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mercoledì 28 marzo 2018

Il questore Antonio Fariello

DA SEMPRE IL SUO MOTTO

LA POLIZIA TRA LA GENTE”


Presicci intervista Fariello a Torino


Dobbiamo essere vicini al

cittadino; le volanti devono

pattugliare sistematicamente

il territorio: la divisa suscita

serenità e sicurezza”. Era un

uomo colto, simpatico, umano.

Pedalava con la bici ereditata

dal padre maresciallo.



Franco Presicci 


Allora, questore Fariello, fra una settimana ti insedi a Milano; sei contento del trasferimento? “A suo tempo vi ho lavorato, avuto collaboratori validi, ho amici, anche se qui a Torino non mi sono certo trovavo male”.
Anzi la gente gli voleva molto bene, grazie anche ai rapporti che aveva saputo tessere senza guardare ai gradi e alle condizioni sociali.
Il questore Antonio Fariello
Era il maggio dell’85, e appena seppi che il nuovo pilota della questura di Milano era lui, 54 anni, mi precipitai nel suo ufficio, ampio quanto una piazza d’armi, della questura torinese in via Vinzaglio, e prima ancora che m’invitasse a sedere mi offrì uno dei suoi “Avana Wilde”, che usava spegnere a metà. Era simpatico, ospitale, spiritoso, e non stava mai fermo. Si alzava, misurava la stanza a passi brevi, chiamava il segretario per consegnargli un documento, si sedeva sul bordo di una poltrona, si rialzava, tornava alla sua scrivania, afferrava un fermacarte e lo gingillava. Mi offrì un secondo sigaro scherzando: “Quelli che fumi tu non li sopporto: i toscanelli sono roba da vecchietti”. “Sia i tuoi che i miei fanno male alla salute, e io sto lottando per non passare più le giornate tra nuvole di fumo”. Queste le prime battute con Antonio Fariello, che faceva cose che non avevo visto fare ad altri. “Durante gli anni di piombo andavo in bicicletta anche per rassicurare la gente. Se il questore pedalava voleva dire che si poteva stare tranquilli. Non lo facevo apposta. Ho sempre pedalato. Ho cominciato con la due ruote d’ordinanza di papà, che era maresciallo di polizia”. Antonio aveva preso un’altra strada. Frequentava l’università e faceva il carabiniere. Per quattro anni indossò la divisa dell’Arma. “Studiavo quando potevo”. Dal ’51 al ’53 era nel battaglione sottufficiali di Moncalieri. Poi fu trasferito a Bari, dove si occupò di abigeati e rapine in tabaccherie. Nel ’55 vinse il concorso in polizia e fu destinato a Firenze come vicecommissario. E cominciò così la sua felicissima carriera, che lo avrebbe portato in mezzo mondo con l’incarico di responsabile della sezione italiana dell’Interpol. A 44 anni, già questore di Sassari, il più giovane d’Italia. Ricordava: “Mio padre, che percorreva le vie di Napoli in bicicletta, quando Napoli non era una città violenta, mi portava negli uffici del commissariato, dove imparai a battere a macchina, una vecchia Remington 22. La prima parola che comparve sul mio foglio fu fonogramma.

