Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 31 gennaio 2018

In Galleria del Corso, tempio della musica leggera


Pippo Baudo intervistato da Presicci
 
COMPARIVA L’ASTRO DI MIMMO
MODUGNO SEGUITO DAGLI
ASPIRANTI SENZA SPERANZA


Gli incontri con il grande maestro
Mascheroni, Jhonny Dorelli ,
Memo Remigi, Orietta Berti…

e gli attori Alberto Lupo, Gastone
Moschin, Rosario Borelli e tanti
altri nomi famosi.






Franco Presicci

Galleria del Corso
Due o tre volte la settimana, negli anni ‘60-70, i giornalisti che seguivano la musica leggera andavano in Galleria del Corso, dove erano concentrate quasi tutte le case discografiche. In quel passaggio, che, inaugurato nel 1926, congiunge corso Vittorio Emanuele e piazza Beccaria, convenivano cantanti già affermati ed esordienti in cerca di un’anima buona disposta a valutare la loro ispirazione. Uno dei primi che incrociai, nel ’63, si chiamava Nicola La Forgia, era di Trani e faceva il bigliettaio sulla “E”, l’autobus che dal Lorenteggio andava fino a piazza San Babila e oltre. Inventava canzoni napoletane e sognava il Festival di Napoli. Ma non riusciva ad aprirsi uno spiraglio.  Una mattina apparve l’astro: Domenico Modugno, che aveva già scritto “Lazzarella”, “’U pisciu spada”, ma soprattutto “Nel blu dipinto di blu”, che volava in tutto il mondo. Mimmo era espansivo, alla mano, lontano da atteggiamenti divistici, brillante, sorridente, di una simpatia unica. Ci conoscevamo già. Mentre l’ascensore saliva, gli mostrai un mio articolo su di lui che stavo portando alla Carosello; cominciò a leggerlo e, arrivati al piano, mi ringraziò dicendomi che lo avrebbe letto meglio stando seduto.. Lo rividi l’anno successivo a Campione d’Italia, al Festival del Clown dedicato a Grock, dove interpretò una canzone (credo “Un pagliaccio in Paradiso”). Frequentavo tutti gli uffici-stampa di Galleria del Corso, per avere notizie e dischi da recensire, allora sul quotidiano “L’Italia” e sul settimanale “La Tribuna del Salento”, confezionato a Lecce da Totò Vergari con interventi del professor Ennio Bonea.
Nicola Arigliano intervistato da Franco Presicci
Una mattina m’imbattei in Orietta Berti, accompagnata dal suo Osvaldo, e scambiai con loro un paio di frasi. L’avevo conosciuta, bella, affabile, un sorriso dolce, in un festival nelle Marche allestito da Lino Luceri, “patron” del concorso della “Donna Ideale”. Salutata Orietta, mi si avvicinò un’ugola triste che aspirava alla ribalta senza avere troppe speranze. Subito dopo m’imbattei in Jhonny Dorelli, all’anagrafe Giorgio Domenico Guidi, che già conduceva ottimi spettacoli televisivi e stava per partecipare al suo quinto Sanremo. Lo rividi ancora. Era gentile, scherzoso. Non dimenticherò mai l’incontro con il maestro Gian Vittorio Mascheroni, il grande musicista e compositore, autore di tante canzoni di successo: “Adagio Biagio”, “Stramilano”, da cui probabilmente ha preso il nome la maratona dei 50 mila, che si corre ogni anno da piazza Duomo alla ‘Arena, “Bombolo”, “Fiorin Fiorello”, “Il tango della gelosia”, “Addormentarmi così”, che nelle balere incatenava i giovani innamorati ed era spesso sulle labbra delle mamme. Mascheroni mi accolse con molta cordialità. Era un mito.
Galleria del Corso (interno)
Ero da poco a Milano e mai avrei pensato che mi sarei trovato a tu per tu con un personaggio così importante, tra l’altro cugino di Ada Negri. Bassino, con gli occhiali, era premuroso, puntuale nelle risposte alle mie domande anche sulla storia di Sanremo. Era stato al Conservatorio “Giuseppe Verdi”, ma si era fermato a metà strada, per cui gli avevano assegnato, per stima e affetto, il nomignolo di “maestro senza diploma”. Fu il compositore più poliedrico: realizzò musiche per il teatro, la rivista e colonne sonore per moltissimi film. Aveva iniziato la sua attività nel 1915 con “pezzi” per le sale da ballo. Non sopportando le limitazioni imposte dal fascismo, aveva preferito il silenzio, smesso dopo il 25 Aprile con “Il suo nome è donna”, “Una casetta in Canadà”, “Papaveri e papere”.
Una settimana prima di Sanremo i giornalisti venivano invitati dalle case discografiche, che facevano ascoltare in anteprima le canzoni in gara, distribuendo i propri dischi a ciascuno di loro.
Tony Renis con Franco Presicci
Nel ’62 arrivai in ritardo: Tony Renis, al secolo Elio Cesari, se n’era andato dieci minuti prima. Mi feci dare il numero e gli telefonai a casa. “Stai fermo all’apparecchio, ti faccio sentire la canzone accompagnato dal pianoforte”, mi ordinò Tony. “Quando quando quando” mi incantò. Al suo “Ti piace?” risposi che con quella composizione avrebbe vinto la rassegna. La battuta detta per caso si rivelò divinatoria. Tony fece il bis l’anno dopo interpretando “Uno per tutte” (Testa-Mogol-Renis). Per valutare i brani si era insediata una commissione d’ascolto presieduta da Vittorio De Sica e formata da Giovanni Mosca, Cesare Zavattini... In Galleria del Corso una mattina comparve Alberto Lupo, al secolo Alberto Zoboli, grande attore e autentico gentiluomo, che nel ’64 aveva tenuto inchiodato alle poltrone milioni di telespettatori recitando il ruolo di dottor Manson ne “La Cittadella” tratto dal romanzo di Cronin. Parlammo della sua attività (aveva anche inciso 45 giri di poesie) e alla fine, essendo ora di pranzo, mi fece salire in macchina e mi portò fino a casa. Arturo Testa, che tuonava in “Io sono il vento”, andai a trovarlo nel suo negozio di dischi, in viale Papiniano. Era un tantino sostenuto, ma cortese. Pippo Baudo, che avevo rivisto in un festival a Miradolo Terme, per un’intervista sul quotidiano “L’Italia”, mi dette appuntamento nella sua camera d’albergo nei pressi di corso Sempione. Era perseguitato dalle telefonate. “Fino a ieri non mi chiamava nessuno; adesso che sto per sfondare non mi lasciano in pace”. Pippo è un giocherellone, coltissimo soprattutto in storia e ama il Corvo rosso di Salaparuta.
