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mercoledì 28 agosto 2019

Una serata al Castello Aragonese

L'Ammiraglio Vitiello con Cataldo Albano

UNA RICCA RACCOLTA DI FOTO

SULLA BELLEZZA DI MATERA



Autore Cataldo Albano, maestro
dell’obiettivo, che ha trascorso
quattro giorni nella città della
cultura per riprenderla dal basso
e dall’alto con un drone. 

Interventi dell’ammiraglio Salvatore Vitiello e del professor Francesco Lenoci.




Franco Presicci
La serata si è svolta il 24 agosto al Castello Aragonese di Taranto in un clima di entusiasmo per la notizia che a Patrasso per acclamazione l’Assemblea di 26 Paesi aveva scelto Taranto, la città dei due mari, come sede dei Giochi del Mediterraneo del 2026. 
Francesco Lenoci al Castello
Esultava il professor Francesco Lenoci, martinese docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano. A chi gli stava intorno sollecitava commenti e dava, dell’evento, qualche particolare in più. Tanti, ascoltandolo, ammiravano le stupende immagini di Matera e dei suoi Sassi, proclamati patrimonio mondiale dell’Unesco, che Cataldo Albano ha ripreso dall’alto con un drone e dal basso, di giorno e di notte, esponendole nella “galleria meridionale” del maniero. “E’ una giornata storica per questa meravigliosa città; una giornata esaltante, da non dimenticare”, predicava Lenoci mentre il pubblico s’infoltiva. Poi è arrivato l’ammiraglio Salvatore Vitiello e Cataldo Albano, maestro dell’obiettivo fotografico che viaggia da un capo all’altro dell’Italia, per immortalarne le bellezze, ha invitato gli ospiti, numerosi, a prendere posto. L’ammiraglio ha fatto squisitamente gli onori di casa, sintetizzando sia le attività realizzate nel maniero sia quelle in cantiere, senza tralasciare d’informare sulla notevole quantità di turisti che vengono ogni anno a visitare questo gioiello. Il ceramista grottagliese Mimmo Vestita gli ha poi consegnato un gallo in terracotta come “simbolo del comando”. 
Cataldo Albano



Mentre la televisione catturava le fasi della cerimonia, lo stesso Vestita ha tenuto il microfono per delineare il lavoro di Albano, che, nato a Taranto, emigrò con destinazione l’Ibm, ma continuando a fare i suoi scatti davanti a un monumento, ad un edificio storico, a una perla architettonica, a una chiesa, all’attività di un artigiano…allestendo mostre in varie parti del Paese. Poteva non puntare su Matera, tra l’altro città della cultura 2019, terra magica che ha colpito il cuore di tanti, compresi famosi artisti, compresi registi di fama? E’ del ’53 “la lupa” di Alberto Lattuada; del ’64 “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini; del 2004 “La passione di Cristo” di Mel Gibson, girato, oltre che a Cinecittà, appunto a Matera e nella vicina Graco, il paese disabitato a causa di una frana (il regista Francesco Rosi vi girò le scene di ”Cristo si è fermato a Eboli”, di Carlo Levi, con Gian Maria Volontè); del 2016 “Volare come il vento” di Matteo Rovere…, ai quali vanno aggiunti i documentari.

Il Castello Aragonese di Taranto
Manifesto serata a Taranto
















No, la sua sensibilità estetica non poteva non rivolgersi a una basilica, a un chiostro, alla chiesa ipogea della Madonna degli Angeli... Eccoli, questi tesori, allineati in questa sala, e sul video che scorre su un telone, con terrazze affacciate su abitazioni-grotta, interni di case rurali, scalinate e vicoli, mani intente a confezionare il famoso pane di Matera, a creare opere in cartapesta o in legno, a trarre forme dalla pietra; una Matera in miniatura: presepe favoloso. Vestita ha aggiunto che Albano manovra il drone come nessun altro: l’osservatore aereo è una meteora, ” un fulmine, un razzo, riprende e corre via, e non si fa vedere fino all’ordine successivo…”. Albano l’ha esplorata, Matera, dove il 7 ottobre del 1882 avviò la sua carriera di docente di latino e greco Giovanni Pascoli, che scrisse: “Sono a Matera dalle ore prime antimeridiane del 7. Arrivai all’una dopo mezzanotte, dopo molto trabalzar di vettura, per vie selvagge, attraverso luoghi che io ho intravisto notturnamente, sinistramente bello… Una città abbastanza bella…”.
L'ammiraglio Salvatore Vitiello e Cataldo Albano
L’ha fotografata con il cuore, consegnandoci un risultato magico, emozionante. Matera è un miracolo che prima o poi tutti dovrebbero ammirare, anche per arricchire la propria cultura. Quattro giorni ha trascorso Albano per scoprire ogni dettaglio, vivendo il contesto come in un sogno. Matera è una città splendida, immersa in una festa di luce. Centodieci e lode, dunque, a Cataldo Albano, artista pellegrino, che regala “quadri” stupendi. E’ dinamico, scattante, infaticabile. Quando lavora compare e scompare; si acquatta in un angolo in attesa della luce che gli va più a genio. Coglie i palpiti più intimi di una città, li riprende con passione, li esalta: entra nell’anima del soggetto. I “clic” allineati nel Castello sanno di poesia, affascinano, coinvolgono. Qualcuno ha detto che Cataldo promuove la bellezza. La fa trionfare, la bellezza. Nelle sue foto della bellezza c’è l’apoteosi. I suoi sono vagabondaggi d’artista. Ha chiesto al pubblico se visiterebbe Matera. Certo che la visiterebbe. Con queste sue opere la fa subito amare; scatena il desiderio di mettersi al volante e partire verso quell’incanto. 
L'ammiraglio Vitiello e la poetessa Cuoccio
Di cui parla in una sua poesia Mariella Cuoccio, di Bitonto, in provincia di Bari, invitata nella serata a recitarla (“Sola nel mio cuore/ mi interrogo, mi accarezzo/ piango e sorrido/ solo alla fine capisco/ che ho Matera ‘dentro’”…). Lei ha fatto di più: ha letto pagine del citato libro di Carlo Levi, che fu confinato in Basilicata tra il ’35 e il ‘36 “(… quella città dei Sassi che con la sua bellezza disarmante, unica nel suo genere, ha ispirato centinaia di pagine di scrittori e poeti sbalorditi di fronte al groviglio di gradinate e vicoletti, chiese e campanili…”); di Guido Piovene, che su Matera indugiò nel suo “Viaggio in Italia”. Matera che per Angela Aniello ”è divina, ridono i Sassi/ come voci stanche di contadini, sublime bellezza il malinconico profilo dei sensuali abbracci in un presepe di cuori, vissuti, sentiti…”. A Matera fu per qualche tempo Rocco Scotellaro, poeta, scrittore e politico, rinchiuso nel vecchio carcere per un’accusa falsa montata dagli avversari politici e poi assolto con formula piena, (da ricordare il suo ”L’uva puttanella”, ”E’ fatto giorno”; inchiesta sui “Contadini del Sud”).
 
