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mercoledì 23 febbraio 2022

Nostalgia dei tratturi

 

UNA VOLTA ERANO UN’AGORA’ RICCHI DI VOCI E DI PERSONE

Tratturo

Oggi sono vie di passaggio. Su uno

si affacciano i fichidindia, ma non

li raccoglie nessuno. Molti cenano e

pranzano nei trulli o sul piazzale.

E nelle case incappucciate si

suona,si balla, si canta, mentre

qualcuno fa fuochi d’artificio in

onore di una sposa o di un

compleanno.


                                                                

fichidindia

 

Franco Presicci  

Qualche anno fa a Martina Franca un giornalista televisivo mi chiese: “Tu che vieni in Valle d’Itria da quando eri bambino mi puoi dire in che cosa la trovi cambiata, questa nostra città?”. Non ci pensai molto: “Una volta i tratturi erano animati; oggi sono soltanto una via di passaggio attraversata da auto che la scambiano per l’autodromo di Monza. Una volta erano un’agorà, come dice il professor Francesco Lenoci, legato a Martina come l’ostrica alla roccia marina”. Nel tratturo le donne e gli anziani si riunivano, conversavano, si confidavano, lambivano qualche segreto, che in verità sapevano tutti, mentre i ragazzi schiamazzavano e le farfalle, una più bella dell’altra, scuotevano le ali sul glicine che s’ingrandiva intrecciandosi coi rami degli alberi o infilandosi tra le pietre del muretto del tratturo. Ricordo le passeggiate su queste “lunghe vie erbose” (cito il titolo di un libro del giornalista Italo Palasciano), i passatempi, le rincorse dei più giovani, gli urli... 

Trulli lungo il tratturo

Quando avevo dodici o tredici anni, sul Chiangaro, con i nipoti di Marusaria, che abitava nel trullo di fianco a quello dello zio prete, giocavamo a “Mammà s’è persa la scarpa di seta” e a volte io e Enzo, mio cugino, giocando a nascondino, ci imbucavano in un minuscolo trullo disfatto e pieno di paglia che stava nel vignale di fronte; e se qualcuno dei partecipanti veniva ad ispezionarlo, avvertendo i passi, ci coprivamo, senza contare che potessimo disturbare il riposo di una vipera. Fin lì arrivava il russo di mio nonno Ciccio, che sonnecchiava al riparo di un’arcata di bouganville; e quando si svegliava veniva nel tratturo a fare da spettatore. Da grande, spesso con mia moglie Irene invitavamo a pranzo i parenti di Taranto, che arrivavano con una provvista di cozze, da fare con gli spaghetti, alla marinara e “arracanàte”; e durante il convivio bevute, battute di spirito, allegria. Poi, mica facevamo la pennichella, no, ma la ronda nel tratturo con un codazzo di figli e nipoti che un giorno improvvisarono una gara per assegnarsi il compito di pitturare il cancello del parcheggio delle auto, rosicchiato in più parti dalla ruggine. Spesso proprio su quello spazio, tra una cilindrata e l’altra, seduti attorno al tavolino fattomi da Ninì Ponte, un amico che aveva avuto un negozio di mobili sullo stradone, organizzavano partite a scopa, oppure, una decina di passi giù, alla fine del vialetto, a bocce. Non eravamo soltanto noi a tenere in vita il tratturo. Ma anche le mie vicine, Rosa e Maria, “cu ‘na mòrre de parìende c’avenène pùre da Sùse”. 

La vigna
Ci divertivamo tutti insieme, impegnati in una guerra armati di pompe d’acqua, e la sera, seduti a una tavolata, tutti scoppiettanti e in attesa di Graziella e Comasia con i panzerotti imbottiti di mozzarella, salsiccia, mortadella; e ammiravamo la luna, che forse si divertiva. Poi un altro panzerotto ciascuno; e, se si gradiva, un terzo. Un bicchiere o due di vino martinese e canzoni melodiche. Spezzando il brano, qualcuno domandava: “Stasera i cani di Giovanni non abbaiano, come mai?”. E i cani di Giovanni, sempre arrabbiati, inavvicinabili, aggressivi, si godevano in libertà il tratturo, senza fiatare. Qualche volta dal forno uscivano le pizze, profumate da inebriare. Non di rado, le confezionava mia moglie, bravissima e molto richiesta. Una sera dal buio del tratturo emerse Giovanni Montanaro, pantaloni corti che scoprivano le gambe sottili e un po’ incurvate; la testa potata, suonando a modo suo la fisarmonica, oggi cimelio del figlio Donato. La compagnia era legatissima, spiritosa, prodiga di barzellette. Un’altra sera rivolgemmo l’invito a Michele Annese e alla moglie Silvia Laddomada, di Crispiano.” Veniamo domani con una sorpresa; preparate le friselle”, disse il dinamico direttore di questo giornale, che è una fucina d’idee. 

