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mercoledì 27 gennaio 2016

Franco Presicci a colloquio con Enzo CARACCIOLO capo della squadra Mobile di Milano


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Nei suoi ricordi: più che i trionfi, l'amarezza dei casi irrisolti.  

Il suo desiderio: tornare a Taranto per ammirare i tramonti sul Mar Piccolo, alle 5 della sera..


(fr. pr.) Nonostante fosse in pensione da diversi anni, gli capitava di pensare alle indagini rimaste inceppate. E ne soffriva. Il lavoro dell’investigatore è difficile e non è colpa sua se qualche volta un assassino riesce a sgattaiolare.
Enzo Caracciolo a sinistra intervistato da Arnaldo Giuliani, capocronista de "Il Corriere della Sera".       Al centro, in secondo piano, Matteo Rabiti, allora maggiore della Guardia di Finanza, esperto internazionale di droga
Ma lui, Enzo Caracciolo, capo della squadra Mobile di Milano dal ’68 al ’73, con se stesso era intransigente. “I nostri insuccessi – mi disse durante una conversazione nel salotto di casa sua affollata di libri, in via Piave 8, a Milano, non sono come quelli di un cantante al Festival di Sanremo”. Gli ricordai i suoi trionfi, ma, rivolgendomi un sorriso amaro, replicò: “Se tali sono stati, non mi consolano”. Aveva in mente Simonetta Ferrero, giovanissima studentessa trovata assassinata nel bagno delle donne all’Università Cattolica la mattina del 26 luglio ’71; al tredicenne di Albignano di Truccazzano scomparso il 7 gennaio ’67 e cercato in tutta Italia anche con l’impiego dei cani-poliziotto; alla ultrasettantenne trovata strangolata in casa, dove riceveva spesso più di un amico. I sospetti coinvolsero un giovane che collezionava scarpe: (ne aveva un centinaio e le lucidava ogni giorno); ma un alibi inoppugnabile lo salvò dal naufragio. A questi ricordi Caracciolo s’incupiva. Era uomo sensibile, umano, riservato, pacato, severo. Alto, snello, elegante , comportamento da “lord”, imponeva soggezione ai giovani commissari del turno di notte alle Volanti, da Achille Serra a D’Orta, Micalizio; per non parlare dei sottufficiali e degli agenti, che non di rado alle 11 di sera lo vedevano varcare la porta del suo ufficio in questura, mentre Milano dormiva e la malandra trafficava o se la spassava nei “nights” tra “vamp” e “champagne”.
A sx il mitico Mario Nardone con  Enzo Caracciolo
Caracciolo era siciliano, e agli inizi della carriera aveva lavorato a Taranto, città che con i suoi dintorni gli era rimasta cara, non soltanto per il suo ponte girevole, per i suoi due mari, per lo stesso Palazzo del Governo, di fattura mussoliniana, in cui aveva, e ha, la sede il cuore della polizia, per le masserie di Crispiano, ben cento, per le case incappucciate di Martina. Poi fu mandato a Milano e in via Fatebenefratelli si trovò al fianco del mitico Mario Nardone, detto il “Gatto”; e di altri due pilastri: Mario Jovine e Vito Plantone, diventati in seguito questori, come lui. Ripassava spesso quegli anni, legati a cani da tartufo che si chiamavano Franco Colucci, oggi prefetto a riposo, e allora alla guida della seconda divisione; Rodolfo Venezia, Ernesto Panvini; Enzo Sciscio, dirigente della Buoncostume; i marescialli Ferdinando Oscuri, Giannattasio, Petronella, al quale Caracciolo affidò la sezione furti e falsi…
Lo sollecitai a parlarmi dei duri che aveva preso o fatto prendere all’amo dai suoi uomini e dei loro comportamenti durante gli interrogatori (si facevano agnelli o continuavano a ruggire?); di rivelarmi qualche particolare in più sul sequestri di persona, come quello di Pietro Torelli, avvenuto il 18 dicembre ‘72. E dalle sue parole stentate, interrotte da frequenti silenzi, capii che avrebbe fatto volentieri a meno di queste domande. Ripiegò genericamente sul fenomeno delle sostanze stupefacenti, che diventava sempre più drammatico. Sul mercato – spiegava – quel veleno arrivava, e continua ad arrivare, attraverso i canali più diversi, con i sistemi più insospettabili. I pescicani erano, e sono, una flotta, e gli spacciatori, “pusher”, “cavalli”…, anche. L’”èquipe” di Caracciolo era infaticabile e molte volte conseguirono risultati clamorosi. Assieme a Mario Nardone, passato dalla Mobile alla Criminalpol, sequestrarono 100 chili di eroina pura (valore al minuto parecchi miliardi) in un colpo solo.
Da sx: Mario Jovine, Vito Plantone, Enzo Caracciolo, Antonio Pagnozzi e Renato Oivieri
Bisognava anche fronteggiare le bande di calabresi, siciliani, pugliesi, napoletani, a cui si aggiungevano i marsigliesi poi collegati alla mala romana e ai cileni, “sfrosador”, trafficanti di preziosi. E le bische clandestine, in gergo “belande”, spesso camuffate da circoli culturali, come quella di via Cellini, via Panizza (svaligiata da sei o sette “cammise sporche”, traditori, e fu la strage, del lorenteggio il 18 novembre ’81) e quella di corso Sempione, che il 15 febbraio del ’79 fu al centro di una violenta sparatoria tra pellacce che tempestavano dalla strada e altre dal balcone del tempio del gioco d’azzardo. Le “belande” erano anche all’aperto (in via Palmanova, all’Arena, in piazza Tirana…sui marciapiedi, nel mezzanino del metro Garibaldi), in centro e in periferia. Ne sbancarono una quasi sotto il Duomo con una irruzione condotta personalmente da Enzo Caracciolo e Vito Plantone, impegnati tra l’altro, nell’impresa di snidare gli autori delle estorsioni e delle rapine.
