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mercoledì 28 novembre 2018

Un fotografo avido di luce

Marzio Franco durante l'intervista

MARZIO FRANCO, DI MONZA


INNAMORATO DEL SALENTO



Si definisce stanziale, e ha invece
visitato più volte Parigi, la Sicilia,
la Puglia. Un racconto molto lungo
con immagini, il suo, testimoniato
da mostre in spazi importanti e da
volumi prestigiosi. L’altra sera una
sua esposizione è stata visitata da
un folto pubblico. Sue foto sono
state esposte sabato 24 a Milano,
a Palazzo Reale, in occasione di
“Ambasciatori di Puglia”.




Franco Presicci
                                                                                                   Si definisce stanziale.
Foto di Marzio Franco
“Non mi sono mai mosso da Monza per fare il pellegrino in altre località della Lombardia. La Brianza è una terra ricca di attrattive, paesaggi splendidi, spianate di verde…, tanto che alla fine del Settecento i nobili di Milano per le vacanze vi costruirono ville di delizia che con la loro magnificenza dovevano testimoniare il potere e la ricchezza della famiglia”.

Dal libro Monza paesaggi quotidiani
Quando “Il Cittadino” di Monza, prendendo spunto dalle “Passeggiate fotografiche milanesi”, lo ha incaricato di portare in giro per la Brianza, dove viene pubblicato e venduto, amici e conoscenti desiderosi di fare “clic” verso un angolo seducente da pubblicare in una pagina apposita del quotidiano, non se l’è fatto dire due volte. “Siamo stati a Vimercate, Lissone, Meda, Cesano Maderno, Agliate, Cornate d’Adda, Briosco, Parco e centro di Monza. E anche a Milano, a Porta Genova: via Tortona, la darsena, il Naviglio Grande, vicolo dei Lavandai… e alla Bicocca, zone di una città che ha una bellezza ”meno rigorosa e chiusa”; e perciò “più difficile intenderla a prima vista di quella veneta e toscana”, ha scritto nel ’57 Guido Piovene nel suo ”Viaggio in Italia”, aggiungendo che “bisogna liquidare il luogo comune che questa città e questa regione siano inferiori di bellezza al resto d’Italia”.
Altra foto di Marzio
E allora si può dire stanziale un maestro dell’obiettivo fotografico com’è Marzio Franco, che è stato più volte sulle rive della Senna, come a suo tempo il poeta Raffaele Carrieri; il grande gallerista Guido Le Noci; e tanti altri: scrittori, pittori, letterati, giornalisti, tra cui Guido Vergani, che, figlio di Orio, ha illustrato Milano con un linguaggio colto ed elegante; Domenico Porzio, studioso di Borges e autore fra l’altro di “Primi piani”, in cui concentrò le storie di Montale, Guttuso, Villaggio, Eduardo, Agnelli…? Marzio non ha visitato soltanto Parigi, ma anche la Sicilia (“Ci vado quasi ogni anno”) e il Salento, così pieno di luce e di calore. Si porta dentro l’incanto dei luoghi percorsi, Marzio Franco, 64 anni, hobby-studio, come lui indica il suo spazio, o “spaziotazio”, in omaggio a Tazio Nuvolari, “Nivola”, uno dei più grandi assi dell’automobilismo dagli anni 20 ai 50; e a un gatto randagio “che girava qui attorno e mangiava cinque scatolette di pappa al giorno”.
Il negozio di fronte alla casa di Moro
E proprio in questo riposante ”atelier”, bene illuminato, tutto biancolatte, al piano terra, sono appese una ventina di sue foto con vie, edifici, scalinate, barche, le vetrine di Dorabella, a Maglie, di fronte alla casa di Aldo Moro, il presidente del Consiglio ucciso dalle Br nel ’78; Santa Maria di Leuca; Gallipoli (già il nome, derivante dall’accoppiamento di due parole del greco antico, dice che è bella). Lo colpisce anche l’ospitalità, il calore delle persone, che “mi fa sentire a casa mia”.
Foto di Marzio