Al centro Lenoci
Una serata toccante, che ha tenuto desta l’attenzione dall’inizio alla fine. Ma prima del buffet, con assaggio di vini prelibati come l’Aglianico del Vulture e pane di Matera con gocce d’olio, la parola è passata al professor Francesco Lenoci, applaudito prima, durante e dopo il suo discorso, basato sulla bellezza. La bellezza salverà il mondo, che va a rotoli: “organizziamo la speranza”. Bellezza e speranza ricorrono spesso negli interventi del docente martinese che nel suo peregrinare dalla Lombardia all’amata Puglia, all’Abruzzo di Jhon Fante, caro a Goffredo Palmerini, alla Lucania, che vuol dire luce, porta un messaggio edificante. Pace e rispetto per l’ambiente sono due altri temi che affronta spiegando le creazioni di valore a Martina, a L’aquila… nella moda, nell’enologia, nella cucina, nella ceramica, di cui parlerà tra breve a Cellino San Marco presso la tenuta di        Al Bano.

Dal Castello il mare
Una serata ottimamente allestita, dipanata tra lampi di macchine fotografiche scaturiti dal pubblico, in cui è stata avvertita la presenza del dottor Enzo Rocca, vicedirettore generale del Credito Valtellinese e autore con Lenoci di volumi di ragioneria e finanza aziendale, persona discreta, a sua volta amante della fotografia, tanto che prima dell’inizio della serata ha fatto una passeggiata nella città vecchia puntando l’obiettivo su vicoli, bottegucce, pescherecci, venditori di cozze, non trascurando il Mar Piccolo (‘u mare piccerjidde” del poeta Alfredo Lucifero Petrosillo), la ringhiera: un balcone che si affaccia sul Mar Grande e naturalmente il Castello Aragonese, che è anche una fucina di idee, grazie all’ammiraglio Vitiello.. Conosco Albano da qualche anno. Un concittadino che fa onore a Taranto. L’ho ritrovato alla presentazione del Festival della Valle d’Itria al Piccolo Teatro di Milano, dove spaziava con l’obiettivo tra il pubblico e i relatori, tra il cortile e il salone nell’occasione usato per il ricco “buffet”, tra le personalità e i cantanti, gli editori, i maestri d’orchestra. Non sta mai fermo, domina ovunque, immortala gesti, espressioni; trasmette testimonianze. E’ a sua volta un personaggio. Simpatico, colto, gentile, estroverso, un sorriso comunicativo che emerge da un paio di baffi ben curati. E’ un tedoforo della bellezza, come dimostra ancora una volta nelle immagini allineate nella galleria del Castello, con la volta ad arco.

mercoledì 21 agosto 2019

Milano esaltata e criticata dai viaggiatori

Roberta Cordani


STANDHAL AVREBBE VOLUTO VIVERCI 

TUTTA LA VITA, PERCHE' L’ADORAVA




Il suo splendore anche nella Raccolta
Stampe Bertarelli, sistemate nelle sale
del Castello Sforzesco: un patrimonio
immenso, vanto della città.