A.Fariello con il giudice Abruzzo
Mario Nardone
Alto, elegante, un sorriso dolce, occhi brillanti, espressivi, mi indicò il duplicato, appeso a una parete, di un quadro che gli era stato regalato dalla direttrice della Galleria d’arte moderna milanese, dopo il recupero delle tele rubate alla collezione d’arte Grassi. Lo considerava un dono prezioso per il sentimento che lo aveva accompagnato. Era divertente e interessante conversare con Fariello. Ogni tanto saltava di palo in frasca, forse per accertarsi che lo stavi seguendo. “Non mi piace essere chiamato commendatore. Preferisco signor questore. I maligni vociferano che io abbia il titolo di grand’ufficiale”. E sorrise divertito. Era un uomo affabile, squisito, che sapeva essere ironico, mai pungente, mai caustico. “E’ un pozzo di scienza”, aveva appena commentato un appuntato mentre mi scortava verso l’ufficio del…capo. “Quando si è sparsa la notizia che era stato trasferito ci hanno telefonato in tanti: ‘Ogni volta che abbiamo uno che vale Milano se lo prende. Ha partecipato a molti convegni, il nostro questore, facendo sempre una gran bella figura’. Così si lamentavano”.
Il presid.trib.civile Alessi e A. Fariello
Uno degli ultimi su “Mafia e grande criminalità”, nell’83, in cui tra l’altro tracciò un quadro delle imprese mafiose anche nel capoluogo piemontese, che aveva adottato o visto nascere Edmondo De Amicis, Emilio Salgari, Italo Calvino, Norberto Bobbio… ed era noto per il Castello del Valentino e per la Villa della Regina. Fariello era fautore della collaborazione fra tutti i corpi, compresi i vigili urbani. “Ci troviamo di fronte a una criminalità organizzata e a una delinquenza di quartiere”. E accennava ai reati compiuti da tossicomani, vittime a loro volta; alla microcriminalità, che è un eufemismo. Ricordai un gravissimo episodio del luglio del ’79. A Lambrate una nonna portava a spasso la nipotina, che pedaleggiava su un piccolo triciclo, quando, improvvisamente, due giovani in motorino l’assalirono per strapparle la borsetta; lei li inseguì per un breve tratto per recuperarla, la bimba scese dal marciapiede e venne travolta da un’auto. La cosiddetta microcriminalità fa paura perché aggredisce a tradimento i cittadini.
Antonio Fariello
Era d’accordo. “La polizia per essere democratica e moderna deve sviluppare le possibilità di prevenzione, valorizzando gli agenti, che sono molecole molto importanti della sua struttura. Un giorno alcune personalità si lagnarono con me per i poliziotti che a loro dire guidavano le auto in modo spericolato. Risposi invitandoli alla comprensione, perché sono ragazzi entusiasti, gli stessi che si fanno sparare addosso.Certo è meglio che usino prudenza”. Era instancabile. Il maresciallo Ferdinando Oscuri me ne parlò con ammirazione. Ha fatto la gavetta. Quando fu per quattro mesi a Milano gli sono stato molto vicino, facendo assieme molte operazioni.
Arrivava in ufficio alle 5 del mattino. “Dottore, così presto?, dicevo. E lui: “Non è mai troppo presto per chi vuole imparare”. “E’ intelligente, umano, sa valorizzare le persone, sa riconoscere a ciascuno i propri meriti, non si attribuisce quelli degli altri”, concluse il sottufficiale di ferro.
All’epoca Fariello era con Mario Nardone alla Criminalpol, ma veniva impiegato anche in operazioni della squadra mobile. “A Milano giunsi nel ’66 – raccontò Antonio - Il capo della polizia riteneva che io dovessi conoscere la malavita del Nord e quella del Sud. Quindi, prima fui affiancato a Nardone, successivamente venni spedito a Palermo, quindi rientrai a Milano.
Erano anni roventi. Quelli, per esempio, della banda Cavallero, neutralizzata il 25 settembre ’67 nella tragica rapina di Milano, che provocò morti e feriti in una sparatoria senza risparmio di colpi tra forze dell’ordine e banditi. Scene da Chicago anni ’30. A Torino aveva agito anche la cosiddetta banda dei ‘bravi ragazzi di Angera“, altrimenti detta “banda del lunedì, sgominata nel marzo del ‘65”. Quando furono acciuffati il vicinato si meravigliò: “Sembravano persone per bene, impiegati di banca o rappresentanti di commercio.

Fariello (al centro)al Giorno con Presicci a dx
Uscivano di casa ben vestiti, sempre alla stessa ora, con le ventiquattrore appese alle mani, educati”. Il signor questore parlava e giocava con la penna, scarabocchiava su un foglio, mi fissava con uno sguardo penetrante, incrociava le dita e raccontava. “Il mio primo incarico nell’interpol fu la lotta ai mafiosi espulsi dagli Usa, che in Italia portarono una nuova mentalità: per loro contava soltanto l’organizzazione, la ‘gerarchia’. Fecero del nostro Paese un canale attraverso il quale portare la droga in America. E alle Nazioni Unite ci accusarono di essere portaerei di sostanze stupefacenti”. Fariello aveva fatto la spola tra Londra, Washington, Los Angeles... Aveva frequentato corsi a Scotland Yard, alla Police national di Parigi, aveva avuto rapporti con l’Fbi, e studiato con altre polizie. Conosceva l’inglese, il francese alla perfezione.

I questori Enzo Caracciolo e Mario Nardone-foto del '69
Si era cimentato con l’arabo; aveva partecipato attivamente alla cattura di un evaso dall’Isola d’Elba. Dal ’67 al ’76, come capo della sezione italiana dell’Interpool, aveva preso parte a tutte le operazioni internazionali. Era uno studioso; nel tempo libero, nella sua abitazione in questura, ingresso da via Mombello, divorava libri soprattutto di storia. Gli piaceva giocare a scopone e prendere per il naso il compagno maldestro definendolo, quando incassava una scopa, giocatore d’attacco per non dire che era una schiappa. Le feste del corpo le faceva svolgere sotto l’insegna “Polizia tra la gente”; e non alla caserma “Annarumma”, nascosta in fondo a viale Suzzani, verso Bresso, ma in piazza Duomo. “Noi dobbiamo essere vicini ai cittadini, che devono sentirsi parte di noi, avere fiducia nell’uomo in divisa. 

Insegna della Volante
Le volanti devono pattugliare sistematicamente il territorio, in modo da suscitare senso di protezione e spirito di collaborazione”. Nel giugno del 1986 Antonio Fariello promosse e curò un volume bellissimo: “Milano, una città, una questura “, con presentazioni del sindaco Carlo Tognoli, del prefetto Enzo Vicari. Un libro ricco di immagini e di fatti: la mafia e i colletti bianchi, il terrorismo, i caduti della polizia, la nuova delinquenza, la sede della questura in piazza San Fedele sbriciolata dai bombardamenti del 16 agosto del ’43, i “teddy boys” e la violenza giovanile, gli omicidi dei giudici Alessandrini e Galli, il triplice, barbaro, vile assassinio dei tre poliziotti del commissariato Ticinese, Tatulli, Cestari e Santoro. Nel suo intervento scrisse: “Sono trascorsi 127 anni da quando, nel lontano 1859 , il re Vittorio Emanuele II istituì il primo questore di Milano affidandogli il compito di vegliare e provvedere preventivamente all’ordine e all’osservanza delle leggi nell’interesse sia pubblico che privato…Cinquantadue questori si sono, fino ad oggi, succeduti in via Fatebenefratelli, in circostanze storiche spesso difficili o drammatiche; e anche quando follia e irrazionalità sembravano dilagare, hanno sempre saputo interpretare le giuste aspirazioni della città alla sicurezza e alla civile convivenza…”. Anche quando lasciò la questura di via Fatebenefratelli furono in molti ad esserne addolorati. Consideravano Antonio Fariello un grande poliziotto e un uomo dotato di profonda di umanità.












