Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 28 dicembre 2022

Oronzo Carbotti, maestro e scrittore



SAPEVA TUTTO DELLA SUA MARTINA LA STORIA, LE

TRADIZIONI, I COSTUMI

                                                 
 

Scriveva su “Umanesimo

della Pietra”, la rivista di

Domenico Blasi, detto

Nico, era sempre

presente alle conferenze e

ai dibattiti che si tenevano

in un bar del ringo, vicino

alla Basilica di San

Martino.

 

 

Donna Maruska Monticelli Obizi, nipote dell'ultimo duca di Martina con Nico Blasi e Oronzo Carbotti

 

 

Franco Presicci 

Arrivava quasi tutte le sere con passo da maratoneta a casa mia, nel centro storico di Martina; ci accomodavano in salotto e facevamo conversazione. Si parlava soprattutto delle abitudini e dei personaggi di una volta.

Oronzo Carbotti con Paolo Di Giuseppe
Dopo un’oretta, bevuto un caffè, uscivamo diretti alla sede di “Umanesimo della Pietra”, che allora era in un palazzo storico nel ringo. Continuavamo a scambiarci idee durante il percorso, sfiorando piazza Roma, e, appena arrivati a destinazione, commentavamo i fatti del giorno riportati dal giornale. Le “due chiacchiere” si allargavano e approfondivano, se ci raggiungeva qualcuno, e di tanto in tanto compariva Peppino Montanaro, accanito lettore e geloso custode di scritti non pubblicati di autori locali volati oltre le nuvole, conoscitore degli affreschi che impreziosiscono i saloni di Palazzo Ducale, lettore appassionato degli elzeviri di Gaetano Afelfra, al quale, come testimonianza della sua ammirazione, volle mandare in regalo un piccolo trullo realizzato da Peppino Cito, affidando il compito di postino a me. Quando mi trovavo tra questi due amici dalla memoria inossidabile, ascoltavo con interesse, considerando le loro parole briciole di storia della città.
 
Carbotti, Lino Colucci, Vito Plantone, la m oglie e un'amica
Poi arrivava Nico Blasi, direttore di “Umanesimo”, e cambiava la musica, perché Nico aveva da confezionare la rivista e non aveva tempo per pensare ad altro, anche se era, ed è, capace di friggere il pesce e guardare la gatta. Allora passavo parecchi mesi a Martina, quindi la casa di “Umanesimo” era la mia mèta quotidiana, e ogni volta che la raggiungevo apprendevo qualcosa in più sulle masserie, sulle antiche famiglie e su personalità passate, come si dice, a miglior vita. Nico, persona coltissima e disponibile a trasmettere pezzi del suo bagaglio a chi è interessato, aveva una strana arnia, a spirale, su uno scaffale. Oronzo e io lo seguivamo nei luoghi dove teneva dotte conferenze: in una chiesa o nel Caffè del Ringo, da lui trasformato in una specie di caffè letterario, tipo il “Gambrinus” di Napoli, dove D’Annunzio scrisse “’A vucchelle”. Oggi parlava di briganti, domani dell’antica funzione del tratturo, o di qualcos’altro nel Trullo Sovrano di Alberobello o nella chiesa di San Francesco o alla Rotonda. Nell’aula di medicina legale dell’università di Bari, presentò “Raccolta di segreti medicinali del signor Lemery - trascrizione di fine Ottocento di un guaritore della Murgia”, tradizioni Umanesimo della Pietra.
 
Oronzo Carbotti

Vicolo di Martina innevato
Oronzo Carbotti era sempre attento, e alla fine commentava con sapienza ciò che era stato detto. Scriveva su “Umanesimo”, e ricordo i suoi articoli sui mestieri scomparsi, come “’ u farceddère”, l’uomo del bosco; “’u carpentiere”; i legnaiuoli; i trainieri: il pastore… a Martina Franca. Ricordo anche un suo scritto sulle campane tra le protagoniste della vita nella vecchia città e un altro sulle radici del nostro Natale: “Passavano i mesi e giungeva pure il brumale dicembre, chke secondo il calendario dei martinesi d’altri tempi era, propriamente ed esclusivamente, detto “’u mèse de Natèle”. Allora era anche il tempo di estrarre “da casce” “a capputtèlle” per fronteggiare il primo freddo, che si faceva sentire secco e pungente. Col sempre benevolo aiuto di San Martino”… Sulla più bella festa dell’anno Oronzo ci dice tutto, scrupoloso com’era e amante del dettaglio. “Si cominciava col tenere un ceppo sempre acceso nel camino, che, secondo uno slogan dei giorni nostri, “creava un’atmosfera”. E continua accennando alle donne, che alle 5 del mattino, dal 6 al 24, quando i vicoli e le stradine erano ancora avvolte nel buio, avviluppate nel “fazzuttone, quasi come cortei di fantasmi, si dirigevano alla chiesa più vicina, di solito San Domenico, per assistere al rito di “nove lampe”. I ragazzi più abbienti liberavano la loro fantasia nell’elaborare il presepe, popolandolo con le statuine eseguite da veri artisti o dal figulo Giuseppe Petrosino, a cui era stato accollata l’etichetta di “Peppene a cerne” perché girava per il paese offrendo “sapone mudde” in cambio di cenere. Il presepe - ancora Oronzo Carbotti - veniva confezionato anche in un angolo delle barbierie, e anche se non erano proprio opere d’arte, come quelli di Pasquale Brescia che ci metteva il cuore e le mani d’oro, erano motivi di vanto.