E’ tornato in quei luoghi che ristorano l’anima, volendo vedere se poteva migliorare il lavoro già fatto, asciugando il modo di ritrarre un aspetto già immortalato. Rieccolo dunque a Maglie, “da paese contadino a centro di studi e di commercio – parole di Giuseppe Giacovazzo (nel suo ‘Puglia, il suo cuore’), che fu direttore della ‘Gazzetta del Mezzogiorno’ dopo anni trascorsi alla Rai - Case bianche a un piano, pareti bugnate come i palazzi dei signori. Morbida pietra che da qui prende il nome: pietra di Maglie…”.
Foto di Marzio
Rieccolo a Gallipoli, orgogliosa del suo passato per la tenacia con cui lottò contro i romani, gli unni…, decisi ad assoggettarla. Potrebbe parlare a lungo di questa regina che sembra spuntare dal mare: la folla che accerchia i pescatori all’arrivo del pesce; la chiesa di San Francesco con il “Cristo fra i due ladroni”: le porte corte delle case… Si è appostato davanti a un micio addossato ad un muro; in un viale costeggiato da alberi lussureggianti… catturando la pienezza della luminosità, che gli ha suggerito “Così fan tutte” di Mozart, “un’opera azzurra, che trasmette appunto i colori del Sud”.
Marzio Franco illustra una sua foto
Il collegamento gli è forse venuto mentre coglieva il negozio di Dorabella, che è uno dei personaggi dell’opera in cui lo scapolo Don Alfonso manovra i fili che fanno muovere autentiche marionette. ’Così fan tutte’ è l’opera dell’inganno, della scommessa sulle donne, dove tutto ha un doppio senso; e la musica è così solare, che dà l’idea del Mediterraneo…”. S’interrompe per farmi ascoltare un brano della composizione, mentre lo Spaziotazio si riempie di visitatori, ammirati dai risultati di questo artista sensibile e profondo.
Dal voume Sfondi
Lui saluta tutti con un sorriso discreto e un cenno della mano destra e riprende a conversare con me, mostrandomi i suoi libri stupendi: “Monza: paesaggi quotidiani”, “Sfondi”, “interpretazione geometrica di Monza, che è l’esaltazione del quotidiano”, le cose meno rilevanti che non guarda nessuno”: saracinesche abbassate attraversate da scarabocchi tracciati con la bomboletta spray; cancellate; muri intervallati da nicchie, una semicircolare con una bottiglia vuota sul piano; residui di auto; due cavallucci ai giardini…, tutto in un rigore compositivo e un’apparente semplicità di impostazione, come scrive Pio Tarantini.
Maria Grazia mostra i suoi lavori
Marzio Franco racconta con voce pacata, mentre la moglie, Maria Grazia Riva, di professione cardiologa, offre caffè e biscottini. “La passione per la fotografia nacque durante un viaggio fatto con un amico nell’80: lui con la macchina fotografica e io senza. Vidi le foto dei posti visitati e decisi di attrezzarmi anch’io. Iniziai con vedute di architettura su Monza; frequentai un corso di sviluppo e stampa in bianco e nero con il professor Giampaolo Bolognesi al Circolo fotografico monzese; scattai foto con Paola Sammartano…: il sodalizio poi si sciolse, ma non l’amicizia”.Lo si ascolta volentieri senza guardare l’orologio, Marzio Franco, che tra l’altro ha allestito mostre, sempre di immagini in bianco e nero, ”fino a quando non è arrivato il digitale e ho preso a utilizzare il colore.
Saletta per lo sviluppo e la stampa
Il primo lavoro di prestigio è stato quello del cimitero di Monza, che è uno dei più importanti della Lombardia”: una ricerca sulla scultura d’arte sino agli anni ’50. “Monza vanta realizzazioni di scultori di grandissimo livello: da Francesco Messina a Ernesto Bazzaro, a Enrico Pancera…”. Dei monumenti Marzio ritrae i dettagli: il volto, le mani, le pieghe di un abito, un punto bagnato nella luce giusta. “’Il tempo sospeso’, l’impegno sul cimitero, è partito dall’idea di fotografare il Liberty: poi ha avuto uno sviluppo più ampio”.
Il pubblico
Uno sguardo a un’immagine di Lecce e continua: “In seguito ho abbandonato il figurativo e mi sono rivolto alla geometria degli oggetti in cui ci imbattiamo ogni giorno: segnali stradali, passaggi pedonali, cartelli…, che ha prodotto un’altra esposizione intitolata ‘Geometrie irrilevanti” allo spazio “White photo Gallery” di Lecce e alla Fondazione Mastroianni di Arpino, in Ciociaria, oltre che a “Punto Arte” di Monza, a cura di Bianca Trevisan. Un itinerario brillante, quello di Marzio Franco. Con la sua macchina fotografica, che, come un critico scrisse di Mario De Biasi, fa parte della sua anatomia, ci offre immagini armoniche, affascinanti, capaci di suscitare emozioni. Epifanie impreviste, secondo il giudizio di Maurizio Crippa espresso in “Gli occhi, la musica”, contenuto in quel gioiello fotografico, che è “Sfondi”.
Un volume di Marzio Franco
Anche lui, pur conoscendo la sua città, Monza, prova meraviglia di fronte a certi rettangoli colorati di Marzio: mai visto quel brano di paesaggio, quel tratto di campagna annegato nella nebbia; quella panchina in pietra e quell’albero segato in un verde ben pettinato che si allunga fino a un campo da calcio. Chissà quante volte Marzio è tornato in quelle contrade per catturare la luce preferita. La luce, sempre la luce. Le forme, certo, ma devono essere nelle condizioni da lui volute. Marzio è attento, scrupoloso, addirittura pignolo. Cammina osservando, senza stancarsi. Non crede nell’ispirazione, ma nel lavoro. E ogni volta un’opera d’arte. Si ricorda “Il parco non solo ville”, una “ricerca fotografica su ville e cascine all’interno del Parco di Monza, fatta in collaborazione con Paola Sammartano, esposta al Serrone della Villa Reale della stessa città. E il volume “Oui Paris”, con design di Massimo Fiameni, segnalato tra i migliori della categoria “Digital Printing” al Fedrigoni Top Award 2015 ed esposto alla London Stationar’s Hall.
Marzio Franco e la dottoressa Renda
Da Sfondi
Successi di cui Marzio non parla, forse anche perché distratto dai visitatori che vengono a porgli domande su una foto o sulla sua biografia. Pubblico interessato anche alla vita di un artista avido di quei giochi di luce che possono essere irripetibili. L’intervista si conclude e Marzio può dedicarsi ai visitatori, che lo riempiono di elogi meritati. Alcuni sono amici che da lui prendono lezioni di fotografia. Tra questi la dottoressa Salvatrice Renda, detta Titti, siciliana doc, che a suo tempo ha lavorato con Maria Grazia al De Gasperis, all’ospedale di Niguarda, diventando inseparabili. Maria Grazia ha l’hobby di creare fermaposti apprezzabili. Ha aperto una scatola e li ha tirati fuori per mostrarli ad alcune signore in una saletta riservata alle macchine per lo sviluppo e la stampa delle foto. Quando usciamo la via che celebra il campione è semibuia e deserta. L’aria gelida, con promessa non mantenuta di neve. Una volta a casa, ho telefonato a Michele Annese per anticipargli l’articolo, e il direttore mi ha ricordato i tempi in cui nella biblioteca di Crispiano all’epoca diretta da lui si teneva, fra gli altri, un seguitissimo corso di fotografia guidato dal grande fotografo Romano Gualdi, autore delle immagini contenute nel volume “Le cento masserie di Crispiano”. La fotografia: la voglia di fermare le cose.