Tratturo

E, puntuali come sempre, eccoli accompagnati dall’orchestrina Crispianapolis, da Donato Plantone e la moglie Ida, in mano una buona dose di delizie della città delle cento masserie. Altro che friselle. Irene accese il forno e prese in mano le pale, mentre sul barbecue profumavano salsicce e fegatini. Al termine, l’orchestra dette il via alla pizzica, scatenando i presenti: spettatori solo Lino Colucci, la moglie Isa, Elio Greco. In un ristorante sottratto alla nostra vista dagli alberi spararono i fuochi d’artificio in onore di una sposa. Ogni tanto veniva Francesco Mastrovito, che era di Martina ma viveva a Taranto da pensionato dell’Italsider. Aveva la testa dura come la pietra di Martina, ma buon intenditore delle cose di campagna. La terra rossa, dipinta dal grande Filippo Alto, gli dava serenità. In gioventù vi aveva lavorato. Una mattina lo sentii parlare all’alloro, un ombrellone che allungava la sua ombra sul tratturo, e gli chiesi il motivo di quel strano monologo singolare. Aveva fatto un innesto sul tronco del fico fasanese, ed era irritato per un errore scoperto da lui stesso poco prima. Imperdonabile, per uno come lui, che attribuiva la colpa all’albero. Lo confortai e se ne andò in fondo al tratturo, ferito nell’orgoglio, indifferente ai ragazzi che inseguivano le lucertole come avevano fatto io e Enzo settant’anni prima. Le prendevamo al cappio, utilizzando ciascuno una festuca. Catturavamo anche le cicale, operazione davvero difficile. Volevo bene a Francesco. Duellò con Gino, uno degli ospiti: per lui la pianta messa a dimora sul bordo del piazzale era origano; per l’altro, maggiorana, come risultava sulla busta dei semi acquistata al supermercato. La polemica non accennava a spegnersi, quando comparve Maria, consumata diplomatica: “Francesco che dice?”. “Origano”. “E origano è”. Ricordavo sempre i giorni del Chiangaro, e tutti stavano attenti, ritenendo quello che dicevo roba dell’altro mondo. 

Muro a secco
Ero d’accordo con loro, ma ripetevo quello che all’epoca della mia adolescenza mi aveva raccontato un vecchio contadino: ‘Lì, quasi sulla bocca del pozzo che sta sotto il noce, lo vedi?, a mezzanotte usciva un fantasma, e chi abitava da queste parti aveva paura solo a pensarlo. Poi un prete venne a benedire il luogo e il fantasma prese altre vie. Era di un morto ammazzato proprio in quel punto”. E l’uomo della pioggia? Mantello sulle spalle, cappello con la tesa larga, saliva sul trullo e la invocava. Il giorno dopo l’acqua veniva giù a barilate”. Quando ero piccolo, spesso la sera, verso le sei, gli amici del nonno venivano a trovarlo. E lui portava le sedie sul tratturo e chiacchierava con loro fumando la pipa, di quelle con il fornello di terracotta e la canna ricurva. Poi mi chiedeva di cantare quei brani della Messa imparanti facendo il chierichetto. Io mi schermivo e lui insisteva, promettendomi in cambio un piccolo grappolo dell’uva da tavola cara allo zio prete. Allora io intonavo il “Tantum ergo”, gli amici mi acclamavano e il nonno era contento. A volte, quando era ancora chiaro, io mi assentavo e andavo a scalare il ciliegio, che troneggiava a una decina di metri, raggiungevo la cima e da lì salutavo tutti, mentre il mio vecchietto sibilava: “Scendi, puoi farti male”. La comitiva sul Chiangaro continuò fino a quando non diventammo grandi. Io, ormai cinquantenne, ogni tanto tornavo, ma mi fermavo al crocevia che a sinistra porta in paese e a destra su via Mottola. In quel punto c’è ancora la vedovella, alla quale attingevamo l’acqua da bere, risparmiando quella del pozzo. Fotografo la fontanella e proseguo a destra, fermandomi davanti alla chiesetta in cui lo zio prete diceva messa il sabato sera. Il tempietto sfiora il trattuto. Mi amareggia vedere i tratturi desolati: la gente vi passa per entrare nei trulli, dove si svolge la sua vita quotidiana. Qualche volta deborda sul piazzale, dove molti fanno ancora festa. Da noi, su via Mottola, quasi tutti hanno oltrepassato per sempre il muro. Il primo è stato Peppino. 

Rosa

Ora la vigna la curano Rosa, la moglie, e Francesco, il figlio. Quando è tempo di vendemmia il tratturo un po’ si rianima: la vigna si sgrava, i grappoli prendono la via del palmento nelle bigonce e a dare una mano viene anche Franco, il fratello di Peppino, che sta a Varese, ma passa l’estate in campagna, nella città dei trulli. Tra una pausa e l’altra facciamo quattro chiacchiere, soprattutto con Franco, che è simpatico e cordiale, assaggiamo qualche chicco e mi viene voglia di gridare “Peppinooo!”, come facevo una volta, quando lui era vivo e a mezzogiorno mangiava il panino, seduto sul muretto del tratturo, con il fiasco di vino accanto. Se oggi non ci fosse Teodosio, che ha la terra al termine del tratturo, dopo la salita, non avrei nessuno con cui parlare, a parte i miei familiari. Teodosio passa con il camioncino, mi vede, scende, mi regala una cassetta di prodotti del suo orto, mi domanda come va la vita a Milano, mi dà qualche notizia del suo lavoro di costruttore… Sulla sua terra ha anche un deposito di materiale che gli serve per la sua attività. E’ una persona piacevole, cordiale. Ma il tratturo è deserto per il resto della giornata.

Martino Lenoci
Tra l’altro, qualche pezzo di muretto è crollato e i rovi si sono impossessati delle pietre: le pietre di Martina, che avrebbero tanto da dire sulla storia del tratturo. Che, come si sa, è stretto; e se due macchine si fronteggiano, una deve entrare in un varco aperto per il passaggio del trattore. Successe che la donna che guidava una cilindrata arrivata all’altezza di quel varco si rifiuto d’imboccarlo; uscì dall’abitacolo, gridando verso di me: “Tu’ si’ masculo e tu’ a fa’ màrce rète”: una marcia indietro di 300 metri con il rischio che al momento d’immettermi sulla provinciale fossi travolto da un bolide. Un passante grillò: “Di chi è la precedenza?”; e la disputa si trasformò in farsa. A risolvere il caso fu Beatrice, la figlia di Giovanni. Mi sono confidato con il professor Francesco Lenoci e lui ha ripetuto: “Il tratturo era un’”agorà”, piena di voci, di allegria, invaso dal profumo della campagna imperlata di viti, con le farfalle, che andavano di fiore in fiore; ricordi il macaone?”. Lo ricordo, sì, con i suoi colori bellissimi. Oggi la gente nelle campagne si riunisce ancora, ma pranza, cena, suona, balla nei trulli o sul piazzale. Una volta le feste si facevano anche sull’aia: grandi tavolate, con piatti eccellenti come li sanno fare le nostre donne e tanto nettare. Il tratturo viveva. Ora così lo si vede nei dipinti di un pittore nostalgico. Lenoci approfitta dell’occasione e mi fornisce una notizia: “Il direttore artistico del Teatro Arcimboldi è Sabino Lenoci… con lui e il regista Davide Garattini vogliamo portare l’opera nelle più belle masserie della Puglia Un amico mi sussurra: “Il papà di Lenoci, 99 anni, Martino, faceva il sarto: preciso, puntuale, bravissimo, un maestro. Se il giorno della consegna di un abito non aveva i bottoni, li prelevava da una sua giacca e li trasferiva sul manufatto. Quando la moglie, la compianta Maria, se ne accorgeva, amorevolmente lo rimproverava”. Martino è un uomo dolce, chissà quanto avrebbe da dire sulla sua Martina di una volta, e sul tratturo, lunga via erbosa, oggi solitaria, malinconica.








