tutto rispetto, quello di Antonio Marangi, che riportava in ogni riga un successo: affermazione nei locali più famosi ed eleganti, come “Le Cirque” di New York; secondo cuoco sulla “Sea Princess”, una diva del mare in navigazione in tutto il Pacifico… Poi, sette anni prima del nostro incontro, aveva gettato l’ancora a Palazzo Bovara. “Sono nato da genitori pugliesi a Maracay, in Venezuela, splendida città-giardino; città colta per i suoi teatri importanti, le sue biblioteche, i suoi musei. Quando lo intervistai aveva 40 anni. Alto, aitante, rispettoso, premuroso. Frugava nei ricordi e li riferiva sinteticamente, senza lasciare campo alla retorica. Non si vantava di ciò che aveva realizzato, si esprimeva con naturalezza. “Sono stato ‘chef’ ospite al Festival della cucina italiana nell’esclusivo ’Pacific Club Kovloon’ di Hong Kong, frequentato dai più danarosi e autorevoli esponenti della zona; al Metropolitan Hotel” di Dubai; all’Avana per l’esposizione della nostra gastronomia al Gruppo Palmares…”. A Milano “chef” di partita all’Hotel Gallia di piazza Duca d’Aosta (di fronte alla stazione Centrale), edificio vittoriano per anni sede del mercato del calcio italiano; all’apertura del Carlton Baglioni in via Senato; primo “chef” di cucina allo storico Giannino, i cui tavoli hanno a suo tempo ospitato Tito Schipa, Barbara Hutton, Sarah Churchill, Isa Miranda, l’Aga Khan…
La stazione Centrale
E’ stato secondo “chef executive” allo “Sheraton” di Bari; “chef” ospite per il battesimo del “Gohta Tower Hotel L’incontro” di Gatborg (Svezia); e in diverse stagioni capopartita al “Gallia Palace Hotel” di Prima Ala. Preparatissimo, instancabile. “A ‘Le Cirque’, dove ho accumulato l’esperienza più vasta e completa in una brigata numerosissima e multietnica, di squisiti professionisti, ogni giorno arrivava il ‘top’ dei prodotti da ogni angolo della terra: tartufi grossi quanto patate, nove tipi di caviale… Avevo 24 anni ed ero ‘chef tournant’”. Nelle sue cucine arrivavano prelibatezze sofisticate da ogni parte: da Tokio spiedini di bambù, che servono per la presentazione del cibo a boccone di forma e qualità ricercatissimi. Marangi era contento di vivere a Milano: “una città che adoro”. Palazzo Bovara lo affascina per le sue linee neoclassiche. Vi ebbe dimora Stendhal, tanto innamorato di Milano, delle dame meneghine e dello stesso corso di Porta Orientale che alimentò l’aurora della sua vita. Mentre parlava Marangi sorrideva.
La Lama a Martina Franca
Sergio Escobar e Franco Punzi














E tornava spesso indietro, alle origini: “Giunto in Italia all’età di 11 anni, andai a fare il garzone in una pasticceria di Martina Franca (dev’essere quella con le vetrine dalle parti della Madonna della Sanità e del Foro Boario). Dai 14 ai 17, allievo della scuola alberghiera di Castellana Grotte, in provincia di Bari. Ne uscii con la qualifica di cuoco addetto ai servizi di cucina e pasticceria. Dieci anni dopo ho conseguito la maturità di addetto professionale ai servizi alberghieri e della ristorazione. Durante la scuola a Castellana si muoveva tra le pentole in vari locali per accrescere la pratica. Prese a viaggiare: Toscana, Lombardia, Emilia-Romagna, Liguria, Veneto… A 19 anni entrò come capopartita nella brigata del notissimo “chef” Angelo Paracucchi al “Royal Monceau”, uno dei luoghi più prestigiosi di Parigi. “Ho avuto come maestro di cucina classica Maurizio Campolonghi, mio grande amico, che mi reclutò a Salsomaggiore al ‘Grand Hotel et de Milan’, ammirevole testimonianza di ‘art decò’, che entusiasmava Ungaretti, Toscanini, Caruso, Pirandello e altri uomini illustri”. Ne ha fatta, di strada, con tanti amici, sparsi in ogni dove, che ricorda con affetto e stima. Tra questi, Mauro Tomasini, “chef” di gran classe, ed Eugenio Medagliani, considerevole esperto a livello mondiale di utensileria per l’arte culinaria. Ricordava anche i “vip” che aveva conosciuto: Steven Seagal, per esempio, attore, campione di arti marziali (cintura nera), musicista, definito in America Latina “La Tortuga” per la sua abilità nei combattimenti, e alcuni di quelli per cui ha cucinato, come George Clooney.
Questa sua carriera brillante non gli ha mai fatto dimenticare la sua Martina, la città dei trulli e del festival, (che è stato presentato dal presidente Franco Punzi e da Sergio Escobar al Piccolo di Milano proprio il 14 maggio, il giorno in cui, nel ’47, il teatro venne fondato da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e da sua moglie Nina Vinchi). A Martina torna l’estate, anche per rivedere gli amici, alcuni titolari di una pasticceria, dove confezionano torte eccellenti, attirando una notevole clientela. Ricordo una serata molto affollata nella sua campagna, con grande quantità di piatti e ospiti provenienti da ogni parte della Puglia: Dino Abbascià dalla sua Bisceglie. Io, inesperto di tratturi martinesi, feci fatica a trovare l’indirizzo, e quando finalmente lo individuai chiedendo alla gente che incrociavo, non sapevo dove parcheggiare, e con l’aiuto di alcuni volenterosi riuscii ad incastrarla in una rientranza del muretto a secco. Gli invitati fecero notte, tra suoni e canti, e nessuno aveva l’aria di volersene andare. Sono anni che non sento Francesco Marangi. Di lui non ho neppure notizie. Chissà dove lo ha portato il vento. E la fama. La bravura indiscutibile.

