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mercoledì 29 settembre 2021

La città vecchia di Taranto

PASSEGGIANDO FRA I TURISTI

NELL’INCANTO DI MARE PICCE

 

Imbarcazioni in Mar Piccolo

E’ bello osservare i profili delle

navi, il dondolio delle lampare, le

trecce di cozze sui pontili, il 

pescatore che ricuce la rete,

seduto sul selciato, ‘u cuzzarùle”, 

la dogana quasi vuota.

 

 

Franco Presicci

“M’addecrèje vedè’ ‘nu tarandìne spatriàte avenè’, acquà abbàsce, ‘a marine, pe’ sendè’ l’addòre d’u mare peccerìdde”. Così mi accolse un pescatore che rammendava la rete seduto sul selciato vicino a un palo della luce. “Uàrdet’attùrne, e po’ dìmme se quìste no’nge jè ‘nu paravìse”. 

Taranto dal Mar Piccolo

Io osservavo l’acqua che faceva dondolare le barche e le trecce di cozze distese sul pontile. Le case erano molto invecchiate, qualcuna aveva gli acciacchi; ori di Taranto, i mitili, conosciuti in tutto il mondo, erano ammonticchiati su un paio di banchi a scale, sotto la tettoia della dogana. “D’addò jè c’avìene?”, mi domandò il pescatore, alzando il capo e mostrando le rughe che solcavano il suo volto. “Da Milano?”. “Ci sàpe quànta stràte è fàtte! Je no’nge m’hàgghie mai muvùte d’o paìse mìje, ca tène sècule de vìte”. Simpatico e loquace, curioso e piacevole nel dialetto, parlando interrompeva il suo lavoro, riprendendolo mentre io gli rispondevo. Mi disse che aveva conosciuto Diego Marturano, c’hà’ scritte ‘a pues’e ’U relògge d’a chiàzze’”, Alfredo Nunziato Majorano, autore fra l’altro di “Zazzarèddire”, c e spesso veniva a visitare Mare Piccolo, per sentire dalla viva voce delle persone i suoni del vernacolo.

Alfredo Lucifero Petrosillo

Ricordava anche Alfredo Lucifero Petrosillo, “c’acquà ‘u canuscèvene tùtte”: ère ìrte, suttìle, tenève le bbàffe ca parevene segnàte cu ‘a matìte”. ‘A pròsema vòte t’hagghià fa fa’ ‘nu ggìre cu ‘a varche ‘nzìgn’o sciardìne de le còzze, ca macàre tù’ no’nge vìste màie”. So che sta qui in Mare Piccolo, ma non ci sono stato mai. Non ho dimenticato niente di questa città, splendida e dignitosa, ricca di colori e di sole. Quando ci torno l’attraverso da un capo all’altro: a piedi quando devo coprire piccole distanze. Per esempio, per andare da via Nettuno a viale Magna Grecia (stavo per dire viale Venezia, come si chiamava un tempo, quando io e il mio amico Francesco Smiraglia, negli anni 50, la raggiungevamo in bici, ammirando la sua distesa di verde, interrotta soltanto dalla clinica l’Ausiello. Mar Piccolo è stato sempre la mia passione. Nel ’51 (se non ricordo male), anno in cui misero mani al ponte girevole e per consentire alla gente di passare da un borgo all’altro architettarono un ponte di barche su cui scrissi un articolo per il settimanale “Il Timone”, di Roma, lo visitavo, e visitavo via Garibaldi, che allora era diversa e non c’erano i pontili che ci sono adesso. I ragazzini si tuffavano per recuperare le monete che i turisti lanciavano in acqua e si sentivano le voci dei venditori di frutti di mare di ogni tipo: “cozzagnàcule”, “iavatùne”, oscre”, “spuènze”... A quel tempo si vedevano ancora le parecèdde” ed erano già vietati i datteri per proteggere gli scogli, da cui venivano estratti. 

Passeggiata lungo il Mar Piccolo

Qualche volta “abbàsce ‘a marine” andavo insieme a quel grande intellettuale, che era Piero Mandrillo, nato a Pulsano, ma innamorato di Taranto più di altri e del suo vernacolo pure, tanto che una di quelle volte che veniva a trovarmi a Milano mi disse che stava studiando il vocabolo ”chiudde”, al quale si attribuiscono tanti significati e quasi tutti poco lusinghieri. Io l’ho usato, qualche volta, al posto di pescatore, ma poi ci ho rinunciato. Anche a Mandrillo piacevano i frutti di mare, “spuènze” compresi, nonostante il loro poco apprezzabile odore. Mandrillo mi accompagnò nella città vecchia, per gustate, sì, cozze pelose, noci di mare e cannolicchi, ma anche lui per sentir parlare il dialetto e captare termini non ricorrenti nel borgo nuovo. Stava molto attento ai racconti di Vincenzo Miccoli, che apriva con rapidità quelle gioie del palato da mangiare subito.

Mar Piccolo
“’U cuzzarùle” aveva le labbra screpolate e non sapeva né leggere né scrivere. Ma capiva le cose al volo. Era nato a “Tàrde nuèstre”, e vi era rimasto, legato alla città come l’edera al muro. Il suo banchetto era proprio di fronte al locale in cui si apriva “Pesce fritto”, il ristorante famoso in tutta Italia, e forse anche all’estero. Dopo una Festa della Matricola ci andai con tutto il comitato e ci unimmo a due marinai americani, che ad ogni costo volevano offrirci vino in continuazione. Uno solo di noi cedette, uscì fuori e lo salvammo a stento da un tutto in mare. Un’altra volta venne a trovarmi un giornalista romano che mi espresse subito il desiderio di pranzare a un tavolo di questo famoso ‘Pesce Fritto’. Immaginando che avrei dovuto pagare io, mi vendetti alcuni libri importanti per non fare brutta figura. La sera le auto in arrivo avevano difficoltà a trovare posto fra le altre cilindrate parcheggiate davanti al locale, ritenuto un’insegna prestigiosa della città vecchia.
Barche al Mar Piccolo

