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mercoledì 27 febbraio 2019

I tempi eroici della cronaca nera


L’AUTISTA DELLA BANDA ERA UN CARABINIERE

Da sx: Franco Di Bella con il sindaco Tognoli. A dx Franco Presicci






Si era infiltrato e, dopo la rapina,

guidò la vettura in via Moscova,

nel cortile della caserma dell’Arma.

La rivolta di San Vittore, le prime

auto della Volante.

I grandi neristi.









Franco Presicci

Il primo numero della Volante fu 777: ispirò due versi del brano popolare del XIX secolo “Porta Romana bella”, che si cantava dappertutto: nelle osterie, nei teatri e nel carcere di piazza Filangieri: “E sette-sette-sette fanno ventuno, arriva la Volante, non c’è nessuno”.
Jannacci e il barbiere scrittore Bombieri
La canzone impegnava le ugole di Giorgio Gaber, Nanni Svampa, Gabriella Ferri, Enzo Jannacci… La malavita la fischiettava per prendere in giro la “madama”. Diverse le versioni: una era stata modificata per Ezio Barbieri, il bandito che con il socio Sandro Bezzi sconvolse Milano con imprese rapide e pericolose a bordo di un’Aprilia nera diventata leggendaria; e poi, nell’aprile del ’46, giorno di Pasqua, ingoiato da San Vittore,  guidò per quattro giorni la rivolta, la prima nella storia, che si concluse tragicamente. Su una vettura del 777 viaggiò un giovane Dino Buzzati - che all’inizio della sua meravigliosa carriera, aveva masticato anche cronaca nera – per raccontare i malanni della metropoli. Quei tre numeri indicavano il pronto intervento della polizia, entrato in funzione il 3 settembre del ‘45 sull’esempio delle grandi città nordamericane e inglesi. Il primo mezzo fu una “Lancia Astura”, requisita sul lago di Como a un manipolo di gerarchi in fuga. Poi se ne aggiunsero altre, e tutte vecchie trappole appartenute agli angloamericani e rinvigorite nell’officina della polizia, in via Mirabello.
Le prime auto della polizia
Ogni giorno un motore ansimava e gli equipaggi rimanevano a terra. Rispolverammo quei tempi un giorno del luglio ’89 con Patrizio Fusar, grande cronista che all’epoca, quando i neristi dovevano inventarsele tutte per poter azzannare una notizia, dopo un rodaggio al “Popolo” con Fortebraccio, aveva trottato per “Il Giorno”, emigrando poi in via Solferino, al “Corriere”. Sollecitando la mia memoria infoltita dalla lettura delle vecchie pagine di “nera”, Patrizio riviveva i suoi percorsi con entusiasmo: “La decisione di istituire la Volante era stata presa dal capitano inglese Kein, una specie di sovrintendente alla polizia giudiziaria per conto degli alleati… Sembrò un’idea fantastica perché fino a quel momento i poliziotti (e anche i carabinieri “caramba” per la “mala”: n.d.a.) andavano in bicicletta o in tram”; e noi a piedi, a parte quelli che si potevano permettere una “due ruote”.

Insegna che da oltre un secolo campeggia su una parete  della prima sala-stampa della questura di Milano                  


                                                           Della partita facevano parte anche Gabriele Benzan, che aveva, anche lui, scarpinato per il quotidiano dell’Eni; e Arnaldo Giuliani, che si faceva le ossa al “Corriere della Sera”, dove diventerà un fuoriclasse; Fabio Mantica, ”Max Monti, anche loro del “Corrierone” ed altri, tutti carichi di esperienza. Raccolsi le conversazioni in una serie di articoli sul mio giornale. Cominciando da Fusar, milanese, vaga somiglianza con l’attore Peter Ustinov, loquace, preciso. “In epoca fascista i cronisti non avevano diritto di soggiorno negli uffici pubblici, tantomeno in questura…”. Mi venivano in mente altri avvenimenti, soprattutto nell’agone dello spettacolo: Walter Chiari, che al teatro “Carcano” suscitava risate salubri; su altri palcoscenici debuttavano Adriana Serra e Lea Padovani; al Nuovo mietevano applausi Eduardo e Titina De Filippo con “Napoli milionaria”; Arturo Toscanini rientrava dagli Stati Uniti in Italia, abbandonata per il suo rifiuto del fascismo (dirigerà il concerto inaugurale della Scala); Dino Buzzati si occupava del caso di Rina Fort; Wanda Osiris scendeva le sue scale al Teatro Lirico in via Larga con un turbante di raso bianco. “Io - proseguiva Fusar - avevo procurato un’abitazione in via Vanvitelli a Paolo Zamparelli (allora vicecapo della Mobile che aveva appena arrestato il “bandito gentiluomo”, autore di 90 rapine a mano armata in pochi mesi, lasciando come firma ogni volta la “mancia” per l’impiegato); e, incontratolo nel cortile della questura, gli dissi che stavo andando in piazza Filangieri per la rivolta.‘No - mi rispose - chiamo l’ufficio e mi faccio mandare una macchina’.

