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mercoledì 25 marzo 2020

Il coronavirus corre come un bolide

SE NON LO AGEVOLIAMO SI DOVRA' PUR FERMARE


La gente alle finestre durante i suoni


A Milano finalmente hanno capito
che bisogna stare a casa. Le strade
sono deserte, lunghe le file davanti
ai supermercati. Chiusi i giardini e
i parchi; carabinieri, polizia e vigili
urbani per bloccare chi non rispetta
i provvedimenti del governo.









Franco Presicci

Mai vista Milano così. Strade deserte, chiusi parchi e giardinetti, saracinesche abbassate, silenzio interrotto dall'ululato delle sirene delle ambulanze... Tutti agli arresti domiciliari imposti dai provvedimenti governativi emanati per vincere la battaglia contro un nemico invisibile che uccide come un cecchino.

La lunga coda per la spesa
Alle sei della sera e tre ore dopo da un balcone un'ondata di musica avvolge anche i condomini vicini; la gente si affaccia alle finestre, sventola bandiere e fa dondolare le luci dei telefonini o delle torce e sventola le mani come ai concerti o allo stadio. E poi una valanga di applausi, mentre il suono si placa e una voce promette un altro appuntamento. E' un modo per reagire alla clausura, un abbraccio ideale, un incoraggiamento, un'esortazione alla speranza che questo flagello sia sconfitto quanto prima, e anche un abbraccio collettivo, un breve sollievo, un'espressione di vicinanza a chi ha una persona cara in quarantena o all'ospedale in terapia intensiva. Ne usciremo? E come? Mi domandava al telefono un amico, che ha avuto un bimbo da poco e ha paura di renderlo orfano. 

Strada deserta

Ne usciremo?, mi ripete. Chi può saperlo? Confidiamo nei medici, che, eroi del nostro tempo, ce la stanno mettendo tutta per farci uscire dall'incubo; e ringraziamo i volontari e i cosiddetti angeli del fango, che portano la spesa a domicilio a chi è molto anziano e non può muoversi; e gli infermieri che stanno affrontando, anche loro, fatiche immani, rischiando la vita. Stiamo assistendo a scene antiche, con i camion dell'esercito al posto dei carretti per portar via chi ci ha lasciato la pelle senza la presenza di un parente. Un altro amico mi telefona per salutarmi, avere notizie della mia salute e giacchè c'è mi domanda che cosa faccia durante la mia reclusione. Niente di eccezionale: quello che facevo prima: scrivo, leggo, guardo la televisione. Ma la televisione, il telegiornale, acuisce l'angoscia, incute rabbia - incalza l'amico ricordando le immagini di chi disobbedisce ai provvedimenti di contenimento e se ne va tranquillamente a passeggio.

Silenzio nelle vie
Altra strada deserta vista dalla finestra

Terribile l'episodio di qualche settimana fa di tutti quei giovani alla movida in corso di Ripa Ticinese, che fiancheggia il Naviglio Grande; e incivile quel gruppetto di ragazzi, uno in particolare, che ha inveito contro i carabinieri che consigliavano di tornare nelle loro abitazioni. E difficile capire che dobbiamo stare a casa?        L'irresponsabilità, l'incoscienza, il menefreghismo, il gusto della trasgressione agevolano il cecchino. Accendere la tivù per assistere a questi spettacoli? Non se la sente. La televisione dà anche informazioni utili, suggerisce ciò che si deve fare per la salvezza. Certo. Ma non reggo all'elenco quotidiano dei ricoveri, dei morti: aguzza la paura, l'inquietudine. In guerra spesso vince il coraggio commento - e questa è una guerra, a cui dobbiamo partecipare per non vanificare gli sforzi di chi sta in prima linea. La lettura? riprende lui -Va bene quando sei sereno, ma quando hai qualcosa che ti assilla, quando sei terrorizzato al pensiero di quello che ti può accadere, e su quello che fissi l'attenzione. Ho letto su facebook la trepidazione di una giovane amica.

Ospedale Niguarda
Abita nei pressi dell'ospedale Sacco, vive da sola, ha i genitori e il nonno a mille chilometri di distanza, li può sentire per telefono. Soltanto adesso mi accorgo di quanto stia lontano da loro.. Poi conclude: State a casa, per amore del cielo, state a casa, perché quello che si vive qui non dobbiamo farlo vivere a nessuno. Ascoltatela.
Non giocatevi la vita e non mettete a repentaglio quella degli altri. Un ex collega mi chiama per darsi e darmi conforto. Per ammazzare il tempo si fa lunghe partite a scopa con il padre anziano, la mamma e la sorella. E quando non ne ha più voglia riprende in mano La Divina Commedia. E mi recita il trentesimo terzo canto dell'Inferno. La bocca sollevò dal fiero pasto/ quel peccator, forbendola a' capelli/ del capo ch'elli avea di retro guasto: il conte Ugolino. Lo ascolto, perché mi piace la sua dizione (ha fatto teatro, a suo tempo). Gli ricordo Sordello, e lui: Ahi, serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta. E continua. Poi si sente il sibilo di una sirena e s'interrompe. La voce gli si fa cupa: E tu, oltre a scrivere?. Leggo il quotidiano, un libro di Carofiglio o di Bufalino o di Ignazio Silone, preferibilmente Fontamara (li ho già letti un paio di volte), un libro di Ferruccio De Bortoli, di Federico Rampini, il Canzoniere di Francesco Petrarca, che immortalò Laura. Ti prego, dimmi qualche verso, anch'io lo adoro, fin dai tempi del liceo. Mi imbarazza, ma lo accontento: Solo e pensoso i più deserti campi vo' misurando a passi tardi e lenti e gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio uman la rena stampi. A lui piacciono le rime del vecchierello che alla sua età vuol lasciare la famiglia sbigottita per andare a Roma. Ma non è questo il tempo di mettersi a declamare rime e racconti. Aggiunge: Secondo te, sarà vero che la pandemia farà incrementare le nascite e le richieste di separazione fra coniugi? Che domanda. Posso pensare che sia possibile, ma oltre non posso andare: non sono l'oracolo di Apollo. 