Ne sentivo parlare a Milano, e ne ero entusiasta, perché ascoltando il nome di quel ristorante mi veniva in mente “‘u Màre Peccerìdde” o “Mare Picce”, come lo chiama “don” Alfredo Lucifero Petrosillo in alcune sue opere, che una volta lette ti rimangono nel cuore. E vogliamo evocare i versi di Diego Marturano? Quelli di Nerio Tebano e di Claudio De Cuia e di Diego Fedele, che abitava in via Messapia alle Tre Carrare, ma aveva una lunga frequentazione del borgo antico? Di lui conservo un calendario con alcune poesie: “’U trainìere”, “Le Caggiùne”, “’U rafanìedde”, che Gigante ha inserito nel suo vocabolario della parlata tarantina. Insomma, Taranto vecchia, con i suoi vicoli, i suoi “strìttele”, le sue pusterle, le sue curiosità seduce tarantini e turisti. Mi sono trovato in quella specie di museo dell’artista Nicola Giudetti, che, pieno de “zeròle”, “abbrustelatùre”, “velànze”, “vrascère”,“scarpàre de crète”, “ciucculatère”, “vummìle”, “cammelline”, processioni dei Misteri eseguite da lui, attira francesi, inglesi, tedeschi… Da lì, gli stranieri poi passano in via Garibaldi e magari assaggiano qualche cozza “gnòre” da “’u cuzzarùle” che sta di fronte all’adorato Mare Piccolo, senza urlare la bontà della merce, come fanno altri: “Assaggiàte ‘sta delìzzie d’u màre nuèstre, accattàte, a ’n’òtra vànne no’nge l’acchiàte accussì bbòne”. 

Una vigna

Il dialetto mi affascina. In famiglia mi veniva impedito: era considerato poco dignitoso. Quando venne a farci visita un lontano parente che abitava nella città vecchia, “Ciccille”, che usava soltanto “’mbòte” per tasca, “sckife” per barca, “rèzze” per rete… mi lasciai andare. Prima di nascosto, poi apertamente, anch’io dicevo “capàse”, “’nghianàte”, “pertùse”, assimilando la parlata di “Ciccille”, persona ignorante, ma divertente. Raccontava episodi bellici, e lo faceva con una gestualità filodrammatica. Tornando dalla guerra a piedi con un commilitone riuscirono a salire su un treno affollatissimo. Erano vestiti di stracci e a uno dei due venne l’idea di grattarsi continuamente, inveendo contro le pulci che… si portavano addosso. L’amico capì e subito l’imitò. Gli altri passeggeri, per paura di essere infestati, si allontanarono il più possibile, chi era seduto lasciò il posto e i due reduci potettero stendersi senza smettere di grattarsi per non insospettirli. “Ciccille” rapiva l’attenzione, tanto da farci dimenticare il freddo che ci costringeva a stare vicino al braciere.

Il mare calmo
Sembrava un attore consumato; aveva anche una “vis” comica, per cui provocava risate scoppiettanti. Raccontava in dialetto, l’unica parlata che conosceva, e le sue storie attiravano di più. “Peccàte ca tù’ no’nge parle accum’a mmè’. Làsse stà’ le ìibbre, avìene “abbascia ‘a marine”, addò ‘a ggènde parlè sùle tarandìne e tù’ te ‘mbàre”. Nella città vecchia alla fine ci andai; e ci andai un altro giorno ancora, e poi ancora. E m’inebriavo nel cogliere le voci, nell’osservare la sagoma delle paranze, “’u nazzecàre” delle lampare. I turisti scattavano fotografie al mare, alle facciate delle case, sostavano in piazza Fontana, restaurata dallo scultore Nicola Carrino, che espose alla Biennale di Venezia. Io a volte ero vicino a loro, sentivo i loro giudizi su Taranto. Un signore dallo stile inglese confessò di averla conosciuta troppo tardi; un altro aveva fatto il servizio militare in Marina e ricordava le ronde e qualche ammonimento per una pecca della divisa e le tre cannonate che segnalavano l’ora del rientro in caserma. Uno addirittura riandava alla severità di un noto sottufficiale che si chiamava Di Todaro. E’ bello sentire un estraneo parlare bene della città in cui si è nati. E fa sorgere lo scrupolo di averla abbandonata per cercare altri lidi. Ci sono amori che non muoiono mai.







mercoledì 22 settembre 2021

I miei cari ricordi di Taranto

I TRAM, LE CARROZZE, “’U GRATTA-GRATTE”

E L’AMATISSIMO COLLEGIO MANZONI


Nicola Giudetti
Tantissime volte ho cercato

i pezzi della mia città di un volta

ma restano soltanto nella

memoria.

Ciononostante la bellezza della

“molle Tarentum” è lì tutta da

ammirare.

In un disegno di Mellone
 

 

N.d.R.: Articolo pubblicato oggi in omaggio all'Autore
dott.
Franco Presicci che festeggia il suo venerabile compleanno.

 A U G U R I  DA TUTTA LA REDAZIONE!  

 

 

 

 

Franco Presicci

Quando ero ragazzo a Taranto c’era “quìdde d’u gràtta-gràtte”. Si piazzava con il suo chioschetto tra le vie Dante e Giovan Giovine, “piallava” un grosso e lungo pezzo di ghiaccio e versava i frammenti triturati in un bicchiere, che irrorava di essenze di limone, menta, orzata… Appena arrivava, davanti alla sua postazione si aggrumavano gli avventori, non solo bambini e “uagnùne”, ma anche adulti.

Pialletto p'ù gràtta-gràtte
Se non ricordo male, si chiamava Uelìne, ed era alto e robusto, brioso e gentile. A confezionare, dalle 10 alle 13 e dalle 16, la leccornia era bravo. E più il sole era cocente e più “gràtta-gràtte” smaltiva. Non aveva bisogno di urlare la bontà del suo prodotto, che di solito si consumava sul posto, e quindi al primo assaggio raccoglieva meritati complimenti. Quando diventai più grande, una quarantina di anni fa, in un pomeriggio “africano”, mi venne l’idea di offrire “’u gràtta-gratte” a una ventina di amici e parenti, ospiti nella nostra campagna di Martina, sotto un bel ciliegio che al tempo giusto si arricchiva di orecchini rossi: avevo trovato un “pialletto” in un negozio tra via Dante e via Temenide, quindi ricavai un blocchetto di ghiaccio mettendo dell’acqua in un capiente contenitore collocato nel “freezer”; impugnai l’attrezzo e via con il braccio destro avanti e indietro; ma quando servii i bicchieri si susseguirono le smorfie sui volti della compagnia. E mi ricordai del detto milanese: “Ofelèè fa el to mestè”. Che delusione! Occorreva arte anche nel preparare “’u gràtta-gràtte”. 