Su "Notizie Associazione" Lettura  Creativa: Madame Bovary di Flaubert




mercoledì 21 novembre 2018

Indimenticabile Gianni Brera


INVENTORE DI UNO STILE INIMITABILE
FU UN VERO MAESTRO TRA I FORNELLI
 
Lavorò per anni al “Giorno”, dirigendo la 
redazione sportiva. Poi il “figlio del Po”,
il “padano di riva e di golena” passò da un
giornale all’altro. Era un mito. La sua prosa
è stata anche argomento di tesi di laurea.
Affibbiava etichette ai giocatori: Rivera era
l’abatino”. Scrisse anche libri di successo,
tra i quali “Il corpo della ragassa”. Giocò tra
i ragazzi del Milan. Nessuno ha raccontato
il calcio come lui.


                                                  Franco Presicci
Tra la macchina per scrivere e il piatto di spaghetti con il pomodoro la distanza non era lunga. Bastava attraversare i binari della ferrovia che portano alla stazione Centrale e oltrepassare la soglia del Cral del “Giorno”. Il quotidiano si spopolava all’1,30, lasciando all’opera gli speditori, e chi non aveva voglia di andare a letto, giornalisti e poligrafici, poteva andare in quel salone per farsi una partita al biliardo. Alle 5 del mattino il custode metteva la pentola sul fuoco e quando l’acqua bolliva calava giù la pasta.
Marangi e Marchesi
Tra una forchettata e l’altra ognuno esprimeva il suo giudizio, come oggi si fa in certe trasmissioni culinarie, e il voto non era mai al disotto del 9, perché il cuoco, senza la prosopopea di certi “chef” del piccolo schermo, era eccellente, pur non essendo Gualtieri Marchesi. I palati fini, che potevano anche distribuire lezioni, non andavano al dopolavoro, di cui non sapevano neppure l’esistenza. Frequentavano i ristoranti più accreditati o accendevano i fornelli di casa, invitando gli amici o i colleghi in grado di apprezzare. Erano le due o le tre di notte, poco importava. Gianni Brera, geniale inventore di uno stile, che pescava in altre lingue e nel dialetto lombardo per creare un’immagine, per trasmettere ai lettori le sue emozioni, e di etichette per i giocatori più famosi (Gigi Riva, “Rombo di tuono”; Roberto Boninsegna “Bonimba”; Walter Zenga “Deltaplano”; Giovanni Lodetti “Basietta”; Gianni Rivera l”abatino”…), autore di libri godibili come “Il corpo della ragassa”, che Alberto Lattuada convertì in pellicola cinematografica era un asso anche in cucina, raccontano i colleghi che gli erano più vicini. Impareggiabile nel confezionare le linguine con olio e peperoncino, il Sivori del linguaggio, il “padano di riva e di golena… di boschi e di sabbioni…cresciuto brado o quasi tra boschi e mollenti… figlio legittimo del Po”, come egli stesso si definiva.
Il cronista Giancarlo Rizza
Ci metteva una tale cura, ispirata ad un amore indiscutibile, da meritare l’ammirazione, se non proprio di Escoffier, il “cuoco di lusso” (se non fosse deceduto nel ’35), di Edoardo Raspelli, critico gastronomico che non ha mai guardato in faccia a nessuno. “Quando faceva il sugo con il pomodoro – mi raccontò nel novembre 2011 uno che lo conosceva molto bene, il figlio Franco, giornalista e musicista, che per il padre aveva un sacro rispetto - ci metteva aglio e cipolla e non doveva mancare quel re indiscusso della gastronomia di ogni Paese, il peperoncino, non necessariamente tra i più incendiari. L’aglio doveva essere dosato in ragione di uno spicchio a testa. Per quanto riguardava l’insalata preferiva la cicoria che cresceva nel suo orto e doveva essere ben tagliata. Il ’roast-beaf’ lo faceva in due modi: saltato in padella in blocchi grossi come spezzatino oppure trinciato molto sottile come carpaccio e buttato nell’olio bollente senza distenderlo. Perché cuocesse in modo diseguale, abbrustolito in certi angoli, al sangue in certe pieghe. Accompagnava i piatti con il Nebiolo, che acquistava a Barbaresco, comune di quasi 700 abitanti, da Giovanni Giordano. “Ci andava spesso con gli amici Ronzoni, pubblicitario, e Mauri, dirigente industriale. Dopo essersi rifornito si sedeva al tavolo di una trattoria e gustava le specialità della casa”. Nell’Oltrepò Brera - continuò Franco - contava molti amici, che lo accoglievano a braccia aperte quando andava a prendere il Barbacarlo da Lino Maga o la Bonarda croatina da Carmine Saviotti. 
Al Giorno si brinda
“E che dire delle adunate del giovedì al ristorante Riccione – mi ricordò nello stesso periodo Pilade del Buono (fratello di Oreste, esperto di gialli, sport, cinema, traduttore di Flaubert, Gogol, Proust, ‘editor’ in case editrici importanti, autore per la Rai delle “interviste impossibili”…), che per 13 anni, fin dalla nascita in via Settala, aveva lavorato nella redazione sportiva del “Giorno”, fianco a fianco con Giulio Signori e Nando Pensa e altri colossi della critica delle pedate, del “ring”, del nuoto…, fino a quando, nel ’68, fece fagotto e si trasferì in via Solferino, al “Corriere della Sera”. “A quei convegni partecipavano anche le signore, ma solo il giovedì prima di Natale.
Brera, secondo a destra, nella libreria Partipilo
Quando notava che le nostre postazioni erano vuote, Gino Metalli, uno dei tre fratelli che gestivano il locale, veniva in via Settala (dove nacque il quotidiano di Enrico di Mattei (“illo tempore” diretto da Gaetano Baldacci) con un pentolone fumante e cenavamo tra gli squilli del telefono”. Del Buono rispolverava quei giorni con orgoglio e nostalgia. Il grande Gioan, che tra l’altro aveva giocato nei ragazzi del Milan, fu accolto festosamente anche al Circolo Italsider di Taranto (guidato con saggezza da Peppino Francobandiera, uomo colto, scrittore efficace, lucano emigrato nella bimare), dove tenne una seguitissima e acclamata conferenza, al termine della quale gli fu servito un piatto di orecchiette con le cime di rapa, che apprezzò moltissimo. La stessa festa gli fecero a Milano alla Taverna del Gran Sasso, di Barracca, titolare anche di un altro notissimo ristorante, “L’osteria del vecchio canneto” (vi si mangiava indossando un grembiule), a pochi passi dal primo. Sullo schienale di una sedia scrissero il suo nome.
La sede del Giorno in via Fava
Dall'Ara, a sinistra, con un collega




