mercoledì 21 marzo 2018

Autrice di opere splendide EVI ZAMPERINI PUCCI REGINA DELL’IKEBANA



    Evi Zamperini Pucci
Nelle sue tante

realizzazioni, armonia,

eleganza, luce.
              

Fiori, foglie, ramoscelli

rinsecchiti prendevano 

dignità artistica.



Autorevoli i volumi di Evi.

 

L’ikebana si diffuse in Italia ai

primi degli anni ‘60 del‘900.





Franco Presicci


Era il 1972 quando Giuseppe Rossicone mi presentò nel suo laboratorio di via Chiossetto, a Milano, Evi Zamperini Pucci, ancora bellissima, quasi immutata dall’epoca in cui partecipava alle serate danzanti del Circolo della Stampa. Conservava anche il sorriso radioso, i modi raffinati, lo spirito brioso. Era considerata regina dell’ikebana, e questo fu il motivo per cui l’amico ceramista, sapendomi curioso e ficcanaso, volle farmela incontrare.
Il laboratorio di Rossicone
La bottega, diventata con il tempo storica per decisione del Comune, intramezzata da pareti sottili che creano corridoi e sfoghi di luce, sale e salette, era piena di opere d’arte. Evi sedeva nell’angolo in cui l’artista espone i mappamondi di Kodra decorati con suonatori di “banjo” o altri strumenti; i galli e le figure femminili di Treccani, vasi, faraglioni ispiratigli dalla sua Scanno, in Abruzzo… Appena mi vide emergere dal corridoio semibuio, Evi si alzò e mi strinse la mano. E cominciò a parlare dell’arte che praticava, dopo avermi autorizzato a darle del tu. La prese alla larga, sfiorando la storia: “L’ikebana è antichissima. Risale al VI secolo dopo Cristo. Si diffuse in Giappone, dove da offerta votiva agli dei divenne una forma d’arte”.
Scultura di Ernesto Treccani
Parlava con dolcezza e spiegava con chiarezza come le sue mani realizzavano un ikebana. “Si può realizzare con un ippeastro, pianta originaria dall’America meridionale, sempreverde: se ne conoscono un’ottantina di specie. Questi fiori dalle corolle imbutiformi e dalle foglie a nastro non hanno la finezza delle rose, ciononostante vantano un loro tipo di bellezza”. I fiori, anche nella loro combinazione, esprimono significati profondi, simbolici. Se poi a disporli è un’artista, si ottengono risultati di grazia, armonia, purezza, eleganza. Un girasole spento, il capo reclinato sul petto si rianima e tesse un discorso non solo sentimentale tra i fiocchi di due brattee vellutate. Quasi accovacciato tra piatti di Trento Longaretti, Umberto Mastroianni, Morishita Keitzo, Sandro Chia, Franz Borghese, Walter Pozzi… (osterie, arlecchini innamorati sotto la luna…), vicino a un tavolo sgangherato di età indefinibile, Peppino Rossicone, che per Evi realizzava i vasi multiformi, con il bordo basso, di cui lei aveva di volta in volta bisogno, aveva un ‘espressione contemplativa.
Saverio Terruso e Rossicone
Mentre io meditavo sui rami rinsecchiti, ossuti, con squarci, senza più la pelle, che possono assumere la dignità di una scultura. “L’ikebana – riprese Evi – è l’arte di far vivere a lungo i fiori, fiori ‘viventi’, cammino di elevazione spirituale all’insegna della filosofia Zen”, (“sii autentico verso i tuoi sentimenti, non opporti al flusso della vita, sii responsabile di te stesso e del mondo…”). Lei riusciva a dare fremiti a un frascame intrecciato, a una fronda solitaria. Le sue spirali di giunchi, le sue “stelle” rosso-cremisi tra filamenti di verde, le sue palme annodate – magari una pala di ficodindia ferita maculata di giallo – non hanno soltanto lo scopo d’imprimere splendore a un luogo della casa, ma anche quello di esaltare attraverso l’accostamento la divina euritmia della natura; con una gorgonia rosa-corallo o un arbusto scortecciato così come li trovava, manipolati, poi, dalla sua sensibilità, con quella forma slanciata, “cinetica”, come protesa verso qualcosa o qualcuno invisibile, ricavava immagini suggestive, per esempio una spinta all’abbraccio, uno slancio verso l’altro. Evi Zamperini Pucci, sorella della sindaca di Palermo di allora, il marito ammiraglio, un figlio, era dinamica, deliziosa, gentile, vezzosa come un’”euphorbia pulcherrima”; e, parlava con entusiasmo nascosto delle sue creazioni, moltiplicando la simpatia che trasmetteva. L’ikebana era il suo mondo di poesia, di palpiti, di riscatto lirico della natura che ogni giorno l’uomo offende, ferisce, avvelena, deforma.
Rossicone a una sua mostra