Luci accese durante il concerto della sera
E non vorrei esserlo, se no t'immagini la fila? Sarei in grado anche di dire quando finirà questa strage e come saremo domani. A giudicare da quello che si vede e si sente, aumenteranno le persone sagge ma altre rimarranno tali e quali. Questo diabolico coronavirus, così chiamato forse per la sua struttura ha commentato l'altro giorno una signora che è venuta a bussare alla nostra porta, per dirci che nella via di fianco alla nostra c'era una coda di mezzo chilometro o quasi per arrivare al supermercato per la spesa non lo dimenticheremo più. Si propaga con la velocità di un bolide ed è inesorabile. Mentre scrivo il giovane del condominio ci regala altra musica. Le serrande vengono alzate, riaperte le finestre, sciorinate le bandiere, la gente applaude Felicità, di Albano, Volare, di Domenico Modugno, Caro amico ti scrivo di Lucio Dalla e qualche brano rock. Gli ascoltatori urlano, battono le mani e condividono l'appuntamento per la sera. Io dopo mi vedrò Il commissario Montalbano di Andrea Cammilleri. Questo scrittore mi piace e mi piace anche Zingaretti; mi piace Catarella (mi meraviglio che quella porta resista ancora alle sue spallate); mi piace il dialetto siciliano. E mi piacciono le storie raccontante in quegli sceneggiati. Ma tra un piatto di triglie fritte al ristorante di Calogero e una delizia gastronomica preparatagli dalla cammarera Angelina, che mandano in estasi il famoso commissario di Vigata; tra un macari e un che me veni a significari? la mia pena sbiadisce per riaffacciarsi al termine della pellicola..Ci pensa il telegiornale con la lista dei deceduti, dei nuovi ammalati, delle persone in quarantena, delle città più colpite, delle mascherine che non arrivano e dei loro prezzi che lievitano se si ha la fortuna di trovarne; dei macchinari che scarseggiano; dei medici e degli infermieri che soccombono dei morti portati via come pacchi Nei cimiteri non c'è più posto, per i morti; sulle bare nessuno può versare una lacrima, una preghiera, un bacio. Tutte le trasmissioni televisive continuano a ripetere che è necessario stare a casa, mantenere le distanza tra l'uno e l'altro e c'è chi prende la costrizione come le prigioni di Silvio Pellico. Alcune città sono diventate zone rosse o zone gialle, Bergamo è allo stremo, Brescia pure, Milamo no sta senza pace. E' un flagello. Dobbiamo collaborare tutti. Non essere intolleranti alla clausura. Anche se si deve stare con le braccia conserte, si pensi al bene proprio e a quello degli altri. Il covid 19 falcia senza pietà.


mercoledì 18 marzo 2020

La cascina Linterno a Milano

Folcia all'opera


OASI DI SILENZIO E DI PACE

IN CUI ABITO’ IL PETRARCA

Il cecchino che impazza implacabile
ha sconvolto le abitudini della gente.
E anche la Cascina Linterno, guscio
architettonico in cui abitò Francesco
Petrarca, ha dovuto sospendere l’attività
che in un anno richiama 20 mila persone.
I fratelli Bianchi, angeli custodi del luogo,
attendono che l’emergenza si concluda.