“I problemi erano numerosi – aggiunse Caracciolo il giorno della mia visita -. Tra questi i pezzi da novanta spediti al soggiorno obbligato in Lombardia. Eravamo circondati da mafiosi, sui quali era difficile avere notizie sottobanco”: i “vintidui sordi”, che nella parlata della mala sono i confidenti, dai capibanda venivano puniti inesorabilmente. Un esempio? In un paese nei pressi di Milano un palermitano venne “garrotato” ad un carretto solo perché sospettato di una soffiata. “Lo facemmo notare, al ministero dell’Interno, che quel provvedimemto trapiantava la mafia al Nord…”.. Nel ’70, Caracciolo fiutò la presenza di Tommaso Buscetta su una vettura con tre palermitani a bordo. Ovviamente, non sottovalutò la circostanza e fece sì che “don Masino” venisse catturato in Canada, dove era atterrato. A Milano viveva, fra gli altri, con nome e mestiere di fantasia, Luciano Liggio, la “primula rossa di Corleone”, “Lucianeddu” per gli amici. Venne acciuffato in via Ripamonti alle 6.30 del 16 maggio ’74 dalle “Fiamme Gialle” del colonnello Giovanni Visicchio, anticipando di pochi minuti la “madama” di Caracciolo.
Caracciolo e Plantone
Un giorno tre poliziotti condussero il “boss” Joe Adonis nell’ufficio di Enzo Caracciolo. Il dirigente della Mobile voleva avere da lui alcuni chiarimenti sulla sua vita milanese, sui suoi mezzi di sostentamento, sulle persone che frequentava…, ma il personaggio svicolava, ripeteva che negli Stati Uniti era stato arrestato per aver sbagliato di un solo giorno la data del suo ingresso nella Grande Mela. Come poteva essere preciso, visto che all’epoca era ancora in fasce?, domandò facendo il finto tondo. “Insomma, alla fine – commentò Enzo - ne sapevo meno di prima”. Con quante bocche cucite, oltre a quella di Joe, ebbe a che fare questo poliziotto che al primo fiuto entrava nella testa della gente?. E con quante scene da spettacolo improvvisate da elementi messi da lui alle strette?. Un marsigliese in cella protestò vivacemente per l’affronto subito, e poi da una borsa che portava con sé emerse un registro impreziosito da appunti sulle attività di certi locali notturni.
Caracciolo visse anche il tempo della trasformazione della malavita, che rinunziava al rispetto, al timore riverenziale per il poliziotto e non esitava più a premere il grilletto contro le divise. Era l’alba degli Anni 70.
Il 24 febbraio ‘73, dopo aver neutralizzato i gangster del Mec con Vito Plantone, al quale consegnò il testimone, lasciò la polizia. e via Fatebefratelli perdette uno dei suo uomini migliori salito alla carica di questore. Un poliziotto coraggioso, schivo che non amava i teatrini. “Potevo finalmente leggere con calma i miei libri e passare le serate in famiglia senza più improvvisi strilli del telefono, ordini da dare o corse da fare. Potevo seguire le opere dei miei pittori preferiti: Salvatore Fiume, Giuseppe Migneco…, e contemplare la Puglia nei quadri di Filippo Alto”. Caracciolo era colto, buon conversatore. Amico di Vito Plantone, che aveva condiviso con lui la fatica nella lotta alle coppole storte e alla criminalità comune. che non giurava fedeltà con il sangue da far colare sul santino, ma ugualmente spietata
Da sx:  il prefetto  Antonio Pagnozzi, il questore Enzo Caracciolo, il maresciallo Arnaldo Petronella, il prefetto Mario Jovine, il giornalista del "Corriere" Max Monti, il questore Vito Plantone, il giornalista Arnaldo Giuliani e il prefetto Francesco Colucci
Nelle serate in casa di amici, in cui fumavano le orecchiette con le cime di rapa spolverate con un pizzico di “diaulìcchie asquànde”, seguite da seppie ripiene o da cozze “arracanàte”, non gradiva le scivolate sulla sua brillante attività passata. Si divertiva al racconto delle barzellette (alcune recitate da Vito Plantone, oltre che dal sottoscritto) e a richiesta esprimeva i suoi giudizi su un libro soprattutto di storia. Senza mai assumere atteggiamenti cattedratici. Poi fondò un importante istituto di vigilanza. Nel tentativo di aprire un varco nella sua memoria, una sera gli mostrai le fotocopie di sei o sette pagine contenenti il cerimoniale dell’investitura del ‘camorrista di sgarro’; e le “formule d’investitura nella ‘onorata società di Calabria’”, regalatemi da un investigatore che le aveva pescate in una tasca di un seguace di Cutolo. Enzo le conosceva già. E divagò parlando del suo desiderio di tornare a Taranto anche per ammirare i tramonti sul Mar Piccolo, alle 5 della sera..