La polizia
E partimmo assieme”. Per quattro giorni cronisti e poliziotti bivaccarono davanti alla casa circondariale assediata da mezzi blindati della Benemerita, divorando panini senza poter schiacciare un pisolino sulle panchine fissate sotto gli alberi. Fra la truppa dei giornalisti spiccavano Vittorio Notarnicola, Franco Di Bella, Gaetano Afeltra, Antonio Donat-Cattin; e i fotografi Vincenzo Carrese e Fedele Toscani. Tempi memorabili, con investigatori di grande valore, instancabili, astuti. In attesa di notizie qualcuno conversava nei giardini e ricordava vecchi episodi. Franco Di Bella, già capocronista del “Corriere”, forse stava già pensando di scrivere la sua storia del crimine nel dopoguerra in Italia e doveva già aver saputo dal capitano dei carabinieri Franco Perrone, di stanza nella caserma di via Moscova, la scena cinematografica di cui era stato protagonista. Mi piace riaprire quella pagina davvero esaltante, eroica. Un tale “Biscela” (soprannome appartenuto a parecchi “locch” dell’800 e che secondo la “mala” significa riccioluto) di Morivione, borgo rurale annesso al Comune di Milano nel 1873, aveva progettato una rapina nell’agenzia di una banca; e aveva bisogno di un autista.

Giannattasio e Oscuri
Allora le organizzazioni criminali, di piccolo o grosso spessore, non ne avevano in organico; e all’occorrenza li reclutavano. Biscela incaricò uno dei suoi; e la voce arrivò all’ufficiale dell’Arma, il capitano Franco Perrone, un napoletano che, essendo appena arrivato a Milano, non era una faccia conosciuta. L’ufficiale si alzò di scatto, esclamando: “Perbacco! Ci vado io. Certo non ho le doti di Fernando Alonso, ma al volante me la cavo molto bene”. Gli fu suggerito che poteva essere rischioso; che se Biscela avesse sentito puzza di bruciato sarebbero stati dolori; ma il capitano restò fermo nella sua decisione. E quando si trovò di fronte a Biscela, che usava con frequenza il gergo della malavita (“dura”: rapina; “cavolfior”: carabinieri; “giudea”, ghetto di malavita; “brusà el paion”: rompere le uova nel paniere”…) superò brillantemente le prove orale e pratica. Una volta arruolato, studiò il piano; e lo illustrò ai suoi collaboratori: si sarebbe fatto seguire da un gruppo di carabinieri ovviamente in borghese fino all’istituto di credito, dove avrebbe preso poi i “duristi” con le mani nel sacco. Ma siccome il diavolo non perde il vizio di fabbricare le pentole senza i coperchi, durante il tragitto, per colpa del traffico, il cacciatore perse i cani; ciononostante, il capitano Perrone, non si perse d’animo. Giunti a destinazione, i banditi scesero dalla vettura, entrarono in banca, fecero la razzia, uscirono con i sacchi sulle spalle e risalirono in auto.

Posto di blocco dei carabinieri
Controllo del territorio
Biscela impose ad Alonso di andare come un razzo e questi, obbedendo, consigliò di mettersi tutti le armi dietro la schiena o sotto il deretano, per evitare di essere individuati in un eventuale posto di blocco. Biscela trovò l’idea geniale ed esortò nuovamente il pilota ad andare più forte. “Tutto dipende da te, adesso, accelera, accelera. E non rifacciamo la stessa strada, potremmo essere ‘bevuti’”, acciuffati. Tutto come in un film. L’asso correva, s’inventava percorsi che lo stesso Biscela non conosceva, indicandoli come più sicuri. “Va bene, ma sta attento…”. “Già, ma correndo troppo potremmo attirare l’attenzione ed essere inseguiti…”. Scene da “Miami Vice”. Un bandito propone di tuffarsi su una strada che porti in campagna per spartirsi subito la torta. Ma il pilota è di diverso avviso: “Bisogna intanarsi subito da qualche parte: dalla banca devono aver avvertito le forze dell’ordine, che sicuramente ci stanno cercando.
Conoscono il tipo di macchina (un’Aprila: n.d.a.) con cui siamo arrivati e ripartiti; non vorrei imbattermi in una paletta dei “carrubbi” o della ‘pula’” (attinge anche lui al gergo della malavita). Lui ha una soluzione: andare a casa sua, un palazzo dignitoso, abitato da professionisti che lo ritengono “borbottone”: avvocato. Si inizia a vedere il profilo della città. Si avvicina l’ultima fase, il cervello dell’autista si arroventa. Biscela gli domanda da che parte si trovi la sua abitazione; la risposta si fa attendere per qualche secondo, ma, quando arriva, soddisfa il capo: la zona di corso Garibaldi gli va a genio. Ma da quelle parti si trova anche la caserma dei carabinieri in cui lavora il capitano Perrone. Biscela dovrebbe saperlo, ma ormai ha piena fiducia di quel Michael Schumacher che ha dato buoni consigli. Sono momenti da cardiopalmo. Ma il capitano Franco Perrone ha i nervi saldi: giunto all’altezza della caserma svirgola a tutto gas, imbocca il portone, va con la macchina contro la parete del corpo di guardia, si blocca con violenza, scatta fuori. Biscela e compagnia restano di sasso, non si rendono subito conto di quello che è successo. La corsa è finita in bocca alla volpe. L’auto acciaccata. Perrone osserva le ferite della sua Aprilia, ma che soddisfazione, perbacco! Che coraggio! Altro che “Miami Vice”. Non è stata la prima né l’ultima impresa così grande. La lotta tra guardie e ladri non ha mai fine.