Ernesto Calindri intervistato da Franco Presicci
Avevo appena imboccato la Galleria, dopo una lunga conversazione con Ernesto Calindri, attore egregio e persona distinta, nello studio della sua abitazione allora in via Statuto, quando incrociai Rosario Borelli, attore di cinema e di fotoromanzi su “Bolero film” e altri periodici, i cui lettori lo amavano alla follia. Nel ’53 era stato nel “cast” di “Napoletani a Milano”. Lo avevo conosciuto a Taranto, non ricordo se in occasione di un film girato appunto nella bimare con interpreti Antonio Cifariello, Alberto Bonucci e Nik Pagano. Avevo con lui una certa confidenza. Quel giorno lo trovai amareggiato, essendo stato da tempo arruolato in una grossa casa cinematografica, che non lo faceva lavorare. “Evidentemente mi hanno preso per evitare che altrove potessi fare fare ombra a Maurizio Arena”, Maurizio Di Lorenzo, noto soprattutto per la trilogia di Dino Risi: “Poveri ma belli” del ’56, con Marisa Allasio e Renato Salvatori”; “Belle ma povere”, del ’57, con Renato Salvatori, Marisa Allasio, Lorella De Luca”, “Poveri milionari”, del ’59, con Renato Salvatori, Sylva Koscina… Negli anni ‘60 Arena riempì le cronache di tutti i giornali non solo italiani per la sua storia d’amore con Maria Beatrice di Savoia, detta Titti, terza figlia di re Umberto e della regina Maria Josè. Fu in Galleria del Corso che avvicinai Memo Remigi,
Memo Remigi
spassoso, ironico, divertente, coinvolgente. Sarà stato nel ’67, e stava per andare a Sanremo per la prima volta. Vi tornerà nel ’69 e nel ’73, con Sergio Endrigo, imponendosi con “Dove credi di andare”. Di Memo si ricordano la sua attività teatrale e di bravissimo conduttore televisivo, oltre alle sue presenze come autore a diverse edizioni dello “Zecchino d’oro”, e ovviamente le tante canzoni trionfanti, come. “Innamorati a Milano”, che è stata la sigla di un programma tivù. L’ho rivisto a Martina un paio di anni fa alla festa per gli 80 anni della Rotonda, organizzata da Antonio Rubino. Insomma si andava in Galleria del Corso, a due passi dalla Rinascente, dalle piazze San Babila e Duomo e da piazza San Carlo, per interviste a cantanti, maestri, attori… In Galleria m’incontrai per un’intervista con Gastone Moschin, attore simpaticissimo e persona gioviale ed elegante. Vidi passare Walter Chiari, che poi intervistai a Chiesa di Valmalenco, dove si trovava per una serata con la sua compagna Patrizia Caselli, dolce e bella.
Franco Presicci, Patrizia Caselli e Walter Chiari
Impareggiabile Walter: durante ta la conversazione sfornò una battuta dietro l’altra. Una sera lo avevo cercato al Teatro Nuovo, dove era impegnato in uno spettacolo, e non lo avevo trovato. A mezzanotte una telefonata a casa. Era lui. “Scusami, ero impegnato in un affare di Stato”. A Chiesa gli domandai: “Ti ricordi quando una ventina di anni fa mi chiamasti?…". “E mi rispondi adesso?”. Spuntava l’epoca dei capelloni. Mi si avvicinarono quattro ragazzi dalla testa cespugliosa che non avevano potuto sostenere gli esami all’università, perché il docente non accettava che nel tempio della cultura gli allievi si presentassero così conciati. Quattro pagine su un noto settimanale che vendeva un milione di copie la settimana la notizia le meritava, e cedetti alle sollecitazioni di Alberto Tagliati, una vecchia volpe sulla plancia di “Stop” e poi di “Grand’Hotel”.
Qualche giorno fa sono tornato in Galleria del Corso, per fotografarla. Ha cambiato aspetto, come tutto quello che ha attorno. C’è ancora il bar “Le tre Gazzelle”, dove tanti anni fa gustavo la granita con il questore Vito Plantone. Mi sono ricomparse le figure di allora: gli artisti, i colleghi che gestivano gli uffici-stampa, il maestro Pino Calvi, i giovani aspiranti che non hanno trovato la strada desiderata. E ho ricordato le ugole frequentate a Sanremo, come Annarita Spinaci, che trionfò con “Quando dico che ti amo” (presidente della giurìa Ugo Zatterin); Claudio Vitta, che mi telefonò in albergo alle 2 di notte per dirmi che era morto Luigi Tenco, con cui avevo parlato nel pomeriggio; Orietta Berti che nello stesso anno mieteva successo con “Io, tu e le rose”, citata da Tenco nel suo ultimo biglietto; i critici Mario Casalbore, del “Corriere Lombardo”; Vincenzo Buonassisi, del “Corriere della Sera” (prima di dedicarsi alla gastronomia), Aldo Locatelli, de “L’Avanti”, autore, con Piero Trombetta, di “Kriminal Tango” . Come non provare nostalgia anche per gli anni lontani?


