mercoledì 16 febbraio 2022

La Fondazione di Franco Cologni

TRA I MESTIERI DA VALORIZZARE

ANCHE QUELLO DEL VIGNAIOLO

Franco Cologni con Giscard D'Estaing

Le iniziative della creazione dell’ex

Presidente di Cartier sono

numerose e continue, comprese

quella della pubblicazione di

prestigiosi volumi, tra cui uno sul

tipografo.


 

Franco Presicci


Alberto Curti
Conobbi Franco Cologni nella redazione dello storico quotidiano “L’Italia”, in piazza Duca D’Aosta, a pochi passi dalla stazione Centrale. Lo vedevo quasi tutte le sere seduto alla scrivania di fianco a quella di Graziano Motta, a curare la pagina letteraria. Era taciturno, coltissimo, alto, gentile, serio, disponibile. Avevo scritto un articolo sulle pubbliche relazioni e glielo sottoposi per la pubblicazione. Lui lo lesse e lo mise in pagina. All’epoca ero segretario organizzativo del centro di Milano dell’Airp (Associazione italiana per le pubbliche relazioni), che aveva numerosi soci, tra aziende e singoli, che si occupavano appunto di questa nuova attività. Un po’ di tempo prima era uscita un’intera pagina sull”Espresso” formato lenzuolo, in cui l’autore dava tutte le informazioni necessarie sull’argomento: sul ruolo e come doveva essere svolto, anche perché qualche frequentatore della nuova attività ne aveva una visione tutta sua. A Cologni il mio articolo piacque e un paio di giorni dopo lo vidi pubblicato. E fu per me una vera soddisfazione anche perché tanti studenti universitari o laureati cominciarono a venire in ufficio per sapere tutto quello che c’era da sapere sulla materia, comprese le possibilità di occupazione. Erano i primi anni Sessanta. Fondai anche un club di p.r. e feci un elenco di complessi da visitare, per allargare il nostro orizzonte osservando che cosa facevano gli addetti, per esempio all’Olivetti e all’Italsider di Genova.

 

Cologni Mercandelli
Via Solferino

 

 

 

Tornando a Franco Cologni, dopo essere stato capo ufficio stampa, credo, dell’Associazione produttori di fiammiferi, fu il primo a fondare per Cartier una filiale italiana nel mondo. Dopo qualche anno la multinazionale nota ovunque per i suoi gioielli e altri oggetti di grandissimo pregio, incorporò la Tobako International, creata dallo stesso Cologni, dando vita alla prima e importante azienda multimarca nel settore del lusso, con “boutiques” nelle vie più nobili delle città più importanti. Era il periodo ’69-’73, e già tutti intuirono che quel ragazzo laureato in Lettere e Filosofia con 110 e lode alla Cattolica, aveva fatto il servizio militare negli Alpini, autore di articoli, saggi, libri specializzati su teatro, cinema, televisione e comunicazione sarebbe arrivato molto in alto. Infatti nell’80 venne nominato direttore generale di Cartier International, a Parigi, sei anni dopo vicepresidente, nel 2002 presidente. Le sue doti manageriali di altissimo livello venivano seguite con molto interesse e Valery Giscard D’Estaing, nelle Palazzo delle Stelline, gli conferì il titolo di ufficiale della Legion d’Onore: il massimo dei riconoscimenti. Poi ne arrivarono altri: nel ’90 Francois Mitterrand lo nominò “Chevalier de l’ordre national du meritè”; nel ’99 il ministro della Cultura francese, Catherine Trautmann, “Chevalier de l’orde de l’arte e de lettre; nel 2002 Carlo Azeglio Ciampi: Cavaliere del lavoro. Una carriera costellata di onori e di gloria. Quanta strada luminosa fatta da quel giovane aitante seduto di fianco a Graziano Motta, responsabile degli Spettacoli del quotidiano “L’Italia”, che aveva come direttore monsignor Chiavazza e vice l’esimio professor Lugaro. 

Giorgio Gregato

La bottega di Gregato
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel ’95. Franco Cologni, personaggio famoso in tutto il mondo, crea a Milano la Fondazione Mestieri d’arte e ne diventa presidente. A darmi la notizia, una sera a cena a casa mia, fu il prefetto Francesco Colucci. Mi feci dare il numero di telefono e lo chiamai, ricevendo un invito nel suo ufficio per il giorno dopo alle 15 al terzo piano di via Statuto 10, dove mi presentai puntuale come un orologio Cartier e venni accolto dal sorriso coinvolgente di un padrone di casa che mi trattò come un amico di sempre. Ricordammo i tempi di piazza Duca d’Aosta, gli dissi che lo avevo sempre seguito sui giornali, accennai all’intervista che gli avevo fatto in occasione di un rilevante furto di orologi Cartier, a Milano; e poi venimmo al motivo che mi aveva portato ad incontrarlo: un grand’uomo, con i baffi bianchi folti, mi esortò a fargli tutte le domande che avevo in mente. 