giovedì 13 giugno 2019

Un aquilone vola libero nel cielo - EDIZIONE STRAORDINARIA


Enrico Nascimbeni

E’ DECEDUTO ENRICO NASCIMBENI
GIORNALISTA, POETA, CANTAUTORE







Cominciò la carriera collaborando
con “Il Corriere della Sera”, passò
poi al “Giorno”.

Scrisse canzoni con Roberto Vecchioni, che recensiva le sue poesie sul quotidiano di via Solferino.

Memorabile il suo impegno sociale a favore delle minoranze osteggiate.

Era coraggioso, buono disponibile.

I suoi concerti avevano successo, ebbe premi anche all’estero.



Interprete dei sentimenti dell'Autore e degli affezionati Lettori, pubblico con una edizione straordinaria, in contemporanea con l'articolo dell'amico Luigi Frisoli, la notizia riguardante la grave perdita del grande giornalista Nascimbeni, venuto a mancare improvvisamente all'età di 59 anni. Il direttore. 
Franco Presicci

Oggi, mercoledì 12 giugno, pomeriggio, alle 14.30, vado su Facebook e leggo una bruttissima notizia di Leonardo della Maga: è morto Enrico Nascimbeni, giornalista, scrittore, poeta, cantautore, figlio di Giulio, uno dei mostri sacri del “Corriere della Sera”, tra l’altro biografo di Montale. Le lacrime non mi hanno impedito di aprire il computer e di scrivere, sia pure di getto, un ricordo. Anzi più ricordi, susseguitisi con rapidità, tanto da farmi fare fatica a metterli insieme. Conseguita la laurea in lettere e filosofia, eccolo sulle orme del padre, che lui considerava un esempio, un modello.
Enrico Nascimbeni
Lo amava moltissimo, come si vedeva dalle fotografie che situava su Facebook (lui ragazzino seduto alla scrivania di fronte al grande Giulio, come l’allievo al cospetto del maestro, e in altre immagini che lo riprendevano con la mamma, che non c’era più). Dopo una collaborazione con “Il Corriere della sera”, venne al “Giorno”, già trasferito in piazza Cavour. Aveva 24 anni, era un ragazzo sveglio e tormentato. Quando catturava una notizia scattava, veniva da me e mi chiedeva se ero interessato ad occuparmene. Certo che lo ero, ma gli passavo volentieri il bastone, perché sapevo che era di stoffa buona e che doveva farsi le ossa. Un giorno ammazzarono due malviventi, sparando loro in faccia con un fucile a canne mozze, e mi interrogò con lo sguardo. Lo invitai a precipitarsi sul posto e io stesso telefonai al fotografo e all’autista, per fare più presto. Dopo un’oretta lo raggiunsi e la concorrenza, sempre pronta a malignare: “Non si è fidato, è venuto anche lui”. Era un avvenimento grosso, alle indagini partecipava anche un commissariato competente per territorio, dove io contavo tanti amici, e avrei potuto sapere particolari sulle vittime che magari a Enrico e agli altri non sarebbero stati rivelati. Enrico aveva già fatto una buona vendemmia e io me ne rallegrai. Tornati al giornale si mise subito a scrivere il pezzo, me lo fece leggere e gli dissi: “Bellissimo, dovizia di dettagli, ottima descrizione dell’ambiente e dei personaggi. Devi soltanto togliere la mia firma apposta accanto alla tua”. Insistette e io feci altrettanto. Una sera mi chiamò a casa mortificato: era andato al bar, aperto al primo piano del palazzo fino a notte, due rapinatori avevano fatto irruzione in un’oreficeria e un collega che non si occupava di “nera”, arrivato all’improvviso fuori dal suo turno e trovata deserta la cronaca, saltò in macchina catapultandosi sul posto. Al suo ritorno, Enrico gli regalò una chicca: “Uno dei rapinatori sentendo l’ululato delle volanti ha telefonato alla mamma in Sicilia esprimendole la paura di essere arrestato”.