'U muraglione
Ero uno dei clienti più assidui di Uèline. Mentre gustavo la delizia (non ne ricordo più il prezzo, essendo passati più o meno 75 anni), lui mi faceva domande, anche sul mio percorso scolastico. Una sera indugiai davanti al chioschetto senza chiedere nulla; e lui: “Beh? ‘U uè ‘u gràtta-gràtte’?”. “No tègne denàre”. “Pàje crèje o pescrèje. Na, pìgghie”. Il giorno dopo non volle i miei soldi. Mi meravigliai, sapendo che i suoi guadagni erano magri. Improvvisamente lo spazio quotidianamente occupato da Ueline rimase vuoto. Dopo giorni di attesa, s’intrecciarono le ipotesi: per alcuni aveva trovato un lavoro al Nord; per altri, era ammalato. Certo che per un bel po’ si parlò di lui, pur non essendo D’Ammacco o D’Addario, entrambi con negozi in via D’Aquino.

Vecchie serrature
Un tale sulla via dei novanta mi accenna a “’na barràcche” in piazza Messapia, che spezza via Nettunoriport, ma non ricorda se vi si confezionassero “granite”. All’epoca frequentavo il Collegio Manzoni, alloggiato in un palazzo signorile di corso Umberto, di fianco alla famosa Agenzia Viaggi Ausiello, di fronte all’Istituto Magistrale “Livio Andronico” e a un tiro di schioppo dal Museo Archeologico. Ci andavo a piedi: passavo davanti all’Arsenale, sfioravo il chiosco dei giornali, e subito dopo m’imbattevo in una signora, che, seduta sul marciapiede con un bambino in braccio, chiedeva l’elemosina. Non avendo soldi, le lasciavo tutte le mattine la mia colazione. Al Collegio a mezzogiorno mi arrangiavo: piluccavo qua e là pezzetti di pane con la mortadella o la salsiccia, distraendo i compagni con racconti western che dicevo di aver visto al cinema la sera prima e invece erano inventati di sana pianta al momento. Rapiti da quelle storie di inseguimenti, attacchi alle diligenze, sparatorie, scazzottature, agguati, “saloon” semidistrutti, bivacchi con il fuoco acceso, riportate con gestualità teatrali, si dimenticavano del cibo. Andavo volentieri al Collegio Manzoni, dove hanno imparato l’analisi logica e le declinazioni latine centinaia di ragazzi, dalla viva voce del professor Agrusta, che era di Martina Franca. Bravissimo e severo, alto e in carne, occhiali alla Cavour, passo felpato. All’ora di pranzo andava a sedersi a tavola con la moglie, che insegnava ai più piccoli nella stanza di fianco alla nostra e ci concedeva un’ora di “relax”, da trascorrere senza fare chiasso o monellate, come imponeva la disciplina. 

Santamato

  • Se qualcuno deragliava, veniva punito con il digiuno. Alle 14 si tiravano nuovamente fuori i libri e i quaderni dai banchi a cassetta con il calamaio di ceramica infilati in un buco, e ricominciavano le lezioni. Uno degli allievi faceva fatica ad assimilare le materie; e il professore ogni tanto, rivolgendosi a lui, sibilava “Ciù-ciù-ciù”, imitando lo sbuffo della locomotiva a vapore. Approfittando dell’assenza momentanea del “precettore”, disegnai sulla lavagna un treno con quella scritta all’interno di una nuvoletta. Confessai il peccato e fui castigato “cu ‘na pèrchie” sulla cucuzza. Anch’io avevo la mia etichetta: “Salsiccia”, per via della cartella di compensato arrangiata da mio padre, che non era falegname, con angolari di metallo. In verità, somigliava a una scatola per gli attrezzi, non per salumi. Non riuscivo a sopportare quel soprannome; e mi sfogai con zio Dionigi, mio saggio e a volte spassoso consigliere. Ma da buon educatore, quella volta si astenne, e intuii quello che avrebbe voluto suggerirmi. L’ora d’uscita dal Collegio era fissata per le 16: ci staccavamo dal banco a uno a uno nell’ordine indicato dall’indice del direttore. Quando toccava a me ero un fulmine; e se in strada correva una carrozza saltavo sull’assale posteriore fino a quando un ficcanaso non urlava: “Alè, alè, alè, ‘u uagnòne stè’ rète”, inducendo il vetturino a far schioccare la bacchetta. Allora le auto erano poche e il traffico non s’ingolfava. Taranto la si percorreva sgambando, e se le distanze erano lunghe si prendeva il tram. Il binario era a senso unico e per evitare che i mezzi si trovassero l’uno di fronte all’altro c’era il binario di scambio in via Di Palma, di fronte al cinema Odeon, dove andavo a godermi i film di Stanlio e Olio.

Scuola Acanfora
Era bella la città con i tram, che ogni tanto scampanellavano se incontravano un intoppo, magari un pedone con la testa nelle nuvole. Spesso erano affollati, con i portoghesi sul predellino pronti a scendere se avvertivano vicina la voce del controllore. I tram erano strapieni soprattutto le domeniche in cui giocava l’Arsenal-Taranto, che vidi in azione sovente quando scrivevo per il barese “Settegiorni”, di Papandrea. Anzi, le prime volte aspettavo con tanti altri fuori dell’ingresso del muraglione, da dove ci lasciavano entrare senza biglietto nello stadio dieci minuti prima della fine, se la squadra locale stava vincendo. Ricordo una spettacolare rovesciata di Costagliola (era lui?), che sarà annotata negli annali della squadra, che poi si trasferì al Corvisea. Amavo il tram. Per me era un arredo in più per la città. 

Attrezzo contadino
Presi “’na scutelàte de mazzàte” per colpa di un bugiardo incallito che aveva riferito a mio padre di avermi visto camminare sulle rotaie in piazza Ramellini. Non era mia abitudine; e non ho mai capito il motivo di quella “bufala”. Ma nel bene e nel male quei tempi sono lontani. Quando ne parlo mi sembra di svelare la vicenda di un altro “uagnunjidde”, che giocava al pallone “sus’u monte de le vàcche”, dove adesso sorge l’ospedale, alle spalle del quale urlavano gli ambulanti di piazza Marconi, poi traslocati in via Fadini. In piazza Marconi teneva un chiosco per la vendita di pasta e cereali Enzo Murgolo, attore teatrale di ottime qualità, nome d’arte Valli forse perché il padre, sottufficiale dei vigili urbani, calcava brillantemente anche lui il palcoscenico. In anni più recenti, Enzo ridestò “’U panarjidde”, che ebbe vita breve e magro successo. Smantellate le linee ferrate, comparvero i pullman. 