Corso Venezia
Ma poi cominciò a parlare senza aspettarle. “I mestieri d’arte sono quelli fatti da un maestro che utilizza l’intelligenza, la creatività della mani, realizzando oggetti che s’imparentano con l’arte”. Sono mestieri che devono essere rivalutati. Per rivalutarli bisogna partire dall’informazione: farli conoscere nella loro storia e nella loro realtà; conoscendoli, si apprezzano; per poterli apprezzare occorrono cultura, buongusto, curiosità, ricerca e tempo da spendere. A questo tende la Fondazione, che ha promosso tante iniziative, tra cui un convegno internazionale sull’”Intelligenza della mano”, svoltosi sotto la presidenza di Giscard d’Estaing all’Università del Sacro Cuore; una mostra storico-didattica su “Monete, orologi e grande cucina”, alla Triennale, con partner autorevoli, fra cui l’Istituto Poligrafico e Zecca di Stato; una tavola rotonda ancora alla Cattolica, alla quale hanno preso parte personalità provenienti da tutto il mondo. 

La vigna
Inoltre la Fondazione sostiene la ricerca con la creazione e il finanziamento del ‘Centro di ricerca arti e mestieri’ dal ’98, presso l’ateneo di Largo Gemelli; centro che collabora con la Fondazione per l’istituzione di una biblioteca specializzata nelle arti e mei mestieri, in particolare dall’inizio del ‘900 ad oggi, con pubblicazioni scientifiche’’; alimenta rapporti di collaborazione con organismi italiani e stranieri che hanno lo stesso obiettivo: quello di promuovere, sostenere, incoraggiare imprese scientifiche e culturali con programmi di informazione e formazione a favore di queste attività, ”le cui opere sono fatte con materiali duri e durabili, per esempio, un gioiello, un orologio, una moneta, un mobile; e con materiali ‘soft’, cioè consumabili, per esempio il vino, un’acconciatura, un vestito, ‘consumabili’, ma con valenza artistica”. Purtroppo alcuni mestieri d’arte sono scomparsi, tra questi gli spadari, che come gli armorari hanno in città il nome su una targa stradale proprio dove tennero bottega (tra piazza Duomo e via Torino, mentre i fabbri in via Cesare Correnti, dove sopravvivono i resti di una famosa pusterla a loro intitolata. Ma non sono scomparsi del tutto: si rinnovano producendo altri oggetti. Non ci sono più quelli che facevano le spade, ma resistono altri altrettanto abili e noti. La Fondazione Cologni, organismo no profit, ha anche partecipato alla realizzazione dell’edizione 2005 di “Artigianato a Palazzo”, a Firenze, “storica esposizione dedicata agli artigiani italiani di eccellenza e ai segreti dei loro mestieri. 
 
Ristorante Rigolo
 
 
 
 
 
 
 
 
Il giorno del nostro incontro Cologni si alzò, andò verso un armadio, prese dei libri dalla veste molto elegante e dal contenuto specialistico, pubblicati dalla Fondazione: sugli orafi, sui tipografi e uno anche sul vignaiolo. Già il vignaiolo. Avevano preso un terreno, se non ricordo male, dalle parti di Voghera, dove un’esperta si occupava della vigna che produceva un vino pregiato, “Cortinovis”. Cologni mi annunciò una serata in onore proprio di quel vino e mi invitò ad essere presente. La manifestazione si svolse a Palazzo Bovara, con personalità di prestigio, tra cui magistrati, questori, prefetti, industriali famosi... Era, credo, il novembre del 2006. Fui felice di rivedere Franco Cologni e rivissi i tempi del quotidiano “L’Italia”, il primo in cui scrissi appena arrivato a Milano articoli sui circhi, che venivano spesso in città, alle Varesine (gli Orfei, i Togni, e non soltanto questi), sulle anteprime teatrali, sul Festival del Clown dedicato a Grok a Campione d’Italia, su quello dei giocolieri a Bergamo, e facevo la cronaca di rassegne canore (a Cividale del Friuli, a Genova), recensii la mostra del Teatro sovietico a Palazzo Reale a Milano, quella di Giuseppe Gorni, nello stesso edificio. In tutte queste ed altre occasioni incontrai nomi famosi dello spettacolo e del giornalismo, come Davide Lajolo, che era stato direttore de “L’Unità”, Arnoldo Foa, alla Terrazza Martini, Dario Fo, Franca Rame, Mina, Claudio Villa, a San Miniato Rossella Falck, Gian Maria Volontè, il regista Ferrero, l’attore Jannuzzi. Ci ero andato per lo spettacolo teatrale “Riunione di Famiglia” di Eliot, organizzato dall’Istituto del Dramma Popolare. Grandioso fu l’evento dei Beatles, che andai ad aspettare alla stazione, li intervistai con altri il giorno dopo all’Hotel Duomo e assistetti al loro spettacolo al Vigorelli. Andai poi in redazione a scrivere il pezzo, attesi l’uscita del giornale e rientrai a casa alle 5 del mattino in sella alla mia “Graziella”. Non vedo e non sento Franco Cologni da tanto tempo. Le strade non s’incrociano sempre. Via Statuto è vicina al “Corriere della Sera”, al ristorante Rigolo (dove fui spesso ospite del baritono Giuseppe Zecchillo, una volta con la moglie del tenore Giuseppe Di Stefano), ma lontana da casa mia. E sono invecchiato e acciaccato. Se non lo sento, lo seguo anche attraverso le “newsletter” che la sua Fondazione mi manda. Una proprio in questi giorni, che comunica che sono ancora aperte le iscrizioni per partecipare all’edizione del Premio “La Grande Bellezza by Starhotels”, che quest’anno ha come tema “La bellezza della natura”. I partecipanti sono invitati a presentare opere sul tema della natura che s’inserisce negli ambienti domestici e dell’ospitalità come elemento fondamentale dell’arredo e del vivere quotidiano. Possono partecipare artigiani-designer operanti sul territorio nazionale, le cui opere siano totalmente o parzialmente realizzate a mano. Al Vincitore verrò corrisposta una somma in denaro di 10 mila euro. La lettera aggiunge che stanno per prendere il via i tirocini del progetto “Una scuola, un lavoro. Percorsi d’eccellenza”, il programma promosso e finanziato dalla Fondazioni Cologni e realizzato grazie ai main partner del progetto Fondazione Cariplo e Costa Crociere Foundation”.