Al “Giorno” c’erano parecchi altri amanti della cucina. Uno di questi, Giangaspare Basile, detto affettuosamente Pipino, capo redattore dinamico e appassionato. Mi disse che “fino al ’95 a fare l’unità d’Italia è stato anche il baccalà”. E spiegò la sua teoria con un pizzico d’ironia e dovizia di particolari: “All’inizio del Seicento i belgi pescavano il merluzzo e, non potendo fare come gli svedesi, che lo appendevano a grandissime rastrelliere per farlo essiccare, lo stipavano sotto sale in barilotti che trasportavano via mare nei Paesi del Mediterraneo. In Italia scaricavano sulla costa e il merluzzo sotto sale veniva consumato sul posto, mentre quello essiccato mandato a Bologna, a Milano, alla Serenissima, dove ognuno lo cucinava alla sua maniera, fritto o in umido e in altri modi, ma sempre merluzzo era”. Basile, che vanta diverse ricette, è conosciuto per la sua esperienza, tanto che Cipriani lo aveva invitato nel proprio ristorante, il Danieli, a Venezia, il locale, sorto nel 1822 - alloggiato in un palazzo trecentesco  e passato alla storia come tempio dell’amore, dell’ospitalità, meta di personaggi celebri, tra cui Gabriele d’Annunzio ed Eleonora Duse.Oltre a Basile, Giancarlo Fusco, un fuoriclasse che era anche attore e scrittore estroso, di profonda cultura, affabulatore affascinante, autore de “Le rose del ventennio”, “Duri a Marsiglia”,” Quando l’Italia tollerava”… volumi di notevole valore, per i quali non si dava arie.
Luigi Veronelli
E Renzo Dall’Ara, un mantovano prestato a Milano, al “Giorno” come capo delle pagine dei Fatti della Vita e poi vice capocronista. Ha scritto libri di cucina (“Cucinare e mangiar bene alla mantovana”, “Petronilla e le altre”, che comprende la storia della donna che fu una delle prime laureate in medicina in Italia e curò per la “Domenica del Corriere” le rubriche La parola del medico” e “Tra i fornelli”, firmandosi Amalia e appunto Petronilla) e andava matto per la focaccia con le cipolle. Non da meno neppure Romeo Giovannini, titolista formidabile, lucchese garbatamente mordace, letterato, traduttore dal latino, passione perle opere antiche. Giancarlo Rizza, valoroso nerista e campione di bridge, esaltava il piatto fatto a dovere, non soltanto quello preparato da lui. Lo stesso Italo Pietra, che dopo Baldacci assunse le redini del giornale, varie volte dette ad un virtuoso giornalista, Vittorio Emiliani, in seguito direttore del “Messaggero”, l’incarico di occuparsi dei prodotti tipici come il salame di Varzi, allora senza alcuna tutela. Da non dimenticare Luigi Veronelli, milanese nato nel quartiere Isola Garibaldi, filosofo, giornalista, critico temutissimo che sul “Giorno” si occupava di vino e architetture culinarie con stile poetico e provocatorio. Una volta gli telefonai per chiedergli un’informazione e lui, dopo aver soddisfatto la mia domanda, mi invitò a Città Alta, a Bergamo, dove viveva, per visitare la sua fornitissima cantina. Durante la chiacchierata il discorso prese un’altra piega e mi informò che Edoardo Raspelli, oggi pellegrino tra cascine e produzioni agricole per Canale 5 da cronista sapiente e scrupoloso (lo è stato per anni al “Corriere d’Informazione”, quotidiano del pomeriggio di via Solferino), ha inventato la critica gastronomica. Ricordo infatti i dispiaceri che ha dato a molti ristoratori: si sedeva ai tavolo come un cliente qualsiasi e annotava i vari difetti e la qualità dei piatti.