Per approfondire questo mondo ricco di colori, forme leggiadre, bagliori arcani si era cimentata con la difficile lingua giapponese; e per percorrere con consapevolezza culturale il “kado”, questa magnifica ”via dei fiori”, si era introdotta nella vita, nella storia, nella mentalità, nei costumi del popolo nipponico, e per agosto aveva in programma un volo verso quella che per la gente dell’Asia fu per molti secoli l’ultima Tule, la terra estrema del continente, e avrebbe visitato Kyoto, considerato il luogo di nascita della civiltà del Sol Levante, dove l’arte nel costruire i giardini si era sviluppata nel periodo Heian. Evi Zamperini Pucci: un’autorità nel campo dell’ikebana. Scrittrice prolifica, curava i suoi libri con affetto quasi materno. Oltre a “Lezioni di ikebana”, che faceva testo, “l’Alfabeto Ikebana” (entrambi editi da Gorlich) è la sua creatura più riuscita, la prediletta, anche per le foto in bianco e nero e a colori delle sue opere più suggestive. Per la De Agostini stava preparando un libro che a giudicare dalla prima impostazione era destinata a riscuotere molto interesse.
Un piatto di Rossicone
Le chiesi: Com’è nata la tua passione per l’ikebana? “Per caso. Durante una mostra in cui vidi una donna che trattava dei fiori con molta delicatezza. ‘Che bello!’, pensai. Allora io sudavo su traduzioni dall’inglese e mi annoiavo. Inconsciamente avevo forse bisogno di evadere, di volare, di fantasticare e mi rivolsi alle stelle della terra”. Hai avuto una guida, chi t’ha portata per mano, ti ha insegnato la tecnica? Intuisco che questa sia un‘arte difficile. “Sì, certo, ho avuto una maestra, che è morta. Mi è servita molto e le sono grata… Ecco, ti regalo uno dei miei volumi e ti scrivo una dedica con affetto e stima”.
Rossicone e Arnaldo Pomodoro
Ma si accorse di averlo lasciato in macchina; e chiese a Rossicone di darmi la sua copia, che era bene in vista sullo scaffale dello studiolo: una scrivania, una sedia, un divanetto e tante opere di Arnaldo Pomodoro, Remo Brindisi, Treccani, Dova, appese alla parete di legno, appoggiate su una colonnetta non a scopo decorativo e su un ripiano che nonostante il peso resisteva per miracolo. Qua e là alcune ikebane in attesa dei vasi che uscissero dal forno. Con i fiori Evi Zamperini creava atmosfere primaverili, paesaggi incantevoli, armonie cromatiche in stile libero che nell’ikebana è riservato ai maestri. Si avvicinava a una gardenia, a una fascina con evidente umiltà; e la fascina nel tocco delle sue dita prendeva l’aspetto di braccia imploranti. La regina dell’ikebana era prodiga d’informazioni non soltanto sulle origini, ma anche sui segreti di quest’arte. “Tutti i componenti, foglie, rami, fiori, devono essere disposti a triangolo, seguendo un sistema ternario. L’arbusto più lungo raffigura un elemento che tende al cielo; il più corto la terra, quello che sta in mezzo l’uomo”. E ancora:
Un ikebana
”L’ikebana cominciò a prendere piede nel nostro Paese all’alba degli anni 60 del ‘900…”. La rividi più volte, oltre che nel “labirinto” storico di Rossicone, in una serata tra amici se non ricordo male a casa o nello studio di lei in via Gonzaga, anfitrione impareggiabile il marito, che con grande cortesia esortava a intrecciare valzer e tanghi, mentre Evi offriva dolci e riempiva bicchieri. Una serata memorabile, spensierata. Questa signora ricca di fascino, artista a pieno titolo, amava far conoscere l’ikebana, descriverla in tutto il suo equilibrio. Mi condusse nel territorio degli astrusi ideogrammi come un esperto in una foresta intricata. Per me quel groviglio di aste era impenetrabile e misterioso. Lanciai uno sguardo a un ventaglio di palme su un fuoco di dalie che trionfava su una vaschetta: una delle tante poi esposte in una mostra in Brianza, che riscosse notevole successo. E lo dirottai su di lei, che appariva sempre più bella. Poi, di Evi non ho avuto più notizie. Secondo Rossicone può essersi trasferita a Pavia o nelle vicinanze, in casa del figlio. Ogni tanto sfoglio uno dei suoi libri e continuo ad essere attratto da quelle combinazioni floreali che anche dalle riproduzioni suscitano emozioni. Prima di conoscere Evi Zamperini Pucci sapevo poco o niente della “via dei fiori”. Grazie a lei e ai suoi libri me ne sono fatto un’idea. Per tantissimo tempo ho conservato un’ikebana donatami da Evi oltre 40 anni fa. Rossicone custodisce qualche esemplare dei vasi destinati a questa signora deliziosa donatrice di sogni.








mercoledì 14 marzo 2018

Amalia Moretti Foglia


 
Amalia Moretti Foglia
PRIMA PEDIATRA DI MILANO


ASSISTEVA GRATIS I POVERI


Considerava il suo lavoro una missione.

Aveva due rubriche
 
sulla “Domenica del Corriere”:

di medicina e di cucina.        

