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mercoledì 29 gennaio 2020

Quasi 40 anni fa moriva Marche Poll


Marche Poll interpretato da Vincenzo Santoro

UN PERSONAGGIO AMATO DA

TUTTI NELLA CITTA’ CHE VANTA

DUE MARI 


Il suo ricordo non si spegne. Persino
I giovani sanno di lui. C’è chi vorrebbe
dedicargli un monumento da erigere
in piazza Maria Immacolata, con sotto
le scritte “’U Panarjidde” o “A vuè mo’?”.
“Sento ancora la sua voce e vedo il suo
passo”, dice un tarantino delle cozze.







Franco Presicci

A quasi quarant’anni dalla sua scomparsa, Marche Poll è ancora ricordato dai suoi concittadini con tenerezza. 

Giacinto Peluso con Presicci in una foto d'epoca












C’è chi dice di averlo incontrato spesso a suo tempo in via Di Palma vicino all’edicola-libreria Zappatore o nei pressi di quella di Fucci in via D’Aquino, che negli anni 50-60 (forse oltre) aveva il banco dei giornali all’esterno dell’androne dello stabile, a pochi passi dalla Casa del Libro di Nicola Mandese e dal negozio di tessuti di Nicola Dammacco, e all’interno la ricevitoria della Sisal; o in piazza Carmine...Ma quelli erano momenti di sosta, perché di solito questo personaggio amato da tutti, basso, asciutto, vestito in modo dimesso, un berretto da militare in testa, pelle incartapecorita, un tantino ricurvo, buono, soprattutto la sera, il sabato e la domenica andava avanti e indietro in quello che oggi è il salotto della città, chiedendo. “A uè ‘a buste?”, che conteneva la schedina del totocalcio già compilata, o “A vuè mo’?”. E se l’interpellato rifiutava, lui aveva la domanda di riserva: “Me la da’ ‘na segarètte?”. 

Alfredo Nunziato Majorano
A volte lo si vedeva al limite dei tavoli della Sem di don Ciccio Messinese, dove i clienti, gustando il caffè, guardavano il passeggio. Marche Poll non passava mai inosservato. I soliti “sciambagnùne”, per fare uno scherzo agli amici, tentavano di trasformarlo in banditore, proponendogli messaggi da urlare quando la via dello struscio era più affollata, ma lui non gradiva; e rilanciava: “A vuè mo’?”. Un’allegra, simpatica compagnia – la conoscevo bene - architettò un tiro birbone, sollecitando Marche Poll, appena spuntato tra la marea, a diffondere un annuncio: “Uagnè’, stàte attìende, a… (seguiva Il nome e cognome del destinatario, che era uno di loro), jè ‘nzuràte e tène pure quàtte figghie. Attìende avita stà’, non v’affedàte a quìdde”. Marche Poll rifiutò il servizio, ma non la mancetta. Quando nel ’59 gli universitari tarantini, per la festa della matricola, misero in scena, al Circolo dei Marinai, “’A sànda moneche” di Alfredo Nunziato Majorano, poeta, etnologo, autore di testi teatrali, al coordinatore del “cast” venne l’idea di assegnare un ruolo a Marche Poll: doveva attraversare il palcoscenico da destra a sinistra, gridando “’U panarijdde, ‘U panarijdde, accattàteve ‘U pamarijje, ca jè quìdde uagnòne ca no fàce màle a nesciùne!”, sventolando appunto il periodico, stampato nella tipografia Leggeri, in via Anfiteatro (di fronte a piazza coperta), allora diretto, se non erro, da un altro poeta egregio, Alfredo Lucifero Petrosillo, autore tra l’altro di un bellissimo poema: ”‘U travàgghie d’u màre”.Marche Poll svolse egregiamente la parte che gli era stata riservata, facendo esplodere applausi interminabili fra il numeroso pubblico; ma quando ci accingemmo a dargli il compenso pattuito protestò. “Me stè’ dàte ‘na mesèrie. ‘O cinemè e ‘o tiàtre pìgghiene decchiù’”. Facemmo una colletta e gli aumentammo il “cachet”. E andandosene aggiunse: Mo’ pegghiàteve ‘na bùste, vùne a ppedùne”. Ci dissero poi che l’idea di gonfiare la richiesta gli era stata suggerita da “’nu gamblàrie”, perditempo, avvezzo alla beffa. Marche Poll era un uomo straordinario. Una formazione musicale gli ha dedicato una canzone divertente, che ho sentito intonare nel borgo antico; in alcuni negozi campeggia la sua immagine; qualcuno tiene, bene incorniciato, il suo ritratto nel soggiorno.
Il negozio di Vincenzo Santoro in via Duomo
C’è chi auspica che il Comune faccia erigere un monumento in piazza Maria Immacolata. A Taranto vecchia, il figulo Vincenzo Santoro con negozio in via Duomo, dove insegna i rudimenti della ceramica ai ragazzini per sottrarli alla strada, dice: “Marche Poll invitava la gente a sfidare la fortuna, era buono, amabile, un mito, un simbolo di Taranto. Rimasi avvilito un giorno, quando, da poco rientrato a Taranto dopo un periodo di assenza per lavoro in provincia di Pavia, vidi alcuni giovani che facevano crocchio per dileggiarlo. Un episodio vergognoso”. E mi mostra uno dei suoi Marche Poll in terracotta che ha realizzato interpretando un proprio ricordo. Qualche anno fa Santoro mi fece dono di un volantino con un ritratto ad acquerello del vecchietto fra titoli di brani di Saverio Nasole, a conferma dell’affetto che ancora i tarantini nutrono per entrambi i personaggi.  