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mercoledì 20 febbraio 2019

L’intervista, a Miami, al capo dei Miccosucke


“SE FOSSI STATO TORO SEDUTO O GERONIMO AVREI FATTO LE BATTAGLIE CON LA PENNA”



Conversai con Sonny Billie nel suo accampamento mentre il suo popolo lavorava sotto i “chichees”.

“Io sono per il dialogo, e il dialogo, se stabilito in buonafede, finisce col dare buoni frutti”.

Stimava Osceola, “che fu un sachem coraggioso, anche se impulsivo e vendicativo”.

Il “tribal chairman” era saggio e parlava con molta calma, misurando le parole.

Lo incontrai nel suo accampamento vicino all’Evergladees. Era il 1986.






Franco Presicci 

“Amo il dialogo. Il dialogo, se stabilito in buonafede, finisce con il dare buoni frutti”. Iniziò così il suo discorso Sonny Billie “tribal chairman”, presidente dei Miccosukee, indiani discendenti dal leggendario Osceola, sachem, capo elettivo dei Seminole. Una sera dell’ottobre dell’89 Lino Rizzi, direttore del “Giorno”, un gentiluomo di antico stampo, mi chiamò a casa per dirmi che dovevo andare a Miami per imbarcarmi sulla Costa Riviera in crociera nelle Isole Vergini. Al ritorno mi aspettava una pagina. “A Miami dovrai fermarti due o tre giorni, quindi potrai fare un salto ad Orlando”. Giunto a destinazione, una sera, visitando i negozi, le palestre, le piscine.. dell’albergo “Fontainebleau”, in cui alloggiavo, conobbi un tale che dopo aver fatto il trombettista sulle case galleggianti, si era stabilito in Florida, dove con un pullmino portava in giro i turisti. Avendo appreso che ero cronista di nera da Lorenzo Zucchi, dirigente della TWA, con il quale avevo volato dalla Malpensa sin lì, mi disse che mi avrebbe presentato appunto l’indiano eletto “tribal chairman” da una quindicina di giorni, se durante il tragitto, gli avessi parlato dei traffici di droga e dei trafficanti che attraversavano quella città.
Sonny Billie, Franco Presicci e altri
Accettai, ed eccomi davanti a Sonny Bill, che aveva la faccia di Nuvola rossa, capo dei Sioux, altissimo, massiccio, volto scolpito nella quercia, una moglie, quattro figli tutti sposati. Parlava con calma, voce bassa, parole calibrate e parecchie pause, poco di sé, ma molto della storia della sua gente, della vita quotidiana nell’accampamento (Indian village of Miccosukee tribe), che si stende a pochi passi dall’autostrada verso Miami, la Tamiami Trail, su un margine delle sconfinate paludi del Sud della Florida: le Evergladess, ricche di boschi di mangrovie, ciuffi d’erba tagliente come spade, di quattrodici tipi di orchidee e popolate da alligatori e da venticinque specie di serpenti, cinque o sei velenosi.
Bambola indiana degli Hopii

Billie precisò di essere uomo di pace, pur conservando uno spirito battagliero, che emerge quando si presenta la necessità di salvaguardare i diritti della comunità. Senza aspettare la domanda, chiarì che non avrebbe voluto essere nessuno dei grandi personaggi del passato: né Geronimo né Toro Seduto. Stimava Osceola, che fu un “sachem” coraggioso, anche se impulsivo, vendicativo, feroce (era chiamato anche Powell, nome dello scozzese che aveva sposato la madre), morto in prigione dopo aver condotto battaglie memorabili. Era stato tirato per i capelli: era la prima metà dell’800, lui viveva tranquillo sulla sua terra prima della notte in cui un gruppo di soldati di Forte King irrompesse nel villaggio, distruggendolo. Fra i prigionieri c’era anche la moglie di Osceola, “Rugiada del mattino”. Il giorno dopo il massacro il capo andò dal generale Tompson, ma l’ufficiale, anziché restituirgli la donna, lo fece frustare. Il pellerossa giurò di non starsene con le mani in mano: trasferì i Seminole nell’Evergladess, dove tese numerose imboscate al nemico. Tra i Seminole – che vuol dire “fuggiasco”, facendo torto a questo popolo che non si arrese mai, si erano intruppati per solidarietà disertori, evasi, schiavi scappati ai negrieri. Sonny Billie accennò soltanto alle pagine che delineano le stragi, i tradimenti, i voltafaccia dei generali. Per lui appartenevano al passato. “Non è nello spirito degli indiani uccidere. Gli indiani sono molto religiosi… Se fossi vissuto oltre un secolo fa, avrei invitato i generali a discutere sino alla stanchezza.
Ragazza vicino al totem
Non avrei combattuto con il fucile, ma con la penna”. Lasciammo lo slargo circondato da “chickees”, capanne tradizionali aperte ai lati con il tetto intessuto di rampi e foglie di palma e passeggiammo tra i banchi d’esposizione dei “souvenirs” (collane di corallo, bambole, gonne, camicette, giochi, insegne indiane…), tra le fonti di reddito della tribù. Gli chiesi: Che cosa prova quando vede, se li vede, i film sugli indiani. “Noi sappiamo che l’uomo bianco non ha mai onorato la parola data e ci ha sempre presentati come selvaggi. Ma è inutile che diventiamo matti: non dobbiamo litigare, bensì unirci e vivere da amici. Era restìo a manifestare i propri sentimenti. Passai ad altre domande: Quanti membri conta la sua tribù? “Esattamente 520. Ma qui intorno sono accampati altri mille indiani. Come vivete? “Con lo spettacolo degli alligatori e con l’artigianato”. Come considerate la donna nel villaggio? “Uno dei miei compiti è quello di garantire a tutti pari diritti e uguale dignità, indipendentemente dal sesso; di evitare le discriminazioni di qualsiasi natura.
Indiana cuce  e altri dialogano