Originale presepe a Martina in piazza
Il presepe, bene o meno bene allestito, è sempre incanto, magia, spettacolo, paesaggio, luce, fascino. Nelle strade si diffondeva un profumo di dolci: “carteddet”, “pettule”, da mangiare calde a volte bagnate nel vin cotto. L’autore non si ferma all’elenco dei dolci che concludevano il pranzo natalizio. Dice anche come si confeziovavano, gli elementi che si utilizzavano, i contenitori da usare. Oronzo, o Ronzino come gli amici lo chiamavano affettuosamente, a Martina Franca era noto e apprezzato. Era stato maestro elementare, e maestro lo chiamavano gli ex scolari, quando lo incontravano. Perché tale era ancora per loro. Un fotografo che aveva il laboratorio su via Taranto, se era sulla soglia e lo vedeva all’altezza del negozio di erboristeria di Giorgio Di Presa, già si preparava al saluto. “Il maestro Carbotti? Per me la scuola era lui. Non avrei voluto un maestro diverso”, mi disse un giovane che lo adorava. Era un uomo colto. Studioso delle tradizioni di Martina. Pensai a lui un pomeriggio in cui incontrai un capraio quasi sulla vecchia strada per Noci. Aveva un gregge numeroso che cercava di sparpagliarsi e l’uomo, sui cinquant’anni, con un fischio lo rimetteva in riga.

Il gregge
Pensai a Ronzino e all’articolo che aveva scritto su “i caprèr”: “una realtà del passato divenuta quasi leggenda”. Ancora: “In ogni tempo e con ogni tempo, a giorno ormai fatto, quando già il sole ad oriente ‘je dò cann’ sopra l’orizzonte, attraverso le vie della vecchia Martina ‘u caprèr’ spinge in fretta il suo piccolo gregge di capre, precedute da ‘u magghier’ (il becco) dallo sguardo serio e severo, verso i viottoli di campana ai margini dei quali cresce rada, magra, una profumata erba…”. Oronzo Carbotti era anche esperto di dialetto. In alcuni articoli metteva in evidenza “il riscontro nel diletto dell’inventiva e della precisione dei martinesi e il significato poetico che il dialetto assumeva, rinfrancando lo spirito e alleggerendo la stanchezza”. E aggiungeva: “Alla precisione del linguaggio faceva riscontro altrettanta precisione e puntualità nella vita di relazione e nelle abitudini individuali… Queste doti erano motivo di orgoglio… e dalla stessa dote dipendeva prevalentemente la stima e la considerazione nel giudizio degli altri…”. Ricordo ancora “Vél chiù sé a parol, ca na scr(e)tteur”.
 
Carrettiere
La precisione nel linguaggio e nella vita. Lui era infatti preciso e puntuale. Non apprezzava chi prendeva gli appuntamenti con leggerezza e chi era arrogante, menefreghista, maleducato. A scuola, agli scolari non aveva soltanto insegnato la grammatica e le frazioni, ma aveva dato loro lezioni di vita: aveva davvero formato futuri cittadini. Un mezzogiorno d’agosto di tantissimi anni fa, mentre ero con lui nel salottino dei suoi bellissimi trulli, che si trovano entrando nel tratturo a sinistra dopo la Cantina, sulla via per Locorotondo, bussò Benvenuto Messia, che dopo i convenevoli, chiese di poter leggere una sua divertentissima poesia sul naufragio di un matrimonio e sulla condizione dell’uomo sostituito da un altro nell’alcova. Di solito i versi in vernacolo di Benvenuto suscitano risate a crepapelle e quella fece lo stesso effetto. Benvenuto è anche un attore raffinato (ha partecipato a film con Lino Banfi e Luisa Ranieri, Sabrina Ferilli e Laura Chiatti), e quando declama sa accompagnare sapientemente il gesto alla parola, armonizzare l’espressione del viso e il movimento delle mani. Oronzo lo invitò a recitarne altre e Benvenuto non si fece pregare.
 
Particolare del Presepe di casa Presicci
L'ulivo saraceno
 
Oronzo Carbotti non c’è più da qualche anno. Quando seppi del suo “congedo” – me lo disse la figlia, che è una brava professoressa, all’uscita dal negozio del fruttivendolo albanese, vicino alla stazione – fu come se mi fosse caduto un sasso sul cuore. L’anno prima avevo incontrato il figlio Martino, avvocato, alla festa della Madonna della Consolata, che si svolge in fondo a via Papadomenico, a destra su via Mottola, al quinto chilometro; e mi aveva detto che stava bene, nonostante l’età avanzata. Mi mordo le mani quando penso che per qualche anno non sono andato a fargli visita, in campagna, dove lui in estate soggiornava ogni anno con la moglie e i figli. Ora, come in un film, fluiscono spesso tanti ricordi: le passeggiate nelle vie di Martina, attraverso il groviglio di vicoli che portano da casa mia (che non ho più) fino al ringo, in quel palazzo antico che ospitavano “Umanesimo”; i suoi racconti della Martina di un tempo ormai lontano; la figura di don Martino Calianno, mio zio (morto ne ‘62) ,canonico penitenziere della Basilica, con la campagna sul Chiancaro, oggi zona residenziale; gli usi e i costumi di un’epoca quasi dimenticata ovunque: quella in cui i giovani si acculavano in piazza ai piedi dei vecchi e li ascoltavano, considerandoli pozzi di esperienza, mentre oggi quasi li vorrebbero rottamare. Perso a Oronzo Carbotti anche quando mi vengono in mente le passeggiate cicloturistiche del plenilunio d’agosto, che partivano da Villaggio In e si concludevano a una masseria, dove Nico Blasi, organizzatore con il notaio Aquaro, illustrava la storia e le caratteristiche architettoniche della struttura. Ronzino mi ricordava il maestro Manzi, che formava gli spettatori dalla televisione in bianco e nero. Oronzo mi ha insegnato tante cose. Un giorno, sapendomi adoratore dell’ulivo saraceno, quello dallo zoccolo possente, monumentale, mi portò dalle parti di Ostuni per mostrarmi alcuni magnifici esemplari. Uno di questi strisciava sul terreno, un altro aveva le zampe da elefante, un altro ancora era così grande che occorrevano dieci persone per abbracciarlo. Colse per me un rametto di carrubo, albero dominante nella mia campagna con i suoi frutti che sembrano orecchini. 

ATTENDENDO IL NUOVO ANNO AUSPICHIAMO, PER I NOSTRI LETTORI, PACE E BENESSERE.