Presicci con Enrico mentre finge un malore
Quindi Enrico telefonò a me e mi confidò la sua amarezza. “Non te la prendere - lo confortai – hai soltanto sentito il bisogno di andare a bere un caffè. A me è successo di arrivare in ritardo in piazza Filangieri per un’evasione collettiva, il 30 aprile ’80, perché ero a pranzo da un amico. Chi potrà giudicarti male? Un’altra volta andai al giornale verso mezzogiorno e trovai Enrico ad aspettarmi vicino all’ascensore. “Cosa è successo?”. In un negozio di parrucchiere nei pressi di corso Buenos Ayres un tossicomane ha rapinato l’incasso; mentre usciva la nipote del titolare per il terrore ha lanciato uno sgabello, quello si è voltato e ha fatto fuoco, uccidendo il titolare. Ho potuto raccogliere pochi dati perchè la serranda era abbassata e nessuno ha saputo dirmi qualcosa”. “Vuoi che ci andiamo insieme?”. “Mi farebbe piacere”. Davanti alla barbieria c’era un bar affollato. Entrammo e interpellando diversi avventori, che furono prodighi di brani della vita della vittima, che aveva esercitato per molti anni in quella via. Enrico notò una foto incorniciata su una parete; e sollecitando il proprietario, seppe che le persone ritratte, tra le quali c’era anche il parrucchiere, erano clienti assidui del locale (mi pare che giocassero tutti in una squadra di calcio). Enrico gli chiese in prestito il quadro, giurando che l’avrebbe riportato dopo un’ora la massimo: il tempo di andare al giornale, farlo riprodurre dai fotografi e tornare. E anche in quell’occasione scrisse un pezzo ammirevole. Per la mia collaborazione affettuosa mi ricambiò con il titolo di maestro. Mi fu riferito che lo aveva detto anche ai commissari all’esame di stato di giornalismo, affrontato nel ‘95. E ogni tanto lo scriveva su facebook. “Maestro di che, Enrico? Sei bravissimo, simpatico, generoso… Io ho soltanto un po’ di esperienza in più, visto che da anni mi muovo fra delitti, rapine, sequestri di persona, fatti di terrorismo… e ho un buon numero di amici che all’occorrenza mi riservano un occhio di riguardo.
Tanino Gadda e Luisella Seveso
Anche Giancarlo Rizza e Gaetano Gadda, conoscendo il tuo talento, ti darebbero una mano”. Un’altra sera stavo per uscire per andare con mia moglie alla festa del cronista che si svolgeva prima di Natale al circolo della stampa, squillò il telefono. “Franco, soltanto tu mi puoi aiutare. Ho saputo che gli uomini del commissariato…hanno ispezionato un’auto parcheggiata nella via… e vi hanno trovato 60 chili di cocaina (forse eroina, non ricordo). Ho telefonato e il piantone mi ha risposto che gli uffici sono vuoti perché tutti se ne sono andati a casa. La notizia è grossa, credo di averla soltanto io, ma mi manca il tessuto”. Feci un po’ di telefonate, seppi quello che dovevo sapere, lo trasmisi a Enrico, il quale il giorno dopo, aprendo il giornale, rimase demoralizzato: chi aveva realizzato il titolo in prima pagina,  per una svista (dovuta alla fretta con cui spesso si è costretti a lavorare in un quotidiano), aveva attribuito l’operazione alla squadra mobile. Non era una cosa da poco ed Enrico se ne addolorò, pensando alla figuraccia che avrei fatto io con chi mi aveva favorito, dandomi la notizia in esclusiva. 