Non c’è spazio quindi per quello che voi chiamate movimento femminista”. E azzardai la domanda impertinente: “Sonny Billie è un bell’uomo e un ‘chairman’: gli capita di essere corteggiato dal gentil sesso?”. Sorrise divertito. “Non abbiamo l’abitudine di avere due mogli. E se mi capitasse di essere corteggiato, pregherei la persona di desistere: per la mia posizione devo essere l’esempio, altrimenti la tribù mi toglierebbe la fiducia”. Piccola pausa, poi: “La donna per me è espressione di bellezza; è madre. Io non sono un ‘play-boy’”. Ha oppositori nella gestione del villaggio? “Quelli che hanno smanie di carriera si comportano come gli italiani”. Come trascorre le ore libere? “Leggo, guardo la televisione, vado in macchina, come tutti nella tribù; a parte quelli che stanno nel ‘chickees’.
Fachiro a Saint Croix
Alcune famiglie si sono costruite la villetta lungo la strada principale del villaggio, ma ci vanno soltanto per godersi il programma televisivo. In certi momenti si siedono vicino al fuoco sotto tre rami disposti a ics, le cui punte indicano l’Est, l’Ovest, il Nord e il Sud”. Avete tutte le comodità? “Abbiamo il frigorifero, le scuole, i pompieri, la lavanderia, la biblioteca…”. E tornò alla storia del suo popolo, “che era in Florida prima ancora che questa entrasse a far parte degli Stati Uniti. Durante le guerre del XIX secolo la maggioranza dei pellirosse fu deportata verso Ovest. Solo poche famiglie riuscirono a dileguarsi trovando rifugio nell’Evergladees. Un nucleo più consistente s’intanò nell’Hammock, un isolotto invaso dagli alberi”. Gli antenati del chairman si costruivano piroghe utilizzate per andare a caccia e vendere animali e altra merce.
Chickee
Un paio di queste imbarcazioni scavate in un solo tronco di cipresso sono esposte nel villaggio. “Occorrevano due anni per farne una”. Sonny Billie provava piacere nel raccontarsi: “Abbiamo sempre dato prova d’indipendenza e siamo rimasti ignoranti nell’Evergladees un centinaio d’anni. Abbiamo cominciato ad accettare il mondo moderno quando venne costruita l’autostrada Tamiami Trail. Nel 1962 il governo federale ci ha riconosciuti come tribù indiana separata dai Seminole. A lottare per il riconoscimento dei Miccosukee fu Buffalo Tiger, che aveva sposato una donna bianca e lavorava in uno studio d’avvocato. Poi Buffalo abbandonò la moglie e l’impiego e fece ritorno nella palude. Fece causa al governo, ma siccome i Miccosukee, che per anni erano stati ritenuti estinti, non erano stati registrati come tribù indiana, e l’azione se ne andò in gloria: Buffalo Tiger spedì un telegramma a Fidel Castro, che mandò la sua risposta: “I Miccosukee sono una storica nazione con diritto a un territorio”. Buffalo era instancabile. Basandosi su un documento del 1839, scomparso e riapparso nel 1962, che garantiva ai Seminole un ampio territorio nel Sud della Florida, a condizione che sotterrassero per sempre le armi, nel 1981 i Miccosukee ottennero una somma di denaro e 800 chilometri quadrati di terra. Buffalo radunò in una sola comunità i Miccosukee e li governò fino al 1985, quando venne sostituito dal sottoscritto”. Sonny aggiunse che ogni anno in primavera celebravano la “Danza del grano verde”, un rito sacro che per quattro giorni rende grazie al dono del mais: “dono che costituisce il segreto della forza della nostra tribù”. Ultima domanda: Che ne è della medicina indiana? “Resta radicata come pure il folclore, che è parte integrante dell’educazione dei nostri ragazzi”. Poi, indicandomi un fuoco: “Vede quei tronchetti di cipresso in mezzo alla brace? Simboleggiano il cerchio della vita: un pezzo è sempre rivolto verso Est”.


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mercoledì 13 febbraio 2019

Aperta nel ‘24 da Alberto Pepori

Alberto Pepori


LA TRATTORIA BAGUTTA

LOCALE STORICO D’ITALIA



Rimane nel cuore dei milanesi,
con la sua storia.