Franco Presicci

Il cecchino che spietatamente imperversa in tutto il mondo ha cambiato le abitudini delle persone, facendo disertare le vie, le piazze, i locali, i musei, ogni luogo di aggregazione. I baci e gli abbracci sono sconsigliati, imposti gli arresti domiciliari per sconfiggere il nemico. I nipoti devono stare lontani dai nonni. In tutte le città: al Nord, dove il killer impazza, e al Sud.
Manifestazione alla Linterno
Prima o poi, come ci auguriamo tutti, il ciclone passerà e riprenderemo i nostri ritmi, esprimendo la nostra riconoscenza a medici, infermieri, collaboratori sanitari per il coraggio, la fatica, l’eroismo, l’altissima professionalità e l’umanità di cui hanno dato prova. Le persone potranno riprendere a circolare, rianimando le città. E i cittadini potranno andare da un paese all’altro senz’alcuna autorizzazione. Come prima dell’emergenza. Quando i milanesi, per esempio, appena potevano, evadevano con allegria. Da soli o con mogli e figli al seguito, o con un codazzo di amici e parenti o di soci del sodalizio d’appartenenza. Li si vedeva pedalare sulle sponde del Naviglio Grande, fermarsi ad osservare chiese, castelli, cascine, casolari… Il sabato e la domenica, soprattutto.
Aia di Cascina Linterno
Altri affollavano il Parco Nord - così vasto da comprendere più paesi attaccati a Milano - dove gli anziani giocavano a bocce, senza agitarsi quando una palla schizzava contro una concorrente vicinissima al pallino; i giovani facevano acrobazie sulla bici; le signore passeggiavano o si godevano l’aria conversando, sedute su una panchina. Al Parco Nord la gente socializzava, lieta di non sentire i rumori della metropoli e di non essere investita dai fumi delle cilindrate. Qualcuno ammirava gli orti, che fioriscono ai margini di quella spianata di verde con le sue costellazioni di colori: pomodori, melanzane, peperoncini, cetrioli e quant’altro; o le sculture che Giuliano Folcia, ultraottantenne (deceduto da un anno), realizzava trasformando gli alberi morti in una testa con il cappello di alpino o in uno scoiattolo o in un coccodrillo, circondato da un nugolo di curiosi. Folcia era il nonno del Parco Nord. Alle 8 del mattino da piazza Belloveso cavalcava la sella e si dirigeva in quest’oasi di pace.
Altri milanesi sceglievano una seconda casa sulle colline di Como o sul Lago Maggiore o in Valle Imagna o nel Pavese, per trascorrevi i “week-end” o il periodo estivo o le feste consacrate. 

L'aia vuota
“Il mio sogno è una cascina, magari piccola, dove poter allevare conigli e galline e installare una voliera e riempirla di canarini e diamantini”, che all’alba danno la sveglia con un concerto di cinguettii - mi disse il mio amico Pietro Carrideo, che ha le mani d’oro e un passato al volante del suo taxi tra gli ingorghi della circolazione, accumulando tra l’altro esperienze umane notevoli. Aggiunse che si era innamorato di queste strutture, andando ad acquistare la legna per il camino installato nella taverna di casa da Antonio Sirtori, un contadino proprietario a Rovagnasco, quartiere di Segrate, di una di queste luci che brillano nonostante il tempo che galoppa. Pensai ad un’altra architettura rurale, la Linterno, in cui trascorse nove anni Francesco Petrarca, soddisfatto del silenzio e della solitudine che il luogo gli consentiva. C’ero stato più volte e vi avevo conosciuto i fratelli Bianchi, Angelo e Gianni, tra l’altro divulgatori appassionati della storia agricola di Milano e della Lombardia.
Cascina lungo il naviglio
“Ecco – risposi a Pietro – puoi realizzare il tuo sogno trascorrendo qualche ora in un luogo ameno che ristora lo spirito e arricchisce culturalmente. Si trova in via Fratelli Zoia, in fondo a via Forze Armate. Non puoi viverci, ma viverlo, sì”. Lo stesso suggerimento detti ai commensali durante una cena di lavoro. Lasciavano la metropoli soltanto per le ferie, ma nel resto dell’anno sentivano il bisogno di stare assieme ad altri, di comunicare. Condividevo quel sogno. Per me la cascina è casa, rifugio, conforto, aria pulita, guscio, serenità. E altro ancora. Chi ha la fortuna di abitarci la mattina apre gli occhi, si affaccia alla finestra, beve il sole e si gode il panorama. Non avendo un gioiello così, mi consolavo visitando quelli che conosco. E provavo piacere nell’osservare le strutture sapientemente restaurate che diffondono gli odori di un ristorante o le voci di un’associazione culturale o dei visitatori di una fornace, come quella di Curti in via Walter Tobagi, nei pressi del Naviglio Grande. Adoro le cascine, fulcro del lavoro contadino. Ne ho visitate tante, anche per motivi professionali. 

Cascina Linterno di G Bianchi
E sento amarezza al ricordo di quelle che sono state azzannate dalle benne della ruspa, magari di notte o nella calura agostana, quando la gente era altrove e non poteva protestare per lo scempio. Mettendo piede in una cascina, mi viene in mente la fatica dei lavoratori, come il cavallante, che si alzava prestissimo per governare gli animali e rientrava a casa al tramonto; il “camparo”, supervisore di tutte le attività legate alla terra… Quando si parla di cascine, mi lascio assorbire dalla Linterno, dove Angelo e Gianni Bianchi sviluppano tante iniziative culturali, spiegando al pubblico, sempre più folto, l’organizzazione de complesso di un tempo, il lavoro agricolo, i compiti dei dipendenti, la produzione… tutti argomenti interessanti, tanto che in un anno si contano 20 mila presenze nei 90 eventi realizzati. Adesso l’attività è sospesa per colpa di quella bestia, che sta demolendo migliaia di persone. Ma verrà sopraffatta, ripeto, ridotta all’impotenza. La cascina Linterno, a corte chiusa, per difendersi dai malintenzionati all’epoca frequenti, è famosa non soltanto a Milano, e sta a cuore anche a molti intellettuali della terra del Porta. Per esempio, in uno degli ultimi incontri, su poesia e cultura milanese, Tullio Barbato, direttore di Radio Meneghina, scrittore e già autorevole giornalista del quotidiano “La Notte”, da tempo scomparso, ha intervistato Lamberto Caimi, per anni direttore della fotografia dei film di Ermanno Olmi e documentarista. Quello dei Bianchi è un impegno ammirevole, battezzato con il nome di AgriCultura, essendo questo il tema prevalente di una buona parte dei progetti, che non trascurano il dialetto milanese, raccontato da esperti del settore. Una signora, assidua alle manifestazioni di questo angolo pieno di storia, ricorda lo slogan coniato dai due anfitrioni: “Il quartiere nella cascina e la cascina nel quartiere”. Ci riescono in pieno. 