mercoledì 24 gennaio 2018

Alla stazione Centrale di Milano





IL RITORNO DELL’ORIENT EXPRESS  

IL TRENO DEI SOGNI E DEL BRIVIDO                         

                                                                                                                     

Treno a vapore Murgia Fal  23.7.'17 - Foto Gabriele Lepore











































Il “revival” affascinante sul binario15, con tutte le raffinatezze Art Deco e signore in lussuosi abiti d’epoca.

Il gentiluomo che s’inchina e sussurra a una“dame” “Jet’aime”.  

I romanzi di Agata Christie e di Fleming, gli amori,l’avventura, gli intrighi, gli assassinii veri o finti.

Al convoglio più famoso di tutti i tempi recentemente è stato dedicato un film.
                                                                          
                                                           

  
                         

Franco Presicci

Era il 26 maggio del 1982: una bella giornata di sole. Alla stazione Centrale di Milano, sempre brulicante di viaggiatori, furono in pochi ad accorgersi di quel treno che lentamente, e senza essere annunciato dall’altoparlante, si avvicinava ai respingenti del binario 15.
Binario 15
“Eccolo, il treno dei sogni, il re dei treni o il treno dei re: l’’Orient Express’”, esclamò un signore distinto, basso, pienotto, abito scuro. Era Mario Righetti del “Corriere della Sera”, una enciclopedia vivente di strade ferrate, sistemi di segnalazione e blocco, locomotive… Avrebbe potuto scrivere un trattato, sull’argomento. Lo conoscevo di nome; e colsi l’occasione per carpirgli dettagli tecnici della meraviglia che avevo di fronte. Lui stava osservando la macchina; e forse pensava alla storia di quel treno, il più famoso d’Europa, della Bèlle Epoque: il treno soprannominato anche il convoglio delle spie, già teatro di intrighi, assassinii, veri o inventati dalla letteratura. Nel 1934, Agata Christie, assidua di quegli scompartimenti, perché andava a trovare il marito impegnato a Bagdad nel lavoro di archeologo, lo scelse come ambiente del suo “Assassinio sull’Orient Express”, vittima l’uomo d’affari statunitense Samuel Edward Ratchett. La trama, districata da Ercule Poirot, fu tradotta in film da Sidney Lumet, con Sean Connery, Albert Finney, Lauren Bacall e Ingrid Bergman, che conquistò l’Oscar come attrice non protagonista. E sull’Orient Express James Bond fugge dopo una delle sue azioni pericolose e rocambolesche. Ma la morte di Eugene Karpe, addetto navale dell’ambasciata americana in Jugoslavia, avvenne fuori da ogni finzione: una domenica del 1950, mentre l’Orient Express percorreva una galleria nei pressi di Salisburgo, un individuo lanciò il diplomatico fuori dello sportello.
Atrio della Centrale
Queste storie ed altre riaffiorarono quella mattina, mentre Righetti veniva circondato da tutti i cronisti presenti, ansiosi di interrogarlo su quel gioiello, che tra l’altro aveva ospitato signore con cuffie di velluto con penne di uccello del paradiso e signori in giacca a doppio petto con cravatta pendente. L’anziano collega, in procinto di cambiare scrivania trasferendosi al “Giornale”, non negava particolari sul peso delle carrozze e sulla loro lunghezza. Il gruppo si infoltì, mentre le autorità e i dirigenti dello scalo si allineavano sul tappeto delle grandi cerimonie, steso lungo il marciapiedi, mentre in alto un nastro rosso era steso tra un pilone e l’altro. Niente banda per far festa al “revival”, costo 25 miliardi. Niente discorsi solenni.
Maestoso angolo della Centrale
Righetti s’incamminò verso la coda del treno, invitandomi a seguirlo, e mi descrisse il vagone-letto, quello adibito a ristorante, il salotto di lusso, la biblioteca, la ghiacciaia, la carrozza-panorama.… e ricordò che all’epoca c’erano anche una sala-fumo per i signori e una di lettura per le dame, che a volte si distraevano dalla pagina per fare l’occhio languido a un gentiluomo. Quel treno venne mandato in pensione nel 1977 e rimesso in attività nel 1981 con il Nostalgic Orient Express. “Prego, accomodatevi”, ci esortò un addetto elegante nella sua divisa color cioccolato. Salimmo. Gli ambienti, già occupati da esponenti della cultura e da altre persone importanti, erano raffinati. Ogni oggetto una perla d’Art Deco: “abat-jour”, tavolini, poltrone, su cui erano sedute giovani donne in abiti stile anni Venti e Trenta accanto ad altre in abbigliamento moderno. Un “arbiter elegantiarum” si chinò con “non chalance” per baciare la mano a una “madame” con cappello con nastri e piume, un’acconciatura elaborata e un diadema alla Cleopatra, sussurrandole: “Bijou, je t’aime”. Improvvisamente, quando sulle porte si posizionarono i valletti, tre per ogni vagone e immobili come statue, impettiti come sentinelle nella garitta, serpeggiò la voce che tra i presenti ci fosse la principessa di Westminster.
Altro atrio della Centrale
I cronisti fibrillarono. Ma era una “bufala” lanciata da qualcuno in vena di scherzare. Poco dopo, il treno dell’avventura e del brivido emise uno sbuffo per segnalare la partenza. I conduttori ci pregarono di scendere, e alle 10.30, tirato da un locomotore 645, costruito nel ’60, si rimise in moto con i suoi 17 vagoni: un serpente di 400 metri e un peso di 800 tonnellate, riscaldamento a carbonella, velocità 100 chilometri all’ora soprattutto di notte. Destinazione Venezia. Una partenza senza fanfare, come all’arrivo. Un sosia di Paolo Villaggio, sicuramente informato, disse che quel treno non aveva niente a che vedere con il fastoso salotto su rotaie dei primi tempi, cioè il primo Orient Express, che aveva soffitti damascati, poltrone in pelle, “boudoir” vistosi, secchi argentati per lo “champagne”, lampade a gas, tappeti straordinari nei corridoi… Un briciolo di storia? Il treno leggendario partì dalla Gare de l’Est di Parigi per Costantinopoli la prima volta alle 19 del 4 ottobre del 1883, un giovedì, con a bordo una quarantina di passeggeri: politici, dirigenti della Compagnia, diplomatici, letterati, nobiluomini e un giornalista incaricato di fare la cronaca della traversata.
Altra entrata della Centrale
Fu salutato con un gala di bandiere, gridi di gioia e la musica di Gershwin. Per decenni fece sognare chi non poteva permettersi quell’avventura favolosa, che ispirò anche uno spettacolo musicale di Oscar Sachs, rappresentato al Trianon. Tra quegli scompartimenti girarono “Dalla Russia con amore” di James Bond e film con Arsenio Lupin. L’armistizio della prima guerra mondiale ebbe il sigillo sulla vettura 2419 del generale Ferdinand Foch a Compiègne, la mattina del 9 novembre del 1918… Poi, il declino. Già nel ’45 aveva perso il suo fascino, diventando un convoglio come tanti altri, che con una velocità ridotta accoglieva non più ricconi e titolati, quando non era quasi deserto. Continuava a oltrepassare le frontiere dalla Francia alla Grecia, alla Turchia, ma senza più il decoro di una volta.
Fronte della stazione Centrale