Franco Presicci

Di Milano si è sempre parlato tantissimo, forse persino troppo. E se ne parla ancora. Da parte di chi la esalta e di chi la censura. Ne hanno parlato in tutti i tempi scrittori, viaggiatori, artisti... Per molti Milano affascina, avvince. Milano ha sempre catturato i visitatori più che gli indigeni con le sue piazze, i suoi monumenti, la Zecca, i Giardini Pubblici, oggi Indro Montanelli, le chiese, le vie, le biblioteche, gli archi, gli edifici storici, i navigli, che secondo il poeta Alfonso Gatto “restano strade d’acqua silente, con odore di terra, di carreggiate, di verdura… miracolo di questi canali tranquilli, su cui s’alzano persino le strade…”.

“Chi ha visto Milano nelle giornate limpide marzoline, quando tiracchia il vento e le nuvole si ammassano e si sfilacciano, quando la luce diventa cristallina come nelle tele di Bernardo Bellotto, quando le facciate si colorano col mutare delle ore non può che restarne colpito…”, scriveva Giorgio Lise, curatore dello splendido libro “Milano seducente e gioiosa”, pubblicato da Cordani editore. E Gaetano Afeltra, che era di Amalfi e che, come ricorda il grande critico letterario Giuliano Gramigna, già nel ’42 era entrato a far della famiglia del “Corriere della Sera”, sosteneva che se Milano qualche volta può sembrare inamabile resta pur sempre incantevole con i suoi teatri, i cinema, i locali illuminati, i bar allietati dal sorriso delle graziose cassiere, i tram rigurgitanti di folla nelle ore di punta, la Scala e il “Corriere”… “Milano che sta al centro vivo dell’Europa, ma mantiene ancora il profumo della realtà lombarda; città insostituibile per tanti milanesi e tanti che milanesi non sono…”. Questo canto d’amore don Gaetano, che tra l’altro diresse il quotidiano “Il Giorno” quando la sede era in via Fava, lo fa in un libro, “Milano amore mio”, che si legge volentieri anche per la limpidezza e la semplicità dello stile appassionato. “Bellissima Lombardia, e bella Milano - scrive Guido Piovene nel suo ‘Viaggio in Italia’, del ‘57.
Il Naviglio Grande
Bisogna liquidare il luogo comune che questa regione e questa città siano inferiori di bellezza al resto dell’Italia. Certo la bellezza lombarda è meno rigorosa e chiusa, e perciò più difficile intenderla a prima vista di quella veneta e toscana. Ed è anche meno esemplare, meno italiana, per lo straniero che avvicina l’Italia e la vuole conoscere nei suoi paesaggi resi tipici dalle convinzioni turistiche…”. E Stendhal, giunto qui per la prima volta in divisa di dragone dell’esercito francese, disse che “Milano è stata per me, dal 1800 al 1821, il solo luogo in cui abbia sempre desiderato di stare. E aggiungeva un commento dal punto di vista pratico, e cioè che a Milano un pranzo eccellente, per due persone, nel ristorante dei nobili, “costa appena sei lire” e altrettanto un palco alla Scala. Non si contano i forestieri che hanno avuto come mèta questa città. Uomini e donne. Fra le seconde, Lady Sidney Owenso Morgan, di Dublino, e Olga von Gerstfeldt, polacca.
La Scala da "Milano seducente e gioiosa"
Le personalità, francesi, tedeschi, spagnoli…, che vennero a Milano a visitare il Duomo, Palazzo Reale, il Palazzo de Mercanti, il Teatro alla Scala, la Galleria de Cristoforis, Palazzo Brera, le chiese, le porte, la basilica di Sant’Ambrogio e altri luoghi importanti alloggiavano prevalentemente all’Albergo del Pozzo, che nel secolo XVIII era considerato il migliore della città. Ospitò anche ambasciatori e capi di Stato. Portieri di notte, camerieri, guardarobiere, maitre ricevevano i clienti con tutti gli onori; e se erano illustri, mobilitavano la banda musicale. I destinatari di questo trattamento provavano ovviamente piacere, e se avevano una lamentela da fare riguardavano i prezzi, considerati un po’ alti. Anche fuori dell’hotel avevano dissensi da esprimere. Per esempio la Biblioteca Ambrosiana, sempre affollata di studiosi, secondo molti era inattaccabile sotto tutti gli aspetti; secondo altri, invece, aveva assorbito più soldi per i dipinti che per i volumi; secondo altri ancora le opere che ritraevano uomini celebri erano addirittura inutili. 
Il Duomo
I luoghi più visitati erano il Duomo, da tanti esaltato per la grandiosità e la quantità delle statue e da altri disapprovato: “Tutto è gotico e quindi grossolano”. Prese di mira anche le finestre: senza vetri. Ma ammiravano certi edifici patrizi, come Palazzo Litta. Del Castello dicevano che era una delle fortezze più imponenti d’Italia; e dell’Ospedale Maggiore che era magnifico, tanto che a loro dire qualcuno “si deciderebbe essere un po’ malato per alloggiarvi”. Elogiavano le collezioni di orologi, cannocchiali, microscopi esposte nelle sale di Palazzo Settala in via Pantano e altri oggetti lì collocati. Piacevano le donne in abbigliamenti vistosi, che amavano farsi corteggiare, le ville spettacolari, scenografiche, simboli di potere e di ricchezza, sparse nei paraggi della città, dotate di verde architettato a mò di galleria, e di fontane e di aiuole come tavolozze d’artista, semiarchi, sculture, trionfi di profumi… I visitatori consideravano il dinamismo di Milano invidiabile: entusiasmo che dava impulso a nuove opere, pubbliche e private, moltiplicando i progetti, che per fare spazio e luce precedevano abbattimenti di ciò che pareva brutto o superfluo. I padroni di casa si mostravano bonari, cordiali. Nel !789, l’agronomo inglese Arturo Young, scrittore e saggista, che si occupò anche di economia e di statistiche sociali (nel 1784 cominciò a pubblicare gli Annali dell’agricoltura, continuati con 45 volumi, che ebbero contributi anche di re George III con lo pseudonimo di Ralph Robinson), arrivò per analizzare l’agricoltura lombarda e trovò porte spalancate ovunque, soprattutto dal marchese Visconti e dal conte Castiglioni. 