                     La Redazione








mercoledì 21 dicembre 2022

I presepi di Manola Artuso e Gianluca Seregni

Manola Artuso e Gianluca Seregni
UNA SCENOGRAFIA

SPETTACOLARE ALLA

STAZIONE CADORNA DI

MILANO

L’hanno realizzata i due artisti, che hanno

il laboratorio, “La Stele”, in viale Certosa.

Un giro ideale fra i presepi di Lecce,

Genova, Taranto, Bergamo… 

Il presepe dà gioia allo spirito.



 

Franco Presicci

E siamo arrivati a Natale. Nelle case è già pronto il presepe o è stato progettato e in via di esecuzione. Nei negozi gli scaffali riservati a cammelli, dormienti, acquaioli sono quasi vuoti.

Particolare di un presepe

A Milano come a Taranto, nelle metropoli e nelle piccole città, nei borghi si vive la particolare atmosfera che sempre la festa più bella del mondo porta con sé. Soprattutto i bimbi sono estasiati davanti alla scenografia sacra realizzata dai papà. Ci sono presepi poveri e presepi ricchi, alcuni fabbricati in gesso o in terracotta o in cartapesta. Da noi il presepe ha avuto quasi sempre persone abili, quando non veri e propri artisti, come certi esperti del campo, la cui inventiva si sviluppa in ogni esemplare. Il presepe genovese è noto per la raffinatezza dei suoi personaggi Intagliati nel legno. Ma l’arte del presepe ha il suo splendore a Napoli, dove specialmente durante il regno di Carlo III di Borbone, sia il popolo sia lo stesso re e la sua consorte manifestarono una grande passione per questo spettacolo che procura gioia in chi lo fa e in chi lo osserva. Si racconta infatti che il sovrano si dedicasse personalmente all’impianto della struttura mentre la moglie si occupasse dei vestiti.
Assieme ad alcune cortigiane. Ci sono presepi che incantano, affascinano, come dimostrano i quasi mille “pezzi” che si trovano anche nel Museo del Presepe di Dalmine, dove dominano alcuni presepi napoletani, le cui figure sono in terracotta..

Presepe
Il presepe è ricco di simboli: gli animali della grotta, il bue e l’asinello, nell’antichità raffiguravano la fecondità; il fiumicello, la lavandaia, la fontana la purificazione; la luce negli anfratti, sui sentieri, nelle casette la fede. Quanti artigiani, oltre a Napoli, a Bergamo (dove adottavano il gesso), a Brescia, a Caltagirone, a Milano si sono distinti per la loro bravura nell’eseguire il calzolaio con il deschetto, i pastori, i portatori d’acqua, i fabbri, i guardastelle, i pizzaioli, i pescivendoli, i dormienti, i re Magi con ammirevole valore espressivo; gli oggetti della casa, gli attrezzi… Un presepe napoletano del 1800 con 40 elementi fa la sua bella figura nel Museo del Presepe di Vilanova, a Modena. Il presepe ha avuto i suoi periodi bui, dovuti anche alla presenza dell’albero di Natale. Ma poi è tornato ad essere diffuso non solo in Italia, ma anche negli altri Paesi europei. Milano, per esempio, sino agli anni Cinquanta ha avuto un grande maestro, Lamborghini, che usava la pasta di cartapesta nel suo laboratorio di via Copernico, vicino alla stazione Centrale.
 
Figure del Presepe alla Stazione

Oggi è molto attivo un laboratorio in cui due artisti di grande prestigio, Manola Artuso e Gianluca Seregni, costruiscono statue di santi ad altezza naturale richiesti da ogni parte del mondo, ma anche il popolo del presepe, in miniatura. Quest’anno ne hanno allestito uno nella stazione nord di Milano. Non so più in quale città c’è un presepe lungo 600 metri. Ognuno il presepe lo fa come vuole. La grotta della natività per esempio dovrebbe contenere soltanto Giuseppe, Maria, i due animali e il Bambino; e alcuni ci collocano invece anche altri personaggi. In alcuni presepi Gesù è adagiato sulla paglia accumulata per terra; in altri nella mangiatoia. La fantasia si sbizzarrisce. In una mostra a Cantù, anni fa ho visto presepi con Gesù nato nella stalla di una cascina, ben ricostruita in piccole dimensioni, con la ringhiera di pomodori appesi. A Martina Franca in un trullo e anni fa con figure a mo’ di “capasoni” davanti a Palazzo Ducale; e l’anno scorso una grande scenografia, del gruppo di Michele Sforza, di fronte alla Basilica di San Martino… Ormai il Bambinello nasce nei luoghi meno tradizionali: in un cortile, su un’aia, in un casale semidiroccato. 

Particolare del presepe a Cadorna

Manola Artuso e Gianluca Seregni, due campioni, che lavorano nel loro laboratorio, “La Stele”, in viale Certosa 91, lo hanno fatto nascere anche alla stazione ferroviaria Cadorna: un capolavoro, un allestimento grandioso, particolare, stupendo in una grande teca di 3 metri per 1.50 (visitabile fino al 6 gennaio). I re Magi vestiti con stoffe preziose e i pastori nel loro abbigliamento usuale. La scenografia è in sughero, legno, corteccia, con tante botteghe di artigiani, tutto lavorato a mano dai due artisti, compresa la signora del pane, l’una e l’altro fatti e dipinti da Manola e Gianluca, che confezionano opere di grandissima classe. A mano sono fatti anche i carretti, le bancarelle... Sulla base tanto muschio e fieno veri; nella capanna, molto grande, in legno e corteccia, la natività con l’angelo adoratore in ginocchio davanti a Gesù. Un presepe magnifico, un’autentica opera d’arte, fra l’altro ricco di luci calde e luci blu per la notte. Tutto incorniciato da alberi leggermente innevati. Il laboratorio di Manola e Gianluca, sorto oltre un secolo fa, è famoso. L’attività che i due artisti vi svolgono è molto seguita, tanto che tra l’altro eseguono, a richiesta, presepi a domicilio.