Visitatori della Cascina Linterno
E siccome la cascina va tenuta in ordine, quando occorre vengono mobilitati gruppi di volonterosi, giovani e non, per dare una mano a pulire anche i dintorni. “Teniamo pulito il mondo”, il motto. Ho parlato spesso con i fratelli Bianchi, gentili, disponibili, ospitali, laboriosi, autori di libri notevoli, tra cui “Vita in cascina”, presentato come un quadro di una civiltà che la memoria non cancella. “Nel nostro programma – mi ha detto Gianni – fra i temi trattati o da trattare durante l’anno le vicende passate della Linterno, la data di nascita delle marcite, delle polle d’acqua sorgive”, elogiate dal Poeta che immortalò Laura nel ‘Canzoniere’…. E abbiamo parlato anche di lui e dei suoi giorni in questa beatitudine, nella quale curava l’orto e rivedeva i suoi versi; del pret de Ratanà, che abitava in una villetta a due passi da qui; e del Parco delle Cave… Teniamo molto a ravvivare l’attenzione sulla materia dell’agricoltura…”, continuando con cenni ad altre occasioni di aggregazione, come i falò di Sant’Antonio… e la festa di San Martino… Per inciso, ho visto bellissimo un video in cui Angelo spiega a un cronista i cicli di produzione nella cascina. Chiedo a Gianni: ”La cascina aveva, come altre, lavoratori addetti alle diverse funzioni, come il responsabile dell’irrigazione dei campi o lo ‘strapazzone’, un tuttofare?...”.
Cascina Linterno
“La cascina Linterno è sempre stata un’azienda multifunzionale con attività zootecnica, agricola, artigianale, con carrettieri, maestri d’ascia e altri artigiani, orticoli…; ed è sempre stata in simbiosi con la città, rispondendo ai suoi bisogni. Per la città produceva verdure, che si vendevano al Verziere…. La città aveva bisogno di cavalli? Si allevavano quadrupedi; la città aveva bisogno di latte? Si tenevano mucche da latte. Aveva bisogno di spazi? Si provvedeva”. “Quando è apparso questo gioiello?”. “La più antica testimonianza è una pergamena del 1154. I fontanili c’erano già nel 1300”: Il Poeta antesignano della cultura rinascimentale, Petrarca, ne parla in una lettera. La Linterno non era una grande azienda; ed era l’unica cascina dei dintorni con una chiesetta, edificata nella seconda metà del ‘700 e consacrata il 9 ottobre del 1754, come risulta da una testimonianza dell’archivio parrocchiale della chiesa di Trenno. Ha in alto una piccola finestra, oltre la quale stava il coro e tradizionalmente la stanza del Poeta. “E l’Associazione Amici della Linterno?”. 

La luce del cielo investe la cascina
“L’abbiamo battezzata nel 1995, quindi ha compiuto 25 anni”. “Siamo un’associazione di volontariato, con lo scopo di salvaguardare la cascina, di difenderla da interventi speculativi, con la conseguente tutela dell’ambiente e del territorio circostante, compreso il Parco delle Cave; di mantenere l’attività agricola; di divulgare la sua storia, gli usi e i costumi rurali”; non tralasciando “la difesa del patrimonio della collettività; il recupero e la conservazione di strutture, spazi e manufatti, altrimenti destinati all’abbandono oppure ad uso improprio che stravolgerebbero la natura originaria”. Propositi nobili, che i fratelli Bianchi osservano con costanza e competenza. Impiegano tutte le loro energie per tenere alto il nome e il prestigio della cascina: hanno allestito l’incontro su “Economia circolare e Civiltà del mais” con una festa della polenta; Il primo marzo era in programma il tema “Poesia e dialetto: binomio perfetto”, ma il coronavirus si è messo di traverso. Ma presto – è l’auspicio – si tornerà a dire: “Ci vediamo alla Cascina Linterno”. 















mercoledì 11 marzo 2020

Grande riparatore di orologi antichi


La bottega di Gregato

GIORGIO GREGATO RIMISE IN MOTO

IL CONTATEMPO DI SAN VITTORE



Era fermo da cinquant’anni e gli 

restituì la vita gratuitamente.