Tram sulla neve
A molti stranieri Milano dunque piaceva. Tra l’altro osservavano gli opifici e le loro attrezzature, come quella, che, introdotta nel 1760 da Carlo Morelli, consentiva di accelerare molto il lavoro. Young andò anche in una società detta d’incoraggiamento, voluta da Maria Teresa; e quando varcò la soglia lo salutarono con calore e gli mostrarono gli ambienti, interrompendo una riunione. Un artigiano aveva appena finito d’illustrare un’invenzione che ottenne un riconoscimento, fu applaudito anche dall’eminente forestiero. Poi fu la volta di alcune aziende agricole, dove Young presenziò alla fattura del formaggio e apprese informazioni sui metodi d’irrigazione. Più che soddisfatto, annotò tutto; e scrivendo sul suo viaggio a Milano e dintorni rese omaggio all’acutezza di questi procedimenti, facendo confronti con il proprio Paese.

Foro Bonaparte col Monumento a Garibaldi
Per l’inglese Richrd Lassels, Milano era una grande città. L’astronomo francese Joseph-Jerome Lafaud ne celebrò la cultura e le scuole, che formavano allievi molto preparati. I forestieri – annotava Lorenzi - apprezzavano anche le carrozze nobiliari, scortate da valletti in livrea, i “lacchè”, i quadrupedi imponenti parati a festa anche quando il corteo era diretto alla villeggiatura, di solito verso settembre. 

Catalogo Raccolta Bertarelli
La città vantava un primato anche in questo settore: secondo una statistica riportata da Gualdo Priorato nella sua ”Relazione della Città e Stato di Milano”, già nel 1666 circolavano 115 tiri a sei, 437 tiri a quattro, 1034 tiri a due. I cocchieri non si attenevano sempre all’ordine di andare piano sia di giorno sia di notte. Correvano a velocità pericolosa, addirittura ingaggiando gare tra loro, rischiando una multa o il carcere per un mese. Alberto Lorenzi riferisce che ad incorrere nel rigore dell’autorità fu anche la contessa Brebbia, che si offese parecchio. Successivamente le redini della giustizia si allentarono e ad essere perseguite furono soltanto le carrozze comuni, cioè quelle dei vetturini di piazza, che, nonostante un suggerimento poetico di Carlo Porta, scritto stando comodamente seduto in carrozza, continuarono a non rispettare i divieti. Senza curarsi neppure dei cavalli, costretti a fare una fatica in più per il divertimento dei “brumisti”, cioè i padroni. L’ultimo rappresentante della categoria fu – ricorda Cesare Comoletti – il scior Togn Esposti, andato in pensione nell’aprile del 1978, dopo tanti anni in serpa nella sua bella uniforme imposta dal Comune nel gennaio del 1870. Splendide immagini di quei tempi sono custodite dalla Civica Raccolta delle Stampe A. Bertarelli di Milano, nata dalle cospicue donazioni, nel 1925, al capoluogo lombardo di Achille Bertarelli, studioso profondo e infaticabile, che, nato a Milano nel novembre del 1863, laurea a Bologna nel 1888, amante a sua volta dei viaggi, cercò nelle stampe (biglietti di visita, ex libris, calendari e almanacchi, teatro e spettacoli, manifesti pubblicitari, ventagli, arti, mestieri e professioni, cartoline, carte da lettere figurate… ) le testimonianze delle attività in ogni settore dei tempi andati. Le raccolte, migliaia e migliaia, sono state sistemate dal Comune in alcune sale del Castello Sforzesco. Un patrimonio immenso. Achille Bertarelli morì a Roma nel ’38.







mercoledì 14 agosto 2019

Un paio d’ore a Crispiano con un artista



Adamo Di Palma
LE PREGEVOLI OPERE DI ADAMO DI PALMA

ESEGUITE CON LA LEGNA DA ARDERE 


Passa almeno tre ore al giorno al tornio,
d’inverno di più. Quando non realizza i
suoi capolavori se ne va in campagna a
lavorare con la motozappa. Ha allestito
due mostre; prossima una terza nei locali
dell’Università del tempo libero e del
sapere, diretta da Silvia Annese.