La chiesa
Un pezzo della vecchia Taranto se ne andava via o cambiava faccia. Sparivano anche gli slarghi vuoti in terra battuta: in via Dante, tra le vie Leonida e Mignogna quello su cui s’insediavano le giostre con le loro barche dondolanti e gli altri giochi; in piazza Messapia si piantavano alberi e siepi, la stessa chiesa del Sacro Cuore di Gesù prendeva un altro aspetto, spostando l’ingresso. In viale Virgilio allestivano un giardinetto. Ricordo nella Villa Peripato il pavone che apriva la coda a ventaglio quando si sentiva osservato; la balena spiaggiata esposta dopo esservi stata trasportata da un bisonte della strada; la gran mostra dei libri e la serata canora con Joe Sentieri (cantava “E’ mezzanotte, anzi lo era” e faceva il saltello battendo una mano sulla gamba), Anna D’Amico, Miranda Martino, Nuccia Bongiovanni, Paolo Bacilieri…, che fanno ormai parte della storia della canzone. Conservo una foto del tavolo dei giornalisti con Dino Salvaggio in primo piano. Ricordo anche gli stabilimenti balneari, compresi “Santa Lucia” (riservato agli arsenalotti) e quelli sulla via per San Vito: Praia a Mare, Lido Bruno, e quelli che spaziavano sotto il lungomare, come Lido Taranto, il Nettuno, l’Elena; palazzi, negozi importanti. Nasceva viale Magna Grecia, con vie e viette nuove, il mercatino delle pulci alla Salinella, dove invano cercai gli elementi della livoria, il gioco che facevamo in via Nettuno sul grande ”marciapiedi” in terra battuta di fronte a casa mia. poi ridotto Trovai invece serrature e vecchie chiavi, con il buco o senza. Le prime erano oggetto di un gioco pericoloso: riempivamo di zolfo il pertugio, in cui infilavamo un chiodo, collegavamo con una cordicella le due estremità e la sbattevamo contro un muro provocando un piccolo botto. Trovai anche “’u currùchele” e due valve “de parecèdde”, che con il tempo “se sprechelàrene”. Questi miei ricordi saranno affastellati, non osserveranno un ordine cronologico, non avranno un nesso, ma suscitano in me molta nostalgia.








mercoledì 15 settembre 2021

Un incontro interessante a Martina

Giuseppe Bellucci
GIUSEPPE BELLUCCI,VERO ARTISTA

DELLE CAMPANE E DEGLI OROLOGI

 

Le sue opere si trovano, oltre che in

Italia, in Spagna, Argentina, Polonia,

Albania, Israele... Stimato ovunque,

ha ricevuto tanti riconoscimenti ed

elogi. Tra l’altro, è cavaliere di gran

croce dell’Ordine equestre del Santo

Sepolcro di Gerusalemme.


 

 

Franco Presicci 

Giuseppe Bellucci nel suo studio

Il suono della campana oltre a chiamare i fedeli in chiesa per le funzioni religiose, trasmette gioia, crea un’aria di festa, in molti un invito al raccoglimento. I suoi sono rintocchi suggestivi, magici.
Anche quando con ritmo cadenzato si sostituiscono all’orologio, ricordando, per esempio, che è mezzogiorno, e quindi l’ora del pranzo. Incontrare un artista che costruisce campane e rimette in sesto orologi antichi è davvero un’occasione d’oro. E io ho incontrato Giuseppe Bellucci, 59 anni, gentile, premuroso, preciso, puntuale, generoso, nel suo laboratorio di via Pisacane, a Martina Franca, in cui tiene esposti come in un museo esemplari che hanno ciascuno una storia. Giuseppe è persona aperta al dialogo e senza assumere atteggiamenti enfatici li descrive senza entrare nei particolari.

Presicci intervista Bellucci

Gli ho domandato come volesse essere definito, maestro o artista; e mi ha risposto di sentirsi artigiano, soltanto artigiano. Allora gli ho riferito che Franco Cologni, già presidente mondiale di Cartier e oggi padre a Milano della Fondazione mestieri d’arte, ha inserito l’orologiaio nel suo elenco. E se non ricordo male anche in una collana di libri, scritti da veri specialisti e pubblicati in una veste elegante. Comunque Giuseppe proviene da una dinastia di artigiani e lo afferma con orgoglio. Un suo antenato produceva chiodi. Ma, chiodi a parte, anche la lavorazione del ferro in alcuni casi è un’arte. La mia conversazione con Giuseppe, nato nello splendore della Valle d’Itria, è stata piacevole e per me anche istruttiva: è proprio vero che c’è sempre da imparare. Ho ascoltato con molta attenzione e interesse le parole semplici ed essenziali di questo lavoratore infaticabile ed entusiasta, che dopo un ottimo rodaggio da elettricista installatore ha proseguito facendo illuminazioni artistiche nelle chiese di tutto il mondo.

Altra campana, opera di Bellucci
Un giorno, disponendo saggiamente le luci nella chiesa di San Francesco, a Martina, il missionario padre Felice Garau gli ha chiesto di fare l’automazione delle campane. Volendo accontentare il sacerdote e non avendo alcuna dimestichezza con questo lavoro, si è rivolto ai maestri della ditta Trebino, di Genova, famosi dappertutto per gli orologi, in Italia e all’estero. “E passo dopo passo ho imparato il mestiere del campanaro e dell’orologiaio da torre”. In lui si è accesa una passione incontenibile. Ha sempre lavorato, e lavora, con dedizione, con fervore. Mai un passo indietro, mai un rifiuto; e ancora adesso non sta fermo un momento, esporta i suoi manufatti in Spagna, Argentina, Polonia, Kenya, Albania, Israele, Libano, Giordania…. Apprezzato, richiesto, conteso, corteggiato. Con i suoi collaboratori, costruisce strumenti sonori e contatempo di tutte le dimensioni, arricchendoli, dov’è il caso, di stemmi vescovili, fregi, scritte, date, eccetera. Gli orologi, oltre che per i Comuni, li fa anche per i templi. E non si limita a realizzare questi capolavori: tiene lezioni nelle scuole per insegnare ai ragazzi i rudimenti del mestiere, anche nella speranza che possa germogliare un amore per il settore. Tra i suoi clienti annovera anche conventi e monasteri. Compresi quelli di clausura, dove, quando entra, suona il campanello per avvertire le monache della sua presenza, provocando una corsa verso le celle. Trent’anni fa padre Ernesto Caroli, uno dei fondatori dello “Zecchino d’oro” di Bologna, gli ha finanziato la costruzione delle prime campane per l’Albania dopo la caduta del comunismo.