Rivista "Pepe e Sale"

Fanno inoltre alberi di Natale su misura e collaborano con il cinema, la televisione. La rivista “Sale e Pepe” ha dedicato loro un lungo servizio, pubblicando anche le loro statuine, ognuna delle quali portava un cibo. Un’attività di alto livello, quella di Manola e Gianluca, sempre insieme nell’arte e nella vita, lei del ’68 e lui del ‘63. Altra città ricca di figuli bravissimi è Lecce, ma anche Taranto, dove c’è la Casa del Presepe, con i fratelli Mazzarano che costruiscono presepi da una vita. Conobbi il padre, che negli anni 50 dava suggerimenti al professor Raffaele Daddario, che aveva fatto lo scenografo a Cinecittà e svolgeva l’attività di pittore. Il Natale e il presepe hanno ispirato anche poeti, pittori… Nel bellissimo libro “Natale è un presepe” a cura di Guido Davico Bonino, si ricordano i versi di Maurice Carème, belga, di Edmond Rostand e di Albert Flory.

Particolare del presepe alla stazione Cadorna di Milano
 
Il primo recita: ”Ala viglia, di un’età così nuova/ chi mai ci dirà perché/ Dio abbia scelto/ i neri occhi di un bue/ per specchiare quella notte là/ nell’ombra calda della stalla/ il Suo figlio, /più dorato di un affresco…”. Il secondo: “Perdettero la Stella un giorno. Come si fa a perdere/ la Stella?/ Per averla troppo a lungo fissata…/ I due re bianchi/ ch’erano due sapienti di Caldea/ tracciarono al suolo due cerchi, col bastone/ Si misero a calcolare, si calcarono il mento… /Ma la Stella era svanita come svanisce un’idea…/ e quegli uomini la cui anima aveva sete d’essere guidata/ piansero innalzando le tende di cotone…”.

Particolare d'un presepe

 

Il terzo scrive che un dono prezioso che possiamo ricavare dalla vita è quello di essere sempre nella grazia di Dio. Poeti e scrittori, pittori, ma anche menestrelli, hanno celebrano e continuano nelle loro opere il Natale e il presepe e la sua magia.

Particolare di un presepe

Nel dicembre del 2003 nel Castello Episcopio di Grottaglie allestirono una splendida Mostra del Presepe accompagnata da un ricchissimo catalogo in veste tipografica elegante, con testi di Raffaele Bagnardi, Daniela De Vincentis, Marisa Patruno, Rosario Quaranta, Bianca Tragni, Nelle prime pagine il sindaco, Bagnardi, dice che “il presepe deve essere un perfetto equilibrio tra arte, tradizione e culto, ricerca del sublime nell’estasi dello spirito, vita tramandata di un popolo, espressione di fede laica e confessionale”. Nel suo lungo e profondo intervento Bianca Tragni ricorda che in una sede prestigiosa della Capitale, il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, era in progetto per l’anno successivo un’esposizione di ceramica grottagliese con 130 manufatti dall’800 ai giorni nostri. Nel catalogo sfilano pastori di Leonardo Petraroli, presepi napoletani, tra cui uno di Vincenzo Corcione, presepi su piatti, in vasi di terracotta tipici del luogo, figure stilizzate…Insomma il presepe a Grottaglie ha una lunga tradizione e “uno dei presepi storici di Puglia si trova proprio a Grottaglie, nella Chiesa di Santa Maria del Carmine, scolpito nel 1530 da Stefano da Putignano, “il più famoso se non il più grande scultore del nostro Rinascimento regionale…L’amore per il presepe è senza fine.Il presepe nutre lo spirito.

Albero di Natale e foto di Artuso e Seregni
 
CON LA FILASTROCCA

   DELL'AMICO

 GIORNALISTA FRANCO

                                                 PRESICCI AUGURIAMO

A TUTTI I NOSTRI LETTORI

                     UN   B U O N  N A T A L E 

                             La Redazione 

 


   
                                                                                   

Natàle e Befanìe

di  Franco Presicci     

Tu’ m’addumànne, fìgghie mjie

accum’ère ‘u Natàle de ‘na vòte

e je te cònde quìdde pìcche ca m’arrecòrde

Je avègne d’a ‘na famìgghia puverèdde

pàteme stàv’a spàsse

e mammà recamàve le chiasciùne

pe’ le uagneddòzze da marìte

e no’nge stàve tànde da scialacquàre .

Facèvem’u presèpie ‘mbastànne

àcque, càrte e crète

sus’a ‘nu schèletre de lègne

e ‘a menzanòtte d’a vesciglie s’apettàve Gesù Bammìne

ca nascève indr’a ‘nu terètte d’u cummò

d’addò ‘mpruggessiòne ‘ u purtàveme indr’a gròtte

candànne “Tu scìnne da le stèdde”

U ggiùrne apprìesse tùtte ‘nzìeme

ziàne e cusseperìne ’a ttàule da le nònne

e d’a cucìne arrevàvene ‘a pàste cu le còzze

po’ ‘u capetòne, le dàttele e le vònghele

c’avève pegghiàte ‘u nònne

le taràdde, ca mammà avève fàtte ‘nfurnà’ da mèste Petrine

e ‘ngorchie òtre sfìzzie

Nu’ ascunnèveme sott’u piàtte d’u nònne ‘a letterìne

e ‘u vecchiarìdde facève ‘na ‘ndìcchie di tiàtre:

Nà! D’addò avène mo’ ‘sta bbùste?

Avìte sendùte lucculà’ quìdde galandòme d’u pustine?”

Po’ rerève, ne lesciàve le capìedde

e ne dàve mènza lire appedùne

A sère le grànne s’accucchiàvene pe’ sciucà’ ‘a càrte

e ci azzeccàv‘u pesellìne se scatenàve

u stèsse ziàneme Dionigge se facève scòpe.