mercoledì 20 gennaio 2016

MILANO E TARANTO: RICORDI DI PERSONAGGI PROTAGONISTI DI VECCHI MESTIERI


Da “papà Nicola”(acquaiuolo) a “mèste Fiorènze” (falegname)

La Poesia di Alda Merini-ospite negli anni '80 al villino Valente a Crispiano


Franco Presicci

 

Michele Lamantea con la tromba d'un grammofono
Ogni tanto penso alle mie città lontane: Taranto, “’a nàche”, la mia culla; San Severo, scelta per piacere. Ma penso anche a Milano, che mi ha adottato. Rivedo i luoghi trasformati, le figure scomparse, i mestieri perduti con le loro voci: ascoltate o apprese a suo tempo dai vegliardi e dai libri. Una delle prime persone per me interessanti che incontrati nella terra del poeta Umberto Fraccacreta, San Severo appunto, fu “papà Nicola”, che a ottant’anni, per 10 lire a viaggio, riempiva il suo barilotto alla fontana pubblica e andava a riversare l’acqua nelle giare delle massaie che non avevano l’acquedotto in casa, dando in escandescenze quando il numero dei trasporti gli veniva contestato. Era l’epoca del ballo della mattonella; di “Grazie dei fior” e di “Buongiorno tristezza”, brani vincitori del Festival di Sanremo: il primo, nel ’51, con l’ugola di Nilla Pizzi; il secondo, nel ’55, con quelle di Claudio Villa e Tullio Pane. E’ ai vecchi mestieri che si rivolge spesso la mia mente. “Sciure, el moletta…”, si spolmonava nelle strade l’arrotino per attirare l’attenzione, piantonando il suo laboratorio ambulante. Gli facevano eco lo spazzacamino; il “magnan”, riparatore di tegami, scaldini, chiavi; “el cadregatt” di sedie ; “el gambarèe”, che vendeva i crostacei che si muovono all’indietro (ricercati quelli del Lambro), al quale Odoardo Ferrari dedicò una canzone. “Quell di cuni” giungeva da Cuneo e proponeva castagne al forno infilate in uno spago a mo’ di collana, portata appesa al collo. Uno spilungone novantenne appassionato della Milano di una volta in una ricevitoria del lotto di via Borsieri mi riferì che sentiva ancora i richiami dell’ometto con la cesta colma di pere cotte; dello straccivendolo. urlone più di tutti, tanto da ispirare il detto: “Te voset come on strascèe” (conosciutissimo “el Borella” di piazza Sant’Ambrogio).
Vecchi mestieri alla Sagra di Cesano Boscone /Milano
Non da meno gli ombrellai, ai quali a Gignese, un paesino con un migliaio di abitanti tra Stresa e il Mottarone, hanno dedicato un museo. Meritato, vista la storia secolare che vantano. Parlando fra di loro, per non farsi capire dagli estranei, usavano un gergo, il “tarusc”, in cui l’”ombrellee” era il “lusciatt”. L’uomo del cannocchiale se ne stava invece in silenzio e in paziente attesa quasi all’uscita della Galleria Vittorio Emanuele, affittando per pochi soldi lo strumento alle persone curiose della bellezza delle guglie della basilica. A pochi passi da lui, la nonnina che smerciava lumini per i morti. Tanti disegni, foto, cartoline ritraggono “el “lattee”, il contadino arrivato dalla cascina con gli ovini da mungere sotto gli occhi degli avventori; il “pedocca”, incaricato di chiamare, dietro compenso, le carrozze per chi ne aveva bisogno; il cantastorie, che, accompagnandosi con la chitarra, raccontava i fatti più clamorosi. Il primo della classe il Barbapedana (“el gh’aveva on gilè/ senza el denanz cont via el dedree…”), al secolo Enrico Mulaschi, che con il suo repertorio di antiche ballate popolari e di versi di sua produzione, si esibiva soprattutto nelle osterie. Il Berto preferiva il “trani” (trattoria) di Precotto, uno dei tanti battezzati dagli immigrati originari dell’omonima città pugliese e oggi soltanto un ricordo di chi ha i capelli imbiancati e non ha avuto bisogno di leggere il libro di Vincenzo Pappalettera “Il trani di via Lambro”, edito da Mursia.
Sono così numerosi, questi mestieri, che solo a menzionarli occorrerebbe uno spazio ampio quanto un lenzuolo. Ma non posso tralasciare il “custod di Navili”, il controllore dei canali; o “quell di magattei”, il burattinaio Lampugnani che nell’800 improvvisava il teatrino sotto il Palazzo della Regione . Una quarantina di anni fa, per Telemontepenice, feci una chiacchierata con l’ultimo dei “paron”, timoniere delle chiatte che secoli addietro trasportavano merci a Milano, compresi i marmi di Candoglia per la Fabbrica del Duomo. I suoi predecessori, navigando controcorrente, si avvalevano della “rozza”: cavalli stanchi, acciaccati, di età avanzata, che tiravano dall’alzaia, una delle due sponde del corso d’acqua caro al poeta Alfonso Gatto, al giornalista Gaetano Afeltra, allo scrittore Carlo Castellaneta, a fotografi del livello di Fulvio Roiter e Mario De Biasi,
ad Alda Merini, all’architetto Empio Malara, che continua a battersi per fare scoperchiare quelli sepolti…Adoro queste vie liquide; gli studi dei pittori del vicolo dei Lavandai, dove un ricciolo d’acqua scorre tacito sotto la tettoia sfuggendo al Naviglio. Adoro le case di ringhiera; gli artigiani – a dire il vero, pochissimi - rimasti a lavorare nei cortili, che ospitarono gli atelier di Guido Bertuzzi, Sarik, Formenti, Aldo Cortina… due spazzacamini ed Elvira Radice, che per anni fornì la lisciva alle “lavandere” che sciacquavano i panni nel “rezzulin”, ispirando tante composizioni, come “La bella la và al fosso”.
Lo confesso. Non mi è mai piaciuto l’accalappiacani, che coglieva di sorpresa i randagi, se non c’erano i ragazzini pronti a dare l’allarme. La mia simpatia va al lustrascarpe, abile nel rendere brillanti le tomaie dei signori nella Galleria delle Carrozze della stazione Centrale; e al ciabattino con il deschetto. Per tanto tempo lo cercai, a Milano, rintracciandolo nel settembre nell’87 in via Giangiacomo Mora, al civico 7. Mi fermai ad osservarlo davanti alla porta, se ne accorse e m’invitò ad entrare. Sembrava uscito da una stampa della Raccolta Bertarelli. “Ha fatto appena in tempo – si lamentò -. Qui le case sono state vendute e io devo sloggiare. Mi ritiro, dopo 30 anni di lavoro in questo buco”. Si chiamava Luigi Luca, aveva 67 anni, era siciliano di Bronte, “il paese dei pistacchi distribuiti in tutta l’Europa“. Aveva cominciato a praticare il mestiere quando era ancora un bamboccio, la mattina a scuola e il pomeriggio in bottega, sottocasa, dal maestro che lo aveva esortato. Divenne bravo, si trasferì nel capoluogo lombardo, si fece un none. Tra i suoi clienti, Walter Molino, il famoso illustratore che mosse i primi passi nel ’35 collaborando con “L’intrepido” e “Il monello”, continuò con il “Bertoldo”, il “Marc’Aurelio, il “Candido” di Giovannino Guareschi; e prese il posto, nel gennaio del ’41, di Achille Beltrame nella realizzazione delle copertine de “La Domenica del Corriere”. “Lo sa che mi ha promesso una caricatura?”, m’informò con orgoglio Luigi, che, prima di congedarmi, unico sopravvissuto della categoria tradizionale, mi regalò una chicca. “Un cliente mi ordinò un lavoro particolare: un alloggiamento nel tacco di un mocassino, che doveva contenere un coltello per un suo amico rinchiuso nel carcere di San Vittore. Gli risposi che non sapevo farlo”. In seguito l’ho nuovamente cercato, Luigi Luca. Ma invano. Trovai un suo collega in via Lorenteggio, Nicola Sardone, pugliese, ma lui l’armamentario da antiquariato lo teneva in esposizione a testimoniare un passato sconfitto dalla tecnologia. Lo utilizzava solo qualche volta per sfizio o per dimostrazione. I ciabattini hanno avuto precedenti illustri. San Crispino e san Crispiniano tra una preghiera e l’altra ridavano dignità alle calzature. Anselmo Ronchetti prese a occhio le misure dei piedi di Napoleone, che stava attraversando corso Venezia diretto a Palazzo Serbelloni; e durante la notte confezionò un paio di stivali. Li consegnò, soddisfacendo appieno il destinatario, che lo raccomandò alla sua corte e ai suoi amici sparsi in Europa.
Ritratto di Michele Lamantea eseguito da Federica Berne per il libro Gente di Brera