Un professionista noto a apprezzato.

Ha restaurato oggetti antichi di

grandi collezioni pubbliche e private.






Franco Presicci
Cominciai ad amare gli orologi antichi, visitando il museo Poldi Pezzoli, che si trova in via Manzoni a Milano, uno scrigno di oggetti preziosi, regalati alla città nel 1879 dal ricco mecenate Gian Giacomo che fino a quell’anno aveva dimorato nell’edificio che ospita quei tesori (non soltanto orologi). “Entrarci - scrive Micol Arianna Beltramini nel suo libro”101 cose da fare a Milano almeno una volta” - è come entrare in una specie di enorme salotto con mobili e arredi di fine Ottocento”.
La Galleria
Gian Giacomo, nipote del principe Trivulzio, aveva la passione del collezionismo, quindi prese a raccogliere armi ed armature e poi oggetti d’arre, tappeti... Nel museo, d’importanza internazionale, fondato nel 1881, si passerebbero intere giornate a voler osservare tutte quelle opere d’arte, tra gioielli e armi dall’epoca romana fino al Settecento, ceramiche dal valore inestimabile... Quando Antonio Baroni, già direttore di “Confidenze” e poi del “Milanese”, mi pregò di andare a fare un giro in quel Museo, che è a due passi dalla Scala, accettai con entusiasmo. Fu la stessa direttrice, Alessandra Mottola Molfino, ad accompagnarmi nella visita. E ci fermammo un bel po’ di tempo davanti alle vetrine con gli orologi, di cui lei mi spiegò le caratteristiche e la storia.
Via Della Spiga
Ricordo un orologio da tasca con automi, datato 1820, e un grande orologio a proiezione e notturno, del 1860. Veri e propri capolavori, come quelli aggiunti nel ’73 con una donazione di Bruno Falck. Cominciai così a raccogliere notizie sull’argomento, apprendendo che nelle sue “Cronache milanesi”, nel 1309, Galvano Fiamma racconta di un orologio installato sul campanile di Sant’Eustorgio, secondo gli esperti la prima citazione in Italia di un contatenpo da edifico. Fiamma fa anche sapere, nel 1336, di un altro orologio, con un quadrante e una campana che batteva tanti colpi quante sono le ore che scoccano, eseguito da un artigiano di nome Visconti per il campanile della chiesa della Beata Vergine, oggi san Gottardo. Nel 1344, uno di questi esemplari entrò nel Duomo di Milano. Le carte affermano anche che il primo orologio con ruote e scappamento meccanico sarebbe stato introdotto da noi da un gruppo di monaci al tramonto del 1200. 
Giorgio Gregato
Libri a parte, un giorno ricevetti una lezione sulla storia degli orologi da un tecnico di grandi qualità, Giorgio Gregato, noto e apprezzato restauratore di pezzi antichi con laboratorio in via San Fermo della Battaglia 1, perpendicolare di via Moscova, vicino alla Regione dei Carabinieri. Persona gentilissima, mi parlò degli orologi monumentali e di quelli con le dimensioni di un portasigarette, del modo d’intervenire per riavviare un meccanismo che ha smesso di pulsare… Qualche anno dopo, Gregato restituì gratuitamente, nel carcere di San Vittore, all’orologio sovrastante il cancello del corridoio in cui si susseguono gli uffici dei poliziotti penitenziari e del comandante, fermo da 50 anni. Erano le tre del pomeriggio del 20 dicembre del 2006 quando mi presentai nella bottega di Gregato. Dovevo prima passare da una cartoleria aperta in una vietta che porta in via San Marco, per poi andare al “Corriere della Sera” per consegnare un libro su Milano al capo delle pagine lombarde, Giuseppe Gallizzi. Il restauratore di orologi mi accolse con grande cortesia, depose l’attrezzo e la cassa che aveva in mano e m’invitò a sedermi di fronte a lui. Alle sue spalle un orologio a torre e tutt’introno pendole e altri misuratori del tempo di valore. Erano tante le domande che avevo in mente.
Via Solferino
Anche sulla sua biografia. Nato per caso a San Pellegrino (“le bombe massacravano Milano e i miei dovettero rifugiarsi in quel paese, nel cuore della Val Brembana”), non mi disse molto di sé. “Esercito questo mestiere da cinquant’anni. Ho cominciato da quando di anni ne avevo 14 in una bottega di orologiaio in viale Brianza. Il capo era Luigi Pippa, oggi presidente della nostra categoria. ed ex dipendente della ditta Fiumi di via Manzoni, che serviva la crema di Milano ed era considerato uno dei più autorevoli esperti di orologi antichi, oltre che ottimo restauratore degli stessi”. Parlava piano, dando di tanto in tanto un’occhiata al lavoro che due assistenti svolgevano nel retro e sbirciando i curiosi che si fermavano per lanciare uno sguardo all’interno. “Ragazzo di bottega, dovevo conoscere l’orologio nella sua combinazione tecnica e nella sua storia.