Ai suoi tavoli si sedettero le penne più famose
del ‘900, e artisti, come Casorati,
Carrà; attori, tra cui Lilla Brignone,
Diana Torrieri.

Nelle sue sale Orio
Vergani e Riccardo Bacchelli,
nel 1926, crearono il Premio
Letterario Bagutta. Il primo.







Franco Presicci

Un pomeriggio del ’63. Forse luglio. Faceva caldo, piazza San Babila poco frequentata. Via Bagutta, un corridoio che parte da lì per concludersi in via Sant’Andrea, che a sua volta incrocia la Montenapoleone, deserta.

Copertina libro  di Marino Parenti del '28
Presicci con il Presidente Sandro Pertini all'uscita da Bagutta

Avevo letto delle battaglie condotte anni prima dal pittore Bruno De Cerce per fare della Bagutta una gemella della Margutta romana, per assicurare cioè uno spazio alle opere degli artisti, e mi aveva colto la curiosità di andare a vederla. Passai davanti al famoso ristorante con il nome della via, ma era chiuso. All’unico passante chiesi notizie e mi indicò l’abitazione di un pittore sull’angolo. Indeciso, perché a quell’ora e con quel caldo magari potevo interrompere una pennichella, suonai al citofono e mi annunciai, spiegando il motivo della mia presenza. Inaspettatamente fui invitato a salire. Mi ricevette un signore alto, sorriso comunicativo, una cortesia insospettabile. Indietreggiò per farmi entrare. “Piacere, Casarotti, si accomodi”. Casarotti? Un prestigioso artista assiduo alla Biennale di Venezia disposto a ricevere uno sconosciuto! Ero in imbarazzo. Biascicai che ero arrivato da qualche mese dal Sud con una gran voglia di fissarvi la tenda, e sbocciò una conversazione lunga e varia: la vita quotidiana della città; i giornali; “l’Avanti” che aveva perso da poco il critico d’arte; la severità di Marco Valsecchi, critico d’arte del “Giorno”; la mostra collettiva che veniva organizzata ogni anno nella strada sottostante, grazie appunto a De Cerce, uomo barbuto e un po’ schivo ma generoso, che nelle manifestazioni, per attirare l’attenzione dei cronisti, si vestiva addirittura da carcerato; il ristorante “Bagutta”, a due passi, sede del premio promosso da Orio Vergani e Riccardo Bacchelli... Quando ci salutammo, mi fece promettere che sarei tornato.

Claudio Guagnini

Avendo visto i suoi quadri, scrissi un articolo per leccese “La Tribuna del Salento”, il settimanale di Ennio Bonea: gli piacque e mi fece dono di un disegno.
Volli apprendere la storia del ristorante Bagutta, creato nel 1924 da Alberto Pepori, di Galleno, frazione di Fucecchio, il paese di Indro Montanelli; e quando fui assunto al “Giorno” come cronista ci andai un paio di volte, aspettando all’esterno Sandro Pertini, che ogni tanto arrivava a Milano in visita privata senza dire niente a nessuno. Non mi permettevo di avvicinare il Presidente mentre era a tavola, sapendo che non gradiva. Mi occupai del Bagutta anni dopo, quando il Premio venne assegnato a Mario Soldati, di cui avevo letto nel libro “Primi piani” di Domenico Porzio (…la sua voce, anche al telefono, conserva quel timbro fervido pronto ad accendersi in subitanei arrochimenti e a glissare in mormorati bassi, commossi, da violoncello: un recitativo galeotto che negli anni verdi deve aver usato come esca sicura…”). Soldati mi parlò a lungo sul piacere appena ricevuto e anche della sua Tellaro. Alla fine mi esortò ad intervistare Mario Pepori, contitolare del locale. “Vedrai quante cose ti dice con la sua calma e la sua serenità”. Pensai ancora a Porzio: “Quanto al vestire… (Soldati: n.d.a.) era riuscito a trasformare l’eleganza in stile; lo stesso gli è riuscito scrivendo…”.