Il poeta Nascimbeni
Rizza in barca col figlio Sergio
Provava imbarazzo quando qualche sprovveduto gli ricordava di essere il figlio unico di Giulio, che, redattore letterario del quotidiano di via Solferino, intervistò grandi personaggi del secolo, tra cui Marguerire Yourcenar, Pier Paolo Pasolini, Erich Fromm, George Simenon, Jorges Luis Borges, curò “Tuttilibri” per la Rai…. Come sè essere figlio di una penna nobile fosse una colpa. Poi Enrico lasciò “Il Giorno” e assunse l’incarico di capocronista all’”Arena” di Verona, quotidiano in cui il papà aveva iniziato la carriera a soli 16 anni, divenendo capo della terza pagina. Già scriveva libri di poesia, che Roberto Vecchioni recensiva sul “Corriere della Sera“, e canzoni per la voce di cantanti famosi, tra cui Mietta e Francesco Buccini. Su facebook faceva interventi contro gli omofobi, i razzisti, la cattiva politica…Un impegno sociale che svolgeva con coraggio, determinazione, per il quale tra l’altro subì un’aggressione sulla porta di casa da parte di due individui, che, ferendolo, gli urlarono “sporco comunista di m…”. Lavorava intensamente. Intervistò Craxi ad Hammamet, fece reportage a Kabul e nei Balcani; scrisse canzoni anche con Vecchioni, come “L’ultima notte di un vecchio sporcaccione” con lui interpretata al Premio Tenco nel 2003. Partecipava a manifestazioni contro la violenza di ogni tipo e faceva tante altre cose, compresa una collaborazione con “Il Corriere”.
Era nato nel ’59 a Verona (il papà a Sanguineto, dove gli hanno intestato una scuola), viveva a  Milano. Più volte negli anni gli ho telefonato, spesso parlando con Giulio perché lui era impegnato con la musica altrove. Mi chiamò per invitarmi a cena, ma io ero a Martina Franca. L’invito fu rimandato, ma quando rientrai Enrico era fagocitato dai suoi impegni ed era irraggiungibile.
La moglie Pat Vetti ha scritto che era un aquilone. “Ora vola libero e manda a tutti un abbraccio di libertà”. Ma gli aquiloni poi atterrano. Enrico ha compiuto il suo ultimo volo, e non lo vedremo più. Io ho uno scrupolo: non ho mai scritto un articolo su di lui: ragazzo meraviglioso che non aveva remore a stigmatizzare i mali della società in cui viviamo. Altri dicono “Ma chi me la fa fare? Tanto il mondo va a rotoli e non cambia”. Lui no, combatteva, inveiva, spesso con un linguaggio fuori delle righe. Adesso che se n’è andato, a 59 anni, sono tanti, anche su facebook, a salutarlo, a ricordare momenti esaltanti della sua vita: concerti di successo, premi a non finire, tra cui uno importantissimo in Australia... No, non sono stato il suo maestro. Avevo da imparare da lui. Non andrò al suo funerale: Enrico Nascimbeni, giornalista dall’85, uomo generoso e disponibile, schietto, amico sincero, è dentro il mio cuore.










mercoledì 12 giugno 2019

Luigi Frisoli, intelligente e dinamico



Frisoli con il giocatore Coco
COSTRUI’ CON I FRATELLI

LA LOMBARDINA CHE ALLEVO’

CAMPIONI DEL CALCIO


Il Comune di Milano, riconoscendo i suoi

meriti, gli dette l’Ambrogino d’oro e altri

premi importanti. Nato in Capitanata, si 

era trasferito nel capoluogo lombardo, 

dove divenne un personaggio. Amava il

dialogo, era schietto, gentile e generoso.






Franco Presicci
Non ha mai indossato una maglia da calciatore; e non ha mai dato neppure una pedata ad un pallone. Eppure, i campioni, il rettangolo di gioco e l’erba che lo tappezza, gli spalti da cui la domenica esplodono applausi ed incitamenti a squarciagola lo entusiasmavano. Nei suoi ricordi, fra i tanti, restava una parata in porta, effettuata per caso, durante la pausa di un allenamento: la partita era tra ragazzi, che avevano soltanto la volontà di guadagnarsi una vittoria.
Luigi Frisoli
“Sono sempre stato in panchina, affascinato dalle geometrie che venivano disegnate sul campo, da un tiro che violava la rete con la velocità di una saetta. Luigi Frisoli, allora 84 anni, cavaliere al merito della Repubblica, nel febbraio del 2010 mi ricevette nel suo studio alla Lombardina, la società di calcio per aspiranti cannonieri da lui fondata nel ’69 assieme ai fratelli Romeo e Francesco, accogliendomi a braccia aperte. Mi era stato presentato mesi prima in un oratorio dell’Isola Garibaldi, a pochi passi da piazzale Lagosta, e mi era piaciuto per la sua giovialità e la sua schiettezza. Accennò subito alla Lombardina, di cui era presidente, sollecitato da un comune amico che lo frequentava da tempo. Gli promisi una visita nel suo territorio, che diceva essere un elisir di lunga vita, “perché stare con i giovani si campa tanto”, e andai a in un mercatino di cose antiche poco distante che stava per chiudere i battenti. Non feci passare molto tempo: gli telefonai, mi fissò un appuntamento al giorno successivo, ed eccomi dinanzi a lui, nel suo ufficio di via Sbarbaro, pieno di coppe conquistate e di quadri appesi alle pareti, da cui occhieggiava assieme a Fraizzoli, Moratti, Prisco e ad altri famosi dirigenti dell’Inter, la squadra da lui amata. Il suo cuore naturalmente pulsava anche per le sue “nove squadre, dai pulcini agli esordienti della massima serie, 40 bambini della scuola-calcio, accanto all’Inter campus, diretto da Beppe Baresi a cui il nostro club è associato”. Sorrideva amabilmente, orgoglioso della sua creatura. “Se nella mia nidiata c’è un elemento che mostra di possedere le doti necessarie, l’Inter ha la preferenza nel reclutarlo”. Gli chiesi da chi altro fosse affiancato nel suo lavoro quotidiano, che svolgeva con un piacere immenso, e si soffermò sul fratello Francesco, direttore tecnico del sodalizio, e su Egidio Pezzoni, che aveva scoperto autentici talenti, tra cui Calcaterra e Minaudo. “Tutti sono passati da questo spazio. 