 





















INTERVISTA DI FRANCO PRESICCI


Reliquario
Un cubo che al minimo stimolo si agita imprigionato in un cilindro di radica con quattro aperture; un calice ben sagomato; un ostensorio; un reliquario; un sinuoso delfino spiaggiato scolpito in un pezzo di ulivo; sfere piccole e grandi con intermittenze cesellate e tante altre opere sono i “gioielli” eseguiti da Adamo Di Palma nel suo laboratorio allestito in un locale della sua bella villa a Crispiano.
Le sfere






Sparsi su un ripiano sgorbie, martelli, lime e per terra vicino al tornio e in un angolo, pezzi di legno pronti per essere trasformati in forme suggerite dall’estro dell’autore. Seduti a un tavolo con Michele Annese passiamo in rassegna le opere di Adamo, che sta in piedi con un sorriso amabile, senza darsi arie da artista, anche se la definizione gli compete. Alto, faccia vagamente da Mel Gibson, non si sottrae all’invito di raccontarsi, mentre la moglie, Maria Pia Santoro, dispone sfere, altri oggetti a forma di carciofo e “faraglioni”, descrivendoli ammirata.

Il cilindro in legno e Annese
Scultura e pumi

La signora è gentile, ospitale, premurosa, orgogliosa della genialità del marito. “Pensi che ha fatto anche cento bomboniere per il nostro matrimonio”, dice indicandone un esemplare. E poi: “Guardi queste scatolette con il coperchio arabescato e queste altre bombate”. Non vuole sostituirsi ad Adamo nel narrare, ma integrare, arricchire le informazioni che lui fornisce con un tono pacato, a spizzichi e bocconi. Gli chiedo se abbia fatto una mostra, perché questi suoi lavori meritano di essere visti e apprezzati. Ne ha fatte due: una nelle sale della biblioteca “Carlo Natale”; un’altra nella masseria Pilano, calamitando un pubblico scelto e interessato. Lo ricorda Annese che coglie l’occasione per invogliarlo ad esporre all’Università del tempo libero e del sapere, diretta dalla moglie Silvia, già professoressa d’italiano e corrispondente del “Corriere del Giorno”, il quotidiano che usciva a Taranto.
Di Palma e il cilindro col cubo
La Bimare. Lì è nato Adamo. In viale Virgilio, precisamente in via delle Ceramiche, a un centinaio di metri dalla scogliera, alla quale si arrivava lasciandosi alle spalle l’oratorio dei Salesiani. Due passi dal mare, dallo stabilimento balneare “Santa Lucia”, riservato agli arsenalotti. E di Taranto questo artista prolifico e delicato ha tanti ricordi: di strade, persone, avvenimenti. Non ricordi pallidi, ma limpidi. Ascolto con interesse quando afferma che molte delle cose di una volta sono scomparse, come lo stesso sentiero che portava agli scogli, sepolto per dare spazio al cemento. Stiamo per deragliare? Ma no, La Taranto dello scrittore Giacinto Peluso, dei poeti Alfredo Nunziato Majorano, Diego Marturano, Nerio Tebano, Claudio De Cuia; del Galeso caro a Orazio, a Virgilio…; del ponte di ferro; del canale navigale che lega i due mari, Il Grande e il piccolo; la Taranto dei tramonti da tavolozza fa parte della sua vita e lui, pur vivendo a Crispiano, dove soggiornò Alda Merini, la poetessa dei navigli milanesi, non la dimentica. Ma siamo qui, in questa villetta ariosa, spaziosa, ampiamente illuminata, i cui balconi danno sulla via che porta a Martina Franca tra vigneti e uliveti, per osservare anche i bracciali, le collane, gli anelli, i pumi, da regalare per la loro funzione apotropaica, che Maria Pia tira fuori dai contenitori, che lei custodisce gelosamente.
Di Palma mostra il cilindro in metallo

Adamo guarda, come se li vedesse per la prima volta. E’ un uomo sereno, simpatico, quasi un frate cappuccino anche per quella sua barba ben curata. Sorride, quando, scherzosamente, glielo dico. Per un tratto mi ha ricordato Padre Mariano, che a suo tempo predicava dalla televisione, concludendo con le parole pace e bene a tutti. Allora, Adamo, ripercorriamo la sua storia. “Ho lavorato per vent’anni come tecnico di laboratorio all’Istituto professionale “Archimede” di Taranto; e per altrettanti anni all’Istituto tecnico ”Majorana” di Martina Franca. A Taranto ero stato assunto per insegnare ai ragazzi i primi rudimenti, quindi, nel ’64, ho cominciato ad impegnarmi a casa, un anno prima del mio matrimonio. Usavo il metallo (acciaio, alluminio…); poi Maria Pia ha preferito il legno. E ho fatto le bomboniere”. Ho continuato con il delfino. Adoperando la radica. “L’ho fatto con un pezzo scoperto in una pizzeria di Torre Canne, dove stava per finire nel forno”. Un delfino che sembra in movimento nel disperato tentativo di riconquistare il suo elemento naturale: un cetaceo dalla pelle lucente che vorresti accarezzare. Il retro della scultura raffigura la roccia.