Piazzetta dell'Angelicum
Ed era complicato perché bisognava avere dimestichezza con il pezzo, essere al corrente della sua provenienza, austriaca piuttosto che inglese o francese o italiana: ogni regione aveva una sua peculiarità stilistica e meccanica”. Seguivo le sue parole con molta attenzione e interesse. “Il maestro indicava i punti dell’orologio i cui l’allievo doveva guardare, e nello stesso tempo osservava il modo in cui smontava l’oggetto e lo teneva fra le mani per il restauro; e una volta smontato come interveniva conservando la parte meccanica originale evitando facili sostituzioni”. Stavano molto attenti a rispettare l’originalità dell’oggetto. “Per esempio, per la pulitura di un bronzo dorato si smontano tutti gli elementi della cassa (fregi, statue, pinnacoli, piedi, basi) e poi singolarmente s’immergono in un liquido speciale, che è segreto perchè ce lo facciamo da noi”. Aggiunse che a suo tempo aveva restaurato un orologio tedesco del 1500 con varie indicazioni orarie e astronomiche. “Ora è in mostra alla Pinacoteca Ambrosiana”. Ma se decidesse di soffermarsi più a lungo sulle sue tappe professionali, faremmo notte. Ne ha di cose da dire e su molte deve mantenere la riservatezza. Era il restauratore ufficiale di una famosa e prestigiosa collezione privata milanese e aveva restaurato gli orologi di Stupinigi (casino reale di caccia dal 1729: uno dei più grandiosi edifici di Torino); quelli di Palazzo Madama e del castello del capoluogo piemontese. L’anno prima aveva collaborato con l’Associazione italiana cultori orologeria antica alla più bella esposizione d’Europa a Trento, presso il Castello del Buonconsiglio. “Restauro orologi da tasca, orologi a colonna, pendole francesi…”. Tutta l’orologeria antica fino all’alba del ‘900. Parlava e altri curiosi occhieggiavano dall’esterno. Rispolverava la sua carriera senza foga, senza toni di autocelebrazione. “Ho collaborato come esperto, anche scrivendo articoli, con Giorgio Mondadori”. Si capiva la sua grande passione per queste preziosità e anche la sua profonda 
Orologio restaurato di San Vittore
cultura nel settore. 
Orologi comuni

Accennava agli orologi solari, i più antichi, ed entrava nei dettagli; e alla meridiana, costituita da un palo conficcato nel terreno. “Gli orologi hanno spesso incisa sulle molle la data di costruzione; e a volte nell’interno della platina il nome di chi lo ha riparato: Su una di queste platine lessi la scritta: ‘Presto e bene non conviene’. In un’altra, del 1820: ‘Sovrintendente asino’”. Quante curiosità potrebbe riferire, se avesse tempo! ”Di orologi ne ho visti tantissimi, entrando nel loro cuore”. E mentre mi mostrava un gioiello del 1500, che si appendeva al petto come una collana, mi diceva ”che sul punzone aveva notato tre pesciolini incisi”. Nel timore di trattenerlo troppo assottigliavo la lista delle domande. Ma non potevo non chiedergli notizie dei suoi clienti. “Alcuni sono collezionisti, e tutti gelosissimi di questo loro patrimonio. Quando mi affidano un esemplare da rimettere a posto lo fanno come se cedessero un figlio. Sembra che io sia lì a compiere una violenza, pur essendo stato invitato a fare il mio lavoro”. Tutti i collezionisti sono così gelosi delle loro raccolte, che sono costate fatica e ansia, denaro a parte, per entrarne in possesso, che evitano di rivelare agli estranei i pezzi più rari. Se sono di derivazione ereditaria, la carica affettiva è maggiore. Me lo diceva anche Vito Arienti, un grande collezionista di tarocchi storici (aveva carte provenienti dalla Cina e da altre parti del mondo e una cultura straordinaria nell’arte grafica). Giacchè c’ero, feci a Gregato una domanda rituale nelle mie interviste: “Che cosa pensa della Milano odierna?”. “Spostarsi da via Padova a piazzale Loreto, una volta era come andare all’estero. C’erano artigiani e chi ne aveva bisogno non doveva allontanarsi dal quartiere. Anche allora andavo in biciletta. Ed era bello. Oggi con tutto lo smog e il traffico impazzito inforcando la ‘dueruote’ si corre qualche rischio”. Non per niente sono in molti quelli che pedalano sui marciapiedi, mettendo in pericolo i pedoni. Milano è davvero cambiata, pur continuando ad essere bella, anche dove lascia spazio alla campagna. Chi afferma il contrario non la conosce.












lunedì 2 marzo 2020

Trent’anni fa moriva Sandro Pertini


 

IL PRESIDENTE AMATO E AMMIRATO


DA TUTTI IN ITALIA E ANCHE ALL’ESTERO



Dialogava con i giovani, che gli si facevano

intorno per fargli domande e applaudirlo.

Le volte in cui il cronista del quotidiano

Il Giorno” lo avvicinò per intervistarlo.

Una mattina dell’83 portò una bambola

a una bambina ammalata.