Non più dunque il sontuoso appartamento viaggiante, il salotto d’oro dei signori parigini e viennesi che per diletto si recavano a Budapest o sul Bosforo, dove nascevano grandi alberghi per una “èlite” internazionale, tra i quali il Niven. In un libro dello scrittore Edmond About si legge che queste camerette mobili erano comode almeno quanto un ricco appartamento di Parigi. Trasportarono personaggi famosi, come Nicola II e Ferdinando di Bulgaria; la Bella Otero, nome d’arte dell’attrice e ballerina spagnola Agustina Otero Iglesias, che debuttò nel cabaret nel 1888 a Barcellona; la compagnia dei balletti russi; Mata Hari; Josephine Backer... Viaggiare su queste ruote era un segno di distinzione. Soprattutto le donne se ne facevano vanto. Le loro gonne fino ai piedi creavano imbarazzo nel momento in cui dovevano conquistare il predellino; e l’Orient Express dette una svolta alla moda, riducendo la lunghezza di quella stoffa pregiata. Era un mito. In un registro venivano raccolti le firme delle persone più illustri e i loro commenti.
Piazzale Duca d'Aosta-ingresso della Centrale
Il treno dell’82, che fece una fugace apparizione in quella pancia metallica e gigantesca, che è la stazione più importante di Milano, aveva comunque un’atmosfera da amori furtivi e di complotti. Forse suscitata dalle glorie delle sue vecchie corse. Dovuto a Georges Nagelmackers, messo sulle rotaie dalla Compagnie Internationale dei Wagond -Lits, e destinato a diventare il treno più ambìto di tutti i tempi, fu testimone anche di grandi amori e di fiammate improvvise e transitorie, raccontati in tanti romanzi avvincenti. La fama di quel treno dilagò nel mondo. Ma delitti e congiure avvennero anche in altre carrozze. Il 6 dicembre del 1860 il treno di Mulouse – riporta nel suo libro Volfgang Schivelbusc – entrò nella stazione di Parigi alle 3,15. I passeggeri si affrettarono a sloggiare e quando un addetto delle ferrovie aprì la porta di uno scompartimento rimasta chiusa scoprì il corpo di un uomo. Era quello del presidente del tribunale Poinsot. L’inchiesta, subito avviata, accertò che ad ucciderlo era stato un compagno di viaggio. L’omicidio provocò molta inquietudine. In Inghilterra, la sera del 9 luglio 1864, nella carrozza 69 d’un convoglio fu ucciso Thomas Briggs, bancario della City. L’Orient Express non è più tornato alla stazione di piazza Duca d’Aosta, e Mario Righetti da tempo non racconta più i suoi treni sul “Giornale”. E’ deceduto. Peccato che non abbia pensato di raccogliere in un libro i suoi articoli. Sarebbe stato molto utile ai tanti appassionati delle corse su rotaie.




mercoledì 17 gennaio 2018

La lunga storia del profumo


A FARCI PERDERE LA TESTA PER LEI
NON SAREBBE IL CUORE MA IL NASO


 
Gianfranco Radice, grande esperto
di fragranze, racconta le “maison”,
 
le creazioni (dal “n. 5” di Coco Chanel
all’ "eau de toilette” “First”), gli artisti
 
che disegnano le etichette, i manifesti,
tra cui Renè Magritte…




    

                                        Le foto appartengono alla collezione di Gianfranco Radice.                                              Chi volesse approfondire può consultare il sito www.ilprofumoneltempo.it