Il retro del delfino realizzato con una radica d'ulivo

Opera splendida, degna di un posto di riguardo in salotto, sul mobile più bello, fra un Treccani e un Fiume. Torniamo a Taranto, la sua culla. Non se lo fa ripetere. Tarantino verace come le vongole che tanti anni fa i bagnanti raccoglievano a Lido Bruno, a Praia a Mare…, scavando con le mani nella sabbia del mare a pochi centimetri di profondità. “Avevo 6 anni e con il permesso dei miei genitori andavo dai pescatori che tiravano la rete a riva, davo loro una mano e mi entusiasmavo alla vista del pesce che cercava di guizzare. Una decina di alici venivano versate nel mio recipiente: “’u cammelline”. Un po’ di dialetto ristora. Ed ecco emergere parole come “chiudde”, pescatore (il grande Piero Mandrillo, che era di Pulsano, ma appassionato cittadino di Taranto, ne studiò la genesi) e ‘a nache”, la culla. Il dialetto è inciso nel nostro cuore. Ovunque andiamo, lo portiamo con noi, se amiamo davvero questa città bella e sfortunata.
Adamo Di Palma marinaio
Durante la nostra conversazione riviviamo i giochi di una volta: “’u spezzjidde” (il legno quasi a punta che con un’asta si lanciava il più lontano possibile, per vincere); le cinque pietre (si lanciavano in alto a una a una raccogliendole nel palmo della mano mentre velocemente si prendeva l’altra); “’a levorie”. “Palle, palette e levorie”, dice Adamo. Lo contesto. “Cape, ce mandene jè fatte”, avvertimento seguito dalla frase pronunciata da lui. Ah, il dialetto. Dopo cinquant’anni trascorsi a Milano non è stato scalfito dal vernacolo meneghino. Ho dato lezioni propedeutiche a un collega camuno, che ha trattenuto alcuni suoni (il dialetto è musica).
Pumi
Sfera in metallo

Dimenticavo: “’U currùchele”. Quante “azzugnate” hanno onorato il mio. Adamo si diverte. A Crispiano non ha la possibilità di liberare la sua parlata madre. Ci rimettiamo sulla via che avevamo intrapreso: “Già da piccolo avevo una buona manualità. Facevo spade e con i raggi dell’ombrello frecce da impiegare nella guerra fra banditi e indiani. Quando giunsi all’età di 14 anni ci trasferimmo ai Tamburi, nei pressi dell’Italsider. Poi con le nozze seguii Maria Pia a Crispiano, la città delle cento masserie, le cui origini sono lontane nel tempo.
I coniugi Di Palma-Santoro con Presicci e la moglie Irene


Maria Pia si è assentata e rispunta con un vassoio di dolci, che offre con generosità ed eleganza. Poi regala a mia moglie, Irene, una scatoletta pregevole con un intreccio armonioso di linee cesellato sul coperchio. Adamo, che tipo di legno adotti? “Il mogano, il limone, il noce, il pero (pregiato), l’arancio, legni esotici come il “paduk” (rosso) e il “bechèt” (nero). L’ulivo vado a prenderlo da Marcucci di Crispiano, che ha cataste da ardere. Io lo faccio stagionare. A darmi più soddisfazione è proprio l’ulivo. La consideri un “hobby”, questa tua attività? “Sì un hobby”. “Più che un hobby”, irrompe sorridendo Maria Pia. Hobby o no, le sue sono opere d’arte.
L'artista Di Palma al tornio
“Quando non sono al tornio, dove trascorro almeno tre ore al giorno, e d’inverno molte di più, sono in campagna. Ne abbiamo due: una a Martina Franca, dove sto realizzando un bonsai d’ulivo. Insomma, artista, artigiano e contadino che manovra abilmente la motozappa e dà anche alimento ai fiori. Descriviti, Adamo. Maria Pia lo anticipa: “E’ uomo riflessivo, che sa scegliere le persone da frequentare (devono essere in gamba e naturalmente perbene). Non frequenta la piazza nè il bar. Gli piacciono il mare e il suo dialetto. E la sua città d’origine”. Hanno fatto una crociera sui mari di Taranto, sulla motonave “Clodia”. A bordo c’era il professor Enzo Risolvo, che faceva da guida e spiegando a volte ricorreva al dialetto. Il dialetto è la nostra anima. Quanti lo parlano, oggi? Male facevano i nostri genitori a imporci di non usarlo, perché, secondo loro, era volgare. Salutiamo Maria Pia, Adamo Di Palma ci accompagna giù e riprende a dare una mano di vernice al cancello.














mercoledì 7 agosto 2019

Scarpinando a Milano si scoprono tante storie

Maria Cavalieri

SU UN PRATO DEL QUARTIERE BOVISA

VIVEVA LA CUGINA DI LINA CAVALIERI



La vicenda del vecchio carbonaio picchiato
e rapinato dei soldi e del corredo che stava
preparando per la donna che sperava di
incontrare grazie alla sua partecipazione al
“Portobello” televisivo condotto dal grande
Enzo Tortora.




Franco Presicci

Ho trascorso anni a cercare storie da raccontare prima sul quotidiano “L’Italia”, quindi sul “Giorno”. Le ho cercate percorrendo strade lunghe e strade corte, polverose o asfaltate, vicoli e cortili in centro e in periferia, in una Milano sommersa nella nebbia o mitragliata dalla pioggia o ammantata di neve.