Michele Lamantea non ha avuto una notorietà così estesa, ma era certamente nel cuore del popolo del quartiere di Brera, dove, all’angolo di via Fiori Chiari, di fronte al Bar Giamaica (che a suo tempo fu frequentato da personaggi famosi, da Carrà a Kodra; da Fontana a Tadini; da Quasimodo a Gonfalonieri…), ogni mattina alle 10 allestiva il suo punto vendita, sul marciapiede. Compariva in sella ad un triciclo con un cassoncino pieno di pezzi unici (busti in bronzo, lampade liberty, medaglioni, cornici, quadri…) e iniziava la sua giornata. Taciturno, riservato, basso, magro, cappello a cilindro in testa, la sera del 4 dicembre 2002, dopo aver riscosso una piccola vincita al lotto al vicino tabaccaio prima di rincasare, fu investito da un’auto e il 25 gennaio, vigilia del suo compleanno, morì in ospedale. Durante la cerimonia funebre nella chiesa di San Marco, alla quale parteciparono quasi tutti gli abitanti della zona, i commercianti e gli studenti dell’Accademia, il primo violoncello della Scala, Sandro Laffranchini, suonò la suite 2 di Bach, invitato dal baritono Giuseppe Zecchillo, che, affranto, commentò: “Con Michele se ne va un altro pezzo del cuore di Milano”. E indicò il libro “Gente di Brera”, che fra tanti ritratti, eseguiti da Federica Berner, di modelle, scrittori, pittori, cantanti, critici, artigiani, esercenti noti non solo da quelle parti, contiene quello di Michele Lamantea.
Un regista promise di girare un film sulla sua vita. Era l’ultimo rigattiere della città del Porta, aveva 77 anni,, era nato a Barletta.
Sediaio all'opera
Eh, la Puglia. Ero un marmocchio quando a Taranto passavo ore a guardare “’u conzagràste”, maestro nel rimettere insieme i cocci degli oggetti in terracotta, servendosi anche del trapano a mano e del filo di ferro; “’u ‘mbagghiasègge”, “’u cadaràre”… Spuntavano annunciandosi a gran voce, come il giovanotto “de le pampanèdde”, quagliato servito in un pampino. Era il più mattiniero: dava la sveglia alle 7. Assediato il chioschetto “d’u gràtta-gràtte”, una bibita al limone o alla menta o all’orzata ottenuta raschiando un blocco di ghiaccio con un pialletto. “’U conzalume” si presentava ogni giorno alla stessa ora; e, all’occorrenza, di quella fonte di luce sostituiva “’ u bècche”, da cui usciva “a gazzettèlle”, “’u tùbbe”, che poteva avere forme diverse: panciuto, affusolato… (in ogni casa si teneva una piccola riserva di combustibile che si acquistava dal carbonaio). Ad alcune di queste attività Diego Fedele ha dedicato versi divertenti, a volte maliziosi. Vi ritroviamo “’u caggiunìere”, che in piedi “sus’u traìne” con le ruote cigolanti correva da “le Caggiùne” a Taranto vecchia con ortaglie fresche “ca stennève ‘ndèrre” giù alla dogana, sulla riva del Mar Piccolo, e intonava la sua sinfonia: ’Uagnè, v’hàgghie purtàte ‘u rafanìjdde’…”. Mio padre mi parlava “de le crapàre” che quando lui era giovanotto vendevano il latte spremendo per strada le mammelle delle pecore; “d’u zucàre”, il cordaio, che aveva come garzone “’u geratòre”, addetto a girare la ruota. ’Nno ère àrta còmete” per Cataldo Acquaviva. Non era arte comoda neanche quella “d’u pezzàre, “ca scève gerànne” strillando in cerca di stracci; e quella “d’u ‘mbrellàre”, che si portava appresso “’na cascetèdde” con pinzette, piccoli ganci, “file de fìerre”…, e in spalla aste, manici, stecche necessari per la funzionalità di quelle cupole di seta, di cotone….

Qualche mestiere era davvero arte. Quella del bisso, per esempio, la cui materia prima era data “d’a paricèdde”. Ne ho viste, di “paricèdde”, ai tempi che Berta filava. E ho visto “’a ‘ngègne” (la noria) con il cavallo che facendo ruotare, bendato, una sbarra di legno, permetteva all’acqua del pozzo di salire. E “mèsta Rònze”, attempata proprietaria di un orto che produceva fra l’altro “’a gnète” , subito dopo via Giovan Giovine, confine tra la città e la campagna . Ero alto quanto un bastone da passeggio e osservavo “mèste Fiorènze” che, in via Nettuno, nell’androne di uno stabile cosparso di segatura e “farfùgghie”, lavorava al bancone con sega, raspa, pialla, morse, mentre “le uagnùne” giocavano alla livoria, “’o spezzìedde” (la lippa) o alla morra sul marciapiede di fronte, che era più largo della strada.


lunedì 11 gennaio 2016

LE RICOGNIZIONI DI SUPERFICIE DELLA VRIJE UNIVERSITEIT AMSTERDAM NELL’ENTROTERRA TARANTINO


Rapporto riassunto di Dorota Joanna Biesiekirska
Crispiano, 12 gennaio 2016

Michele Annese

Dai risultati ottenuti nel decennio di scavi, si evince quanto sia stato positivo il confronto, tra gli studi di altri specialisti con i risultati ottenuti dalle ricognizioni finora effettuate nell'area tarantina.