La Lombardina
Mi viene spesso in mente, come se fosse ieri, il giorno in cui il Comune ci consegnò l’area di via Enrico Fermi, in zona Niguarda. Facemmo la pulizia, allestimmo i servizi, gli spogliatoi, le docce, il bar, un ristorante dove vengono a sedersi sportivi acclamati, compreso Coco, e altre persone importanti”. Ne ha avute di soddisfazioni Luigi Frisoli, questo foggiano non molto alto, calmo, comprensivo, ricco di amici anche “in alto loco”. “Mi sono nutrito soprattutto di calcio. Quando alla Lombardina è in programma una competizione, io vivo la vigilia come una festa. E festa è con tutti quegli spettatori, grandi e piccini, uomini e donne, che applaudono come forsennati, sperando che i pargoletti diventino goleador”. So che qui sono stati allevati degli assi. “Per esempio, Massimo Brambati, il grande terzino del Torino, arrivato quando aveva soltanto 8 anni”. Nella sua famiglia moglie, figli, generi, nipoti fanno il tifo per la Lombardina? “Sette fratelli, una sorella, tre figli. 3 nipoti, mia moglie Wanda, buona, generosa, intelligente, che m’incoraggia, mi segue, mi apprezza, e tutti gli altri”. Era piacevole conversare con lui. Aveva una memoria inossidabile. Le sue parole erano come le ciliegie: una tira l’altra. Non si aveva bisogno di fargli domande: le anticipava, anche se sapeva ascoltare. Aveva pazienza. Non gli importava se le ore passavano e lui aveva lettere da scrivere, telefonate da fare. Tutto poteva aspettare se c’era un ospite curioso di conoscere meglio il frutto della sua laboriosità e della sua intelligenza. “Grande è la gioia di stare con un amico, perché, se mi permetti, io ti considero tale. Parlare con un giornalista può essere pericoloso, ma con te vado sul sicuro, già la prima volta ho capito chi sei: hai sensibilità, comprensione, sei interessato alla gente che costruisce, e io con i miei fratelli ho costruito la Lombardina. 

Luigino Frisoli
Me lo ha riconosciuto anche il Comune, che mi ha premiato con l’Ambrogino d’oro” per gli anni passati ad alimentare lo sport in questa organizzazione, fabbrica di giocolieri del pallone, contesi da squadre rilevanti. Anche Coco ha fatto qui il provino per entrare nell’Inter. Venne soffiato dal Milan, ma ci ripensò e tornò a casa”. Io non m’intendo di calcio: nella mia vita ho visto da ragazzo sì e no scampoli di partite le volte che il l’Arsenal-Taranto vinceva e aprivano le porte agli squattrinati che restavano fuori. Ho assistito a una rovesciata di Bagigalupo (se non ricordo male era proprio lui), che mi apparve una spettacolare acrobazia da circo equestre. Eppure, quando qualcuno mi parla di volate da un palo all’altro, di giocate sull’uomo, di trame offensive mi cattura”. Frisoli (“Luigi”: mi corresse), continuiamo con la Lombardina. “Nel ’68, Mario Festa, un uomo tutto cervello, ebbe l’idea di una società di calcio giovanile. Ne parlò con me e con i miei fratelli Romeo, che era suo genero, e Francesco, e non avemmo esitazioni. Eravamo al bar “Il Giardinetto” di via Maloia, uno dei tanti locali in cui gruppi di sportivi s’incontravano e discutevano di finte, sforbiciate e ribattute. L’anno dopo realizzammo il nostro sodalizio, dopo aver ottenuto il terreno dal Comune grazie all’assessore Gianfranco Crespi, che, va detto, concretizzò tante opere, compresa la piscina Scarioni”.
La via della Lombardina

Quindi la Lombardina ha festeggiato i 40 anni di vita? “Proprio così. L’abbiamo messa in piedi con tanto impegno e con le nostre forze; ed è per noi una gioia vedere tanti ragazzi agganciare la palla, svirgolare, duellare, bombardare la porta. Quando cominciammo a recintare e ad allestire i muri dei vari locali c’erano già due grosse società: la Folgore e la Niguardese, che c’è ancora, e noi andammo a pescare assi all’Isola. Quindi ci distribuimmo i compiti: io tenevo i contatti con gli enti, Romeo era il direttore generale e Francesco, che aveva giocato nella Baranzatese, il tecnico. Partimmo con le prime squadre di ragazzi di 14-15 anni, che al primo campionato si aggiudicarono la vittoria, e una Terza categoria di giovani oltre i 20. Istituimmo la scuola-calcio per i bambini fino agli 8 anni, facendo seguire Pulcini, Esordienti, Allievi, Juniores, under 21. Io ero presidente anche del convitto Achille Ricci, di fianco a noi, e proposi a Sandro Mazzola di acquistare lo spazio attorno. Accettò e sorse l’Inter Campus, intitolato a Giacinto Facchetti, dove si coltivavano, come da noi, le speranze del club nerazzurro”. Insomma la Lombardina è nido, palestra, fucina. “Tutto questo. E ci viene riconosciuto. 