A matìne mmìenz’a stràte sunàvene le zampagnùle

c’avenèvene da lundàne

le uagnùne tùtte quànde vecìn’ a llòre

e ‘a ggènde da le varcùne

menàve abbàsce le turnìse

Po’ avenève’u ggiùrne d’a Befàne

ca vulàve sus’a ‘na scòpe

e scennèv’indr’o camine cu le riàle

pe’ le peccìnne bbuène sciurarjìdde bbèddefàtte

gengelìnge

pe’ ci aveve fàtte ‘le panareddàte

na cazètte chiène de cèner’e caravùne

a mmèje m’attuccàvene ssèmbe zazarèddere

e m’addumannàve ‘u mutìve

Ogne ànne penzàve:

M’accume fàce a Befàne a scènnere indr’o camine

mènz’arruzzenìte accum’è

nu nàse ca pare ‘nu crùcche

No’ nge vè’ mai ‘mbenzione, ‘sta crestiàne?

Hà’ accucchiàte ‘na mòrre d’ànne

e v’e’ angòre ggerànne

Je ère mangupàte e arraggiàte

Peccè a l’òtre pòrt’a bececlètte

o ‘u trène cu ‘a mòlle?

e a mmè’ ‘nu Penòcchie o ‘nu cavàdde arrunzàte?”

E po’ a ccàsa mèje no’ge stè ’u camine

accùme fàce ‘a segnure a trasè’?’’

Na sère je m’aveve ggià curcàte

ma no’nge stè’ durmèv’angòre

quànne vedìve mammà appuggià ddò pacchettìne sus’a’na sèggie

e sùbbete ‘mbelàrse indr’o lìette

a matìne acchiève cìnghe surdatìne de chiùmme

ca je sbranàve e cercàve

No dìche ‘u decrije, l’allerìe.

Ma dòppe ‘na sumàne ’nu meletàre no respunnìe ‘a chiamàte

ngorchedùne l’avève fàtte priggiunìere

mettènnesele ‘nzàcche aùmm’aùmme

je chiangìv’accùme m’avèssere strazzàt‘u còre

Mammà l’avèv’accattàte cu saggrefìggie

A Natàle ‘a fèste ère stà’ tùtte ‘nzìeme

mbra l’addòre de le pèttele e de le sanacchiùtele

ca friscèvene indr’a frezzòle

nù mettèveme le cìcere indrà ‘a cènere d’a frascère

u nònne fumàv’a pipe e ne uardàve

Attìende a le facìdde ca vònne scattaresciànne

e ve putìt’asqua’”

No’nge se vedèvene lumenàrie mmìenz’a vie

vetrìne ca splennèvene e cu tànda rròbbe

e tric-trac e bbòtte accum’a òsce a dje

u Natàle se sendève gnìndre.

Je c’u Bammìne me cumbedàve



                                             






mercoledì 14 dicembre 2022

Da via Fatebenefratelli agli Stati Uniti

Alberto Sala
UN POLIZIOTTO IN GIRO

PER IL MOMDO A

SMANTELLARE

ARCHITETTURE

CRIMINALI

Alberto Rocco Maria Sala,

maestro di arti marziali,

esperto di antiriciclaggio,

lotta al finanziamento del

terrorismo, ha indagato su

omicidi, rapine, furti 

clamorosi. 

E’ cavaliere al merito della Repubblica.


Franco Presicci

Quando il capo cronista Giulio Giuzzi mi chiese se mi avrebbe fatto piacere sostituire in questura il collega Giancarlo Rizza, trasferito al compito di capo servizio, accettai a patto di poter continuare a occuparmi di pronto intervento: delitti, rapine, sequestri… E in via Fatebenefratelli non tardai a conoscere tanti poliziotti, soprattutto quelli che popolavano le varie sezioni e si occupavano di ogni tipo d’indagini: sulle truffe, i fatti di sangue, i furti clamorosi come quelle nelle piazze Cavour e Diaz. 

Sala a Boccadasse
Tra i primi, Alberto Rocco Maria Sala, un giovanotto simpatico, di poche parole, arguto, spiritoso. Un giorno lo incontrai in piazza Cavour, ai tavoli del bar di fianco al cinema Capitol, dirimpetto al Palazzo dell’Informazione, dov’era la sede del quotidiano ”Il Giorno”. Con lui c’era Piero Colaprico, un “cucciolo” che già mostrava un talento giornalistico notevole. Il suo capo Guido Passalacqua, che sarà ferito dalle Brigate Rosse, ne tesseva le lodi e ne parlava come di una recluta che aveva stoffa, di quella pregiata. Conversammo, mentre ai tavoli vicini si accomodavano Ottavio Missoni, che aveva eseguito il pettorale di quell’anno della Stramilano, e         Al Bano, che aveva scritto il suo primo libro. La mia frequentazione di Sala e Colaprico diventò a mano a mano amicizia, tanto che proprio nei giorni scorsi, avendo Alberto postato su Facebook una foto che lo riprende a cena con Piero, diventato direttore del “Gerolamo” (dopo essere stato direttore di “Repubblica” a Milano),
I giovani Piero Colaprico e Alberto Sala 
un teatro storico, dove recitò fra gli altri Piero Mazzarella, quel folletto di Michele Focarete, bravissimo cronista del “Corriere della Sera” e profondo conoscitore della Milano by night, sulla quale ha scritto un libro, sapendoci spesso insieme, ha commentato: “E Presicci, dov’era? Sotto il tavolo?”. No, stava realizzando una casetta per gli uccelli, che d’inverno stanno al freddo. Alberto Sala, dunque. Ogni mattina, puntuale come un orologio svizzero, superava la soglia della questura, s’imbucava in quel lungo corridoio poco illuminato che porta ai vari uffici ed entrava nel suo, dove lo aspettava una pila di carte. Poi usciva, per seguire una pista.
 
Distintivo Fbi di Alberto Sala
Copertina del libro
Le Torri Gemelle prima dell'11 Settembre

Chissà se la notte dormisse o pensasse alle vie che doveva percorrere il giorno dopo, per cercare conferme o eseguire tattiche. Investigatore instancabile, segugio alla Mario Nardone, detto “il gatto” (al quale tempo fa la televisione ha dedicato uno sceneggiato in due puntate), paziente, tenace, riservato, deciso, ricco di trovate per impacchettare un ricercato. Nei panni di un idraulico, il “gatto” catturò uno dei due “malacarne” che scendevano a Milano per fare rapine. La pensione chiude strade e palazzi, disperde le persone e accumula ricordi. Dopo quarant’anni ho ritrovato Alberto, sempre in forma, fresco nello spirito e nella sagoma, lucido nel ripercorrere le tantissime vecchie strade, in Italia e nel mondo, sulle tracce di elementi al vertice di organizzazioni criminali, di imprese da loro messe a segno.