                           
           
Servizio di Franco Presicci (nella foto con Pertini)


Sono trascorsi 30 anni dalla morte di Sandro Pertini, il presidente della Repubblica più amato. Uomo energico, di grande coraggio, inflessibile, assicurante, con un passato glorioso, più volte incarcerato sotto il fascismo, esiliato in Francia, destinato al confino, a Ventotene.
Fu presidente della Camera dei Deputati e poi della Repubblica dal ’78 all’85. Ammirato anche all’estro, sempre con la pipa sulle labbra, innamorato di Milano, dove veniva spesso, in visita privata, non mancando di passare da viale Tunisia, dove a suo tempo aveva avuto il suo quartier generale in un paio di stanze, durante la Resistenza. Fin lì due o tre volte lo seguii, dopo averlo intercettato mentre era con Carlo Tognoli, allora sindaco di Milano, e altre personalità. Una domenica il capocronista del quotidiano “Il Giorno”, dove lavoravo, Enzo Catania, dal carattere effervescente e dagli scoppi improvvisi che si diluivano in pochi istanti, m’invitò al bar dell’angolo e offrendomi uno zibibbo, mi sussurrò che il Presidente era ancora a Milano e che bisognava trovarlo. “Ho fatto una promessa a me stesso: se tu lo scovi, non vado allo stadio a vedere la partita”. Era fatto così: vulcanico e spiritoso. Rientrai al giornale, cercai un autista e un fotografo, intercettai il bravissimo Duilio Zanni, e partimmo per la spedizione.

Il Biffi
Il Savini




Era come cercare il solito ago nel pagliaio, perché a quell’ora il Presidente era a pranzo in qualche ristorante, ma quale? Era un’impresa, pur a voler restringere la ricerca ai locali di prima categoria: il Savini, il Biffi, in Galleria Vittorio Emanuele, Il Boeucc, in piazza Belgioioso. Ero un tantino preoccupato, perché, incaricato di un servizio così delicato e tornare con le tasche vuote per me era umiliante. Invocai la fortuna, e quella rispose al mio appello: mentre percorrevamo con l’auto via Manzoni, arrivati all’altezza della Scala ecco il salvatore: un amico che non poteva non essere informato, praticando l’ufficio stampa di Palazzo Marino, dove si dirigeva con passo svelto. Mi catapultai fuori, seguito a distanza dal fotografo, bloccai il corridore e lo interrogai supplicandolo, tenendo presente che era restìo ad elargire notizie. “Pertini, e io che ne so?”. “Dai, ti prego, fammi questa cortesia. Tu lo sai sicuramente. Sei un contenitore inesauribile”. Ebbe un momento di esitazione, mi guardò fisso negli occhi, mi si avvicinò e mi soffiò un nome: “Il Grissino”. 

Gerardo Placido
Non conoscevo quel ristorante, non lo avevo neppure mai sentito nominare. Ma per l’autista la città non aveva segreti: sapeva a memoria non soltanto le strade, ma anche i locali e tutti gli altri indirizzi più importanti. E avviò il motore. ”Ma dove ci porti?”. “Abbi fede: ti porto nel posto dei sogni”. Enigmatico e sorridente. Ci vollero pochi minuti per arrivare davanti al luogo sospirato, nei pressi di piazza Novelli, assediato da una trentina di ragazzi e da qualche anziano, che avendo visto il capannello davanti al “Grissino” vi si era intruppato. Un signore sui cinquanta con due bambini (seppi poi che era parente del Presidente, vedendomi accompagnato dall’uomo con la borsa a tracolla, capì che ero un cronista; e mi suggerì di non osare di disturbare il Presidente nel ristorante, perché non gradiva certe incursioni mentre mangiava. Così placai la mia ansia anche perché tra quella piccola folla non notavo la presenza di alcun esponente della concorrenza. Dopo un paio d’ore la porta del locale si aprì e apparve Pertini con un abito blu e un cappotto dello stesso colore, la pipa in mano, gli occhiali scuri, fra gli applausi, gli urli di gioia, sovrastati dalla domanda di un ragazzo con un giubbotto marrone: “Presidente, per quale squadra tiene?”. Risposta immediata: “Mia moglie, mia moglie, tiene per la Juventus”. Il ragazzo si mostrò contento, anche se lui tifava per il Milan: “Mi piace che la consorte del Presidente tenga per la formazione torinese.” Un altro, gli chiese: “Presidente, l’è piaciuta la serata alla Scala?”. E Pertini: “Bellissima, bellissima. Lo spettacolo era in russo, ma si capiva lo stesso tutto”. E il mio vicino: ”E’ una persona formidabile, eccezionale, ne avessimo tante come lui. E poi ama Milano. 