Il pittore Bertuzzi nel suo studio
Ad avviare la serie fu il pittore Guido Bertuzzi, scomparso ormai da tempo: conoscendo la mia curiosità, una mattina del ’76 mi raggiunse in un cortile di corso San Gottardo, dove ero impegnato in un servizio per Telemontepenice e mi parlò di una ragazza che aveva seppellito il suo cane in una corte, arredando la piccola tomba con diversi tipi di fiori. La bestiolina era morta per un brutto male, contro il quale la padroncina aveva lottato con tutte le proprie forze, andando anche negli Stati Uniti. Di storie ne raccolsi tante, negli anni. Un carbonaio di via Meda, al Ticinese, che viveva da solo in uno stabile popolare fece la drammatica esperienza di trovarsi in casa, di notte, due rapinatori che lo picchiarono, derubandolo dei soldi e del corredo che aveva riservato alla donna che sperava di trovare partecipando alla trasmissione televisiva Portobello” di Enzo Tortora. “Sono rimasto orfano due volte: morti i miei genitori naturali e dopo qualche anno quelli adottivi. Sono destinato alla solitudine. Spero nell’aiuto del Padreterno”. Parlai con la madre di un giovane tormentato da un difetto che secondo lui non gli avrebbe mai consentito di conquistare una donna e per farla finita aveva rapinato una pistola in un’armeria. Il capocronista del “Giorno”, allora Enzo Macrì, professionista abile e persona umanissima, mi chiese di spiegare il fatto nella rubrica “Dietro la notizia”, e lo feci con emozione. 

Cortile di corso San Gottardo
Partecipai al dolore del proprietario di un piccolissimo circo dalle parti di Pavia per la tigre che aveva azzannato uccidendolo il compagno ed era quindi per necessità destinata all’eliminazione, perché il sapore del sangue l’aveva resa pericolosa. Ne parlammo una serra alla mensa del giornale con il direttore Guglielmo Zucconi, che quando dirigeva la “Domenica del Corriere” aveva dedicato all’episodio la copertina a colori. Scarpinando, a Milano di storie se ne possono raccogliere a josa. Si possono anche pescare personaggi interessanti. Basta saper spigolare. Appresi dell’esperienza meneghina di Ho Ci-minh, poi diventato presidente del Vietnam, in un ristorate dalle parti di via Paolo Sarpi come cuoco o cameriere (la nuova generazione con ne era a conoscenza, nonostante la targa all’ingresso dell’edificio di fianco, in cui l’uomo politico aveva abitato. Ascoltai un artigiano ex pugile che sosteneva di essere stato “in America, obbligato da un contratto stipulato verbalmente con un ‘boss’, che imponeva la mia sconfitta in ogni incontro e fui costretto a scappare precipitosamente quando, stufo di andare al tappeto, decisi di aggiudicarmi la vittoria”. Testimone del fatto soltanto il naso appiattito. In archivio non trovai traccia dei “campioni” con cui a suo dire aveva combattuto. Neppure il collega Giulio Signori, vero esperto di “boxe” e di altri sport, mi potette illuminare. 

Armando Sales
Al commissariato Ticinese l’ispettore capo Armando Sales, grande capacità investigativa e umanità (scopriva l’ago nel pagliaio), mi segnalò un anziano che, morto in solitudine, era stato scoperto dopo cinque giorni per via della radio che gracchiava di giorno e di notte. “I vicini riferiscono che fosse il fratello o fratellastro di Tina Pica”, la simpaticissima attrice e commediografa napoletana che recitava con Eduardo in “Napoli milionaria”, “Filumena Marturano”, “Questi fantasmi”… e con Vittorio De Sica nel 1953 in “Pane, amore e fantasia”… Avevo conosciuto, anni prima, quell’uomo, basso, sottile, coppola sempre in testa: faceva il posteggiatore di fronte a un residence di corso Garibaldi, dove alloggiava il mio amico tarantino Mario Ligonzo, giornalista al “Corriere della Sera”. Intervistai elementi della malandra, tra cui uno molto attivo nel dopoguerra: si presentò al giornale per illustrarmi il suo spessore e le sue imprese (per la verità io le conoscevo ampiamente). “Dove vivo – mi disse - nessuno crede ai miei racconti e sono convinto che se lei mi scrive un articolo, pubblicando anche la mia foto, si fideranno”. Dopo qualche giorno, uscito l’articolo, lo rividi al “Maurizio Costanzo show”. Mi colpì la vicenda di Samuele Jannuzzi, che continuava a partecipare alla Stramilano dei cinquantamila a dispetto dei suoi quasi novant’anni. Forse era nato di corsa, perché di corsa trattava la corrispondenza alle Poste, tanto da meritare il soprannome di Speedy Gonzales. Me lo trovai di fronte alla scrivania, mi declinò le sue generalità esibì la carta d’identità come prova che gli anni dichiarati erano quelli che si portava addosso. E conobbi Maria Cavalieri, 83 anni, che viveva in un carrozzone da circo in fondo a via Giorgio Castelli, alla Bovisa, una via allora ricca di archeologia industriale.