Domenico Porzio
Ammiravo Porzio, nato a Taranto, la freschezza, la ricchezza, la fluidità delle sue pagine.
Passò del tempo prima che seguissi il suggerimento di Soldati. Era ottobre. Pepori mi accolse in casa sua e mi fece sedere di fronte a lui a un tavolo; in piedi, sulla sinistra la moglie, Mariangela, una signora carina, gentile, luminosa, che ogni tanto interveniva per aggiungere un dettaglio. “Con Mario Soldati, Giorgio La Malfa, Manuer Lualdi, Antonio Dini…giocavo a carte. Quando Soldati prendeva l’asso di denari, si eccitava, facendo fremere tra le labbra l’immancabile sigaro toscano. Era straordinario, spiritoso, sapido interprete di barzellette, estroverso, autentico”. Lo avevo intercettato una sera ad una riunione al Circolo Turati, presente anche, se non ricordo male, Arnoldo Mondadori.
Ottantaquattro anni, Pepori, camicia a quadretti, “pullover”, le mani giunte, snodava i ricordi con limpidezza. Descriveva persino il suo primo cliente: il brumista che parcheggiava la carrozza in piazza San Babila. “Tra i fornelli, bravissima, mia madre Giulia. Papà faceva arrivare dalla sua terra tutti i prodotti: il Chianti, i fagioli, di Altopascio come l’olio, il pane, la carne… Riteneva che fossero di qualità superiore. E ancora oggi vengono da lì la salsiccia, la finocchiona, una specie di salame che sa appunto di finocchio, prosciutto, pecorino…”. Lo ascoltavo affascinato per la sua grazia, la fluidità delle sue memorie, le sue pause brevi. “Un giorno entrò, con Adolfo Franci, Riccardo Bacchelli, che conosceva le osterie di Roma, Firenze, Venezia, e aveva scoperto a Bologna ‘Il Pappagallo’; i piatti di mia madre gli piacquero, si innamorò dell’ambiente e lo raccontò: ‘Due stanzette, quattro tavole, …tovaglie pulite, ma cucina in vista…’. E prese a frequentarci assiduamente assieme ai suoi amici della ‘Fiera Letteraria’, Fracchia, Titta Rosa ed altri. Si riunivano in un clima di allegria, quasi goliardico, che partorì l’idea d’imporre una sanzione pecuniaria a chiunque disertasse il convivio senza un giustificato motivo. A compiere l’infrazione fu Orio Vergani, che onorò l’impegno proponendo di utilizzare le multe per un libro giudicato il più bello…”. Era la sera dell’11 novembre del ‘26, festa di San Martino. “Pioveva e faceva un freddo cane”. Nacque così il primo Premio Letterario italiano: il “Bagutta”, appunto. “Erano in undici.

Dipinto della giuria sulla parete del Bagutta
Tirarono fuori 100 lire a testa, li deposero su un piatto di porcellana, ma non riuscirono a raggiungere la somma stabilita in 5 mila lire da assegnare al vincitore. Allora Vergani mise all’asta alcuni quadri dei pittori baguttiani e mio padre scucì il resto”. Bacchelli venne eletto presidente a vita e Mario Vellani Marchi, scenografo della Scala, immortalò il battesimo dipingendo sul retro di una lista gialla della trattoria la caricatura dei giurati”.
Storia di Bagutta






La prima edizione, nel ’27, consacrò “Il Giorno del giudizio” di G.B. Angioletti. Se lo aggiudicarono, negli anni successivi, Stajano, Bocca, Cucchi, Cardarelli, Comisso, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Primo Levi, Leonardo Sciascia, Sergio Solmi. Soldati con “Lo specchio inclinato”, nel ’76… “Poi inaugurammo le serate di gala in onore di personaggi celebri: Toscanini, Coppi, Malaparte, Lucia Bosè, Diana Torrieri, l’attrice di Canosa di Puglia che calcò i palcoscenici con Memo Benassi, Sergio Tofano, Gassman, Squarzina… E ogni volta si sbizzarriva la matita di Vellani Marchi, le cui opere riempivano le pareti”.

Del fertile, brillante scenografo Dino Buzzati tracciò un profilo esemplare. “Durante una serata per l’assegnazione del Premio – continuò Mario Pepori – improvvisammo un teatrino per la Torrieri, che recitò ‘Maria l’O’’. Anche lei era di casa da noi, come lo erano Montanelli, Carrà, Casorati, Soffici, Simoni, Paolo Monelli, Lilla Brignone, Giovanni Papini… “. Mario Pepori, laurea in farmacia a Pavia, mi regalò un opuscolo in cui è condensata la storia del suo glorioso “Bagutta”, con testo di Corrado Pizzinelli e immagini di Tani-Capa e Giacomino Foto. Aggiungendo: “I rigatoni alla Bagutta , la trippa alla fiorentina… sono molto richiesti anche dai giapponesi, che conoscono il Premio e si fermano a guardare i libri esposti”. Sono stati in molti a scrivere di “Bagutta” e del suo Premio letterario. “Già, quotidiani, riviste, e poi servizi televisivi… Il primo libro, pubblicato dall’editrice Ceschina, lo scrisse Marino Parenti, arricchendolo di disegni di Vellani Marchi e di altri. Nel ’55 ne uscì uno che oggi si farebbe molta a fatica a cercare: testi di Vergani e Bacchelli”.
Mentre mi salutava, mi regalò l’ultima chicca: “A Parigi, durante una mostra dei locali più importanti d’Italia, seppi che noi eravamo assieme al Savini, al Florian e al Danieli di Venezia, al Caffè Greco di Roma…”. Nella guida dei Locali storici d’Italia, sapientemente curata da Claudio Guagnini, il Bagutta aveva il suo posto con gocce di storia e i nomi di alcuni dei grandi personaggi che lo praticarono, fra cui, come abbiamo visto, le penne più celebri del Novecento. Dal 1989 la trattoria, dotata tra l’altro di un bel giardino, fu inserita nel patrimonio storico dai Beni Culturali. Era anche un museo con tutte quelle opere che impreziosivano i muri e le sculture, gli affreschi. Chi entrava per la prima volta, prima di accomodarsi, faceva un giro per ammirarli. Una storia lunga, iniziata nel ’24 con Alberto Pepori, che gli amici chiamavano Pepori I°. E lui, uomo serio, pacioso, stava al gioco.