Luigi Frisoli
Nelle occasioni solenni sono sempre presenti l’assessore Crespi, i sindaci Aniasi, Tognoli e altre personalità”. Avete sfornato diversi campioni. “Uno di questi, ripeto, Massimo Brambati”. Senti, presidente… M’interruppe garbatamente: ”Devo precisare: io oggi sono il presidente onorario. Quello effettivo è l’ingegner Massimo Cabrele” (suo genero). L’Inter vi ha dato fiducia e prestigio. “Certo. Sul nostro campo principale giocano tre squadre dell’F.C. Internazionale: i Giovanissimi nazionali, i Giovanissimi regionali e gli Allievi regionali. La Primavera su quello limitrofo”. Tu ti sei mai cimentato? Così, tanto per provare. Hai tirato qualche volta una pedata alla sfera di cuoio?”. “Mai”. Cambiamo argomento: Qual era la tua professione? “Nel ’47 cominciai a lavorare all’informazione medica di un’industria farmaceutica, dove in seguito diventai direttore commerciale”. Com’era allora Milano? “Circolavano molte bici, pochissime auto e pochi motorini. Io andavo su una Vespa neonata”. Ti piaceva Milano? “Mi piace anche adesso. E’ ospitale, industriosa, con angoli bellissimi. Penso al Naviglio Grande e ai mestieri che accoglieva nei cortili delle sue case: diciamo, vicolo dei Lavandai, dove avevano lo studio Aldo Cortina e Guido Beruzzi, Sarik e tanti altri”. Ricordi di quegli anni? Il ’47, per esempio. “Nacque il Piccolo Teatro; Remigio Paone, impresario teatrale geniale, prese in mano il Teatro Nuovo; in consiglio comunale si discuteva dell’aumento del prezzo del biglietto del tram; al Giro d’Italia vinse Fausto Coppi; caddero 20 centimetri di neve; i pendolari erano 200mila; la città pullulava d’idiomi; sorgevano nuovi palazzi; all’Excelsior si rappresentava ‘Piccoli borghesi’, di Gorkji; gli abitanti erano un milione e settecentomila…”. E la gente? “Era più disponibile”. Luigi Frisoli è scomparso qualche anno fa, e quando passo davanti alla Lombardina, famosa in tutta Milano, e non solo mi prende la malinconia. Se è giorno di partita e gli spalti come sempre formicolano di appassionati, penso che lui, lassù, è felice.













mercoledì 5 giugno 2019

Si conosce il mondo andando su due ruote


Alessandra Scolari
LA BICI NON E’ SOLO MEZZO DI TRASPORTO

MA LIBERTA’, PASSIONE, SOGNO, FELICITA’


La professoressa Alessandra Scolari pedala

dalle elementari. 

A 64 anni continua i suoi

giri in Italia e fuori. 

Racconta con dolcezza 

paesi, città, borgate, monumenti, riserve

naturali, cascine, strade

e le sue prossime mete.




Franco Presicci

Quando la professoressa di matematica e scienze, Alessandra Scolari, 64 anni, ha raggiunto l’età della pensione, l’ultimo giorno gli alunni della sua classe nella scuola melia le hanno regalato un libro sulla storia della bicicletta, riempiendo la prima pagina bianca di firme; e lo hanno accompagnato con una caricatura elaborata da uno di loro. 


Alessandra Scolari
Una testimonianza di stima e di affetto, di riconoscenza per averli aiutati a crescere. Sapevano che la docente amava cavalcare le due ruote tra salite e discese, terreni impervi ed asfaltati, paesaggi che incantano, sentieri che tagliano campagne costellate di papaveri e margherite, qua e là popolate di architetture rurali, ancora pulsanti del lavoro contadino; e l’autore l’aveva ritratta con la sua bici. La bicicletta è libertà, passione, gioia, festa, sport; porta il sole negli occhi, ti fa divorare la strada. Chi l’ha vista una volta, quell’immagine de “La Domenica del Corriere” del maggio 1905 con una folla di ciclisti pronti a partire dall’arco del Sempione per festeggiare a Milano l’anniversario del Touring Club, non la dimentica facilmente. Non sono incorniciati, ma a godersi lo spettacolo ci saranno state trecento mila persone.