***SU "NOTIZIE ED EVENTI ASSOCIAZIONE" (sito Minerva) "CENTENARIO PRIMA GUERRA MONDIALE - "PAGINE DI STORIA".


sabato 10 novembre 2018

Le imprese della “banda del buco”

Enzo Caracciolo in un disegno di Lotito

USAVANO LO STETOSCOPIO

E LA FIAMMA OSSIDRICA

Oggi la consorteria criminale è più
dotata e agguerrita.                        

Fatto un colpo scompare, per poi ripresentarsi a distanza di tempo.     

Le sue azioni sono il frutto di un attento studio anche dei minimi particolari. 






Franco Presicci 
 
Da qualche parte nei giorni scorsi la banda del buco ha colpito ancora. E’ una compagine criminale che somiglia alla coda della lucertola: più la si taglia e più cresce, magari più forte. Ci fu un tempo che finiva spesso nelle pagine di cronaca, ispirando titoli a piena pagina, perché le sue imprese facevano scalpore; e poi si metteva a riposo.
Antonio Fariello
Ci si interrogava sulla sua fine, tirando un sospiro di sollievo; e gli stessi investigatori non avevano risposta. Soltanto ipotesi. E le ipotesi possono sciogliersi come una candela al calore dello stoppino. La risposta la dava la stessa consorteria di malviventi, che irrompeva sulla scena magari con qualche attore diverso o in più o in meno. Fatto il colpo, rientrava nel buio. E in quel lasso di tempo pensava a piazzare i preziosi al ricettatore a un quarto del loro valore. Era talmente nota, che nel ’60 fornì lo spunto per un film diretto da Mario Amendola, con Claudio Villa, Elio Crovetto, Mario Carotenuto… Hanno subito i suoi “raid”, oltre al capoluogo lombardo, Napoli, San Benedetto del Tronto, Foggia… Gente determinata e bene allenata. Oggi come ieri programma a dovere il colpo, fa sopralluoghi prima dell’azione, studia il via vai nella zona e individua il punto preciso da attaccare; e ha mezzi più efficaci forniti dalla tecnologia. Una volta il “crick” e lo stetoscopio. Sì, proprio l’attrezzo a mo’ di tromba che serve ai medici per captare i rumori del torace. Nelle perquisizioni spesso non si recupera il tesoro, ma si trovano aggeggi sofisticati e potenti radio che captano le comunicazioni tra le Volanti e la centrale operativa, facendoli sentire più sicuri: se c’è un pericolo lo avvertono subito.
Operazione di polizia
Tanti anni fa, quando ero in pista nella veste di cronista di nera e seguivo tutte le vicende che turbavano Milano, si sapeva che nella esecuzione dell’operazione i banditi si appostavano in un locale attiguo a quello in cui alloggiava la cassaforte e lo auscultavano: se le voci captate arrivavano attenuate, voleva dire che la parete era resistente: non fatta di materiale vulnerabile, e quindi sceglievano un altro obiettivo. Se invece la prova risultava soddisfacente passavano alla fase successiva. Tornavano sul campo, l’incaricato impugnava il crick, lo appoggiava a un sostegno sicuro e azionava l’apposita manovella come si fa per sollevare l’auto rimasta azzoppata. Nel muro si apriva un oblò che consentiva il passaggio ad una persona sottile, che poteva essere un ragazzo in fase di rodaggio.
Antonio Pagnozzi
Non si contano gli orefici, nel centro e nella periferia milanese, che aprendo il negozio il mattino alle 9 hanno rischiato l’infarto nel vederlo svuotato, senza che i vicini avessero sentito il minimo calpestio. Come non se ne accorgevano quando gli “orchestrali” o “boccia”, batteria di ladri, non avendo ancora avuto l’intuizione del “crick”, si calavano attraverso un’apertura praticata nel pavimento soprastante. Né quando, attaccando il muro con la fiamma ossidrica (antenata del crick in queste malefatte,) da una stanza confinante, prendevano la cassaforte alle spalle. Le batterie studiavano, come oggi, il piano nei dettagli e quindi conoscevano il punto preciso su cui agire. E non sbagliavano mai.
Mario Jovine
La notizia arrivava alla polizia o ai carabinieri dopo molte ore, quando ormai i malviventi erano tranquilli nel loro covo e stavano facendo i conti per spartire il malloppo, raccomandandosi di non spenderlo subito per non suscitare sospetti. Qualche volta infatti gli investigatori hanno smascherato i “cubisti” o ladri di grande destrezza proprio per il fatto che uno di loro scialava. Nel mondo della malavita – detto per fare onore alla cronaca - agivano figure marginali che campavano vendendo i “crick”. E facevano lauti guadagni. A Porta Genova nei pressi della darsena e quindi del Naviglio Grande c’era anche chi vendeva le chiavi false ai “gatti”, i ladri d’appartamento. La “madama”, avvertita da un “canarino”, bussò alla porta di uno di questi personaggi e rinvenne oltre duemila pezzi, fra ”babie” e “bambine”, chiavi false e duplicate. Il padrone di casa fece naturalmente una sceneggiata, sostenendo di non saperne niente, che qualcuno, per danneggiarlo, poteva avergliene messe a sua insaputa, giurò e spergiurò, ma senza convincere chi lo interrogava. Gli vennero chiesti i nomi dei suoi abituali clienti e lui fece i l “bis”, aumentando i toni. Fu portato al “gabbio” come il gergo definisce il carcere a Roma. Nel ’64 i vari commando hanno rastrellato in negozi di ogni tipo un bel mucchio di soldi: due miliardi e mezzo di lire, costando alle assicurazioni solo a Milano 140 miliardi per risarcire le vittime.