Nata a Mantova, era una donna

forte, coraggiosa, femminista.

Morì a Milano nel 1947.

                                                




Franco Presicci


Donna coraggiosa, forte, colta, laica, femminista, Amalia Moretti Foglia fu la prima pediatra di Milano. Per lunghi anni esercitò anche nell’ambulatorio della Poliambulanza di corso Venezia, noto per la magnificenza dei suoi edifici: da Palazzo Serbelloni, ideato in stile neoclassico dall’architetto Simone Cantone, di Muggio di Mendrisio, per ordine di Gian Galeazzo Serbelloni, e dal 1796 dimora di Napoleone Bonaparte, a Palazzo Bovara, che aveva a due passi la dimora di Giovanni Verga, detto il “gentiluomo siciliano”, e il ricordo di Renzo Tramaglino.

Corso Venezia
Il presidio sanitario era stato fondato da lei stessa anche per curare, oltre ai bambini, le peripatetiche… e, gratuitamente, le famiglie in povertà. Considerava la medicina una missione. Amica di molte donne importanti, fra cui Matilde Serao (1856-1927), tra l’altro autrice de “Il paese di cuccagna” (1890), “Riccardo Joanna”, “Il ventre di Napoli” (1884), libro in cui racconta la sua città con tinte forti: i quartieri popolari in cui la gente vive “senz’aria, senza luce, senz’igiene, diguazzando nei ruscelli neri, scavalcando monti d’immondizie, respirando miasmi e bevendo un’acqua corrotta… non è collerica nella sventura…Vi è chi l’ha intesa esclamare: ‘O Gesù, vurrìa murì per sta ccà’”. Anche donna Matilde, come Amalia Moretti Foglia, è quasi caduta nell’oblìo. Se si chiedono a un giovanotto notizie di queste signore, ti risponde candidamente: “Mai sentite nominare. Chi erano?”. La Serao, giornalista e scrittrice copiosa (oltre 40 volumi), fu la prima donna a fondare un quotidiano: nel 1884, anno in cui sposò Edoardo Scarfoglio (la festa venne raccontata dalla penna di Gabriele d’Annunzio), “Il Corriere di Roma”; nell’82, con il marito, “Il Mattino” di Napoli; nel 1904 “Il Giorno” (ovviamente non quello di Enrico Mattei). Aveva cominciato la carriera collaborando nella capitale con “Il Capitan Fracassa”… Nel ’26 il regime fascista le impedì di ricevere il Premio Nobel. Di Amalia Moretti Foglia qualche anziano, stimolando la memoria, a fatica forse ritroverebbe qualche traccia.
Renzo Dall'Ara,giornalista e storico della Gazzetta di Mantova
Non l’ha dimenticata Renzo Dall’Ara, giornalista egregio, esperto di cucina, mantovano purosangue, che lavorò al “Giorno” dal ’65 all’81, in via Fava; e lo ha dimostrato dedicando ad Amalia il volume “Petronilla e le altre-Il mestolo dalla parte di lei”. Un indagatore meticoloso, appassionato come lui non poteva non occuparsi di questa sua illustre concittadina che meritò tanta stima non soltanto per le sue doti di medico. Amalia è riemersa anche in “Pane nero”, donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, di Miriam Mafai, che l’ha delineata con grande efficacia.
Massimo Albertini
Massimo Alberini, storico della gastronomia, del collezionismo e del circo, collaboratore de “Il Corriere della Sera” (lo incontrai al Festival del clown nel ’64), la definì “la vera amica di famiglia di centinaia di migliaia di casalinghe, una delle prime donne in Italia ad avere avuto il coraggio di laurearsi in medicina, divenendo assistente del temutissimo professor Murri…”. Nata nel 1872 da una famiglia di farmacisti, si laureò a Padova in Scienze Naturali, quindi, consigliata da un docente di anatomia, si iscrisse in medicina nella dotta, oltre che grassa, bellissima, seducente Bologna. Si laureò nel 1898 e venne assunta come pediatra nell’ospedale di Firenze. Conobbe Angelica Balabanoff, donna politica di origine russa che, arrivata in Italia nel 1897, fu attiva nelle fila del Partito socialista, svolgendo un ruolo rilevante nella scissione socialdemocratica del 1947. Amalia salì a Milano e strinse amicizia con Anna Michajlovna Kuliscioff, colei che, nata in Crimea, primeggiava nella lotta tesa a migliorare le condizioni della donna e con Filippo Turati, al quale era legata, dirigeva “Critica Sociale”.
Porta Venezia