Era domenica 28. La bicicletta ha una storia lunga e storie avvincenti.
Caricatura eseguita dagli allievi
La bici è avventura, bisogno di evadere, di respirare a pieni polmoni laddove non ti aggredisce lo smog, non ti ossessiona la folla, non ti coinvolge la fretta di arrivare chissà dove, tipica dei meneghini. La bici è stata complice di momenti d’amore, ha ispirato canzoni; è stata protagonista di film divertenti o amari: “Bellezze in bicicletta” con Silvana Pampanini, Renato Rascel, Delia Scala, Peppino De Filippo, Aroldo Tieri, Carlo Croccolo; “Ladri di Biciclette”, di Vittorio De Sica, toccante, con Lamberto Maggiorani, del ’48. Il compianto Ugo Ronfani, vicedirettore del quotidiano “Il Giorno”, una quarantina di anni fa, partecipando a un Premio sulla bicicletta - istituito dall’associazione del settore – in cui conquistò il secondo posto, scrisse una pagina preziosa ricordando, nelle prime righe, che la rivoluzione cinese era stata fatta cavalcando le due ruote. Aggiungo che I contadini raggiungevano i poderi lontani dal paese su vecchi trabiccoli; gli operai le fabbriche (donne e uomini); Padre Matteo (al secolo Terence Hill), nello sceneggiato tivù a lui intitolato va a ruota libera per le strade di Gubbio. La bicicletta trionfava sulle vecchie cartoline illustrate e su manifesti pubblicitari della Prinetti & Stucchi, della Maino… La Civica Raccolta Bertarelli custodisce, fra i tantssimi, un esemplare con un elefante che pedala su un cartellone e un altro con due innamorati che negli anni 40 si baciano castamente su un tandem. Oggi molta gente, per andare al lavoro, lascia l’auto in garage e inforca, se può, la bici, facendo lo slalom tra le cilindrate che sputano gas. Gli appassionati della gita domenicale in sella si moltiplicano. 

Ciclisti lungo il naviglio
E’ facile vederli, sparsi o a frotte, lungo le sponde del Naviglio Grande, il Ticinello, tra cascine, castelli, ville, prati ingioiellati, mentre il vaporetto fende l’acqua del canale e spumeggia dietro di sè. Sono di fronte alla professoressa Scolari, così dolce, così bella, che mi parla tranquilla, senza enfasi, delle sue “fughe”. Ogni tanto interpella il telefonino alla ricerca di un po’ di foto da farmi vedere e snocciola la sua biografia: “Sono nata per caso a Sanremo, sono stata 12 anni a Varese, poi sempre a Milano, con molta parte dell’anno a Marchirolo, centro a metà fra il lago Maggiore e il lago di Lugano. Lì vado spesso in bici, in montagna, fra tornanti e salite”. Chissà che fatica. “Macchè, amo le salite: farle è una condizione mentale. Nella bella stagione corro su quel cavallo meccanico almeno tre volte la settimana... “Adoro la mia ‘Mountain bike’”.

Cascina lungo il naviglio
La vocazione per la bicicletta l’ha colta quand’era bambina. “Dopo gli esami di quinta elementare volli in regalo una ‘Graziella’. Percorrevo tutto l’ampio cortile del caseggiato costruito da papà, ingegnere. Facevo il girotondo con gli amichetti e con gli altri bambini”. Organizzava il trenino: lei davanti in sella e cinque o sei sui pattini alle sue spalle. Con la bici andava all’oratorio, alla fattoria, dove muggivano i bovini e i galli, superbi e dominatori, corteggiavano le galline, che se la davano a gambe; sfiorava i prati e i terreni coltivati a foraggio per le bestie. “Che sofferenza per il nostro trasferimento a Milano, al Carrobbio”.. Dove ai tempi che furono sorgeva la famosa “Osteria dei Tre Scanni”, frequentata dal più grande comico del teatro milanese, Edoardo Ferravilla, morto nel 1916. “Lì non c’era la possibilità di giocare fuori, di vivere la campagna. 