mercoledì 9 febbraio 2022

Un ristorante di lusso sorto nel 1696

Monica Brioschi e Marco Fuzier
 

 

LA MERAVIGLIOSA PIAZZA

BELGIOIOSO ACCOGLIE LA

RAFFINATEZZA DEL BOEUCC

 

A gestirlo, oggi, Monica Brioschi, una

dolce giovane, bella signora, che si

muove con passi felpati nelle sale con il

marito Marco Fuzier.

Laureata in Legge, studiava da notaio,

ma le morì il padre, Paolo, e dovette

cambiare strada.


 

 

Franco Presicci


A un tavolo del ristorante “Boeucc” mi sono seduto soltanto una volta. Ospite di Giancarlo Vigorelli, uno dei maggiori critici letterari italiani e amico di Krusciov, che andava a trovare tutte le volte che atterrava a Mosca. 

Piazza Belgioioso con il Palazzo di Manzoni

Mi aveva invitato nel suo ufficio, che aveva sede nel palazzo di “don Lisander” (era presidente degli Studi manzoniani), tra via Morone e quella splendida, prestigiosa piazza Belgioioso, definita da Leonida Villani il salotto classico di Milano, ricco di storia e di storie, di respiri d’amore di Stendhal e di Foscolo per la baronessa Matilde Viscontini, ritratta dallo storico Guido Lopez come “splendida creatura tutta anima, maritata a un soldato tutto corpo, il generale polacco Dembowski”. All’ora di pranzo Giancarlo disse: “Premiamoci andando a mangiare al il Boeucc”, distante una trentina di metri. Mentre degustava i piatti, parlava: del tempo che aveva impiegato per scrivere i suoi volumi sull’autore de “I Promessi Sposi”, che mi aveva appena regalato con tanto di dedica; del quotidiano “Il Giorno”, di cui curava le pagine dei libri ed era presidente della società editrice e di altri argomenti, mentre un cameriere impettito come un corazziere stava attento a versare il nettare appena il bicchiere stava per mettersi a piangere. Era luglio del 2011.

Ingresso della Galleria in piazza Duomo

Una bella giornata di sole che suggeriva lunghe passeggiate per le strade di Milano, soprattutto quelle del centro, da piazza Duomo alla Galleria, a via Manzoni, svirgolando per via Bigli e rientrando sull’asfalto su cui impera l’Hotel de Milan, in cui nel 1901 morì Giuseppe Verdi e il barbitonsore-scrittore, quasi ancora ragazzo di bottega, Franco Bompieri, fece la barba al principe de Curtis, in arte Totò. Sono vie che hanno tanto da raccontare, oltre a vantare la bellezza degli edifici che vi si ergono, ricordando le personalità che vi abitarono: Eugenio Montale, in via Bigli; la contessa Clara Maffei con il suo salotto culturale in via Morone; la famosa contessa russa Samoyloff, che sbalordì Milano, in via Borgonuovo... Quasi di fronte al Teatro Manzoni regnava in uno dei suoi negozi Larus, il famoso sarto Guglielmo Miani, che ha davvero onorato la sua Puglia e il capoluogo lombardo, ospitando tra l’altro a casa sua il principe Filippo di Edimburgo, consorte della regina Elisabetta. Ho fatto una deviazione, e chiedo scusa. Ma quando mi soffermo su questa città, fatti, personaggi, luoghi mi si affollano e mi fanno perdere il filo. 

Ingresso Boeucc
                                                        

Tornando al Boeucc e a Vigorelli, dunque, va detto che l’autorevole critico, alla fine del pranzo, mi invitò nel suo studio privato dalle parti di piazzale Baiamonti (se non ricordo male), ma per quel pomeriggio non mi era possibile e rimandammo alla settimana successiva. E lo sorpresi seduto alla scrivania con una specie di leggio su cui era poggiato un libro grosso quanto un messale. Conversammo, mi mostrò qualche volume di letteratura spagnola, lo commentò, lasciando trasparire, non certo per vanteria (non ne aveva bisogno) la sua cultura, che non aveva confini. E scivolammo sulla storia, accennando al palazzo che il Manzoni acquistò nel 1813, alloggiandovi fino alla morte, a parte i periodi trascorsi nella sua villa di Brusuglio; dei ritrovi milanesi, tra cui il Boeucc”, i cui tavoli videro pranzare per anni Guido Piovene, il giornalista e scrittore, autore del “Viaggio in Italia” (uscito nel 1957 per Mondadori), che aveva casa al primo piano dello stesso palazzo in cui si apre lo storico locale, che emanò i suoi primi profumi nel 1696, in via Durini 28, angolo via Borgogna, a un passo da largo Augusto e da piazza San Babila. Allora era un’osteria.