Come crispianesi, siamo onorati di avere sulle nostre aeree di interesse archeologiche l'attenzione autorevole della Università olandese con la direzione scientifica del prof. dr. Gert-Jan Burgers e contributi di alto valore scientifico come questo rapporto della dott.ssa Biesiekirska, che riportiamo integralmente, alla quale vanno, oltre i complimenti per il lavoro fatto, anche il ringraziamento per l'esclusività. Un grazie anche a Marco Boeringa per la realizzazione delle figure inserite nel testo.
Da molti anni vengono effettuati sul nostro territorio ed in particolare nell'area della masseria L'Amastuola, studi da parte della Vrije Universiteit Amsterdam, con grande impegno e profonda conoscenza della materia . Dal rapporto della ricercatrice specialista dott.ssa Dorota Biesiekirska, che pubblichiamo in esclusiva sul Corriere PL, si evince quanto sinora è stato fatto per approfondire gli studi sui reperti di grande interesse storico, presenti nel nostro territorio e quanto è necessario ancora fare per avere certezza e conferme “ delle diversità spaziali/ambientali in relazione ai modelli insediativi e alle dinamiche del popolamento rurale nel territorio tarantino”.

LE RICOGNIZIONI DI SUPERFICIE DELLA VRIJE UNIVERSITEIT AMSTERDAM NELL’ENTROTERRA TARANTINO NEL 2015
(TARANTO, PUGLIA, ITALIA)
1. INTRODUZIONE: Le ricerche archeologiche pregresse dell’università VU Amsterdam
2. LA CAMPAGNA DI RICERCA 6-25 LUGLIO 2015
2.1 L’età del Ferro (IX-VII secolo a.C.)
2.2 Le fasi tardo-antica ed alto-medievale (IV-X secolo d.C.)
2.3 Il periodo arcaico (VI secolo a.C.)
2.3.1 L’impostazione e gli obiettivi della ricerca
2.3.2 I risultati preliminari della ricerca
2.4 Osservazioni conclusive/prospettive di ricerca futura
1. INTRODUZIONE: Le ricerche archeologiche pregresse dell’università VU Amsterdam
Tra il 2003 e il 2010 il territorio tarantino è stato interessato da indagini archeologiche sistematiche da parte dell’università Vrije Universiteit (VU) di Amsterdam, coinvolgendo diverse università Italiane – Università La Sapienza di Roma, Università degli Studi di Lecce, Università di Salerno – ed in stretta collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Archeologici della Puglia a Taranto. Le indagini sono state programmate con l’obiettivo di verificare ipotesi esistenti sui modelli e le dinamiche insediativi nonché sull’organizzazione del territorio tarantino nell’ampio quadro cronologico, focalizzando l’attenzione sul primo millennio a.C., e sotto l’aspetto storico sul periodo della colonizzazione greca (VIII-III secolo a.C.). (Burgers & Crielaard 2007, pp. 77-114; Burgers & Crielaard 2011 (eds); Crielaard & Burgers 2012, pp. 69-106)
La ricerca archeologica di campo si è svolta nell’area a nord-ovest di Taranto (nei territori di odierne comuni di Crispiano, Statte, Massafra, Martina Franca, e Taranto), includendo gli scavi nell’area d’antico insediamento di Masseria L’Amastuola (2003-2005, 2007-2008), l’esplorazione intensiva e lo scavo nell’area di necropoli coeva distante circa 700 m a sud dall’insediamento (2005 e 2010 rispettivamente), e le ricognizioni sistematiche di superficie – i surveys – nell'area più ampia del nord-ovest Tarantino e le Murge meridionali (2003-2005, 2007, 2010).
(Fig 1 Taranto-Murge Survey 2003-2010-2015)
Le ricognizioni archeologiche di superficie (surveys), mentre da un lato, hanno permesso di considerare il sito di L’Amastuola su una più ampia scala sia geografica che cronologica, dall’altro, hanno consentito di avviare uno studio sistematico dei modelli e le dinamiche insediativi nel territorio tarantino e le Murge meridionali in generale. Le indagini di campo, il cui punto di partenza è l’ambiente stesso, hanno interessato il transetto che va dalla costa Ionica (circa 10 km a nord-ovest dalla Città Vecchia di Taranto) verso la costa Adriatica, attraversando i seguenti sistemi morfologici: la pianura costiera leggermente inclinata, il pendio ondulato, e l’altopiano collinoso delle Murge. Entro ciascuno di tali sistemi sono state esplorate sistematicamente delle aree campione, permettendo anche un’analisi dei risultati in relazione alle diverse caratteristiche e dinamiche del paesaggio fisico. (Van Joolen 2003; Burgers, Biesiekirska, Laera 2011, pp. 119-131); (Fig 2 Taranto-Murge Survey Land Systems)