Franco Presicci



A.Erba Milano, cartello da vetrina
I profumi hanno attraversato i secoli inondando il mondo. Milioni di tipi e di esemplari. Ogni “maison” ha prodotto i suoi: gradevoli, forti, inebrianti, blandi, penetranti, dolci, secondo i gusti. Una storia lunghissima, ricca di personaggi, creazioni, dai greci ai romani; poesie, come quella in cui Catullo, invitando a cena Fabullo, gli promette l’aroma che Veneri e Amorini hanno donato alla sua ragazza del cuore; e che, quando lo avrà annusato, chiederà agli dei di farlo tutto naso.
Valli, Milano, dentifricio Kaliklor.
Era enorme l’uso degli effluvi che a partire dall’inizio del dominio dei quiriti sul Mediterraneo si faceva a Roma, con una spesa insopportabile, da costringere l’imperatore Tiberio a lagnarsi nel consesso dei “seniores”. Oltre ai guasti, le guerre introducono abitudini, usi, costumi…. Così accadde nella città le cui origini si disperdono nella leggenda.
Da principio il profumo fu adottato nelle cerimonie religiose; e si credeva che il merito fosse degli dei, che avevano deciso di donare agli uomini unguenti odorosi che la fecero da padrone assieme alle stoffe pregiate e ai preziosi. Spalmati sul corpo servivano anche a proteggere dal sole. Era, come oggi, importante per la donna farsi bella, dandosi un tocco di trucco. Nel suo libro “Una giornata nell’antica Roma” Alberto Angela sorprende una schiava intenta ad allungare con un bastoncino di carbone le sopracciglia della matrona. “C’è quasi la stessa tensione di un’operazione chirurgica”. Naturalmente le essenze che producevano allora gli “unguentari” non ottenevano gli stessi effetti di quelli odierni, non disponendo degli elementi scoperti in seguito: loro arricchivano una base oleosa con aromi vegetali, tra cui il mirto, l’incenso, la mirra…
E per sapere com’erano fatti, bisogna consultare Teofrasto di Ereso, scienziato e filosofo, discepolo e poi successore di Aristotele; e la “Naturalis historia” di Plinio il Vecchio, che racconta gli unguenti (tali erano, perché l’alcol fu portato in Europa dagli arabi nel XII secolo e quindi le esalazioni odorose erano il frutto della macerazione di sostanze). Una volta realizzati, gli unguenti venivano tenuti in anfore e successivamente trasferiti in contenitori più eleganti. La profumeria moderna ha preso avvio alla fine del XIX secolo; e grazie alla chimica organica sono nate le sue prime fragranze: Fougère Royal e Jichy.
Schiaparelli, Parigi profumo Snuf.
Nina Ricci, Coeur Joie
Nel ‘21 Coco Chanel, mito dell’eleganza dallo stile rivoluzionario, costumista, divulgò il suo famosissimo “n. 5” (l’anno successivo furono organizzate a Parigi le olimpiadi femminili). Dopo la scomparsa di quel grandissimo talento, che tra l’altro nel 1913 inventò la gonna sotto il ginocchio, indossata per quasi vent’anni, Jacques Poipe produsse un profumo ispirato a lei. Parlando di questo argomento, non si può non invitare a nozze Gianfranco Radice, che per tutta la vita professionale è stato “manager” in una ditta di “eau de toilette” ed è scrupoloso, colto, disponibile. E lui, tra l’altro titolare di una collezione compresa tra i primi del ‘900 e gli anni 60-70, non si schermisce.
Suspiro de Granada, Myrurgia
Sforna dettagli snodando brani della vita di Coco, che, figlia di un venditore ambulante, nata in un ospizio per poveri, fece passi da gigante per scalare il successo. Radice, 79 anni, alto, robusto, barba e baffi grigi, capelli radi, gentile, notevolissima esperienza, ha davvero tanto da dire. E non ha bisogno di domande. Spazia dalla Parfumerie Galimard alla Profumeria Artistica… E’ un’enciclopedia da sfogliare se si ha voglia di scrivere un libro. Amante dell’arte, è capace di evidenziare per ore le preziosità di manifesti, etichette, contenitori, facendo i nomi e indicando opere degli autori, tutti artisti famosi. “Per esempio, ‘Volnay’, una casa parigina, adotta per alcune fragranze i flaconi prodotti da Lalique; e di Lalique sono i contenitori di “Dans le coeur” di Arys negli anni ’20-30. La Casa di Nina Ricci, signora della moda, creatrice al livello di Coco Chanel, negli anni ’40 ha prodotto profumi vestiti con i vetri dello stesso Lalique. Un’altra grande sarta, la Schiaparelli, ha confezionato profumi sistemati in flaconi con immagini di Renè Magritte, il pittore belga che dipinse un uomo con cappello, solino e cravatta con una mela al posto del volto.
Schiaparelli, Parigi, Soucces Fou
C.Dior, Paris, Diorissimo, eseguito da F. Guery-Colas
Christian Dior, altro sarto eminente dedicatosi alle fragranze, per alcune edizioni di lusso ha affidato alle vetrerie Baccarat alcune sue realizzazioni; e in particolare per “Diorissimo” ha fatto eseguire un tappo-scultura da F. Guéry-Colas”. La “Voirnet”, altra “maison” importante, per il profumo “Enfin” ha utilizzato il vetro di Murano. C’era un marchio catalano “Myrurgia”, che ha concepito aromi di grande prestigio e diffusione non solo in Spagna, come “Suspiro de Granada”. A lasciarlo raccontare, Gianfranco Radice passerebbe in rassegna tutto il panorama della profumeria: case produttrici, fragranze, illustratori eccellenti per il materiale pubblicitario: la storica Paglieri di Alessandria, per dire un caso, si rivolse a Gino Boccasile, per un suo manifesto, che reclamizzava ciprie e profumi. Boccasile, barese trasferitosi a Milano, era un artista che aveva cominciato l’attività preparando vetrine con figure di contadini eseguite da lui a mano per poi imboccare la via della pubblicità per immagini. Nel 1930 elaborò 30 cartoline per la Fiera del Levante. La sua notorietà derivò dalle sue “Signorine Grandi Firme”, che comparivano sull’omonima rivista fondata da Pittigrilli e mutata in rotocalco da Cesare Zavattini.
Cella, Milano, etichetta Rose rouge
Poi, le ciprie, riprende Radice, che parla tenendo le braccia conserte, e passa da una sponda all’altra senza mai distrarre l’ascoltatore, anzi affascinandolo: ”Roger & Gallet”, casa parigina, che producendo ciprie negli anni 30 affidò per “Floeurs d’amour” il disegno del coperchio a Lalique. Un autore ignoto, ha disegnato per S.A.P. di Torino, per la cipria “Gladys Pickford”, un’etichetta per il contenitore, ispirata all’art deco”, affermatasi negli anni ‘20. Chi lo ferma, Gianfranco? E’ una Freccia Rossa. “Per far conoscere marchi anche secondari vengono interpellati eminenti scultori e ceramisti. Il mondo della profumeria vanta esempi di arte applicata anche per gli spruzzatori, alcuni dei quali sono autentiche opere d’arte; per le etichette, i calendarietti, i cartelli di vetrina…”. La signora o il giovanotto che entrano in profumeria per acquistare, per esempio, un’“eau de toilette First”, non immaginano che cosa si celi dietro quel “gioiello” firmato da Van Cleef & Arpels. Ha cercato di chiarirlo una manifestazione che si è svolta a Firenze, alla stazione Leopolda con novità di 160 marchi provenienti da ogni parte del mondo. Sissel Tolaas, scienziata scandinava che si proclama “ricercatrice di odori” e ha creato il primo archivio del settore al mondo, ha portato da Berlino un forziere di ben 6370 effluvi.
Un’altra iniziativa, che richiama 7500 persone, tra esperti e appassionati, si svolge ogni anno a Milano: “Excence-The Scent of Excellence, evento a livello internazionale della Profumeria Artistica.E l’acqua di Colonia, che, inventata alla fine del 1600, grazie a Gian Paolo Feminis, nato a Santa Maria Maggiore, in al Vigezzo? E i nasi più celebri al mondo, come i profumieri francesi Dominique Ropion e Francis Kurkdjan, vincitore nel 2001 del “Prix Francoise Coty” e creatore del celebre profumo ”La Màle” de Jean-Paul Gaultier? La conversazione su questo universo ricco di effluvi è durata oltre un’ora e mezza e ci ha riempiti di informazioni. Riprenderemo il discorso in un prossimo futuro. Mentre ci saluta, Gianfranco ricorda che l’attività del mastro profumiere è nobile ed elevata, più che un mestiere un’arte. E’ venuta alla luce in Egitto, dove i faraoni adottavano il Kiphi, composto di 60 essenze; e i sacerdoti cospargevano le statue delle divinità di unguenti che deliziavano l’olfatto. Una storia gloriosa, fatta di grandi talenti e di invenzioni sublimi. Il profumo non si limita a rendere più gradevole la nostra presenza: influisce sul nostro umore; sembra esercitare un’azione terapeutica nella depressione; influenza i nostri rapporti con gli altri; ammalia, seduce, rapisce, a volte fa fiorire l’amore e lo alimenta. Insomma a farci perdere la testa per lei sarebbe più il naso che il cuore.


giovedì 11 gennaio 2018

Gigi Pedroli, artista eclettico e virtuoso


 
I SUOI PERSONAGGI PROVENGONO
 

DA UN MONDO FATTO DI SOGNI
 

Gigi Pedroli agli 80 anni della Martin
Realizza le sue opere sull’alzaia

Naviglio Grande nel suo Centro

dell’Incisione, nato oltre 40 anni

or sono. Ha esposto in Italia e

all’estero, in gallerie d’arte,

osterie, circoli, associazioni

culturali …

In questi giorni le sue

creazioni sono in uno spazio della

Martin Luciano, a pochi passi dal

Centro, per gli 80 anni della famosa azienda.