Chiuso un fascicolo, si defilava. Non amava la tromba, e non la usava soprattutto quando era nei servizi segreti. Ora, dopo aver appreso della pubblicazione di un suo libro, “L’ultimo dei dinosauri”, scritto da Sebastiano Sandro Ravagnani, in cui Alberto Sala si racconta senza enfasi, senza autoglorificazioni, com’è nel suo carattere, ci siamo rivisti. In queste pagine, fra l’altro ricche di foto e di ritagli di giornale, c’è parte della sua vita di poliziotto attento e intuitivo. Ecco un esempio: “Gli uomini della quinta sezione della squadra mobile di Milano hanno fatto bingo. Il ‘team’” di investigatori specializzati in reati finanziari, coordinato da Aberto Sala, ha infatti messo le mani su un colossale giro internazionale di obbligazioni rubate. L’origine della maxitruffa va fatta risalire al lontano 1976, quando negli Stati Uniti venne trafugata una valigetta contenente oltre 500 milioni di dollari (600 miliardi di lire)”. Una carriera davvero brillante, quella di Sala. Nato a Roma, entrato in polizia nel gennaio del ’76, venne assegnato a Trieste.
 
Nardone e Caracciolo
“Da bambino, soffrendo d’asma, mia madre, Anna Di Cola, mi aveva portato in una palestra di arti marziali, a Bologna, e col tempo diventai maestro; e dopo tanti anni di insegnamento, in Italia e in America, fui preso come docente al ministero dell’Interno, inserito nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro della polizia”. E gli fecero scegliere la destinazione: Roma, presso la scuola tecnica della polizia come radiotelegrafista, quindi assegnato al centro radio Viminale del ministero dell’Interno, reparto autonomo, dov’erano concentrati gli appartenenti ai Servizi speciali e ai Servizi segreti. Era il ’76-78, gli anni di piombo. Quelli del sequestro di Aldo Moro, e fu oggetto di colpi di arma da fuoco da parte delle Br. 
Sala maestro di arti marziali ad Antonio Di Pietro
 
 
 
A Roma vinse il concorso alla Scuola sottufficiali, perché l’Accademia di ufficiali di Ps era chiusa in previsione della riforma della polizia di Stato dell’81. E andò a Firenze, dove ebbe modo di lavorare con Manganelli, che sarà nominato capo della polizia, e comanderà la quadra antisequestri e quella dei Servizi di sicurezza e dell’antiriciclaggio e vigilanza del Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini. Nello stesso periodo venne aggregato all’Antiterrorismo. E fu trasferito a Milano, dove, avendo il nulla osta segretezza (Nos) della Nato, il capo della Mobile di allora, Achille Serra, lo volle al suo fianco, in virtù delle sue peculiari capacità investigative molto analitiche, al costituendo ufficio reati finanziari, societari e fallimentari, in quanto il procuratore generale di Roma Beria di Argentine gli aveva chiesto di costituire un gruppo di investigatori specialisti per investigare collaborando con la Guardia di Finanza. E lì per la prima volta la polizia italiana in Europa bloccò un traffico miliardario messo in piedi da un personaggio che con artifici acquisiva denaro dei risparmiatori. Alberto scoprì la truffa prima che fosse effettuata completamente.
Sala riceve il premio di cavaliere al merito della Repubblica
Una carriera ricca di storie, di indagini importanti e di soddisfazioni, ma anche di pericoli. Una mattina all’alba gli telefonò il sostituto procuratore Antonio Di Pietro, che in una riunione segreta, presente il capo della Squadra Mobile, gli affidò indagini segretissime, che presero il nome di “Mani Pulite”. Sempre scarpinate, sempre dietro a qualcuno o a qualcosa. Inoltre, svelò una truffa per diversi milioni di dollari a danno di una nota banca statunitense e di tutte le consorelle operanti in Europa. A fronte di un dispaccio da parte dell’Interpol venne contattato dagli “special agent” dell’Fbi presso l’ambasciata americana di Roma e fu allora che portò alla luce un raggiro finanziario costruito dalla mafia nell’ambito di bond destinati alla distruzione. Una vita molto movimentata, dunque, quella di Alberto Sala, che ha lavorato in Africa, in Europa, in America… In Africa piombò, perché aveva scoperto un container di armi della mafia su una nave nel porto di Mombasa. La segnalazione era scaturita da un’indagine di Sala su Cosa Nostra italo-americana che passava dal Canada a Miami sino al Centro-Africa. Ci sarebbero tante cose da dire su questo segugio che si è distinto in tutte le operazioni. Un suo collega con il quale avevo qualche confidenza, un pomeriggio, in piedi al banco del bar di fronte alla questura con in mano una tazza di caffè, mi disse: “Alberto Sala? Ti dico soltanto una cosa: ha risolto tutti gli omicidi che ha seguito. Ha l’occhio dell’aquila e nelle perquisizioni si dirige subito al punto giusto... Te ne voglio dire un’altra: ha il titolo di visconte, e non lo dice a nessuno. Visconte vero, di famiglia blasonata. Nel lavoro è attento, acuto, scrupoloso”. Come persona, è gentile, premuroso, disponibile. E naturalmente suscita qualche invidia, come sempre accade quando il mediocre s’imbatte nella persona intelligente, preparata”. “Il nonno, Alberto Sala, di Luino, fu famoso perché era maestro di fotografia alla corte della regina Margherita; e suonava bene il pianoforte, tanto che a volte per farmi contento, quando ero ragazzino, mi suonava lo strumento. Era un personaggio eclettico, direttore d’orchestra”. Alberto junior ha preso molte doti da lui: per esempio è appassionato di opere liriche. Ma sulla sua vita privata accenna qualche particolare e basta. Per esempio, nel ‘71 ha lavorato alla Saipem dell’Eni, è stato programmatore dell’Ibm, ha preso il dottorato in America, ha ricevuto l’onorificenza di cavaliere al merito della Repubblica, si è occupato di antiriciclaggio, di lotta al finanziamento del terrorismo, ha investigato sulla criminalità organizzata, guidando 23 uomini, e oggi l’ispettore Alberto Rocco Maria Sala fa il giornalista.