Tramite le ricognizioni di superficie sono state individuate più di 50 aree coinvolgenti concentrazioni dei reperti archeologici, in particolare frammenti ceramici, in alcuni casi associati ai resti di strutture archeologiche. Tali aree con densità dei reperti relativamente alte inducono ad ipotizzare la presenza di siti antichi, la maggior parte dei quali da interpretare come abitati oppure fattorie e necropoli, riferibili variamente all’età del Bronzo, al periodo classico-ellenistico, e quello romano. Specialmente nel periodo classico-ellenistico (V-III secolo a.C.) si assiste ad aumento dei siti, nonché si registrano densità dei reperti ceramici relativamente alte. Questa situazione è prevalentemente riscontrata nell’area campione entro il paesaggio del pendio ondulato (d’altronde una zona maggiormente indagata entro il transetto interessato dal survey). L’altopiano collinoso delle Murge sembra invece soprattutto favorevole ai siti dell’età del Bronzo, mentre l’area campione della pianura costiera contiene più che altro quelli ellenistico-romani. (Burgers, Biesiekirska, Laera 2011, pp. 119-131; Biesiekirska, Laera 2011, pp. 159-242)
Come si evince dai risultati delle ricognizioni di superficie mancano chiare evidenze archeologiche dell’età del Ferro (IX-VII secolo a.C.) e della fase arcaica (VI secolo a.C.). Ad eccezione ovviamente dei resti archeologici documentati sul sito di L’Amastuola, nessuna traccia riferibile in modo evidente all’età del Ferro è stata ritrovata entro le aree campioni sottoposte alle ricognizioni di superficie, mentre frammenti ceramici databili nel periodo arcaico sono estremamente scarsi.
I risultati delle indagini archeologiche 2003-2010 portano dunque al momento a presupporre l’esistenza tra l’età del Ferro e la fase arcaica di un modello d'insediamento di tipo nucleare nell’area nord-occidentale del Tarantino. L’abitazione poteva essere concentrata in piccoli villaggi con il sito di L’Amastuola come l’abitato di riferimento. L'occupazione del territorio più estensiva/diffusa di tipo rurale sembra verificarsi solamente nel periodo classico, raggiungendo la sua massima espansione e densità nel periodo ellenistico (IV-III secolo a.C.). Un’ipotesi paragonabile è stata già proposta sulla base delle occasionali ricerche precedenti, ben inteso che l’occupazione capillare del territorio avrebbe la sua origine già nel periodo arcaico, conoscerebbe un calo sensibile nel corso del V secolo a.C. ed una ripresa fin dalla fine del secolo, seguita dalla massima estensione nel secolo successivo, cioè sempre nel periodo ellenistico (Osanna 1992; Greco 2000, pp. 171-201; Osanna 2000, pp. 203-220; Nuovi Documenti dai Territori Tarantini 2001).
Ciononostante, per un’attenta interpretazione, i risultati dei surveys (ed ipotesi esistenti) devono essere inquadrati in un contesto geografico più ampio.
Per quanto riguarda l’età del Ferro, evidenze archeologiche sono ad oggi attestate, oltre a Masseria L’Amastuola, in una serie di siti nella regione tarantina: Masseria Badessa Vecchia (Degrassi 1962, pp. 70-74; Stazio 1967, pp. 272-273; Maruggi 1989-1, pp. 111-117; Maruggi 1989-2, pp. 204-205; Lo Porto 1990, p. 93; Maruggi 1991, pp. 276-277; Maruggi 2001, pp. 54-55; Donvito 2003, p. 70), Montemesola (Fornaro 1967, pp. 345-348; Stazio 1967, p. 272; Maruggi 1994, pp. 155-156), Monte Salete (Fornaro 1967, pp. 345-348; Stazio 1967, p. 272; D’Andria 1990, pp. 445, 453-454; Lo Porto 1990, p. 93), Contrada Lonoce (Fornaro 1978, pp. 36-44), Masseria Vicentino (Fornaro & Alessio 2000, con bibliografia), Monte Sant’Elia (Alessio 2001, pp. 87-92), Torre di Saturo (Osanna 1992, pp. 29-31, con bibliografia; Dell’Aglio et al. 1999; Lo Porto 2001, pp. 7-18). Manca però una ricerca programmata e sistematica che consente di contestualizzare le osservazioni sui modelli insediativi nella prospettiva sia geografica che cronologica più ampia. È importante per esempio di domandare se si tratta di fondazioni nuovi o meno, e come era la relazione con le epoche tanto precedenti quanto quelle successive?
Per quanto riguarda il periodo arcaico, la documentazione archeologica, nota dalla bibliografia, ci informa sulla presenza di piccoli abitati e necropoli sparsi (Quagliati 1904, pp. 223-232; Stazio 1967, pp. 270-272; Lippolis 1990, p. 416; Lo Porto 1990, pp. 67-75, 85-89; Menchelli 1991, pp. 470-474; Mattioli 2002, pp. 116-118; Tutela e Conoscenza 2013), nonché sul esistenza di siti più grandi nel territorio tarantino (oltre all’insediamento documentato a L’Amastuola, a Masseria Badessa Vecchia, Masseria Vicentino, Monte Sant’Elia, Torre di Saturo). Visto che scarsi reperti da riferire alla fase arcaica sono stati ritrovati durante le ricognizioni di superficie entro alcuni siti classico-ellenistici, bisogna però porre una domanda se l’alta densità dei reperti classico-ellenistici (e dunque il supposto sfruttamento del territorio intensivo relativo a questo periodo) non ha reso invisibili le tracce di epoche precedenti (coprendole o cancellandole), soprattutto se si presuppone una continuità dell’abitazione sullo stesso posto.
2. LA CAMPAGNA DI RICERCA 6-25 LUGLIO 2015
Nel 2015 l’Istituto di Archeologia della Vrije Universiteit (VU) Amsterdam, sotto la direzione scientifica del prof.dr. Gert-Jan Burgers, ha ripreso la ricerca archeologica di campo nell’entroterra tarantino e le Murge meridionali con l’obiettivo principale di verificare questioni riguardanti l’età del Ferro (IX-VII secolo a.C.) e la fase arcaica (VI secolo a.C.).
La prima campagna di ricerca ha anche coinvolto la collaborazione di uno studioso specialista in archeologia medievale, dr. Angelo Castrorao Barba. La sua parte dedicata sui modelli e le dinamiche insediativi tra la tarda antichità e l'alto-Medioevo (IV-X secolo d. C.), un altro periodo poco attestato nel territorio tarantino, ha ampliato il panorama cronologico delle indagini, nonché delle problematiche connesse alla visibilità nella superficie delle diverse fasi di cultura materiale.
La ricerca di campo, sempre finalizzata allo studio di modelli e dinamiche insediativi, è stata dunque cronologicamente focalizzata sui periodi scarsamente o non attestati durante le ricognizioni di superficie della VU precedenti, cioè l’età del Ferro, il periodo arcaico, ed in più le fasi tardo-antica ed alto-medievale.
2.1 L’età del Ferro (IX-VII secolo a.C.)