Nel capoluogo lombardo Amalia iniziò a fare il medico alla Società Operaia Femminile oltre che nell’ambulatorio di Porta Venezia, dove tra l’altro faceva diagnosi, somministrava cure, e distribuiva consigli alle coppie traballanti, rivelando fra l’altro una notevole carica umana e una notevole capacità d’intuizioni psicologiche. Nel 1902 sposò il suo collega Domenico Della Rovere e aprì la porta di casa a personalità insigni, tra cui Eugenio Balzan (1874-1953), direttore amministrativo e comproprietario del “Corsera” (per celebrarlo la figlia ha istituito l’omonima Fondazione con lo scopo di stimolare iniziative umanitarie e culturali). Colpito dal carattere di Amalia e dal suo considerevole bagaglio cultuale, nel ’26 Balzan le fece affidare, con cadenza settimanale, sulla “Domenica del Corriere”, una rubrica di consigli medici firmata “dottor Amal” (doveva figurare maschio per il fatto che all’epoca una donna-medico non aveva molto credito). Adottava un linguaggio chiaro, scorrevole, alla portata di tutti, spiegando addirittura la complessità del corpo umano, il modo di leggere gli esami clinici, esortando a praticare l’attività fisica, perché una buona passeggiata fa tanto bene alla salute, contrariamente alle pantofole e ai divani.
Arcibaldo e Petronilla sul Corriere dei Piccoli
Quanti ricordano Petronilla, moglie di Arcibaldo, nel famoso fumetto che fin dal 1921 compariva sul “Corriere dei Piccoli”, conosciuto anche come “Corrierino”, che introdusse nel nostro Paese le “nuvole” americane e fino al ’95 pubblicò fra l’altro storie con firme autorevoli, da Buzzati a Rodari? Entrambi immigrati negli Stati Uniti dall’Irlanda, lavoravano lui in una fabbrica di mattoni, lei in una lavanderia; divennero ricchi grazie a una vincita; e reagirono con atteggiamenti diversi, preferendo, lei, ambiziosa e “snob” un po’ buffa, l’alta società; lui la frequentazione delle bettole, a cui era abituato. Bene, con lo pseudonimo di Petronilla, Amalia, sempre sulla “Domenica”, inaugurò la rubrica “Tra i fornelli”, molto letta da folle di massaie, che, adorandola, decretarono il suo successo. “Se seguite la mia ricetta – diceva Amalia – avrete di certo come l’ho avuto io uno di quei maritali ‘Grazie cara’ che scendono dritti dritti dentro il cuore’”. Petronilla instaurò con le lettrici un dialogo costante e costruttivo. Durante il secondo conflitto mondiale insegnò come mangiare sano spendendo poco; facendo anche a meno degli usuali ingredienti o diminuendone le loro, dato che allora erano reperibili quasi soltanto al mercato nero. Pochissimi dunque si potevano permettere cene come quelle di Trimalchione, uomo volgare e singolare, nel “Satyricum” di Petronio.
Cronisti del Giorno, dietro Presicci, Renzo Dall'Ara
Amalia pubblicò anche le “Perline”, una collana di libri. Era un punto di riferimento, l’antesignana delle rubriche oggi curate da gastronomi e “chef” spesso sussiegosi, che imperversano in televisioni pubbliche e private. Sostenitrice della dignità della donna tra i fornelli, giornalista in un’epoca molto avara con il sesso cosiddetto debole, soprattutto nell’ambito della carta stampata, era considerata l’Artusi in versione femminile. La passione per i sapori e i profumi della cucina non le fece però trascurare l’arte di Ippocrate, al quale è stato attribuito il “Peri diaites”, l’opera più pregevole giunta fino ai giorni nostri sull’alimentazione e la dietetica. Continuò ad esercitarla con nobiltà e slancio, abnegazione, saggezza. Per quanto riguarda le sue ammiratrici, furono da lei invitate a non ritenerla una cuoca vera e propria, capace di architetture culinarie eccezionali, ma una come loro che aveva appreso da ragazza a far da mangiare. Non era esattamente così, ma fu anche questa sua umiltà a farla crescere nell’affetto e nell’apprezzamento di chi non si lasciava scappare un numero della “Domenica”, di cui lei, Amalia Moretti Foglia, della terra di Sordello, era ormai un pilastro. Altruista, sempre pronta a far del bene, coerente con le sue idee, non badava alle ore che l’assorbivano.  Morì, nella sua casa di via Sandro Sandri al civico 2, a Milano, nel 1947, anno in cui si spegneva, a Livorno, Giuseppe Modigliani, che nel 1922 con Filippo Turati e Claudio Treves aveva dato vita al Partito socialista unitario; e nel capoluogo lombardo veniva inaugurato il Piccolo Teatro, protagonisti Paolo Grassi, critico e operatore teatrale e culturale (fu anche sovrintendente della Scala e presidente della Rai), e Giorgio Strehler, regista teatrale.