Bellucci, a sinistra, con padre Piccirillo

Durante un pellegrinaggio in Terra Santa ha conosciuto l’archeologo padre Michele Piccirillo, dal quale ha avuto l’incarico di architettare le luci e confezionare le campane. Giuseppe Bellucci dunque è un personaggio importante; ciononostante non si dà arie. Parla del suo lavoro con semplicità e l’interlocutore non perde una parola di quello che dice. Parla con chiarezza degli elementi che occorrono per realizzare una campana, partendo dall’argilla e dalla cera persa per arrivare al bronzo. Se avesse tempo, racconterebbe la storia della campana, le cui origini sono lontanissime e incerte. A proposito, secondo alcuni, sarebbe stato san Pio di Nola, protettore dei campanari, a stimolare nel V secolo l’introduzione della campana con il batacchio interno.

Una campana
“Per completarle, occorrono due o tre mesi. E si segue sempre la stessa tecnica. Sono cambiati solo i forni – dice – che prima erano a legna, oggi a gas”. Informando, guarda l’interlocutore negli occhi. I suoi sono vivaci, penetranti.
 
Bellucci vicino a un orologio

 

 

 

Parla veloce, accenna ai sacrifici necessari per soddisfare i committenti. E’ attirato dal suono, batte con delicatezza un oggetto piccolo e sottile sul bordo di più campane, che nel laboratorio sono ovunque, e simula un concerto, che suscita emozioni. Muove il batacchio, di ferro, di una campana sistemata su una mensola e sorride. “Noi (include anche i suoi collaboratori: n.d.a.) le facciamo e ci occupiamo dell’installazione e dell’automazione”. E gli orologi? “Eseguiamo il restauro conservativo. Ho sistemato l’orologio a torre di Galatina; ad Avetrana restaurato la vecchia macchina e collocata nel museo a scopo didattico; a Martina sulla società artigiana restaurato orologio da torre e campane; a Serracapriola, nel Foggiano, l’orologio da torre”. Ha prestato la sua opera in tantissime altre città e comuni, ma la pagina non è di gomma.

Bellucci con Papa Woitjla presentato dal card. de Giorgi
I riconoscimenti non gli sono mancati: per esempio, è cavaliere di gran croce dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Il cardinale Salvatore de Giorgi, arcivescovo di Palermo, a suo tempo, lo ha presentato a Giovanni Paolo II, congratulandosi con lui per i lavori artistici eseguiti nei luoghi sacri in varie parti del mondo.

Ha infatti messo a disposizione la sua alta professionalità per dare ampio rilievo alle preziosità architettoniche. E accenna alla Basilica del Monte Tabor, di Nazareth; alla Basilica del Santo Sepolcro, di Gerusalemme; alla chiesa della Consolata di Nairobi…, dove ha ottenuto, come sempre, risultati eccellenti.

Alcuni riconoscimenti
Insomma moltissime chiese nel mondo sono illuminate dall’arte di Giuseppe, la cui azienda ha come insegna “Bellucci Echi e Luci”. In una lettera frate Pio Dandola, del Commissariato Terra Santa, gli ha scritto: “Caro Giuseppe, con sorpresa e gioia ho ricevuto e gradito la bella foto che ti ritrae assieme al caro Padre Michele Piccirillo, che avendo provvidenzialmente scoperto le tue qualità professionali, queste gli hanno suggerito di affidarti lavori da lui sognati da tempo…”.

Bellucci e Presicci

 

 

 

 

 

 

Michele Annese e Presicci fra orologi e campane
 

 

 

 

 

E ha aggiunto… “Hai reso così luminosa e splendida la cappella francescana del Calvario proprio in occasione della Festa della Esaltazione della Santa Croce…”. Guardo alcune fotografie in cui Giuseppe Bellucci dialoga con l’arcivescovo Benigno Luigi Papa, con il cardinale Bagnasco, con l’arcivescovo d’Albania mons. Angelo Massafra, con monsignori, parroci, che attestano la sua maestria e l’efficienza degli interventi in cui si è impegnato. Giuseppe è un uomo di fede profonda; frequenta a Martina la Chiesa del Carmine, dove il professor Francesco Lenoci, suo amico, docente all’Università Cattolica di Milano, è confratello onorario dell’Arciconfraternita.

E’ stato proprio Lenoci a presentarmi questo imprenditore geniale, che è anche socio di “Umanesimo della Pietra”, la prestigiosa rivista diretta da Nico Blasi, intellettuale autentico e severo. Martina e i martinesi si distinguono sempre, in ogni campo: nell’arte, nell’imprenditoria, nell’artigianato, nelle professioni, nelle forze armate. Era martinese Guido Le Noci, titolare della famosa Galleria d’arte “Apollinaire” di Via Brera, nel capoluogo lombardo, che dette spazio a tanti artisti d’avanguardia, facendoli conoscere all’Europa; e di Martina sono parecchi giornalisti di valore. Non mi ero mai imbattuto in Giuseppe Bellucci, e neppure Michele Annese, direttore del periodico, che mi ha accompagnato in questa scoperta: calici capovolti che dondolando a volte formano un’orchestra; orologi dall’anima complicata, e l’uomo che mi è stato di fronte per oltre un’ora, sintetizzando al massimo la sua biografia illuminante. Paziente, sorridente, ospitale, che usa spesso e con convinzione la parola rispetto.









mercoledì 8 settembre 2021

Guido Gerosa, giornalista e scrittore

S’INVENTO’ L’INVIATO DI CRONACA

E NACQUERO I RACCONTI DELLA POLIZIA

A destra Guido Gerosa con il direttore del Giorno Lino Rizzi

 

Era vicedirettore e

capocronista, scriveva

libri importanti e in un

lampo la biografia di un

personaggio. 

Un suo intervento al Senato fu

un'autentica lezione di storia. 

Era coltissimo e alla

mano. 

Anni fa se n’è andato oltre le

nuvole.

                                                                     

 

 

Franco Presicci

Più volte ho citato nei miei articoli su “Minerva” Guido Gerosa, un uomo di vasta cultura, un giornalista che girò mezzo mondo e scrisse parecchi libri, alcuni attraversati da una divertente ironia.