Ferdinando Oscuri indaga
Il maresciallo detto di ferro, Ferdinando Oscuri, di origine pugliese, uno dei pilastri della questura di via Fatebenefratelli, che collaborò con i Poirot più famosi, da Mario Nardone a Vito Plantone; da Mario Jovine ad Antonio Fariello, da Francesco Colucci ad Antonio Pagnozzi, a Enzo Caracciolo, e conosceva molto bene le pellacce, i covi, le abitazioni, i metodi adottati, le frequentazioni… mi fece un po’ la storia della banda del buco. “Prima del ‘crick’, negli anni ’70, utilizzava la lancia termica e le bande che operavano tra Milano e Roma con quello strumento erano quattro. Collaudatissime, con un organico almeno di dieci membri, ciascuno con un incarico apposito. Agivano nei ‘week end’, certi degli orari di titolari e impiegati.E di rado cadevano in un errore”. Lo fece la banda che, entrata in un istituto di credito, dopo aver razziato miliardi di lire dal caveau e da 200 cassette di sicurezza, per uscire senza dare nell’occhio si cambiò d’abito, lasciando sul posto quello indossato durante l’operazione. E così da un’etichetta della lavanderia appiccicata su un ‘jeans’ (gli indumenti pescati nell’Olona consentì di risalire alla banda di via Osoppo) il sottufficiale pescò chi li aveva usati e dopo di lui gli altri membri della “scopola”.
Francesco Colucci
Mario Nardone
Quando la categoria stava lontana dalla scena per un lungo periodo, Francesco Colucci, lo stesso Oscuri e gli altri “mastini” di via Fatebenefratelli pensavano che si fosse riciclata in altre specializzazioni criminose; e invece verosimilmente si godeva la bella vita tra night club, donne conturbanti e champagne. Poi, nel dicembre del 2001, ecco riaccendersi le luci della ribalta con un atto sbalorditivo. Titoli del quotidiani: “E’ tornata la banda del buco”, “Colpo grosso della banda del buco”… ”Strilli” anche sulle locandine esposte nelle edicole. Mario Nardone, “il gatto”, ebbe l’ispirazione giusta e la combriccola finì a San Vittore. Il poliziotto napoletano, che aveva il fiuto del cane da tartufi, riportò tanti successi. Per esempio individuò gli elementi della cosiddetta banda della gomma a terra, dall’abilità decisamente sconcertante. Uno di loro si appostava in una banca, adocchiava il cliente che prelevava più “farfalle”, lo seguiva e dalla soglia lo indicava ai complici appostati all’esterno. Il “dannato”, la vittima, deponeva la borsa sul sedile del passeggero o sul divanetto posteriore e mentre stava per accendere il motore la sorpresa: una “scarpa” della vettura era fuori uso.
Enzo Caracciolo e Vito Plantone
Prelevava la ruota di scorta dal portabagagli, si accingeva a sostituirla con l’altra e in quel momento il “carlo”, il denaro, prendeva il volo.
All’epoca molti ladri si muovevano di notte, quando tutti dormivano, le vie erano deserte e i metronotte passavano in bicicletta per controllare, puntando la torcia, se tutto andava bene, lasciando il biglietto per far sapere che lui era passato, ignaro di essere stato seguito. Quando voltava l’angolo, i furfanti s’impossessavano del negozio. Altri entravano, ed entrano, in azione di giorno, realizzando il colpo nella pausa pranzo; e anche di giorno si danno da fare i “topi” d’appartamento, affrontando qualunque altezza. “Anche loro fanno riunioni, annotano tutto, comprese le abitudini dei proprietari, dei vicini, razziando durante le vacanze, brevi o lunghe, e di sera soprammobili smerciabili mentre marito e moglie sono davanti alla televisione”, aggiunse Oscuri -, che aveva trascorso la vita a cercare lestofanti, come nei primi del Novecento il mitico “el Dondina”, capo della squadra volante e terrore della “ligera” di Porta Genova. “Il colpo più ardito? Nel ’52 in via Dante a Milano”: assaltarono una gioielleria sotto gli occhi di centinaia di passanti. Non era ovviamente la “banda del buco”. Non esisteva, e non esiste, soltanto quella.


