UNA VOLTA ERANO UN’AGORA’ RICCHI DI VOCI E DI PERSONE
Tratturo |
Oggi sono vie di passaggio. Su uno
si affacciano i fichidindia, ma non
li raccoglie nessuno. Molti cenano e
pranzano nei trulli o sul piazzale.
E nelle case incappucciate si
suona,si balla, si canta, mentre
qualcuno fa fuochi d’artificio in
onore di una sposa o di un
compleanno.
fichidindia |
Franco Presicci
Qualche anno fa a Martina Franca un giornalista televisivo mi chiese: “Tu che vieni in Valle d’Itria da quando eri bambino mi puoi dire in che cosa la trovi cambiata, questa nostra città?”. Non ci pensai molto: “Una volta i tratturi erano animati; oggi sono soltanto una via di passaggio attraversata da auto che la scambiano per l’autodromo di Monza. Una volta erano un’agorà, come dice il professor Francesco Lenoci, legato a Martina come l’ostrica alla roccia marina”. Nel tratturo le donne e gli anziani si riunivano, conversavano, si confidavano, lambivano qualche segreto, che in verità sapevano tutti, mentre i ragazzi schiamazzavano e le farfalle, una più bella dell’altra, scuotevano le ali sul glicine che s’ingrandiva intrecciandosi coi rami degli alberi o infilandosi tra le pietre del muretto del tratturo. Ricordo le passeggiate su queste “lunghe vie erbose” (cito il titolo di un libro del giornalista Italo Palasciano), i passatempi, le rincorse dei più giovani, gli urli...
Trulli lungo il tratturo |
Quando avevo dodici o tredici anni, sul Chiangaro, con i nipoti di Marusaria, che abitava nel trullo di fianco a quello dello zio prete, giocavamo a “Mammà s’è persa la scarpa di seta” e a volte io e Enzo, mio cugino, giocando a nascondino, ci imbucavano in un minuscolo trullo disfatto e pieno di paglia che stava nel vignale di fronte; e se qualcuno dei partecipanti veniva ad ispezionarlo, avvertendo i passi, ci coprivamo, senza contare che potessimo disturbare il riposo di una vipera. Fin lì arrivava il russo di mio nonno Ciccio, che sonnecchiava al riparo di un’arcata di bouganville; e quando si svegliava veniva nel tratturo a fare da spettatore. Da grande, spesso con mia moglie Irene invitavamo a pranzo i parenti di Taranto, che arrivavano con una provvista di cozze, da fare con gli spaghetti, alla marinara e “arracanàte”; e durante il convivio bevute, battute di spirito, allegria. Poi, mica facevamo la pennichella, no, ma la ronda nel tratturo con un codazzo di figli e nipoti che un giorno improvvisarono una gara per assegnarsi il compito di pitturare il cancello del parcheggio delle auto, rosicchiato in più parti dalla ruggine. Spesso proprio su quello spazio, tra una cilindrata e l’altra, seduti attorno al tavolino fattomi da Ninì Ponte, un amico che aveva avuto un negozio di mobili sullo stradone, organizzavano partite a scopa, oppure, una decina di passi giù, alla fine del vialetto, a bocce. Non eravamo soltanto noi a tenere in vita il tratturo. Ma anche le mie vicine, Rosa e Maria, “cu ‘na mòrre de parìende c’avenène pùre da Sùse”.
La vigna |
Tratturo |
E, puntuali come sempre, eccoli accompagnati dall’orchestrina Crispianapolis, da Donato Plantone e la moglie Ida, in mano una buona dose di delizie della città delle cento masserie. Altro che friselle. Irene accese il forno e prese in mano le pale, mentre sul barbecue profumavano salsicce e fegatini. Al termine, l’orchestra dette il via alla pizzica, scatenando i presenti: spettatori solo Lino Colucci, la moglie Isa, Elio Greco. In un ristorante sottratto alla nostra vista dagli alberi spararono i fuochi d’artificio in onore di una sposa. Ogni tanto veniva Francesco Mastrovito, che era di Martina ma viveva a Taranto da pensionato dell’Italsider. Aveva la testa dura come la pietra di Martina, ma buon intenditore delle cose di campagna. La terra rossa, dipinta dal grande Filippo Alto, gli dava serenità. In gioventù vi aveva lavorato. Una mattina lo sentii parlare all’alloro, un ombrellone che allungava la sua ombra sul tratturo, e gli chiesi il motivo di quel strano monologo singolare. Aveva fatto un innesto sul tronco del fico fasanese, ed era irritato per un errore scoperto da lui stesso poco prima. Imperdonabile, per uno come lui, che attribuiva la colpa all’albero. Lo confortai e se ne andò in fondo al tratturo, ferito nell’orgoglio, indifferente ai ragazzi che inseguivano le lucertole come avevano fatto io e Enzo settant’anni prima. Le prendevamo al cappio, utilizzando ciascuno una festuca. Catturavamo anche le cicale, operazione davvero difficile. Volevo bene a Francesco. Duellò con Gino, uno degli ospiti: per lui la pianta messa a dimora sul bordo del piazzale era origano; per l’altro, maggiorana, come risultava sulla busta dei semi acquistata al supermercato. La polemica non accennava a spegnersi, quando comparve Maria, consumata diplomatica: “Francesco che dice?”. “Origano”. “E origano è”. Ricordavo sempre i giorni del Chiangaro, e tutti stavano attenti, ritenendo quello che dicevo roba dell’altro mondo.
Muro a secco |
Rosa |
Ora la vigna la curano Rosa, la moglie, e Francesco, il figlio. Quando è tempo di vendemmia il tratturo un po’ si rianima: la vigna si sgrava, i grappoli prendono la via del palmento nelle bigonce e a dare una mano viene anche Franco, il fratello di Peppino, che sta a Varese, ma passa l’estate in campagna, nella città dei trulli. Tra una pausa e l’altra facciamo quattro chiacchiere, soprattutto con Franco, che è simpatico e cordiale, assaggiamo qualche chicco e mi viene voglia di gridare “Peppinooo!”, come facevo una volta, quando lui era vivo e a mezzogiorno mangiava il panino, seduto sul muretto del tratturo, con il fiasco di vino accanto. Se oggi non ci fosse Teodosio, che ha la terra al termine del tratturo, dopo la salita, non avrei nessuno con cui parlare, a parte i miei familiari. Teodosio passa con il camioncino, mi vede, scende, mi regala una cassetta di prodotti del suo orto, mi domanda come va la vita a Milano, mi dà qualche notizia del suo lavoro di costruttore… Sulla sua terra ha anche un deposito di materiale che gli serve per la sua attività. E’ una persona piacevole, cordiale. Ma il tratturo è deserto per il resto della giornata.
Martino Lenoci |