Il palazzo del Giorno in via Fava
Lo incontrai per la prima volta nel suo ufficio di vicedirettore di “Annabella”, settimanale diretto da Luciana Omicini, una bella collega dal carattere determinato e dalle decisioni senza ritorno. Ero in anticipo, passai davanti a una porta aperta e vidi Guido che mi rivolse subito uno di quei sorrisi schietti e coinvolgenti. Non capii se fosse un invito a entrare, titubai pensando che stesse lavorando e lui con un’occhiata m’indicò la sedia che stava di fianco alla scrivania. Si alzò, mi strinse la mano e mi venne subito l’idea d’intervistarlo, tanto, compreso il ritardo a cui a volte ti sottopone una signora e la mia abitudine di arrivare agli appuntamenti mezz’ora prima e anche di più, di tempo ne avevo.
 
Gervasutti,Presicci,Lotito
E parlammo tanto, come se fossimo seduti al bar dell’azienda a prendere un caffè. Era il 20 agosto del 1977, fuori faceva un gran caldo, ma lì dentro l’aria condizionata ti faceva sentire quasi come in un frigorifero. Con “Scheda bianca” Gerosa aveva da poco inaugurato la Collana del Sale di Franco Ventura, in cui si inventava dialoghi tra Indro Montanelli e Davide Lajolo, immaginava quattro elezioni anticipate tra il ’76 e l’81 e nell’ultima si andava ai seggi con la sensazione che a conquistare il potere sarebbero stati i rossi e che presidente del Consiglio sarebbe stato Giorgio Amendola. S’immaginava anche che un rogo in piazza sarebbe stato alimentato dai libri di Marx, ad opera di Enrico Berlinguer, che, ripudiato il marxismo, si sarebbe impegnato a dare un volto nuovo al partito. Gli chiesi quali fossero i suoi sentimenti per il capo del partito comunista. “Simpatia”, mi rispose. Ho scritto cose paradossali di fantasia, ma l’ho amato, questo personaggio che sento travagliato nello sforzo di rompere gli schemi del comunismo tradizionale per dare un volto nuovo, diverso alla sua squadra”. E si scusò per i personaggi che in quel libro aveva fatto morire. Per esempio, il principe del giornalismo, ucciso da un noto ministro di Dio con indosso un saio, affiorato dalle acque del lago di Pusiano.
Palazzo dell'informazione

E Guido Gerosa chi è? Domanda ovvia, alla quale lui rispose candidamente che è un giornalista che ha girato mezzo mondo e ha scritto diversi libri. Quello al quale sono più affezionato è intitolato “I cannoni del Sinai”, sulla guerra del Kippur, dove lui c’era stato. E quelle pagine erano un diario-racconto. Gerosa era giornalista e scrittore fertile, per cui di lui si ricordano “Libano”, le biografie di Pietro Nenni e di Napoleone, la fuga di Kappler dal Celio, a Roma… In seguito un ritratto di Craxi, “Le piazze di Lombardia” con la Celip di Nicola Partipilo… Ha scritto tantissimi servizi interessanti, guadagnandosi anche dei Premi importanti. Uno quando è andato a trovare i profughi dell’atomo nel Bikini sparsi nelle isole del Pacifico. Se ne erano perse le tracce e Gerosa andò a cercarli, rintracciandoli a uno a uno, accompagnato dal fotografo Gianfranco Modolo. “Le autorità americane non volevano che io realizzassi questo servizio; e allora noleggiai una nave con un curioso capitano a cui affondavano tutte le imbarcazioni e mi avventurai in quei mari del Pacifico fra tifoni, tempeste e situazioni drammatiche”. Era negli Stati Uniti quando il presidente Kennedy venne assassinato; ha assistito alle grandi rivolte dei neri. 

Zucconi e Giuzzi
Una volta in Alabama, in una città in cui c’è un albergo che riproduce esattamente il Palazzo Ducale di Venezia, durante una rivolta dei neri gli è capitato addosso uno squadrone di cavalleria. Quando faceva l’inviato del settimanale “Epoca” in Italia e in Africa visitò i lebbrosari. Ricordò che padre Mantovani lo invitò a cena e di fronte ai complimenti di Gerosa per il cibo rivelò che lo avevano cucinato i lebbrosi e per poco non fece un salto sulla sedia. Una vita avventurosa fra pericoli, esperienze di ogni genere. A passo spedito arrivò la Omicini, che senza guardare la stanza di Guido marciò verso la sua. La pregai subito di pubblicarmi due righe su una manifestazione avvenuta a bordo della Raffaello e lei senza esitare: “Ma che due righe, ti mandò cinque modelle e un fotografo e pubblichiamo un intero servizio di cinque pagine”. Subito dopo la bombardai di domande su come si confezionava il giornale che dirigeva. Il pezzo uscì una settimana dopo sul “Milanese”, che aveva il vanto di essere stato fondato da Arnoldo Mondadori, anche se di quel giornale rimaneva soltanto la testata. Nel ’79 Guido Gerosa venne al “Giorno” in via Fava, dove fu nominato vicedirettore.
Catania all'epoca della macchina per scrivere

Quando Enzo Catania lasciò la poltrona di capocronista venne sostituito da lui con vice Gigi Gervasutti, valoroso collega (deceduto in questi giorni) che andrà poi a prendere le redini de “La Prealpina”, quotidiano storico di Varese. Guido venne da me e mi disse: “Da oggi tu sei l’inviato di cronaca. Va’ a trovare tutti i poliziotti che sono stati funzionari o dirigenti della questura a Milano e intervistali, ovunque si trovino. Devono venirne fuori articoli che intitoleremo ‘I racconti della polizia’”. Il giorno andai a Venezia, dove era questore Mario Jovine, già capo della Mobile a Milano e vice di Mario Nardone. Mario mi i mando a prendere in piazza san Marco da un motoscafo della questura. A Catanzaro andai a parlare con Vito Plantone, che mi raccontò come aveva catturato un “boss” della mala lombarda e il suo luogotenente in un albergo siciliano. A Torino m’intrattenni con Antonio Fariello, che aveva lavorato a Milano, dove sarebbe tornato dopo qualche giorno nella veste di questore¸ A Como andai a trovare Mario Nardone, che una volta in pensione mi ricevette in casa sua, in via Tortona, nel capoluogo lombardo. Era il 1985 e raccolsi tante storie. Plantone mi parlò anche delle sere che trascorreva per le vie di Catanzaro, assieme al suo autista e un mago fra il miagolio dei gatti. Antonio Pagnozzi degli espedienti a cui ricorrevano per neutralizzare i rapitori. 