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mercoledì 6 febbraio 2019

I ventagli: vere opere d’arte


 


LINDA BENNATI DE DOMINICIS


E I SUOI STUPENDI ESEMPLARI



Trovò il primo flabello su una

bancarella e scoprì, studiandolo,

che era del ‘700. Si rivelò così il

suo amore per questi oggetti, che

hanno origine antica.





(I ventagli pubblicitari provengono dalla collezione di Gianfranco Radice)




Franco Presicci

Come si sa, a volte basta una parola per accendere una lampadina. La mia m’illuminò durante una cena di compleanno in una vecchia trattoria pugliese in periferia: sorta probabilmente con il nome di “trani”, uno di quei locali a suo tempo aperti da immigrati provenienti dalla città pugliese (che “ha la campagna più fertile e ricca d’uva” e una cattedrale famosa, scriveva Guido Piovene). Eravamo una ventina: un misto di “terroni” e “polentoni”; e come in quasi tutte le comitive c’era una varietà di tipi: mentre io gustavo rigatoni alla crudaiola confezionati a regola d’arte, il mio dirimpettaio, dopo aver divorato un cumulo di spaghetti con il sugo, s’impegnò nella scarpetta, scandalizzando il vicino fedele di Monsignor Della Casa. Passò il cameriere, basso e magro, una salvietta a mo’ di manipolo sul braccio sinistro e il tronco come foderato con stecche di balena, e gli chiese: “Che cosa mi porta per secondo?”. “Una frittura di pesce? O delle melanzane ripiene, oppure il polpettone…”. “Mi va bene la seconda proposta”, e gli elencò un paio di malattie che gli impedivano di scegliere la prima e la terza. Tra un boccone e l’altro due signore che avevo già incontrato in un’altra occasione, Elvira, giovane, elegante, carina, di pelo rossastro; ed Elisabetta, copia conforme dell’attrice Giuliana Del Rio, parlavano di bastoni da passeggio e di ventagli.
Valsecchi e Morosetti. Milano. Ventaglio pubblicitario. Lozione Kino-Petrolea. Anni '20
“In un museo, non ricordo quale, ho visto quello di Toulouse-Lautrec Nell’Ottocento furono oggetto di un collezionismo diffuso.”. “Ho una decina di flabelli – seguì Elisabetta -, ma di quelli che le donne agitano per darsi fresco sulla spiaggia dopo il bagno. Gli esemplari che ho visto al Museo Poldi Pezzoli e al Castello Sforzesco sono un’altra cosa. Lo sai che dalla Cina arrivavano sino a noi ventagli in madreperla e avorio? Belli anche quelli che servivano come mezzi pubblicitari, per esempio delle case di profumi.

Balenciaga. Paris. Ventaglio pubblicitario. Profumo Xia Xiang. Anni '60
Dal Settecento i nostri cugini francesi producono la maggiore quantità di ventagli e di una qualità eccezionale… L’uso fu portato da Caterina de’ Medici che andava a nozze con Enrico II. Ah, in Egitto, le raffigurazioni di re sui muri delle tombe sono accompagnati da schiavi che issano flabelli…?. Ne sapevano, di cose, su quegli argomenti. E io stavo ad ascoltarle con autentico interesse. Tanto da non lasciarmi distrarre dal festeggiato che mi indicava le mensole sparse nella sala con “capase”, “vummile” ed altri oggetti in terracotta acquistati a Grottaglie. Nei giorni successivi pensai a lungo ai ventagli: un’idea fissa. E cercai l’indirizzo di un fabbricante. Al giornale Luisella Seveso, collega molto brava e informata, non seppe darmi una risposta; e neppure Nino Gorio, che seguiva il Palazzo di Giustizia, ma senza darlo a vedere conosceva le tribù degli indiani d’America, le bellezze nascoste del paesaggio europeo (lasciò il giornale per girare il mondo per riviste di turismo), tutti i particolari delle “tournèe” del circo di Buffalo Bill a Milano e in altre città europee nel 1889…. “Ti soccorro io”, mi soffiò all’orecchio sorridendo Adelaide Murgia, che si occupava di eventi culturali con uno stile esemplare, e in una mezza giornata scuciva sì e no quattro parole e solo con chi le stava simpatico.
Altro ventaglio
Mi scrisse su un biglietto il nome e l’indirizzo della “Regina dei ventagli” e me lo consegnò. “Non la conosco personalmente, ma so che fa veri capolavori. E’ Linda Bennati De Dominicis, aquilana”. E così eccomi in via Contardo Ferrini 11, a Porta Romana, di fronte a questa signora dolce, bassina, asciutta, i capelli innevati, in un salone inondato di luce che immetteva in un altro e in un altro ancora. Ventagli ovunque, alcuni incorniciati su una parete, altri appoggiati su una base di “plexiglass”, in una teca, su una sorta di credenza... Era il dicembre del 2006. La signora, quasi ottantenne, dopo avermi accolto con grande cortesia mi illustrò i vari pezzi, mentre la figlia Paola discuteva con una cliente. Parlava volentieri, con eleganza, e quando la sollecitai cominciò a sfogliare la sua biografia.
Roberts Firenze. Ventaglio pubblicitario. Bagnante con sfondo marino. Anni '30
Roberts Firenze. Ventaglio pubblicitario. Garofani. Anni '30
                                   