mercoledì 7 marzo 2018

Gabriele Benzan, grande “nerista”


“CONSUMAVAMO SCARPE  E MANGIAVAMO POLVERE”



Arnaldo Giuliani
 

Lavoro duro, ma appassionante.

La vecchia guardia della “nera”
era fatta di veri e propri segugi:
 
Arnaldo Giuliani; Patrizio Fusar;

 
Alfredo Falletta,che la mattina
era solito entrare nel bar di fronte
alla questura per cercare uno dei
suoi “cardellini”;


Mario Berticelli,
che rifiutò uno stipendio doppio
per non tradire il suo giornale; 
Giancarlo Rizza; Fabio Mantica.










 Insegna che da oltre un secolo campeggia su  una parete della prima sala-stampa della questura di Milano









Franco Presicci

Avevano la pelle dura e non si facevano fiaccare dalle ore sottratte al riposo e dalle sgambate, che incipriavano di polvere le loro scarpe. Alcuni non badavano al pericolo, pur di riempire il carniere, come i due castori del “Corriere della Sera”, Giuliani e Mantica, che, grazie ad una soffiata, appiattiti sull’erba, assistettero dopo mezzanotte a un duello rusticano all’Idroscalo. Della “nera” sapevano tutto: la storia, le imprese, i protagonisti… Una notte lo stesso Giuliani, percorrendo al buio una via del centro, si sentì chiamare per nome, e scoprì che era un “boss” latitante, seduto in un’auto parcheggiata lungo il marciapiede. Parlare con uno di questi cronisti della vecchia guardia era piacevole e interessante. Si raccontavano e raccontavano con entusiasmo: assalti in banca, omicidi, sparatorie, come quella di largo Tel Aviv… Vero, Gabriele Benzan? Lo avevo cercato per tanto tempo. Poi l’amico e collega del “Corriere della Sera” Alberto Berticelli, sorbendo un cappuccino nel bar di fronte alla questura, mi dette l’indicazione giusta: Gabriele viveva a Rovereto E mi dettò il numero di telefono.
Gabriele Benzan
Gabriele rispose al secondo trillo, e mi fece festa. “Vorrei ripassare con te i giorni della ‘nera’ di una volta”. “Da dove cominciamo?”. Senza aspettare le domande, partì come un velocista, descrivendo i prìncipi della categoria suoi contemporanei; i poliziotti che li tenevano in simpatia, da Ferdinando Oscuri a Vito Plantone; gli espedienti che inventavano per carpire o verificare una notizia o per impolparla… Ricordava con limpidezza anche i dettagli di episodi lontani. Ottantacinque anni suonati, “già accanito fumatore con due pacchetti di Kent al giorno, e non di rado anche due e mezzo; smesso di colpo nel ’65. Tutt’oggi vivo e vegeto con cinque by-pass aortocoronarici e un ‘angioplastica distale… Strano ma vero, più che nel passato e nei ricordi del tempo che fu, mi ritrovo benissimo nel presente, così mutevole e sorprendente”. Lo ascoltavo affascinato, questo simpatico, anziano collega un po’ sosia di Walt Disney. Una vita trascorsa fiutando come un cane da tartufi. “Bisognava procurarsele in un clima di concorrenza spietata, le notizie. Il lavoro non finiva mai. la sera, mentre cenavi, all’improvviso ti assaliva il timore di aver preso un ‘buco’. Ma era bello. La ‘nera’, come sai bene, avvince, appassiona. Ogni giorno sempre diverso e sempre movimentato. Eravamo marciatori allenati. Conoscevamo tutte le strade, che alcuni di noi attraversavano in bici. Tu hai vissuto le estenuanti attese, le speranze che un’anima buona premiasse la tua fatica.
 Jovine,Max Monti,Plantone,Giuliani
Il nostro è un mestiere fatto di trepidazioni. Se non stai sempre all’erta, la concorrenza ti mette a terra”. Le rapine? “Quelle si susseguivano con ritmo incalzante: novanta, a mano armata, solo quelle, fra l’ottobre del ’46 e il marzo del ’47, della banda capeggiata da un bandito claudicante detto gentiluomo, perché alla fine di ogni assalto dava… la mancia al cassiere” (ormai in pensione, venne a trovarmi al giornale e mi chiese d’intervistarlo). A parte le “dure” rimaste negli annali, non si potevano attraversare di sera i boschetti di Trenno senza essere depredati. L’attrice Emma Gramatica fu aggredita in carrozzella in piazzale Lotto. La prima consorteria criminale organizzata di allora, la famigerata “banda Dovunque”, che aveva in organico elementi di diversa provenienza (uno, il più notevole, dieci anni dopo indosserà la tuta blu nella clamorosa “volata” di via Osoppo, il 27 febbraio del ’58). Il “cast” del commando debuttò nel centro di Milano la sera del 30 marzo del ’49. Poco prima delle 8, attaccò la gioielleria Spoggi in via Bigli e svuotò le tre vetrine del negozio: braccialetti d’oro, anelli con brillanti, collane, orologi, parure… L’obiettivo successivo la Cassa di Risparmio di Bologna, e poi ancora altri. Tanti. Le forze dell’ordine dovevano fronteggiare “confraternite” agguerrite, che fiorivano come papaveri. A dare filo da torcere al tramonto degli anni Cinquanta furono anche Carlo Bollina, detto il “Paesanino”, che da ladro di bestiame aveva fatto il salto di qualità; e il suo “apostolo”, complice, Carlo Brambilla, che prendeva il soprannome dai suoi natali a Sant’Angelo Lodigiano. Forniti entrambi di un’astuzia rustica e di grande prudenza nello spendere i “grisbì”, erano primule rosse.
Il maresciallo Oscuri, a destra