Franco Presicci

Se un turista ha voglia di conoscere la vita di una volta sul Naviglio Grande, deve rivolgersi a Gigi Pedroli, gigante buono e artista eclettico: pittore, scultore, ceramista, affreschista, cantautore…
Gigi Pedroli nel Centro dell'Incisione
Non so più da quanti anni lavori sull’alzaia, in una bella struttura che ospita il Centro dell’incisione da lui diretto assieme alla moglie Gabriella; so che, se interpellato, lui risponde con dettagli, facendo nomi di artigiani e di artisti che non ci sono più, come Guido Bertuzzi, Aldo Cortina, Riccardo Saladin (in arte Sarik), il poeta Armando Brocchieri che esaltava la sua Milano in versi dialettali… Gigi evoca con piacere le atmosfere; ricorda gli abitanti che da tempo hanno fatto fagotto, tra cui i tanti meridionali che non potevano più sopportare il galoppo dei canoni. E racconta con grazia carezzevole le vicende che si sono susseguite su queste “strade d’acqua silente” (Alfonso Gatto) anche nelle sue canzoni, briose, divertenti: ”el barbun”, “el pitur”, “el barun”…, con cui intrattiene gli amici in una sala di quell’oasi di tranquillità, di pace dominata da decorazioni di vite americana che si arrampica e si spande sui muri. Il suo regno è qui che Gigi Pedroli costruisce le sue figure che sembrano emergere da un mondo onirico, come in “Quater pass in Galeria”, dove una folla di persone deformate, stravolte, una sull’altra, rese con un’ironia mai caustica, quasi arriva al tetto del salotto di Milano, la Galleria Vittorio Emanuele; o come in quell’acquaforte, in cui i frutti di un albero dal tronco a mo’ di barile sono troppo in alto per chi tenta di raggiungerli; o ancora laddove un’altra folla, molto più nutrita, solleva il Duomo come fosse di cartapesta.
Pedroli esegue un lavoro di ceramica
Gigi sembra divertirsi a snaturare i suoi personaggi e l’ambiente che popolano; a sconfinare nell’immaginario. L’osservatore viene catturato da tutte quelle figure strambe, sofisticate, surreali immerse in un’atmosfera di autentica poesia: sagome che volano; innamorati seduti immobili come statue su una panchina sovrastata da un paesaggio; uomini o donne seduti al tavolo di un caffè… che ora sfilano in una mostra organizzata nell’ambito delle celebrazioni per gli ottant’anni della ditta di divise militari Martin Luciano, che sorge a una decina di metri dal Centro dell’Incisione (che è in alzaia Naviglio Grande 46), dove Gigi Pedroli tiene fra l’altro corsi d’incisione. L’artista è un narratore piacevolissimo. E quando interpreta i suoi brani pizzicando la chitarra si accendono sorrisi ed esplodono risate. Tra i più assidi frequentatori delle serate che Gigi allestisce in onore del vernacolo meneghino, il professor Lauria, docente in pensione alla facoltà di veterinaria e geloso custode della lingua del Porta; Roberta Cordani, brillante curatrice dei pregevoli volumi su Milano e la Lombardia editi dalla Celip; Graziana Martin, titolare con il fratello Paolo del grande negozio aperto alla mostra...
Gigi Pedroli
Sia nelle sue canzoni sia nelle sue opere si scopre un amore profondo per il prossimo, soprattutto per i meno fortunati che dormono e sognano sotto i ponti o in scatole di cartone anche quando il freddo fa battere i denti. Il gigante buono, capelli spioventi sulla nuca, alto quanto un giocatore di basket, prende di mira anche i titolati, come quello che “el purtava la vestaja con le cifre e lo stemma del casato”. Suona anche il pianoforte e altri strumenti. Della sua arte non parla. Non la giudica, non la esalta. Lascia che siano gli altri a valutarla. E stando davanti a un suo quadro, a una sua ceramica, a un suo olio ci si ferma a lungo, rapiti dagli impulsi, dalle emozioni che questo artista prolifico e brioso esprime. Non cerca la pubblicità, anche se sono in molti a scrivere di lui, dei suoi quadri, delle sue canzoni, delle tante iniziative che nel tempo ha avviato.
Pedroli al lavoro
Artista virtuoso, versatile, originale; uomo simpatico e affabile, disponibile, saggio. In testa un cappello a falda larga, sollecitato apre uno spiraglio della sua biografia. “Sono nato negli stabili dei tranvieri di via Gran San Bernardo, dove i gabinetti erano stati già tolti dai cortili e sistemati nelle abitazioni; e ho cominciato a manovrare spatole e pennelli nelle case di ringhiera del Naviglio Grande. Ho amato e ritratto, come oggi, la gente, soffrendo nel vedere quelli che se ne andavano. Lavoravo e partecipavo alle associazioni, che. organizzando esposizioni, richiamavano giornalisti, architetti, medici…”. Era il 1970, La sera improvvisavano teatrini nei locali, lui suonava la chitarra e cantava le sue ballate che “dipingevano” i barboni, la “vegia ustaria”, “la mundna”… e con eleganza e riguardo le signore che passeggiavano sui marciapiedi lottizzati; le osterie in cui andavano a mangiare la trippa o il bollito con l’insalata, la minestra. In una composizione Gigi si ispira ai “terun”, perché – dice – la realtà del naviglio comprendeva anche loro, ”che salivano a Milano in cerca di sistemazione”.