La cronaca del Giorno. In 1°piano Presicci
 
Gerosa mi nominò inviato di cronaca e metteva quell’etichetta su tutti gli articoli. Anche quando mi invitò a partecipare a una gara di kajak sul Naviglio Grande e rientrai in redazione tanto bagnato, da essere invitato di andare a scrivere da casa. Mi divertivo. Poi il “Giorno” si trasferì in piazza Cavour e il comando della cronaca passò a Gino Morrone, vice Giulio Giuzzi. Gerosa continuò ad essere vicedirettore, curando le pagine letterarie; recensiva libri con una nobiltà di stile che affascinava. Quando in un volume s’imbatteva in argomenti scabrosi superava lo scoglio con la delicatezza che lo distingueva, e anche con l’ironia intinta in un sorriso. Aveva una scrittura veloce. Se moriva un personaggio alle 10 di sera e mancava per esempio Ugo Ronfani, altro colosso del quotidiano, che di solito svolgeva anche questo compito, lo chiamavano a casa e lui in un’ora compilava il pezzo e lo mandava in redazione. Era gentile, disponibile, alla mano. Aveva lavorato a “La Notte”, uno dei tre quotidiani del pomeriggio che uscivano a Milano, che all’epoca aveva come direttore Nino Nutrizio, stimatissimo e amato da tutti, compresa la concorrenza. Era ancora giovane e si occupava anche di cronaca nera, che continuava ad appassionarlo. Conosceva pescicani e gregari, i loro “curricula”. Grande conoscitore di storia, quando era senatore del partito socialista ascoltai un suo discorso alla Camera dei Deputati che mi tenne avvinto per tutta la durata dell’intervento, concluso fra applausi scroscianti. Il libraio Nicola Partipilo, che era anche editore, mi affidò l’incarico di chiedere a Gerosa se avesse voglia di scrivere il testo di un libro, visto che il precedente, “Le Piazze di Lombardia”, era andato alla grande. Lo chiamai e mi rispose con una voce stanca. Dopo qualche mese, morì. Lo ricordo con affetto e ammirazione. A Bologna, su una bancarella dalle parti di Casalecchio, ho trovato il suo libro sulla fuga di Kappler e l’ho riletto avidamente. Grande Gerosa.





mercoledì 1 settembre 2021

In via Mercadante a Martina

Franco Presicci, Martino Montanaro e Francesco Lenoci
QUANTI PROFUMI DIFFONDE

L’ANTICO PANIFICIO SAN MARTINO

 

In quel tratto di strada così

frequentato turisti e martinesi in

coda per entrare nel negozio che

da decine di anni fa pane, taralli,

focacce, friselle, dolci tipici e

panettoni. 

I clienti vengono anche da Taranto.

 

 

Franco Presicci

Per Ippocrate, il più celebre medico dell’antichità, iI pane ha origini nella mitologia. In nessun archivio esiste un documento che attesti l’anno in cui la prelibatezza abbia fatto la sua comparsa sulle mense, ricche o povere. Si conosce il tempo in cui l’uomo, cominciando a triturare il grano fra due pietre, ne ricavò una farina sia pure non raffinata. Secolari dunque i primi passi compiuti per la fattura del prezioso alimento.     La Roma dei Cesari prese dimestichezza con il pane quando ebbe contatti con la Grecia. E fiorirono i primi forni. In seguito i panificatori si modernizzarono e si associarono; e verso il XVIII secolo si orientarono verso il nuovo, che il progresso consentiva. Il pane divenne anche oggetto di riti e gesti, osservati da molti ancora oggi. Lontanissima e oscura dunque la data di nascita del pane. E antichi la passione, l’arte, il sacrificio, l’entusiasmo di chi lo prepara.

Il pane a trullo

Martino Montanaro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La giornata di MartinoMontanaro, titolare dell’Antico Panificio San Martino nella splendida, solare, ridente città di Martina Franca, comincia alle 3 del mattino. Apre il suo regno, oggi in via Mercadante, indossa il suo camice e impasta la farina, la plasma come il ceramista la creta. Mestiere d’arte, quella del panificatore, anche per le forme, a volte scultoree, che gli artigiani sanno dare a questo cibo. Martino manda nelle case anche il pane con la sagoma a trullo e addirittura il panettone. Non era ancora nato quando mio zio Dionigi, che con moglie e figli villeggiava in una casa incappucciata sul Chiancaro, poi ereditata dalla sua famiglia, mandava uno dei suoi tre ragazzi a prendere proprio il pane a trullo (che piaceva tanto anche al più piccolo, Enio, scrive la figlia Grazia su Facebook) da quel forno, che troneggiava nel punto in cui la stradina, svirgolando dalla nota e lunga Mercadante, prosegue in discesa, biforcandosi. Quando glielo consegnavano, lo zio lo odorava e ne ammirava l’aspetto. “Manca soltanto la palla sulla cuspide”, commentava. Un esemplare lo avrebbe messo in bacheca a futura memoria, potendo. Martino, ora cinquantatreenne, aveva 7 anni quando entrò nel forno la prima volta, al seguito del padre, Carlo (all’epoca commesso di fiducia dell’opificio), con l’intenzione di avviarlo al mestiere. Ma lui poteva solo fare da maestro, al ragazzino, che,, sveglio e ben disposto, quel mestiere ce l’aveva nel sangue.

Via Mercadante

Con il passar del tempo anch’io, avendo casa in via Vittorio Alfieri, ma non soltanto per questa vicinanza, comperavo il pane e le frise nell’Antico Panificio San Martino. Se stavo in campagna, cinque chilometri dal paese su via Mottola, non cambiavo l’abitudine. E durante il percorso pensavo a zio Dionigi, uomo di notevoli virtù., scomparso da tantissimo tempo, a Taranto, la sua culla. Dello storico panificio, mi sono incontrato giorni fa con il titolare, Martino Montanaro, che aveva gli zii, miei amici di una vita, proprio nel tratturo in cui passo le estati. Uno dei due era Giovanni, deceduto mesi fa, a cui mi legava un affetto solido e schietto. Adesso, in quei trulli, bianchi come il latte, è rimasto soltanto il figlio, Natuzzo, un bravissimo ragazzo, che quando parla fai quasi fatica a sentirlo. Martino è gioviale, basso, in carne, gli occhi come olive di Gaeta, loquace. Conversando con lui, mi è venuto in mente il professor Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica di Milano, conferenziere apprezzato in tutt’Italia. Tema: “Creazione di Valore”. Si è occupato anche del pane, parlando a Laterza, ad Altamura, a Matera... E gli ho telefonato. Aveva passato la giornata facendo fotografie a Bari, Molfetta, Acquaviva delle Fonti… e stava rientrando a Martina con Enzo Rocca, vicedirettore generale del Credito Valtellinese, a sua volta fotografo eccellente.