mercoledì 7 dicembre 2022

Gli ulivi saraceni nell’arte di un fotografo

L’OBIETTIVO DI CARMINE LA FRATTA CREA EMOZIONI NELLO SPETTATORE

Uomo e ulivo

 

Ha ritratto edifici pubblici

e palazzi storici,  masserie,

Mar Piccolo, monumenti, 

volti, chiese, archi rampanti, 

trabeazioni, rosoni, 

vetrofanie, sguardi, mestieri.

 

 

Franco Presicci

Carmine La Fratta

Condivido con Carmine La Fratta, tenace cacciatore d’immagini, poeta dell’obiettivo, la passione per gli ulivi saraceni. Che non popolano soltanto la Sicilia, la Calabra, ma sono disseminati anche in Puglia, nei dintorni di Ostuni: qualcuno, solitario, sta a Fasano, a Crispiano. 

Ulivo

 

 

Non hanno ispirato soltanto poeti e scrittori come Buffalino, Consolo, Quasimodo, Federico Garcia Lorca, D’Annunzio, e altri. L’ulivo è stato eletto a pianta letteraria. Il poeta spagnolo ha visto camminare un solo ulivo per la pianura deserta. Chi va nella città bianca, Ostuni, ne vede tanti, di ulivi, millenari, dalle sagome più svariate, bizzarre, alcune barocche: tronchi avvitati su stessi, con volti umani o animali; ulivi in preghiera, genuflessi. In un fondo ho scoperto un ulivo con le mani tenute come quelle dei soldati sull’attenti; un altro, sventrato, appariva una caverna; un altro ancora aveva gli zoccoli da elefante e pareva in cammino. Su facebook hanno postato un esemplare a mo’ di uomo stanco, supplicante. L’ulivo è sacro; l’ulivo è testimone del tempo. Il poeta Alessandrino Callimaco, che si vantava di discendere da Batto, fondatore di Cirene, cantò l’ulivo. Atena lo regalò a Zeus. Venuto dall’Asia, è stato ed è amato da molti. Il suo tronco servì a costruire il talamo nuziale di Ulisse. L’ulivo è protagonista di mille leggende. Seduto sotto un ulivo a meditare sento quasi il suo fiato, il suo respiro e il desidero di dialogare con i suoi rami e le sue foglie. “Pure colline chiudevano d’intorno – scriveva Montale – marine e case, ulivi le vestivano”.

L'occhio dell'ulivo

Il mio rapporto con l’ulivo è annoso. Lo cerco dovunque possa incontrarlo: quello saraceno, che viene da lontano nel tempo e nello spazio. L’ulivo mi dà gioia, serenità. Amo il silenzio, la pace, come il fotografo Carmine La Fratta. Fu l’ulivo a portare sull’arca di Noè un rametto come segno di speranza, e di pace. E furono gli ulivi ad accogliere i respiri di Gesù prima del Calvario. Vero, Carmine? Tu fai i tuoi scatti magistrali davanti a quella pianta benedetta e la sottoponi all’ammirazione degli altri. Ricordo un ulivo, gigantesco, monumentale, che non m’impauriva mentre calavano le ombre; e un ulivo steso per terra a sonnecchiare; un altro retto da quattro blocchetti di cemento messi l’uno sull’altro.

Bagnante e ulivo
Quanti ne hai fotografati, Carmine? Li hai raccolti in un libro, dopo un’esposizione: ”Amaterra”, un’antologia spettacolare, come spettacolare sono tanti di questi ulivi. “Verrai con me, un giorno, e ti porterò io nel loro regno più bello. Li amo anch’io gli ulivi”. Come tanti. Non per i frutti che portano. Adoro il loro fisico, il loro aspetto, la loro belleza. L’ulivo è forza, amore, delizia. Ne ho visto un paio con un volto umano. E ho pensato: “L’ulivo è mio fratello”. “L’ulivo/ da volume argentato/ stirpe austera/ nel suo ritorno/ cuore terreste…”. (Pablo Neruda). L’ulivo rappresenta la Puglia. E questa terra Carmine La Fratta se la porta nel cuore. Percorre sentieri di campagna, i tratturi, entra nelle masserie e le ritrae con tutti i pregi architettonici, i cortili, le cappelle, i tetti; cattura i muretti a secco, i trulli, fa “clic” sull’asino che desidera un abbraccio, sulle distese di verde, sui covoni e ti lascia pensare che tanti angoli suggestivi della tua terra non li conoscevi. Perché non sei come lui un pellegrino che si bea alla vista della terra rossa di Martina Franca, delle chiese rupestri di Crispiano, dei manufatti in terracotta di Grottaglie, delle gravine, dei fischietti di creta eseguiti da figuli capaci di creare opere d’arte.
Ulivo spettacolare

 

Carmine è nato fotografo. Vanta un “curriculum” eccellente; eppure si definisce artigiano. Rifiuta il termine artista. Si dice pubblicamente artigiano d’immagine. E a contemplare le sue foto, sul Duomo di Milano, con i suoi merletti, le sue guglie, le statue, i contrafforti, gli archi rampanti, la stessa Madonnina cantata da Giovanni D’Anzi, la Galleria Vittorio Emanuele, Matera con i suoi Sassi, esplodi e gli rimproveri quella inutile modestia. Fa acrobazie per cogliere un dettaglio, come Fulvio Roiter nel suo libro di foto su Milano. E’ un fotografo curioso, attento, tenace, sensibile, pronto ad appostarsi per ore in attesa della luce che vuole. Si vede che il suo maestro è stato Mario De Biasi, che per il settimanale “Epoca” girò e documentò il mondo. “Da ragazzo leggevo questo giornale della Mondadori e mi soffermavo a meditare sulle foto di De Biasi. Poi volli sapere di lui e m’informai. 