Alessandra Scolari
Firme sul libro
I miei genitori mi hanno dato il permesso di prendere la bici quando facevo il liceo scientifico ‘Leonardo da Vinci’, vicino al Palazzo di Giustizia”. Poi ha cominciato ad affrontare itinerari più lunghi. “Non seguivo gli amici che facevano mille chilometri in macchina per andare in Sicilia. Ho messo un annuncio su ‘Secondamano’ per trovare amici disposti a pedalare con me verso i Paesi del Nord. Abbiamo attraversato un po’ l’Alta Italia, quindi via per la Norvegia, la Svezia... Ci siamo prima allenati... Al ritorno abbiamo pedalato sul lago d’Iseo, sulle rive del Po, del lago di Garda, del lago Maggiore”. Ogni tanto si fermavano per scattare foto al panorama, agli uccelli che planavano sull’erba o che attraversavano il cielo… In bici si apprezza di più la ricchezza della natura, la si gode di più, la si assorbe con felicità. La bici appartiene alla vita di chi la cavalca. Se la si appende al chiodo, si avverte che un’epoca è finita; e arriva la nostalgia. Un ottantenne pedalava ogni mattina alle 8 fino al Parco Nord, a Milano, e trasformava gli alberi morti in sculture: un alpino, un coccodrillo… Lo fermarono non le gambe, ma i vandali, che di notte frustavano le sue opere o se le portavano via. La stagione della bici non tramonta. Pedalando, osservi le perle create dall’uomo o da Dio e t’inebri. “Sostavamo davanti alle cascine, alle riserve naturali, alle chiese, ai monumenti… La pianura padana è strapiena di ricordi storici, di abbazie… Abbiamo anche pedalato sulla via Francigena da Milano a Sarzana”. L’amore per la bici indusse Alessandra, quando insegnava, a proporre ai suoi ragazzi di seconda una gita da Pavia a una fattoria di Zerbolò, che li ha ospitati per due notti. “Abbiamo fatto Milano-Pavia in treno, quindi il resto del percorso in sella, con visita alla città, alla Certosa... Un ragazzo non sapeva andare in bici e se ne vergognava. Ma ha trovato il coraggio di rimediare: ha imparato abbastanza per poterci seguire al Parco del Ticino”. Anch’io amo la bici, anche se viaggio in tram o in autobus. E a volte mi vengono in mente i quadri di Man Rey, di Segal, di Mario Schifano; le scene di un film della Rai, “Girotondo Show”, con cinque cantanti sulla stessa bici. Penso alla geometria di questo mezzo di locomozione affascinante. Lo “ricostruisco” pezzo per pezzo nella memoria (ci giocavo da marmocchio): la pedivella, la dinamo, la forcella, il mozzo… Lo rivedo, il mio ferrovecchio, e mi prende la voglia di tornare a filare, le mani strette sul manubrio. Ma l’energia appartiene al passato. “ La bici è anche meditazione, riflessione”. Curiosità. Ci sali, a volte senza sapere dove andare, e lei ti porta, leggera. Senza farti sentire Bartali o Girardengo.

Alessandra Scolari, in montagna
Non ce n’è bisogno, anche se qualcuno aspetta il Giro d’Italia, vi si accoda per vivere un momento più esaltante. La bici è bellezza, ti fa sentire giovane, mentre voli verso una città, un paese, un borgo per scoprire gli aspetti sconosciuti, la vita quotidiana della gente. ”Ho visto Policoro, in Basilicata, luogo splendido e riposante, interessante per il museo nazionale archeologico della Sirtide, gli uccelli migratori in sosta, le fragole… Ho visto Matera, ammirando i calanchi, i Sassi, un presepe naturale, noto in tutto il mondo; la cattedrale del XIII secolo... Eletta dall’Unesco patrimonio dell’umanità, fu visitata da Giovanni Paolo II nell’aprile del ’91. Secondo Enrico Caracciolo “Matera è città dell’uomo. Nessuna città come questa racconta lo stretto legame nel tempo fra uomo e territorio. Dall’età della pietra a oggi questo luogo è stato continuamente vissuto e abitato”. Raggiungere Matera in bici è un’emozione irripetibile. “La Basilicata è stupenda, con una diversità di colori e di profumi, con i suoi boschi, i faggeti… Le salite le ho trovate ripide, mentre quello che affronto nelle nostre montagne sono più dolci, come le strade militari della linea Cadorna. In Basilicata ho visto ampie estensioni di terra ben modulata lasciate a prati punteggiati di giallo, di rosso….  I cani dei pastori liberi per i ciclisti sono un pericolo, per difendere il gregge”. Dov’è stata ancora? “In Normandia, Bretagna, Borgogna, Alsazia-Lorena: in pullman che trasporta un carrello per le bici e poi pedalando per 100 chilometri”. Ma Alessandra Scolari cammina anche. E tanto. Fa riposare le due ruote e compie lunghe passeggiate. “Mi sono inoltrata sul cammino di Santiago, sul cammino portoghese…, assorbendo l’aria pura, ristoratrice”. Maratone solitarie e in comitiva. “Una volta in pensione, con un collega ho fatto il giro della Sardegna. In bici; quest’anno si aggrega un altro collega che va in pensione il primo settembre e andremo da Milano a Reggio Calabria. Sempre in bici”. E pensa al Salento, a Galatina, dove visiterà la chiesa di Santa Caterina di Alessandria, fatta erigere da Raimondello Del Balzo-Orsini, la più bella del Mezzogiorno. A Gallipoli, dal greco “città bella”, abbracciata dal mare limpido, con il profumo di pesce che inonda le sue piccole strade. Pensa a Lecce e al suo barocco, ricamo di pietra, trionfo di fantasia. A Maglie, dove nacque Aldo Moro; a Santa Maria di Leuca, punto d’incontro tra lo Jonio e l’Adriatico (l’estate in quel paradiso è più lunga che altrove). La bici è cultura. La bici è sogno. In sella, ogni giorno è diverso dal precedente. Con il vento in faccia si assapora la felicità. E’ così, Alessandra? Lei con la mente è già su nuove strade.