Via Manzoni

In piazza Belgioioso traslocò nel 1939, trasformandosi in ristorante (il cui oste partecipò alle Cinque Giornate di Milano), sempre affollato di personaggi illustri, tra i quali Toscanini, Maazel, e tanti altri celebri maestri e voci del tempio della lirica, oltre a Giovanni Spadolini, Bettino Craxi, Carlo Tognoli, per anni sindaco della città… Carlo Porta, pieno di speranze nella politica di Napoleone, nel 1810, in una di queste sale prestigiose fece un brindisi in onore di Maria Luigia e Eduardo De Filippo dichiarò che oltre i confini di Napoli gli spaghetti con il pomodoro e basilico più deliziosi si confezionavano in questa cucina. Si dice, e non si ha motivo di dubitare, che Toscanini scrisse con il lapis l’antipasto e lo passò al cuoco: “Cozze, vongole, gamberetti e scampi conditi al sapore del mare. E caldi appena per sprigionare tutto il profumo dei frutti delle onde”. 

Galleria Vittorio Emanuele
Occorre ora ascoltare un profondo conoscitore di caffè, trattorie e ristoranti non soltanto meneghini, Claudio Guagnini, che per anni ha architettato “Locali storici d’Italia”, che con brevi ed efficaci parole dice quel che c’è da dire, per esempio, sul Caffè Florian di Venezia; sulla pasticceria caffetteria Cova di Milano, data di nascita 1817 (ospitava Giovanni Verga, Mazzini, Garibaldi…); sul Gambrinus di Napoli, dove Gabriele d’Annunzio scrisse i versi di “Vucchella”, forse per dimostrare, come osservò qualcuno, che le canzoni napoletane le potevano riversare sulla carta anche quelli che non erano partenopei. Guagnini, allora: “Il Boeucc, prima di fare il ‘salto’ nelle eleganti sale disegnate dall’architetto Giuseppe Piermarini – progettista della Scala – era una delle osterie milanesi in cui, tra un gotto e un risotto, era passata la storia di Milano, fatta di quelle silenziose cospirazioni d’osteria che nel 1853 avevano contribuito a dare il via alle ‘Cinque Giornate’”. Alcuni anni fa ebbi il grande piacere di incontrare fra le colonne dell’omonimo salone la nuova titolare, Monica, una ragazza, bella, riservata, gentile, ospitale, di poche parole. 

Salone colonne

Laureata in Giurisprudenza, stava studiando per diventare notaio, quando le morì il padre, Paolo Brioschi, che lo gestiva dal 1979, e le spettava continuare la tradizione di questo museo dei ricordi, tutto classe e squisitezza e tanta storia (nel 1757 era già nel catalogo dell’Amministrazione austriaca). Mi sembrò imbarazzata di fronte alla nuova responsabilità che stava per affrontare e due maestri di cucina mi apparirono affettuosi e molto ben disposti a darle una mano nella conduzione di questo “gioiello”, che nacque mentre gli spagnoli lasciavano Milano. I turisti, girovagando per Milano, in cerca delle curiosità, dei luoghi più singolari ed affascinanti, delle prelibatezze, non si fermano solo in piazza del Duomo o di fronte alla Scala o a Palazzo Marino o in via Montenapoleone.

Ottagono della Galleria
Hanno come mèta anche casa Manzoni, che, come detto, si affaccia su piazza Belgioioso e sulle sue raffinate architetture. Qui molti cittadini, milanesi e non, vengono anche per vedere la dimora del Giovin Signore di pariniana memoria e per godere il silenzio e la pace, lontano dal chiasso delle auto e dallo sferragliare dei tram. Piazza Belgioioso sotto questo aspetto è un’isola, oltre che una delle maglie più suggestive del tessuto urbano di Milano. Non per niente Stendhal amava tanto questa città, dove avrebbe voluto essere sepolto, con la scritta sulla lapide “Henry Beyle milanese”.

Piazza della Scala
Nel capoluogo lombardo arrivò nel 1800 con la divisa di ufficiale. Aveva appena 17 anni e abitava a Palazzo Bovara sul corso di Porta Orientale, oggi Porta Venezia, sede della delegazione di Francia. Di lui lo scrittore Carlo Castellaneta ha scritto nel suo “Dizionario di Milano, dalla A alla Zeta”, che nessuno straniero ha amato questa città quanto Stendhal (nato in una famiglia benestante di Grenoble). Frequentava il Caffè Nuovo in Corsia dei Servi e gli piaceva osservare le linee delle carrozze parcheggiate sui bastioni dei Gardini Pubblici; e pur avendo nel cuore la famosa baronessa, le cui finestre davano su piazza Belgioioso illuminata anche dalle luci del “Boeucc, era sensibile alle scollature delle signore. E’ mai entrato nel Boeucc? Ho sentito nuovamente, al telefono Monica, che si muove molto più sicura di ieri nelle sale del suo regno, affiancata dal marito Marco Fuzier, un giovane distinto e cortese, e non ha alcuna nostalgia della professione di notaio, fatta di pandette e contratti da stendere, che l’avrebbero assorbita. Le ho chiesto come vadano le cose in tempo di pandemia e subito mi sono pentito, perché la domanda era inutile. “A ottobre e dicembre è andata meglio, con il fatturato superiore al 2019; a gennaio, di nuovo giù”, per questo maledetto covid assassino, questo killer spietato, questo cecchino che sta facendo danni e procurando lutti dappertutto. Per fortuna sembra l’abbiano costretto a fare marcia indietro. Speriamo che gli scienziati riescano presto a strozzarlo, facendo tirare un sospiro di sollievo a miliardi di persone, in tutto il mondo.










mercoledì 2 febbraio 2022

Non una storia, ma l’elogio della due ruote

I CONTADINI PEDALAVANO

PER ANDARE A CURARE LA TERRA

Kodra sul velocipede

Mio zio Luigi e la moglie Donatina

In bici facevano 20 chilometri al

giorno. A tirare il trabiccolo erano

il cane “Ruscitto”(per il pelo rosso)

poi sostituito da Nerone.


 

 

 

Franco Presicci

Il giornalista Gianni Spartà
La sua bicicletta appesa nell’ingresso sulla parete bianca per lui è un cimelio. “Molti venerano una testa di cervo con il palco imponente; altri il ritratto del nonno bersagliere. Il mio orgoglio è la due rote che mi ha portato al lavoro per trent’anni, senza mai crearmi problemi. Adesso è acciaccata, ma non m’importa”. 