SU "NOTIZIE ASSOCIAZIONE" LA PRIMA GUERRA MONDIALE

mercoledì 7 novembre 2018

Una conferenza di Cristella


NELLA VITA SI DEVE VIAGGIARE INSIEME, CON GIOIA E AMICIZIA

Lopomo-Bagnalasta-Cristella-Laddomada


 
Il giornalista ha parlato

a Crispiano illustrando

l’importanza dei nonni,

che come ha detto

Papa Francesco sono

un tesoro prezioso.





Franco Presicci

M. Cristella - S. Laddomada
Il nonno, contrariamente a quanto pensa qualcuno, non è una pianta appassita; il motore di una macchina che non riesce più ad accendersi. Ha ancora risorse da impiegare, utilità da offrire. Una volta era considerato fonte di esperienza e di saggezza. Oggi alcuni lo vedono bene seduto sulla panchina dei giardini pubblici a sonnecchiare. Sbagliano. I nonni hanno voglia di vivere tra gli altri e con gli altri, conoscono il valore dell’incontro; e frequentano la sala da ballo, perché il giro di valzer e le acrobazie del tango danno gioia. Vanno al circolo ricreativo, gareggiano sul campo da bocce, e si divertono, s’inorgogliscono per un lancio virtuoso.
Cercano i luoghi di conversazione, in cui può nascere un rapporto di confidenza, fiorire un’amicizia. Lo stare insieme fa bene, alimenta lo spirito, offre serenità, arricchisce con lo scambio d’idee, il dialogo, il confronto. “I nonni sono un tesoro prezioso – ha detto Papa Francesco – indispensabili per guardare al futuro con responsabilità. Nella loro memoria c’è il futuro di un popolo”. Ha sottolineato la socialità del nonno. Questo il tema della conferenza che Michele Cristella, presidente dell’Università territoriale di educazione permanente di Laterza, la città famosa anche per la ceramica e per il suo pane, giornalista per anni al “Corriere del Giorno”, quotidiano storico di Taranto purtroppo scomparso. Introdotto da Silvia Laddomada, docente di lettere in pensione e giornalista, direttrice dell’Università del Sapere e del tempo libero di Crispiano, Cristella ha parlato nella sala consiliare “G. Giacovazzi del Comune di Crispiano ad un pubblico nutrito e attento.

Lopomo-Bagnalasta-Cristella-Laddomada
Presenti il sindaco della cittadina, Luca Lopomo, e l’assessore alla Cultura e ai Servizi Sociali Aurora Bagnalasta. Il relatore ha subito detto che l’università che presiede è frequentata molto dagli anziani – più che dai giovani -, attenti e interessati a tutte le attività messe in cantiere, dimostrando di non volere soltanto infoltire il pubblico. “Vogliono dare il loro contributo, partecipare. La funzione di ‘baby-sitter, in cui spesso li vorrebbero relegati i figli, va bene, serve a dare una mano nel compito essenziale dell’educazione dei marmocchi; ma restano una sorgente a cui attingere”. I nonni hanno bisogno dei loro spazi, e infatti seguono i “social”, gli eventi della vita quotidiana, s’informano…. Non vogliono essere emarginati. Per questo motivo sono sorte le associazioni, nelle quali gli esponenti della terza età partecipano con entusiasmo anche agli spettacoli teatrali e ai corsi di storia delle parole, del territorio, di gastronomia, di ricamo, addirittura di diritto. E s’impegnano in lavori manuali. L’università di Laterza – ha aggiunto Cristella – verso Natale confeziona anche un giornale di sedici pagine che riassume tutto ciò che è accaduto durante l’anno. Non per niente lui è un giornalista, quindi ricco di curiosità, cultura, notevole esperienza. Non appartenente a quella razza di cronisti che raccolgono e innaffiano le notizie stando al telefono. I cani da tartufi come lui rappresentano la vecchia guardia che mangia pane e polvere pur di piluccare il dettaglio. Una razza in via di estinzione. In un suo libro Guglielmo Zucconi, che fu un grande direttore del “Giorno”, ricorda che il vero cronista è quello che può permettersi di telefonare in piena notte al “trombettiere” (colui che nutre il “segugio”: il giornalista che non si accontenta della conferenza-stampa) per avere conferma di una notizia che va verificata, atto che si deve sempre compiere anche per rispetto del lettore.