Il Naviglio Grande
Festa sul Naviglio

E continua: “Quando sono venuto qui era tutto tramezzato: in ogni spazio la brandina per l’immigrato”. Sauro, il vecchio barbone che innaffiava le sue alette di pollo con il vino della ‘vecchia osteria del porto’, passava le notti all’addiaccio, sotto il ponte della ferrovia, con il pigiama di flanella. Era sempre brillo: Gigi compose anche per lui una ballata, seguita da ‘L’acquarellista’, che non lavorava dal giorno in cui tracannò la prima bottiglia e viveva racimolando qualche soldo nelle gallerie d’arte della zona. Indossava sempre il cappotto anche quando Milano arrostiva. E l’Adamo? Non c’era giorno che non mandasse giù il sessanta per cento di Barbera e il 40 di ‘alternativa’”. Sbarcava il lunario con i suoi quadretti: grossi cerchi neri su fondi bianchi e viceversa. Una notte in cui il clima era più rigido si addormentò in un androne e lo trovarono morto il mattino dopo. Tutti conoscono Gigi Pedroli. Anche la gente comune, che passa ore e ore alla Festa del Naviglio o al Mercatone dell’antiquariato, e svirgolando fra le centinaia di bancarelle fluisce al Centro dell’Incisione attirata dal suo mondo fantastico. Una volta ci andai con Ibrahim Kodra, il pittore albanese il cui nome è rimasto scritto nel cuore della gente di Brera e non solo. Qualche giorno dopo v’incontrai Nanni Svampa e Francesco Salvi. “Ogni giovedì offrivo con Faini lo spettacolino ‘Sorrisi e lacrime’ e alla fine regalavamo agli intervenuti un’incisione”. Il “curriculum” di Gigi è corposo. Si apre con il diploma conseguito alla Scuola d’arte del Castello e i corsi di Renato Bruscaglia a Urbino, frequentati con passione e tenacia.
Gigi Pedroli, a destra
E continua con le tante mostre allestite non soltanto a Milano, ma a Varese, a Lodi… e all’estero; non soltanto nelle gallerie, ma anche nei circoli, nelle osterie, nelle sedi di associazioni culturali. In questi giorni eccolo in uno spazio dei Martin, dove lo avevamo visto mesi fa alla festa degli 80 anni dell’azienda, con Luciana Savignano, etoile della Scala, amica di Graziana, che, amante della danza, non si perde uno spettacolo del tempio della lirica. Graziana è contenta di ospitare i “teatrini” di Gigi, che affascinano gli amanti dell’arte. Gigi ha anche altre qualità: si muove a suo agio tra i fornelli. I suoi risotti e la sua polenta cucinati alla maniera dei contadini di una volta: nel paiolo sospeso sulla legna. Li hanno gustati tanti amici del Centro, sorto una quarantina di anni or sono. Autenticamente milanese, ama la compagnia. Ed è felice quando vede quelli che vengono sull’alzaia o sulla ripa ad ammirare il corso d’acqua, i ponti, la bellezza di questo angolo di Milano, decantato da tanti poeti e ripreso da tanti fotografi di classe, come Mario De Biasi e Fulvio Roiter, che per puntare l’obiettivo sul Ticinello arrivò da Venezia, raccogliendo poi le sue perle in un libro festoso pubblicato da Nicola Partipilo, che ha il cuore a Bari e a Milano. I navigli sono percorsi dell’anima, vero Gigi? Attirarono De Pisis; furono amati dai vedutisti dell’Ottocento e dai viaggiatori, che rimasero estasiati, come Stendhal, che li vedeva disposti nella città, come il “boulevard” della Bastiglia alla Madelaine.







mercoledì 3 gennaio 2018

Pezzi di Milano di un tempo




IL CANALE MARTESANA PALPITA

SFIORANDO UN’ANTICA CASCINA


Era la “Cassina de’ pomm”, che ospitò Napoleone, Casanova e
La vecchia “Cassina de’ pomm”

qualche volta il vicerè

Raineri. La frequentava

anche Carlo Porta, amico

di Manzoni, Foscolo,

Berchet e Stendhal..,che

lo ammirava.

Era un ritrovo alla moda.

Vi sostava chi andava

o tornava da Monza e

l’èlite milanese.







Franco Presicci


Scivola tranquillo, placido, silenzioso, il Martesana, attraversando spadini, ciuffi, chiome d’erba che s’incurvano quasi a volerlo baciare. Sfiora la “Cassina de’ Pomm”, e s’inoltra gorgogliando nella griglia di ferro, che imbriglia rami e rametti, continuando il suo tragitto senza farsi più vedere sotto via Melchiorre Gioia.

Il Martesana sfiora la Cassina de' Pomm
Coperto in parte negli anni 70, questo coriandolo d’acqua, che partendo da Trezzo sull’Adda arriva a Milano, nell’Ottocento divenne una via importante per il trasporto di vario materiale, tra cui il legno, mentre ai suoi lati fiorivano dimore e ville che i benestanti e i nobili utilizzavano per la villeggiatura. Un paesaggio decantato dal Cantù e dal Manzoni, ma anche da Luigi Medici, che tra l’altro compose “Mi son la Martesana”. Una volta sulle sue sponde sognavano gli innamorati e passava il postino in bicicletta, con la corrispondenza nel cestino, per raggiungere viale Monza più in fretta. Oggi tanta gente si tiene in forma percorrendola sulla “due ruote”, magari mentre fischia un treno appena partito dalla stazione Centrale. Quando lo vidi per la prima volta, nel ’76, il Martesana, canale antico che un tempo arrivava alla Cascina, era un tantino trascurato; e c’era chi si lamentava di qualche maceria che guastava il suo contesto. Qualcuno diceva che le rive del canale erano come una ruga sul volto di una signora attempata con ancora una bellezza da mostrare. E se ne dispiacevano gli sfilacci di aristocratici diretti alle loro case di vacanza e i borghesi che la domenica e negli altri giorni festivi, provenendo da Porta Renza e da Porta Nuova in “barchett”, omnibus, o a piedi, scampagnavano su questo ritrovo alla moda. Alcuni si spingevano un po’ più in là, da dove s’intravvedevano le modulazioni della Brianza.
Il Martesana va a nascondersi
E nel punto in cui il Martesana svirgola per nascondersi si aveva l’impressione di aver fatto un passo indietro di un paio di secoli, ammirando questa architettura, che conservava un’atmosfera di graziosa ospitalità. Ai giorni nostri è più dimessa, quasi nascosta da spioventi di verde ed è rimasto solo il nome un tempo celebrato. “E’ vero che è stata toccata dalla storia?”, mi domandò un signore che osservava il movimento rumoroso sulla griglia. “Pare che Carlo Porta vi abbia letto qualche sua poesia, come riferisce Luigi Medici in un suo libro, “Vecchie osterie milanesi”, del 1932. Secondo il Medici, “el sciur Carlin” (espressione che indicava il maggiore poeta in vernacolo meneghino in quei locali), proprio lì fece ascoltare agli amici, il 14 maggio del 1809, un brindisi pro Napoleone. Ma gli studiosi negano che quei versi fossero del Porta, che nel 1810 più verosimilmente compose “Il brindisi del Meneghino all’osteria” per le nozze del Corso con Maria Luigia d’Asburgo Lorena, dove auspica un buon governo per Milano e la Lombardia. Sembra che quei versi l’autore di capolavori come la “Ninetta del Verzee”, il mercato ortofrutticolo di Porta Tosa, li avesse elaborati nell’ufficio del Debito Pubblico, dov’era impiegato. Frequentatore della Scala e della Società del Giardino, amico di Manzoni, di Foscolo, Berchet, Grossi, Stendhal, che in una domenica di sole fece un giro da queste parti per completare la conoscenza della città.
Foto del 1976 - lungo la Martesana