Rispetto all’età del Ferro si è cercato di ampliare il contesto geografico della ricerca, già svolta dalla VU, con l’obiettivo di verificare evidenze archeologiche note dalla bibliografia e di inquadrarle nel contesto cronologico cercando di individuare delle (dis)continuità con le fasi sia precedenti che successive. La ricerca di campo è stata eseguita da Ties Verhoeven nell’ambito della sua tesi di laurea. Sono stati effettuati dei sopralluoghi sui siti rilevanti nell’area più ampia della provincia di Taranto con l’obbiettivo di raccogliere dati riguardanti l’estensione e la cronologia dei siti. Tale ricerca aveva anche uno scopo orientativo, puntualizzando le condizioni per un futuro programma verto sui siti dell’età del Ferro.
2.2 Le fasi tardo-antica ed alto-medievale (IV-X secolo d.C.)
La ricerca archeologica accentrata sulle fasi tardo-antica ed alto-medievale è stata programmata e eseguita da Angelo Castrorao Barba. Il lavoro di campo includeva dei sopralluoghi sulle aree/sui siti significanti, ed eventuale raccolta (non sistematica) dei materiali diagnostici, con l’obiettivo di valutare le condizioni e le potenzialità di fornire materiali/indicazioni rilevanti al fine di poter programmare le indagini future.
2.3 Il periodo arcaico (VI secolo a.C.)
2.3.1 L’impostazione e gli obiettivi della ricerca
La ricerca di campo parte da un presupposto che l’alta densità dei reperti di superficie appartenente alla fase classico-ellenistica potrebbe aver diminuito la visibilità dei reperti delle fasi precedenti, così come una continuazione dell’uso su un sito nella fase classico-ellenistica potrebbe far svanire tracce dell’uso nelle fasi precedenti.
Posto che tale situazione avrebbe reso lacunosi i risultati dei surveys sistematici già eseguiti (2003-2010), si è deciso di tornare su questi siti classico-ellenistici che avevano fornito alcuni reperti databili nella fase arcaica (sono scelti sei siti in totale), con l’obiettivo di verificare la presenza di altri resti da riferire a tale fase precedente. Inoltre, tenendo conto della possibilità che le aree campione già indagate non avrebbero tuttavia coperto delle zone con una frequentazione arcaica, il programma prevedeva anche di indagare per la presenza di resti arcaici delle aree nuove. Sono scelte tanto aree adiacenti alle zone che avevano già fornito alcuni (probabili) resti arcaici, quanto aree dove nel passato, come noto dalla bibliografia, sono stati ritrovati necropoli arcaiche.
In concordanza con gli obiettivi della ricerca sono state eseguite delle ricognizioni di superficie sistematiche (non statistiche) e dei sopralluoghi nelle località seguenti:
    • Masseria Capitolicchio Vecchia (Taranto)
    • Masseria Gravinola Nuova (Statte)
    • Masseria San Sergio (Massafra)
    • Masseria Cacciagualani/Masseria Triglio (Crispiano)
    • Masseria La Pizzica (Crispiano)
    • Masseria Fornace (Crispiano)
    • Masseria Caccavella/Pozzo del Termite (Crispiano)
Tali zone sono state indagate in modo sistematico, attraverso la ricognizione di superficie, da un gruppo di cinque studenti in archeologia, sotto direzione di ricercatori specialisti Corine Tetteroo e Dorota Joanna Biesiekirska. Durante le ricognizioni è stata effettuata una raccolta ridotta dei materiali archeologici puramente diagnostici per la definizione della cronologia dei siti/delle evidenze archeologiche individuate. I materiali archeologici raccolti, consistenti di frammenti di ceramica, sono stati sottoposti all’analisi cronologica eseguita da Dorota Joanna Biesiekirska.
La cartografia di base e l’apparato grafico (sistema GIS: Geographic Information Systems) sono stati curati ed elaborati da Marco Boeringa. Si desidera ringraziare gentilmente Marco Boeringa per la realizzazione delle figure accluse al presente contributo.
2.3.2 Risultati preliminari della ricerca (Fig 1 Taranto-Murge Survey 2003-2010-2015)
Le ricognizioni di superficie 2015 nelle aree dei siti già individuati tra il 2003 e il 2010, hanno fornito solo nel caso di uno dei sei siti scelti, chiare prove della frequentazione nell’età arcaica. Si tratta di un sito ubicato nell’area di pendio ondulato alla distanza di circa 600 m a S/SE da Masseria La Pizzica. Durante il survey nel 2015 l’area del sito era di recente finemente arata, il che migliorava la visibilità del suolo e dei materiali archeologici (frammenti di ceramica). Le densità dei materiali visibili nel superficie raggiungevano adesso in alcuni parti anche più di 20 frammenti al metro quadrato. È stata raccolta una quantità di materiali diagnostici relativamente alta. Si segnala una consistente presenza di ceramica a vernice nera, a figure rosse, da cucina, ed acroma includendo anche frammenti di anfore, di mortai, di bacini, e di pithoi, nonché pesi da telaio. La maggior parte della ceramica fine è databile tra il V ed il III secolo a.C. ma sono stati ritrovati alcuni frammenti diagnostici riferibili al VI secolo a.C. Si tratta tra l’altro di un frammento di un’anfora a figure nere , due frammenti di una kotyle, ed un frammento di un cup-skyphos. È dunque abbastanza evidente che tale sito potenzialmente aveva un’origine oppure un predecessore nell'età arcaica.
In tutti altri casi i siti sono rintracciati più o meno nei stessi posti, però con densità dei reperti relativamente basse. Questa situazione è probabilmente dovuta alla visibilità minore dei reperti in superficie rispetto ai anni precedenti. In questi casi il suolo non era arato di recente e si presentava molto secco e coperto dal polvere/da una vegetazione, il che peggiorava gravemente la visibilità dei frammenti ceramici in superficie. Sono raccolti solo estremamente scarsi reperti diagnostici risalenti al periodo classico-ellenistico. Non si è potuto affermare la fase arcaica.
Le ricognizione di superficie 2015 nelle aree adiacenti al transetto 2003-2010, quelle note dalla bibliografia per i rinvenimenti di tombe arcaiche, come Località Capitolicchio Vecchia e Gravinola Nuova, non hanno fornito nessuna traccia chiara di frequentazione in età arcaica. Entro il paesaggio di pianura costiera, nell’area di Masseria Capitolicchio Vecchia, i processi naturali (sedimentazione) hanno probabilmente disturbato la visibilità di resti archeologici in superficie. In altre zone, e soprattutto nell’area di primi terrazzamenti del pendio ondulato posta direttamente a NE ed E/SE di Masseria Gravinola Nuova, si deve ammettere una distruzione o dispersione di contesi archeologici dovuta all’impianto di nuovi vigneti ed uliveti. È stato invece ritrovato un sito in un’area confinante a N dei campi coltivati. Si tratta di un’area rocciosa coperta dalla macchia quasi impenetrabile. Sono state individuate resti di strutture antiche scavate nella roccia affiorante e probabilmente riferibili alla produzione dell’olio. Nella stessa zona è stata trovata una struttura rettangolare scavata nel bancone roccioso. La camera era dotata di pavimento a mosaico composto da piccoli pezzi di terracotta. Nelle dirette vicinanze erano anche visibili delle tracce di carraia e di cave per estrazione di pietra, nonché una tomba scavata nel banco di roccia ed un tratto di muro a secco. Nella superficie erano visibili molte tegole ma pochi frammenti ceramici, maggiormente non diagnostici. Sono raccolti alcuni frammenti di anfore, molto consumati, da riferire probabilmente all’età greca e quella romana.