Il suo mezzo di locomozione ha le ruote con parecchie ossa mancanti, il manubrio bloccato, il telaio un po’ arrugginito, il fanale cieco, la sella logora. Funziona, forse, soltanto il campanello; eppure non la abbandonerebbe alla discarica neanche se lo costringessero con una pistola in pugno. I nipotini non la toccano, sapendo che per il nonno è sacra e la moglie non la spolvera. “Ci affezioniamo alle persone, ad alcuni rimaniamo fedeli tutta la vita, perché non a un oggetto come la bicicletta, vecchia compagna fedele?”. Antonio C. (niente nome, per carità: ho vissuto da ‘travet’ sempre nell’ombra e va bene così) parla di quella reliquia pacatamente, senza infervorarsi. Siamo amici d’infanzia, nella nostra storia abbiamo pagine di giornate trascorse in parrocchia, in via Giovan Giovine, a Taranto, a giocare a ping-pong, e non ci vedevamo da un bel po’. In una rimpatriata sono andato a cercarlo. E’ rimasto tale e quale, con gli stessi pregi e le stesse debolezze, i baffetti alla David Niven, una mosca sul mento, le orecchie piccole’, i capelli neri come il carbone. 

Il pittore Remo Brindisi

Un altro amico che fa l’avvocato: “Ricordi quante volte ti ho portato sul telaio in corso Venezia, oggi Viale Magna Grecia? Piaceva a entrambi quell’ampia distesa di verde che ha lasciato il posto a palazzi superbi, officine, botteghe, negozi, bar, la Concattedrale, il chiasso, la circolazione automobilistica spesso anarchica. Un’altra atmosfera: allora dominavano l’erba, il silenzio, la tranquillità, la pace: oggi le trombe rabbiose delle cilindrate, gli intasamenti, che lasciano indifferente il venditore di angurie parcheggiato con la sua bancarella ai bordi della strada. Arrivavamo alle 14, rientravamo alle 16, e ci mettevamo a studiare fino a mezzanotte”. Dopo qualche anno io me ne andai a San Severo, presso la famiglia, armoniosa, lavoratrice, generosa, degli zii Luigi e Donatina. Anche lì c’era una bicicletta: al ritorno dalla fatica quotidiana, alla Zamarra, terra concessa dall’Ente Riforma, lo zio la lasciava sulle scale, con la porta sempre aperta, perché a quei tempi la categoria dei “correntisti” (ladri di appartamenti) era di là da venire (e poi in casa non c’era niente che allettasse un eventuale malfattore. 

Il professor Francesco Lenoci in bici a Martina
Il pane c’era sempre: una cupola sostanziosa e fragrante che mio cugino Nicolino Buoncristiano, titolare di un forno a legna, dava tutte le sere alla suocera, che la teneva fra le braccia nel tragitto verso in via Venere come fosse oro strappato a una roccia metamorfica. La bicicletta dello zio la tirava un cane, Nerone, che solo per caso portava il nome del romano che si fece consacrare dio ed ebbe come precettore Seneca. Altra bici storica, finita in seguito in uno sgabuzzino, senza altri oggetti intorno. Zio Luigi non provava l’ebbrezza della corsa. Come a Martina Franca il maestro della fotografia, attore e poeta Benvenuto Messia, basso, sottile, scattante, ironico, fine dicitore, in testa un palmo di neve. Mio zio andava piano, perché i dieci chilometri tra casa e campagna alla sua età non erano una passeggiata, sia pure con l’aiuto del Fido. Era importante, la bici, nella vita del contadino. Per zio Luigi era il cavallo che doveva traportarlo assieme alla moglie e agli attrezzi a curare la vigna: appena 5 mila metri, che erano più rogne che altro. La bici era protagonista e comprimaria. In bicicletta si recava al lavoro anche mio cugino Antonio. 

foto di Daniela Alma

Abbascià in bici
Un tipo simpatico, come i sette figli di zio Luigi, scherzoso, renitente alle nozze, facile alla risata scoppiettante. Una sera fu fermato da agenti della polizia stradale, che guardarono l’anticume, lo definirono scherzosamente un pezzo da collezione risalente al 1860, dei primi tempi della trasmissione a catena, fecero la somma delle infrazioni commesse e stabilirono l’ammontare della multa. “Prendetela – rispose - vi pago con quella, e se ne stava andando. Un agente lo raggiunse e gli consegnò la copia del verbale. Antonio, Nenucce, per noi, era fatto così, non dava peso alle cose. Tutti i contadini possedevano una bici; e tutti per lo stesso motivo. Tommaso no, la sua terra era a due passi e non ne aveva bisogno. Papà Necole, ottantenne, campava vendendo l’acqua che prelevava alla fontana poco vicino dimenticando spesso i carichi che aveva fatto. Non aveva la pensione, perché aveva lavorato duro senza contributi. “Di mestiere “carreamandègne” (si caricava sulle spalle le botti), una bici non se le era mai potuta permettere. Il mio amico Gennaro G. l’adorava, la sua bicicletta. Un giorno d’agosto, tornando dal mare, gli si bucò una gomma e dovemmo tornare a piedi dal porticciolo, dalle parti di San Vito, in città, la splendida Taranto. Durante il percorso elencò tutti i pregi del suo “cavallo” meccanico. Gian Paolo Ormezzano da qualche parte ricorda che la prima bicicletta l’ha disegnata Leonardo. Altri hanno ricostruito la storia e la leggenda di questo mezzo di traspoto, parlando anche del velocipede dei Michaux, padre e figlio, la cui ruota anteriore, la motrice, aveva un diametro fra i 90 e i 150 centimetri. Ma ve l’immaginate oggi uno strumento del genere zigzagare nella confusione di una città come Milano, dove vivo da sessant’anni? Una quarantina di anni fa un fabbro del “borg di formaggiatt” a Milano costruì un velocipede di ferro, sul qual salì anche il pittore albanese Ibrahim Kodra, che amava provare tutte le novità. Beato chi l’ha inventata, la bicicletta. Che non è soltanto strumento di lavoro. Su di essa sono nate migliaia di storie d’amore; ma anche di tradimenti, delusioni, sogni. Gli innamorati andavano anche in tandem soprattutto in campagna, cantando, allegri, inebriati dal sole e dalla passione. Sulla bicicletta sono state scritte canzoni famose (“Ma dove vai bellezza in biciletta”, in voga nel dopoguerra e anche dopo). Terminata la clausura anticovid molta gente a Milano ha ripreso la bicicletta. 