Inaugurazione nuovo anno Università "Minerva"
Ma Cristella, che al “Corriere del Giorno” curava le pagine della provincia, non ha parlato di sé, ha soltanto accennato al mestiere che richiede entusiasmo, tempismo, sacrificio e indifferenza per le lancette dell’orologio. Si è soffermato sul valore del viaggio condiviso, fatto insieme, in armonia, con gioia; sull’importanza del dialogo, della ricerca dell’altro; ha spiegato che lo stare insieme è un dono reciproco, spontaneo, costruttivo. “Oggi la vita si è allungata, grazie all’igiene, alla medicina, all’istruzione, alla consapevolezza dello scorrere del tempo e alla molteplicità degli interessi: occorre quindi dare più vita agli anni”. Senza enfasi, ma con toni confidenziali, da conversatore acuto, ha dunque tratteggiato la figura dell’anziano, definendolo una forza sociale. Ha ricordato che “fino a qualche tempo fa godeva di un rispetto sacrale; gli si riconosceva la sapienza dell’esperienza”. Quando il divario generazionale “divenne molto ampio ha cominciato ad essere considerato un residuato”, anche se molti professionisti fanno ancora diagnosi e tanti artigiani riprendono in mano la pialla o il cacciavite o coltivano i loro hobby, con piena lucidità mentale, magari nello stesso ambito delle associazioni,
Sala consiliare Crispiano
“che sono piccoli mondi globali come la nostra e come ‘Minerva News’ di Silvia Laddomada e Michele Annese”. Un’associazione dev’essere bene organizzata e disporre di persone capaci di stare in plancia per tenere la rotta. L’università di Laterza, che Cristella presiede da sei anni (il sodalizio ne ha 19) ha un vice, un direttore dei corsi, un coordinatore delle lezioni, un tesoriere, i consiglieri, tutti volontari, pregati di dare più tempo possibile alla struttura. Ha anche uno “sponsor”. Le lezioni, che riguardano anche il canto e il teatro, il ballo e l’attività motoria, si svolgono dal lunedì al venerdì, il pomeriggio, e vengono tenute da un’avvocatessa, un architetto e una giornalista. “Questa estate abbiamo rappresentato una celeberrima commedia dell’antichità, “Lisistrata”, di Aristofane, che narra lo sciopero dell’amore da parte delle donne contro i mariti sempre in guerra. La serata è stata organizzata dall’Associazione di volontariato Università del Tempo Libero e del Sapere, con il patrocinio del Comune di Crispiano, del quale il primo cittadino in un brevissimo intervento ha detto che la casa comunale deve essere un luogo d’incontro, soprattutto degli eventi importanti, ”perché in questo modo una comunità cresce”. E i crispianesi lo sanno, tanto che quest’anno l’Università compie cinque anni di attività, sostenuta dalle dieci collaboratrici, preparate e volenterose, che nel 2014, non avendo ottenuto dall’amministrazione Ippolito il rinnovo della convezione, hanno contribuito a concretizzare la nascita, in una sala del ristorante "Tuttobuono" (g.c.)  dell’associazione di volontariato "Minerva",

Presepe su una parete del Ristorante "Tuttobuono"

che si occupa dei ragazzi fino alle scuole elementari, offrendo loro momenti ludici, laboratori, escursioni, feste con famiglie e assistenza ai compiti scolastici. Agli adulti ci siamo proposti di offrire l’esperienza di un’università popolare, una novità per Crispiano, che intende così proseguire l’opera meritoria di promozione culturale, già condotta per anni dalla Biblioteca ‘Carlo Natale’”. La professoressa non ha detto che la Biblioteca era diretta da suo marito, Michele Annese, che in quel luogo sacro, con passione e grande competenza, spese con passione tantissime energie. Gli scaffali erano pieni di libri, le sale affollate di studenti e di anziani avidi di apprendere. L’ho frequentata, la “Carlo Natale”, e più volte ho notato gente ricurva sui volumi, in un silenzio totale, come in una chiesa dopo il rito. Un pomeriggio ho notato un contadino che seguiva il rigo con l’indice.

Sala consiliare Crispiano- in 2^ fila Presicci
Cercavo un testo introvabile di Giacinto Peluso, lo scrittore che con le sue storie avvincenti e la semplicità del linguaggio ha fatto conoscere la Bimare agli stessi tarantini, mi rivolsi a decine di librerie, lo pescai da Michele Annese, che anni prima venne fermato sul predellino di un treno diretto al Nord da un gruppo di compaesani che lo supplicavano di non lasciare la sua terra, che aveva bisogno della sua opera, come la Biblioteca. Michele Cristella ha stimolato il pubblico a fare domande, e ne ha ricavato osservazioni intelligenti. Una giovane psicologa si è proclamata d’accordo con tutto quello che era stato detto. “Accompagnarci all’altro ci dà forza”. Poi Silvia Laddomada ha invitato due poeti, Nunzio Tria, già vice presidente della Comunità Montana della Murgia, di cui Annese era segretario generale, e Giacomo Salvemini, a leggere i loro versi, e questi dopo qualche resistenza hanno ceduto. La poesia, oltre alla bellezza, salverà il mondo. 

Il testo integrale della relazione del dott. Michele Cristella è pubblicato su questo sito alla voce "Notizie ed eventi Associazione"(block notes con penna).