A farle scoprire l’amore per il ventaglio fu uno di questi aggeggi custodito in una “campana” su una bancarella in un mercatino rionale. Era un po’ sciupato ed ebbe l’impressione che fosse antico. Notò che nella guardia (la prima stecca) era inserito una bella figura di bambino in miniatura. Il prezzo la spaventò. Dopo due anni trovò lo stesso ventaglio in un’esposizione sul Naviglio Grande (forse il mercatone dell’antiquariato). Pioveva; e alla titolare, quella del primo incontro, disse che l’umidità rovina questi oggetti così delicati e insistette perché glielo vendesse. La donna si convinse e Linda se lo portò via, facendo un affare, perché dai suoi studi risultò essere del ‘700. “Allora cominciai a smontarlo per restaurarlo con colori a guazzo”. “Era pratica di pittura?”. “Mio padre, ebanista, toscano (mia mamma meneghina), aveva intuito le mie doti artistiche e mi aveva mandato a lezioni di pittura dal professor Bizzoni, all’Aquila, dove dopo qualche tempo i frati di San Bernardino istituirono una fabbrica di ceramiche assumendo un maestro di Castelli di nome Grue, e io fui l’unica donna ad essere impiegata nella pittura degli oggetti…”. A vent’anni si trasferì a Milano e andò a lavorare dall’argentiere Finzi, che aveva il negozio in via Manzoni e il laboratorio di porcellane in piazza Santa Maria Valle. “Loro avevano bisogno di una pittrice su porcellana e io ero pratica di pittura su ceramica, completamente diversa dalla prima, quindi provai imbarazzo. Ma superai la prova su un vaso e mi sciolsi. Dopo tre o quattro anni passai al Mediolanum in via Piranesi, al Palazzo del Ghiaccio. Quindi, il matrimonio, due figli e l’apertura con mio marito di un laboratorio nostro di dipinti su porcellana a terzo fuoco”. La seguivo con piacere, osservando il ventaglio a ricami che teneva in mano. “Alla morte di mio marito, mia figlia Paola lasciò gli studi di lettere antiche ed entrò nel laboratorio dando una mano con la tavolozza. Fece gli esami e divenne antiquaria…”. Ecco così un duo formidabile: le De Dominicis, che intrapresero anche la via delle mostre dell’antiquariato. La prima, a Cortona, in Toscana, nel ’95. Intanto Linda restaurava ventagli per l’Accademia etrusca di Cortona, di Modena e per il Castello Sforzesco, al quale donò 27 ventagli, e 70, dal ‘700 al ‘900, al Castello cinquecentesco dell’Aquila. Linda Bennati De Dominicis affascinava. Sarei rimasto lì fra tutte quelle preziosità per ore e ore a interrogarla.
Bivet Paris. Etichetta ''Parfum d'Eventail''. Gradevole composizione grafica. Anni '20
Si raccontava con calma, senza enfasi. “Il ventaglio, che proviene dall’antico Egitto, dove veniva usato nelle cerimonie solenni, è cultura, perché contiene storia, religione, geografia... Esistono ventagli romantici, da fidanzamento, da matrimonio, da teatro, da ballo, da lutto, a banderuola, a coccarda in tela pieghettata con montatura in madreperla, lillipuziani, detti così perché più piccoli…”. A Bruges – continuò – si producono ventagli di pizzo, stampati e ritoccati a mano. “Per eseguire la pagina (la parte più grande) le ricamatrici impiegavano anche otto mesi, lavorando negli scantinati, occorrendo una certa umidità per evitare che il filo si rompesse… e con il lume a petrolio…”. Mi riempiva di notizie; e dire che io conoscevo i ventagli adoperati durante la calura estiva. Ne posseggo tre o quattro come quasi tutte le famiglie. Altro che i “Grand Tours”, che i nobili francesi e inglesi - parole di Linda Bennati – tornando in patria portavano alle spose come “souvenirs”: nella pagina contenevano le riproduzioni dipinte dei monumenti di Paestum, Pompei, della tomba di Cecilia Metella, figlia di Q. Metello Cretico, sulla via Appia. Linda Bennati De Dominicis m’introdusse in un mondo meraviglioso, che ti cattura e non ti lascia andare facilmente. Almeno questa fu la sensazione che mi colse. Quando la salutai mi sentii più ricco. Mi promisi che sarei venuto nuovamente a farle visita; ma la vita, soprattutto quella di un cronista, porta ogni giorno su strade diverse. “Un giorno per noi non è mai uguale all’altro”, diceva Ruggero Orlando. E teneva lo “smoking” in ufficio perché all’improvviso si poteva presentare l’occasione per indossarlo. Dopo un paio di mesi in una libreria del centro sorpresi Elisabetta, la signora che alla cena di compleanno in trattoria aveva accennato ai ventagli. Stava consultando un paio di libri d’antiquariato, indecisa su quale comperare. Le parlai del mio incontro con Linda Bennati De Dominicis e mi rispose che la conosceva già. 

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