In bici sull'alzaia Naviglio Grande

La si vede soprattutto lungo le sponde del Naviglio Grande, e si è pensato che stesse per ritornare di moda. Ma qualche bici circolava già prima. Il fotografo del “Corriere della Sera” e poi prestigioso gallerista Mimmo Dabbrescia immortalò, per uno dei suoi libri (“Visti da vicino”), il pittore abruzzese, Remo Brindisi (con studio a Milano), quello delle dita dei soggetti come zampe d’aquila, mentre pedalava in vacanza. Un sogno: Tutti sulle due ruote allegramente, le auto in garage, fine del fracasso da cardiopalma dei clacson. Già il Comune di Milano aveva avuto l’idea di parcheggiare biciclette nei vari quartieri: biciclette gialle, che i cittadini, utilizzando un meccanismo di identificazione, prendono in prestito per farsi un giro per la città. Qualcuno, per sottrarsi al rischio di essere travolto da Fiat, Ford eccetera, dove non c’è il percorso riservato ai ciclisti, va sul marciapiedi, suscitando le proteste dei pedoni. Ad affiancare le bici, fra polemiche e incidenti, sono spuntati i monopattini, ma sono ancora un piccolo esercito sparso nel traffico cittadino.

Biciclette

Meglio la bici, si dice, una valanga di bici, messa anche a difesa dallo smog. Si svegli la memoria: la bicicletta è stata anche patriottica: ha portato le staffette partigiane sui monti, ha affrontato il coprifuoco durante la guerra. Dosolina, già contrabbandiera, trasferiva in Svizzera i bambini ebrei in bicicletta. In bici andava Peppone. Nel Museo dedicato a don Camillo a Brescello è esposta la bici che cavalcava il prete battagliero che mandava in bestia il sindaco comunista. All’epoca di “Ladri di biciclette”, del ’40, il film di Vittorio De Sica del ’48, a seconda del tipo il prezzo di un esemplare oscillava tra le 25 e le 30 mila lire.

La Graziella
Negli anni 60 acquistai una “Graziella”, che potevo smontare e portare sino al quinto piano, dove abitavo. Lavoravo al quotidiano “L’Italia” e in bici raggiungevo i circhi equestri, i teatri per le anteprime, gli appuntamenti con personaggi dello spettacolo per un’intervista… Negli anni 60 In Graziella arrivai al Vigorelli per ascoltare i “Beatles” che mandavano in visibilio le ragazzine ansiose dell’autografo sul reggiseno. Alla Stramilano, pur essendo una marcia, c’è sempre chi pedala, come il pittore che correndo fa un quadro sulla folla dei cinquantamila. Insomma, la bicicletta è desiderata, amata, sognata, ammirata. Molti la considerano un mito. La rivoluzione i cinesi l’hanno fatta in bici, come ricordò Ugo Ronfani in un pezzo arrivato secondo ad un affollatissimo concorso indetto dall’Associazione nazionale fabbricanti di due ruote, una quarantina di anni or sono. La bicicletta trionfa sui francobolli, sui calendarietti dei barbieri, sulle figurine della Liebig. C’è persino un giuoco del Giro d’Italia, simile al giuoco dell’oca con il percorso in bici dalla partenza al traguardo, con immagini di pedalate a ruota libera, cadute, ruote bucate e in riparazione. Io amo la bicicletta, ma a parte il periodo della Graziella, non ci vado. Ne vinsi una, nello stesso concorso a cui prese parte il vicedirettore de “Il Giorno”, ma la regalai, condizionato da una lontana esperienza traumatica: quando ero un mozzicone di sigaretta un amico acconsentì a farmi fare un giro e finii sotto una carrozza. Mentre il mio amico Ruggero Ruggieri, all’età di vent’anni, fece in bici Taranto Bari e ritorno. Mio zio Luigi in paese non andò mai in bici. Benvenuto Messia ha portato all’altare la figlia il giorno delle nozze sul telaio della sua bici, sulla quale schizza tra le vie di Martina e spesso si è accodato al Giro d’Italia, tenendo il ritmo dei campioni. La due ruote ha un’esistenza gloriosa. Tanti sono stati gli inventori dei diversi esemplari. Nel 1894 il Touring Club Italiano fu battezzato da un manipolo di appassionati di questo geniale congegno, che è anche avventura, libertà. gioia, sport, spensieratezza. La bicicletta corre dovunque, su qualunque tipo di strada, in discesa e in salita. La bici dà emozioni anche a guardarla nelle opere degli artisti consacrati. “Il ciclista” di Maio Sironi; “I ciclisti” di Aligi Sassu, “Il Giro” di Nino Corazza… A Martina dal Chiancaro allo stradone mio cugino andava in sella. Un vicino attraversava i tratturi in groppa ad un asino. Tantissimo tempo fa, arrivato in treno da Taranto, per raggiungere la campagna dello zio prete, mi feci coraggio e la presi in affitto da “Giorno e notte” (non chiudeva mai), il medico delle bici con bottega “sott’a San Frangische”. Che fatica sulla salita! La feci a piedi, con le mani sul manubrio.