Il ricciolo d'acqua che attraversa il vicolo dei lavandai
Mi avevano detto che era cugina della famosa Lina, diva del “Cafè Chantant” e delle “Folies Bérgère” prima di diventare apprezzatissima cantante lirica. Voce splendida, bellezza notevole, considerata da D’Annunzio la massima testimonianza della Venere in terra. Maria non aveva nulla a che fate con palcoscenici, canzoni e brani lirici: per lavoro aveva seguito i luna park, scattando fotografie agli spettatori. Mestiere ereditato dai suoi genitori. Ricevendomi cordialmente, Maria mi invitò ad entrare nel suo guscio da lumaca inchiodato su un praticello. Mi mostrò una folla di bambole e tanti ritratti ingialliti disposti sul piano della cristalliera. Mi presentò Polli e Pallina, due cani dagli occhi languidi con la cuccia vicino a un tramezzo tra l’ingressino e la cameretta. La sollecitai a parlarmi di Lina e mi disse poche cose: “Era bellissima, aveva una grazia invidiabile. La sua vicenda artistica ebbe inizio nel 1900 e cantò nei maggiori teatri dell’Italia e del mondo. Appassionato il bacio che dette a Caruso sulla ribalta del Metropolitan. Morì nel febbraio del ’94 sotto un bombardamento aereo”. Non aveva visto il film della Lollobrigida sulla vita della star. 

Luna park, opera di Aldo Cortina
Aggiunse che sull’argomento non avrebbe potuto dirmi alcunchè di nuovo. Sembrava avesse il timore di dare l’impressione di vantarsi. Era una donna riservata, tranquilla, saggia, dignitosa, affabile, con un sorriso dolce. Da trent’anni stava in quell’angolo di Milano, a due passi dai binari della ferrovia. Aveva un ottimo rapporto con la gente, che le voleva bene e la stimava. Teneva in ordine la sua “roulotte”, al centro di una tavolozza di rose e gerani. Le piaceva ricevere visite; e se qualcuno le chiedeva del suo passato, lo snocciolava con tono pacato e senza nostalgie. Mi confidò che un tale le aveva chiesto di fargli alcune fotografie formato tessera, pretendendo di vederle senza aver pagato. “Gli mostrai il cartello che imponeva il pagamento prima dello scatto, ma quello non voleva saperne. La discussione proseguì e mi fratturai l’indice per le tante volte che lo avevo picchiato sul tavolo per rimarcare la mia determinazione”. 

Bertuzzi in vicolo dei Lavandaii
Mi mostrò il dito, dritto come un punteruolo, come un trofeo. Mentre parlava, i cani la seguivano con attenzione, e lei li accarezzava. “C’è stato un tempo in cui di cani ne ho avuti sei. Un giorno di carnevale un ragazzo legò un petardo sotto la pancia del mio preferito, lo fece esplodere e della povera creatura rimase quasi niente. Era una femmina, incinta. La riconobbi dai denti. Non le dico il mio dolore. Mio marito, Costanzo, non c’era più da qualche anno”. Maria mi offrì un bicchierino e al mio rifiuto fece spallucce. Sorridendo. Accese una sigaretta e riprese il discorso. “A Susegana, nel Veneto, fotografai i principi di Collalto; e sui Bastioni di Porta Venezia a Milano un gruppo di giovani che nel ’44 moriranno su un ponte minato”. 

Aldo Cortina
Le aveva cercate tanto, quelle foto, per il desiderio di darle ai parenti delle vittime. Ma erano finite chissà dove. E ricordò la pioggia di ordigni che, sempre nel ’44, cadde sulla città distruggendo tanti edifici, compresa la scuola elementare di Gorla. Maria Cavalieri tirava avanti con un minimo di pensione. Ma aveva il conforto della gente: c’era chi le portava il giornale e chi l’acqua. Spesso la notte sognava il suo lavoro nei luna park, fra il tiro a segno, le giostre, l’autoscontro. Parlava volentieri, anche dei bambini che volevano salire sul trenino che correndo veniva ingoiato dal tunnel dei misteri. Mi parlò anche della sua casa da circo: “Me la feci costruire un pezzo alla volta, a mano a mano che racimolavo qualche soldino”. Mi salutò con rammarico: avrebbe voluto continuare la conversazione. Anch’io sarei rimasto ancora ad ascoltare i suoi “amarcord”, affascinato anche dal silenzio, interrotto di tanto in tanto dall’ansimare di un treno diretto chissà dove. Prima di voltarle le spalle per imboccare la strada del ritorno, le lanciai un ultimo sguardo. Anche lei era bella. Nonostante l’età. Aveva cominciato a seguire i luna park assieme ai genitori, quando era bambina. Con il passare degli anni divenne autonoma. In un padiglione aveva la camera oscura, la macchina fotografica e i fondali. Uno di questi raffigurava un cancelletto spalancato su un paesaggio inondato dal sole. “Era quello preferito dalle coppie di innamorati. Mi piaceva tanto seguire i luna park, andare da una città all’altra, fotografare la gente che bersagliava con le palle di pezza le facce allineate in fondo al baraccone”. Non confidava a nessuno di essere cugina di Lina Cavalieri. Lei era Maria e basta. Con gli anni avvicinai anche qualcuno dei barboni che dormivano, in uno sgabuzzino oltre un muro di cinta, in una carcassa d’auto al Giambellino o su una porzione di terreno erboso dalle parti di Niguarda o sulle scale o nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione Centrale o nei vecchi, tetri spazi che si aprono lungo le gallerie sotto i binari della ferrovia. Qualcuno si era fatto una casa di cartone. Ma questo è un altro capitolo.