Io l’ho conosciuto, Mario De Biasi, che era anche un abile disegnatore. Ci incontravamo spesso nella libreria di viale Tunisia dell’editore Nicola Partipilo, del quale illustrava bellissimi libri sulla città del Porta e di Franco Loi, di Castellaneta e di Delio Tessa. Se avesse avuto per le mani alcuni scatti di Carmine La Fratta, De Biasi, che era severo nei giudizi, non disposto alla benevolenza, lo avrebbe sicuramente apprezzato. Ho indugiato anche sugli ulivi di Carmine.

Il carrubo di Polignano
Venditore di cozze

 

Lui li osserva, li vive, li gode. Anche lui ha un rapporto particolare con gli ulivi. Sui quali ha pubblicato video interessanti, meravigliosi. Ne ha realizzati tanti anche sulla visita di Papa Wojtyla a Taranto, seguendolo a distanza ravvicinata fino alla cattedrale di San Cataldo, tra la folla in lacrime di devozione, di gioia, riportando l’evento in un libro: “Ho fotografato un santo”. Sull’evento ha realizzato una mostra, facendo vivere agli spettatori momenti di forte emozione. Di Taranto ha fotografo ogni angolo, anche le pale eoliche che incorniciano un sasso enorme. Sarà anche un artigiano Carmine La Fratta, ma di quelli che hanno dimestichezza con l’arte. Di Carmine sono apprezzabili le sue foto di monumenti, di edifici pubblici; di chiese. Di una chiesa riprende le finestre a rosone, le trabeazioni, le navate, i capitelli, gli archi, le pale d’altare, i tabernacoli.

Pescatore
Fa anche foto sociali: donne, bambini, vecchietti intenti a conversare in piazza, momenti di allegria e di dolore, di gioco e di lavoro, di sguardi. La sua visione spazia: ovunque sorprenda un soggetto degno di essere immortalato, punta l’obiettivo: i fumi della fabbrica dell’acciaio, l’Ilva, la sua struttura faraonica che per fabbricarla sacrificarono migliaia di ulivi, togliendo ossigeno all’agricoltura e ai cittadini. Lewis Hine, sociologo e fotografo americano nato nel 1874, scrisse che se avesse saputo raccontare una storia con le parole, non avrebbe avuto bisogno di portarsi dietro una macchina fotografica. Gli scatti di Carmine La Fratta spiegano molto di più delle parole. Posso dire che il fotografo tarantino s’impadronisce di ciò che vede e lo tramanda? Che cattura un oggetto e lo mette a disposizione nella maniera in cui lo ha visto? So che la storia professionale di Carmine La Fratta è lunga e prestigiosa. 
Ulivo dalla sagoma di pesce

Per esempio ha collaborato con compagnie teatrali e musicali, ha realizzato servizi fotografici per società e istituzioni, manifestazioni ed eventi pubblici: è stato fotografo di scena per i film “Scilla non deve morire” di Bruno Oliviero e “Marpiccolo”, di Alessandro di Robilant: foto che sono state scelte dalla Puglia Commission Film per la Mostra del Cinema di Venezia 2010; è fotografo nel “pool” ravvicinato della sala-stampa della Santa Sede. Pubblicati dalla Regione Puglia “Iconografia sacra a Taranto”, “Iconografia dei santi a Manduria”; per Sellitti editore “Settimana Santa a Taranto”…; nel 2016, con altri 35 fotografi italiani è stato scelto per l’ottavo Festival “Photovisa” a Krasnodar, in Russia; ha allestito mostre: le sue foto si trovano in collezioni pubbliche e private: ha vinto un Premio per le fotografie di scena del film “Il Miracolo” di Edoardo Winspeare e il concorso “Vogue sposa”…

Bimbi nella città vecchia
Da giovane accompagnò il giornalista e scrittore Domenico Porzio in una visita alla città vecchia, passando due giorni con lui (Porzio poi ne parlò in una affollata serata pugliese al Cida di Via Brera, presente con alcuni quadri il prestigioso gallerista Guido Le Noci); ha fotografato Pavarotti, Dalla e altri “vip”; dal ’78 all’81 ha collaborato con l’ufficio pubbliche relazioni dell’Italsider, diretto da Giuseppe Francobandiera, alla masseria Vaccarella, come fotografo industriale. Nato Nel ’51, Carmine ha avuto la sua prima macchina fotografica verso i 20 anni. Ha cominciato a fotografare molto più tardi. Intanto guardava le immagini che pubblicavano i settimanali più importanti, da “Epoca” a “Grazia”. A sollecitarlo fu l’immagine di un bimbo asiatico con lo sguardo puntato su un orologio. Durante il covid, a Milano un ragazzo che andava a trovarlo a Lama, dove ha lo studio, per carpire i rudimenti del mestiere prima di trasferirsi nel capoluogo lombardo, lo invitò a pranzo. E Carmine notò che l’ospite era diventato un ottimo fotografo di moda. “Era davvero molto bravo, fotografava modelle celebri. Alla fine mi chiese un favore: una foto che lo aveva convinto a scegliere questa nostra professione”. La foto richiesta ritraeva una vecchietta nascosta dietro un muro, a Otranto, in attesa del Papa”. A Otranto andò insieme a Narciso Bini, un bravissimo giornalista de “Il Corriere del Giorno”, che curava la pagina degli spettacoli. Carmine La fratta ha anche molte storie da raccontare. Una ha come protagonista un carrubo. Sorgeva su un fondo che doveva essere attraversato da un gasdotto. Il proprietario promise di regalare la terra a patto che l’albero venisse salvato. Il miracolo avvenne. E La Fratta lo ha immortalato. Adeso sfoglio il calendario 2023 di Carmine con il mare, spazi verdi e ondulati, ulivi imponenti e la didascalia “La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha”.