Parlava tanto del poeta, che ha avuto tra l’altro il merito di elevare il dialetto milanese a dignità di lingua. Il giovane amico, che arrivato dal Sud e diretto a Padova, mi aveva telefonato per invitarmi a pranzo proprio alla “Cascina dei pomi”, della quale aveva molte informazioni. “Tra i commensali a volte c’era Carlo Porta”. “Già, era un buon compagno, ambrosiano di ottima lega, affabile e ironico, a suo agio nell’allegria e davanti a una tavola imbandita…”. Ci veniva di tanto in tanto dopo aver attraversato le vie di Milano poco illuminate e, come ha scritto qualcuno, “zeppe di prepotenti che salpavano dall‘Isola Garibaldi e di lacchè con fiaccole accese davanti ai break dei nobili pronti a partire pe la Scala”. E si dice anche che in questa osteria avesse preso alloggio il Bonaparte e che Giacomo Casanova vi fosse stato portato dagli amici per gustare piatti tipici e i “navicellini”, pasticceria non più presente. Si faceva vedere anche il vicerè Raineri.
La Griglia
Durante le 5 Giornate di Milano vi si distribuiva il pane ai patrioti e Stendhal vi trovò l’ispirazione per alcune sue opere. Insomma, questo è un posto blasonato” - insistette l’amico, che non vedevo da dieci anni -. Immagino che la sera vi si potessero vedere coppie in abito elegante e avere la gioia di trovarsi seduti vicino a un personaggio illustre come il Porta, che forse vi si rifugiò anche per smaltire l’ansia dovuta al caso "Prineide”, una satira caustica contro l’uomo politico Giuseppe Prima a quanto pare scritta da Tommaso Grossi con la collaborazione del Porta. Ci ritornai nel ’settembre del 76. Vicino alla cascina, sulla ringhiera sventolavano lenzuola bianche e il suolo del cortile era un tantino scalcinato; le porte chiuse, qualche comignolo sul tetto. Da una porta che si apriva scricchiolando, emerse una gentile signora ottantaduenne, vedova di un pirotecnico, bassina, con i capelli argentei, brillante, loquace, che cominciò subito a sfornare episodi veri e fantasiosi. “Io abito lì. La mia casa è separata dalla locanda da un tronco di 200 anni almeno”, ricurvo come la schiena di un contadino del Sud avvizzito dalle fatiche e dal sole, oltre che dalla vecchiaia. “Sono nata in provincia di Brindisi e sono venuta a Milano cinquant’anni fa, vivendo sempre fra gli stessi muri”. Si bloccò un attimo per esaminare uno sconosciuto che stava varcando la soglia del fabbricato, e riprese: “Qui sono venuti Mina, Rascel, Achille Togliani, Lola Falana… E “Coccolo Spinnatu”, lo dico, per carità, con tanta simpatia e stima e rispetto”.

Passeggiata sul Martesana
Presicci nel tombino con il fotografo Duilio Zanni e un tecnico

“D’accordo, ma chi è, questo Coccolo?”. “Pietro Nenni. Sulla testa di capelli non ne ha più” (il nomignolo appartiene al dialetto brindisino, che la signora non aveva perduto). Aggiunse che in questo cortile sostavano le diligenze mentre i cavalli riposavano. Il Martesana era solcato dai barconi e tanti anni fa i ragazzi vi si tuffavano e sulla riva la gente si raccoglieva per suonare e giocare. “Alcune cose le ho viste io con questi occhi; altre me le hanno raccontate persone davvero istruite”. Fece una breve pausa per ripescare una storia incredibile. “All’epoca in cui stavano facendo il Martesana le autorità avevano prosciugato la cassa. Allora una contessa, disperata perché il figlio era stato condannato a morte, promise di offrire lei la somma necessaria se avessero revocato la pena.
Il Martesana venne terminato, ma la sentenza eseguita”. E la nobildonna scatenò una maledizione: “In quelle acque ne devono morire sette alla settimana”. E la maledizione, secondo l’interlocutrice, si avverò. Ma come? Si dice che al Nord, e a Milano in particolare, maledizioni, fatture, fantasmi non hanno diritto di cittadinanza? Lo ha scritto anche un autorevole giornalista e autore di libri importanti”. Risposta che non ammetteva repliche da parte di un ometto dagli occhi fulminanti che sino a quel momento era rimasto in disparte e all’apparenza disinteressato al nostro dialogo: “Ha mai sentito parlare della donna velata del parco Sempione che adescava gli uomini, li portava in una villa vicina e poi scopriva il volto, che era un teschio?”. “Ne ho sentito parlare, ma è una credenza dalle radici antiche”. Tornai a guardare l’ampio cortile della “Cassina de’ Pomm”, via Melchiorre Gioia, movimentata e ricca di palazzi; la chiesa, mentre sentivo il sibilo del treno che correva verso la stazione Centrale. E pensavo al quartiere Greco, che una volta era un borgo, ricordato oggi dalla via Comune Antico, e alla stessa via Melchiorre Gioia che ha sotto la pelle un brivido d’acqua, che prima degli anni Settanta era scoperto. E pensavo anche a quella volta in cui Guido Gerosa, vicedirettore e capocronista de “Il Giorno”, mi incaricò di compiere un viaggio nel grembo di Milano e tentai d’infilarmi in un tombino all’angolo con viale Lunigiana e non riuscendoci ricevetti dall’assessore Polotti il suggerimento di entrare da piazza Bonomelli. Giorni fa rieccomi davanti alla cascina, che non ha più i pomi, ma conserva la sua aria antica, mentre ciò che le sta attorno ha cambiato faccia.