Venivano a Milano in moto e realizzavano colpi sensazionali. Alla fine, allettati come da una sirena dalla bella vita, dalle macchine di lusso, dalle belle donne, affogarono tra bollicine di champagne: una notte il commissario Mario Nardone sorprese il “Paesanino” nel sonno nella sua villa di Oggebio, dalle parti di Novara. I nostri ricordi fluivano come l’acqua di un ruscello. Il vecchio segugio si rivedeva acquartierato con i colleghi sotto le finestre della Mobile per captare qualche frammento di un interrogatorio. Famoso quello di Rina Fort, la trentunenne friulana che il 29 novembre ’46 sterminò la famiglia del suo amante. A condurre le indagini, Mario Nardone, il “Gatto”, allora commissario. Benzan lo ricorda benissimo, con ammirazione. Non indugia quando lo esorto a soffermarsi sulla rivolta di San Vittore del 21 aprile ’46, giorno di Pasqua. “Noi cronisti ci trasferimmo al secondo piano di un palazzo in costruzione all’angolo tra viale Papiniano e via Dugnani, da dove si poteva osservare l’ingresso del carcere in tumulto.
Le prime auto della polizia
Fuori, autoblindo, carabinieri, polizia, un reparto della “Folgore”, mitragliatrici del 3° Bersaglieri sul tetto dell’Istituto Beccaria. All’interno, guardie in ostaggio, spari, bombe a mano…”. L’evasione in massa venne bloccata da un agente ventiduenne, Salvatore Rap, che sparò sopra le teste, ma venne fulminato dagli ammutinati. Un’autoblindo si piazzò nell’androne; dietro, il maggiore dei carabinieri Giovannini, un maresciallo, Milanesi, amico di Benzan, che nel ’45 si faceva spesso ospitare dalla mensa dell’Arma di via Moscova a causa dell’avaro stipendio dell’agenzia Orbis, che lo indusse a passare a “Il Giorno”, dove lavorò dal ’56 al ‘60. Milanesi sussurrò a Benzan che in una cella era prossimo un incontro tra un ufficiale dell’Arma e il “conte Mino”, un ex legionario che con Ezio Barbieri e altri cinque era alla testa dei ribelli. Il cronista riuscì ad insinuarsi e assistette alla trattativa. Il 24 aprile, la resa. “Tu te lo ricordi sicuramente, Barbieri?”.
 Alberto Berticelli,Giancarlo Rizza,Giuliano Molossi
Uno dei banditi più temuti del dopoguerra. Assieme a Sandro Bezzi, con un’Aprilia nera diventata leggendaria, aveva terrorizzato Milano. Il 26 febbraio del ’46 lui fu catturato alla cascina Torrazza di Pero e l’altro ucciso dalla “pula”, polizia, sotto il ponte della ferrovia di Greco. Nell’immediato dopoguerra in via Fatebenefratelli la sala-stampa era di là da venire, “e noi cronisti ci incontravamo nell’androne e aspettavamo il decano apripista, Guido Rossi, del ‘Corriere’. Risale a quell’epoca la mia prima e ultima ‘gaffe’, che mi dette qualche grattacapo. All’ufficio politico, al terzo piano, avevano preso uno svizzero borsaro nero, con l’accusa di collaborazionismo. L’uomo aveva riferito di aver portato al Principe di Savoia una lettera per un esponente del controspionaggio francese, e io scambiai l’albergo di piazza della Repubblica per Umberto II, e quando uscì un titolone sul mio giornale, che allora era “L’Unità”, con quell’errore, si sollevò un polverone”.
Tanino Gadda con la collega Luisella Seveso
Che fare? Benzan salì al piano nobile della questura e spiegò l’equivoco al maggiore Kane, che dopo una grassa risata gli regalò uno “scoop”: dopo qualche giorno sarebbe entrato in funzione il “777”, oggi “113”, sul modello londinese della “Fliyng Patrol”. Primo mezzo, una Lancia Astura, poi seguita da vecchie jeep ereditate dagli alleati. “Di lì a poco ci fu il cambio della guardia tra l’amministrazione anglosassone e gli italiani; e noi quella notte ne approfittammo per occupare un locale al pianterreno, che fu l’embrione dell’odierna sala-stampa”. E vennero gli anni Sessanta. Il Gruppo Cronisti Milanesi stabilì fra l’altro rapporti sempre più stretti con le istituzioni. “In sala-stampa, alloggiata nell’ammezzato di via Fatebenefratelli, “trascorrevamo le notti giocando a carte o chiacchierando”, nell’attesa di un evento: una “dura”, una spaccata, un assassinio… Se non succedeva niente, non ci abbandonavano alla noia. Ogni tanto uno di noi batteva i corridoi alla ricerca di un ‘cardellino’ e tendeva le orecchie affinate da anni di mestiere”. Da una foto ancora oggi appesa a una parete della sala-stampa occhieggiano cronisti eccellenti dell’epoca: ‘Zsù-Zsù Baronj, che nel ’45 per essere tornato a piedi dalla Germania, a Milano, anche per fare solo cento metri, come andare dal giornalaio, prendeva il taxi o si faceva portare il quotidiano dal tassista; Arnaldo Giuliani, “Giulianino”, figlio d’arte, ragazzo pulito, mite, rispettoso di tutto e di tutti; Salvatore Conoscente; Giancarlo Rizza; Patrizio Fusar; Max Monti; Alfredo Falletta, che, coppola in testa, tutte le mattine, prima di varcare la soglia della questura, era solito entrare nel bar di fronte per interrogare con lo sguardo qualche suo fedele trombettiere (ne aveva tanti); Mario Berticelli, un signore, cronista serio, preciso, attento, legatissimo alla sua testata, “L’Unità”, tanto da rifiutare l’offerta di uno stipendio doppio da un settimanale ancora oggi molto letto. La mia conversazione con Gabriele Benzan, lunga ed emozionante, risale al marzo del 2006. Il grande “nerista” se ne andò qualche anno dopo. Il Gruppo Cronisti Lombardi non lo aveva dimenticato: gli aveva riservato un premio, che non fece in tempo a consegnargli.