Catania, Presicci, Chiarelli, Berticelli del Corriere
Milano è la città in cui ha fatto la Resistenza, la città che ha segnato le pagine più belle, fra virgolette, della sua vita, la città in cui vivono i suoi cognati”. Quasi le stesse parole di Pertini, quando gli fu chiesto se amasse Milano e se se ne andasse contento. Nessuno gli sollecitò autografi: erano già felici di vederselo così vicino, il nostro Presidente della Repubblica, che li abbracciava, stringeva loro le mani. Una bambina intimidita si teneva nascosta tra le gambe del padre e il Presidente le accarezzò amorevolmente le guance, dicendole: “Vieni qui, bella, dammi un bacio”. Doveva andar via, ma faceva fatica, in quell’accerchiamento, a coprire i tre metri tra l’uscita del ristorante e la macchina che lo aspettava, anche perché lui voleva esprimere un gesto paterno per tutti; voleva rispondere a tutti, senza preoccuparsi delle misure di sicurezza. Io avevo gìà avuto notizie dal mio interlocutore-parente, che aveva seguito tutto il percorso da viale Tunisia, a due passi dalla storica libreria Partipilo, ora chiusa, alla Galleria Vittorio Emanuele, al “Grissino”. Ma dovevo farmi largo in quella siepe e scambiare almeno due parole con quel gran d’uomo. Seppi che la sera prima, quando alla Scala era calato il sipario, era stato al “Toula”, andando a dormire al Principe di Savoia alle 3 del mattino. Era sabato 8 dicembre 1979.

Ritratto di Gaetano Afeltra
Al giornale, Catania, che simpaticamente amava farsi credere indovino, mi disse: “So tutto: hai fatto buona caccia”. Evidentemente aveva saputo tutto dall’autista attraverso la radio che avevamo a bordo, facendo decine di chiamate. Ho rivisto il Presidente altre volte. Un pomeriggio ricevetti la telefonata di un amico, che tutto eccitato mi riferiva di aver Pertini entrare al Savini. Mi precipitai e trovai il salotto di Milano, la Galleria, piena di gente.Riuscii a sgattaiolare all’interno del locale, considerato il tempio della gastronomia di Milano (secondo Gaetano Afeltra tutti i programmi hanno iscritto un pranzo o una cena a uno dei suoi tavoli, dove dal 1867 si sedettero nomi importanti, tra cui il critico e drammaturgo Marco Praga, Guido da Verona, Renato Simoni. Gabriele d’Annunzio, Luigi Pirandello, Boito, Sarfatti, Giacosa, la Duse, Mascagni, Giordano…, ai quali veniva imposta la giacca e la cravatta, Toti Dal Monte, Emma Gramatica… Mi appostai dietro una grossa pianta, sperando di poter ascoltare da lì le parole dell’illustre personaggio, ma ne arrivavano poche. Improvvisamente fui scoperto da un poliziotto di grande affidabilità, che ascoltò per me. Intanto avevano abbassato le tende e dalla Galleria non fu più possibile osservare l’interno.
Sandro Pertini
Nel frattempo la folla s’infoltì, ma io dalla mia postazione potevo sbirciare la marea, e notai la figura di un collega della concorrenza che la sovrastava. Non gli fu possibile recuperare il dialogo che si svolgeva a poca distanza da me. Un giorno attesi il Presidente due ore fuori del ristorante Bagutta (dove la sera dell’11 novembre del 1926 il grande giornalista Orio Vergani, Mario Vellani Marchi e altri fondarono l’omonimo Premio, il primo in Italia: memorabili le serate in onore di Riccardo Bacchelli e a Ugo Ojetti …). Quando lo vidi comparire sulla soglia, gli andai incontro, mentre uno della scorta cercava di tenermi lontano. Protestai e il Presidente, sorridendo, mi agevolò, rispondendo alle mie domande. Una sera squillò il telefono e la voce dall’altra parte si presentò come il padre di una bambina ammalata desiderosa d’incontrare il Presidente. “Lei che lo ha conosciuto, forse può aiutarla”. Gli risposi che non avevo questa possibilità e che avrei solo potuto scrivere un pezzo, fungendo da ambasciatore. Qualche giorno dopo, altra telefonata del papà della bimba, che mi dava notizia della visita che Pertini avrebbe fatto alla bimba alle 8 del mattino del giorno dopo. Io lo anticipai di un’ora, assieme al fotografo. Feci appena in tempo a bere il caffè preparato dalla signora, quando si sentì bussare alla porta. Era lui, puntualissimo, seguito dagli uomini della sicurezza. Quando mi vide, alla sua maniera esclamò: “Ma tu sei dappertutto”. “Presidente sono come il prezzemolo”. “Bravo”. Tutti si commossero quando dalla confezione, tirando fuori una bambola, per la bambina, felice come una Pasqua. Anche quella volta lo seguii per le vie di Milano, in viale Tunisia, in corso Buenos Ayres. Il ricordo del presidente della Repubblica Sandro Pertini è ancora vivo nella memoria degli italiani. Come si fa a dimenticare un uomo, un politico come lui, che ha rischiato la vita per salvare il Paese dalla dittatura. Il direttore Michele Annese, grande “fan” di Pertini, ricorda spesso Nicolas Papamikroulis, che, laureatosi a Firenze in architettura, ha fatto per vent’anni il sindaco di Nea Halkidona, in Grecia, gemellata con la città di Crispiano, avendo come esempio il nostro Presidente, che è stato festeggiato il 27 febbraio a Martina Franca, in Palazzo Ducale, in ricordo della storica visita alla città di 40 anni fa.