Anche la ricognizione di superficie in una ridotta area più a NO di queste evidenze, in località San Sergio (Massafra), ha rilevato presenza di un sito. Si tratta di una concentrazione di reperti ceramici da riferire al periodo classico-ellenistico, rintracciata in uno dei campi arati, che sembrano in un certo senso ritagliati all’interno di una zona rocciosa coperta di macchia. In tali campi un livellamento del terreno è molto probabile il che avrebbe compromesso al meno parzialmente il contesto archeologico.
La ricognizione di un’altra area entro il paesaggio di pendio ondulato, posta a S di Masseria Cacciagualani (verso Masseria Triglio) e delineata dalle incisioni di Gravina di L’Amstuola in O e di Gravina di Triglio in E, ha rilevato la presenza di altri siti e strutture antichi, non solo confermando l’uso intensivo della zona nel periodo classico-ellenistico, ma anche attestando la sua frequentazione in altre fasi cronologiche. Si nota in questa zona la presenza di pozzi e cisterne, nonché di cave antiche per estrazione di pietra (soprattutto lungo il lato occidentale della Gravina di Triglio). Sono rintracciate quattro nuove concentrazioni di reperti ceramici visibili in superficie, una delle quali da riferire all’età del Bronzo, la seconda alle fasi classica, ellenistica e romana, e le altre due al periodo classico-ellenistico. Una di queste ultime è ritrovata alla distanza di solo 100 m a SE da una piccola necropoli individuata proprio qualche giorno prima dalla Soprintendenza Archeologica della Puglia. La necropoli è ubicata in un campo (non ancora oggetto di ricognizioni sistematiche) alla distanza di circa 200 m a N dalla Masseria Triglio. La parte scavata della necropoli era costituita da quattro tombe a fossa rivestite e coperte da lastroni di pietra locale. I materiali ceramici provenienti dalle tombe sono stati datati nel periodo classico-ellenistico (informazione orale dai scavatori). Visto la vicinanza tanto spaziale che cronologica tra i due siti (la concentrazione dei reperti ceramici e la necropoli), si può proporre una relazione tra di loro. Così la necropoli potrebbe essere associata ad un abitato/una fattoria, in quel caso la concentrazione dei reperti ceramici. Comunque, al momento la funzione di tale sito non può essere accertata, mentre un rinvenimento nella vicinanza di due frammenti di lastre tombali in terracotta attesta un’esistenza di altre tombe nell’area, già devastate da lavori agricoli oppure d’attività clandestine.
È stata anche esplorata un’area più a NE, ricadente già entro il paesaggio dell’altopiano collinoso delle Murge. L’area si compone di appezzamenti di terreno coltivabile ed arato all’interno di una più ampia zona semi-pianeggiante, caratterizzata dalla presenza di macchia mediterranea, di terre rosse, e dall’affioramento frequente di banco roccioso. In uno dei campi coltivabili, a S di Masseria Caccavella, malgrado la scarsa visibilità del suolo a causa della presenza di fieno, è stato rintracciato un sito, consistente di una concentrazione di reperti ceramici. Però, non sono rinvenuti dei materiali diagnostici. Sulla base dei classi di ceramica presenti tale sito è da riferire solo in modo preliminare all’età romana. È consigliabile di tornare nell’area del sito al momento opportuno dopo aratura del terreno.
2.4 Osservazioni conclusive/prospettive di ricerca futura
I risultati preliminari della ricerca di campo 2015, mentre da un lato sembrano, almeno parzialmente, ricalcare quelli dei surveys 2003-2010, dall’altro, apportano significanti dati nuovi, suscitando la necessità di una ricerca futura. Si distinguono essenzialmente tre livelli spaziali su cui eseguire tale ricerca:
  1. La ricognizione sistematica dei siti già rintracciati ripetuta nei diversi momenti/condizioni differenti (del suolo/della visibilità);
  2. L’ampliamento delle aree campioni sottoposte/da sottoporre a survey;
  3. L’inquadramento dei surveys nel contesto sia geografico che cronologico più ampio.
Ad 1. Risulta evidente che durante la ricognizione in condizioni della scarsa visibilità del suolo/di reperti ceramici in superficie, mentre si riescono a riconoscere i limiti di una concentrazione/un sito stesso, la sua rappresentatività cronologica può potenzialmente diventare lacunosa. Al fine di ottenere una visone della cronologia più completa o meno lacunosa dei siti individuati tramite i surveys è dunque raccomandabile la ripetizione delle ricognizioni sui siti rilevanti per quanto possibile direttamente dopo aratura del suolo.
Ad 2. Il rinvenimento, durante la campagna di survey 2015, di due siti abbastanza corposi inquadrabili uno nell’età del Bronzo e l’altro nel periodo ellenistico-romano nell’area del paesaggio di pendio ondulato, cioè nella zona che, sulla base dei surveys precedenti, sembrava soprattutto favorevole all’occupazione classico-ellenistica, è una prova evidente che le aree campione finora indagate sono troppo limitate a rappresentare/comprendere tutta una scala dei siti esistenti.
Anche se probabilmente non sarà possibile identificare tutti i siti esistenti nella lunga durata, per una visione più completa o meno lacunosa della scala/diversità/tipologia dei siti nei diversi sistemi del paesaggio è necessario ampliare le aree campioni in ognuno di tali sistemi.
Ad 3. L’inquadramento dei surveys nel contesto cronologico e spaziale più ampio è necessario per un’analisi più attenta ed una loro migliore interpretazione. In tale ambito si deve pensare, non solo, allo studio bibliografico e la raccolta di dati disponibili sui siti in un’area più ampia, ma anche, a surveys di aree campione nuove scelte/ubicate anche in zone più diverse e remote dal transetto già indagato (si pensa per esempio alla zona a NE da Taranto). Solo tale indagine potrà consentire lo studio delle diversità spaziali/ambientali in relazione ai modelli insediativi e alle dinamiche del popolamento rurale nel territorio tarantino.
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