Nicola Giacobelli
Brioso e abbronzato, è entrato sorridendo nel laboratorio di Martino, fra grosse macchine che non saprei descrivere e un’ampia sala con un bancone e scaffali per la vendita. Rocca ha puntato l’obiettivo, mentre Lenoci bombardava Martino di domande. Sempre curioso, sempre interessato alle attività umane, al loro impiego, alla loro utilità. E’ orgoglioso, Martino, del suo mestiere. Parlerebbe a raffica del pane e dei suoi ingredienti: della farina, del lievito naturale, del sale, ma soprattutto della storia del suo forno, davanti al quale ogni giorno si mettono in fila martinesi e turisti; e del vecchio proprietario, Luca Dimarco. Andava a scuola e a bottega, lasciando poco spazio al divertimento. Consapevole dei sacrifici a cui andava incontro (alzarsi per esempio ogni mattina alle 3 non è uno scherzo e oltre a farlo, il pane, occorre anche distribuirlo) non ha mai avuto un attimo di ripensamento. Una gioia per lui preparare, oltre al pane, frise, taralli… eseguiti ispirandosi alla tradizione martinese. Chissà che cosa penserebbe zio Dionigi vedendo l’evoluzione dell’Antico Panificio San Martino o tagliando il suo pane tenendolo quasi abbracciato, con delicatezza, quasi con atteggiamento religioso.

Il pane è un alimento sacro, un dono del Signore, diceva suo zio canonico penitenziere, don Martino Calianno. Farina e fuoco, acqua e la mano, il cuore dell’uomo. Ci sono stati momenti nella storia in cui i poveri mangiavano soltanto pane senza companatico. Anche di questo parlavamo con Martino Montanaro, prima che arrivassero Francesco Lenoci ed Enzo Rocca dal loro safari fotografico. Francesco ha preso la scena ed è entrato nel ruolo di pellegrino della cultura. Ascoltarlo è sempre un piacere. Parla con naturalezza, spazia in vari argomenti. Per il pane poi ha una predilezione, gli ricorda la mamma, che lo ha educato al bello e al giusto, gli ha inculcato la fede. Francesco, tra l’altro, è fervido devoto di don Tonino Bello, di cui diffonde il messaggio di pace universale. Il pane, dice, è un re.

Martino al lavoro

E’ il primo elemento che si mette sulla tavola. Vero, Martino? “Certo che è così”, ammette questo appassionato panificatore, che ha sulla scrivania la foto che lo ritrae assieme al padre, per lui un mito, un esempio, un emblema. Stando davanti a Martino e a un suo collaboratore, non riesco a non pensare agli anni del Chiancaro, addirittura a quelli della guerra, quando i bombardamenti su Taranto ci svegliavano di soprassalto e dal piazzale di fronte al trullo guardavamo l’orizzonte che s’infiammava. Ricordi lontani, che nei vecchi come me hanno lasciato tracce che non si rimuovono. Meglio tornare a Martino, lavoratore instancabile, felice della sua opera quotidiana. Franco Cologni, già presidente mondiale di Cartier e creatore della Fondazione Mestieri d’arte, a Milano, ha sicuramente inserito nell’elenco il panificatore, accanto al vignaiolo e al tipografo. Di Martino si sono occupati giornalisti specializzati. Io do la parola a Nicola Giacobelli, saggio, versatile e intelligente, concreto, che può dire la sua sull’Antico Panificio San Martino. Abitava in via Gioberti, sotto l’arco “d’a Porte Strazzàte” e la mamma, Giuseppina, “a Fagianella”, perché di Faggiano, si alzava alle 6 di mattina per andare a comperare un chilo di pane per la famiglia e il filone per Nicola, oggi ancora un bel ragazzo di 54 anni, capelli ricci, lavoratore stakanovista. A casa lo farciva per bene e lo incartava. A mezzogiorno il ragazzo lo mangiava seduto sui blocchetti della ditta della zona industriale, dove lavorava.

Luca Dimarco
“Sono passati 40 anni – ricorda Nicola – e già l’Antico Panificio San Martino era famoso non solo in città”. Da allora l’azienda si è ampliata, ha più locali modernizzati e si avvale dell’opera di familiari e di alcuni collaboratori. Per concludere, leggo ciò che ha scritto la dolce, sensibile poetessa e giornalista Teresa Gentile: “C’è magia nell’arte della panificazione. In tempi ormai molto lontani, alle 4 del mattino a Martina si alzavano aitanti apprendisti per recarsi a lavorare a lungo la pasta lievitata in un’ampia stanza del Panificio San Martino. Cantavano, scherzavano, come amano fare i giovani. A volte gareggiavano anche nel creare con quella pasta delle forme artistiche e invitanti. Poi interveniva il mastro fornaio per richiamarli all’ordine e sollecitarli a creare friselle, taralli, fragranti biscotti, focacce con diversi ripieni, sfilatini e tant’altro… Erano tempi in cui tutti avevano come merenda nelle cartelle di cartone due fette di pane fatto in casa e due fichi secchi… Alle 7.30 noi ragazzi prima di andare a scuola, a piedi e insieme, spesso ci soffermavamo presso la vetrina a mangiar con gli occhi quelle focaccine al pomodoro… E dopo Natale o Pasqua, riuscendo a mettere da parte qualche soldino, eravamo pieni di gioia quando potevamo gustare qualcuna di quelle prelibatezze. Quella focaccina… aveva un sapore straordinario: quello della conquista, della vittoria di un’innata timidezza e un sapore di vita, genuinità e un caro ricordo di giovinezza da custodire nel cuore!”. Bel ricordo della signora del Salotto di Palazzo Recupero. Fata Teresa, dal sorriso delicato e comunicativo.


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ABBRACCIANDO QUEL CORAGGIO-DA UNA MISSIONE DI PACE IN AFGHANISTAN. TESTIMONIANZA DIRETTA DEL TEN.COL. PIER GIORGIO FARINA