Negozio di Vincenzo Santoro
L’esercizio di Vincenzo Santoro è proprio di fronte al locale di Nicola Giudetti, che vanta centinaia di testimonianze dei tempi andati (“frascère”, “mòneche”, “strecature”, valve “de parecèdde”, “nàsse” in miniatura, “statère”, “capàse, “landèrne”, “pàlle, palètte e levòrie””… e processioni della Settimana Santa di creta modulata dalle sue mani.                                                                                                                              Insomma ciascuno dice la sua, e la dice con convinzione.
Nicola Giudetti
Come quel tale in camicia bianca, pantaloncini marrone, berretto da nostromo, “forestiero” di Taranto, che l’estate scorsa sulla Ringhiera nei pressi del Castello aragonese, rispolverando il passato, confidava ad un amico di sperare che lo eleggessero a maschera di Taranto come Pulcinella a Napoli. Forse i tarantini un giorno si dimenticheranno di Giacinto Peluso, egregio scrittore, che ha raccontato la città in modo esemplare, con personalità del presente e del passato, luoghi, storie e la storia, con uno stile scorrevole, semplice, allettante; di Claudio De Cuja, poeta consacrato e uomo riservato; di Alfredo Nunziato Majorano, che andava in giro “abbàsce’a marìne” per ascoltare il dialetto dai pescatori con le labbra screpolate ”ca renàcciàven’a rèzze” (ricordo la sua “Trucchelesciàte de fratèlle Spiridione”, come “Lassò Criste e scì alle còzze” di Corrado Greco). Ma la memoria di Marche Poll rimarrà intatta, visto che addirittura i giovani sanno chi era e che cosa faceva. Sanno che il suo era un nomignolo derivante non direttamente dal famoso viaggiatore, mercante, scrittore italiano, Marco Polo, ma dall’omonimo incrociatore corazzato, il primo, della marina militare, costruito nel regio cantiere di Castellammare di Stabia nel 1890, entrato in navigazione nel 1892, demolito nel 1922. Su quella nave era imbarcato il padre, Giovanni, del nostro beniamino, che al secolo era Amedeo Orlolla, nato il 22 agosto del 1896. 

Il municipio di Taranto
Alfredo Lucifero Petrosillo
















Lui parlava spesso del papà e s’inorgogliva quando riferiva il nome della nave sulla quale prestava servizio; e per questo suo orgoglio venne insignito di quel soprannome. Qualcuno gli offrivano una bottiglietta di Birra Raffo, lui spalancava uno dei suoi sorrisi coinvolgenti o rideva a bocca aperta. E sorride su un’etichetta di ottimo vino, apprezzato dappertutto fra gli intenditori e non. Quanti chilometri ha macinato Marche Poll, andando ogni santo giorno da un punto all’altro della città, con quelle sue scarpe grandi quanto quelle di un clown. Chi li ha potuti contare, quei chilometri? Se a un tarantino fosse venuto in mente di farlo, accompagnandolo dall’Arsenale all’ammiragliato e ritorno, battendo anche altre vie (Nitti, Acclavio, Pupino, Berardi, Crispi…) forse oggi Marche Poll sarebbe nel Guiness dei Primati. Un giorno lo avvicinai con l’intenzione d’intervistarlo, accettò in cambio di qualche lira. Ma dopo poche parole sopraggiunse un tale che gli chiese una schedina, e lui riprese il cammino, dimenticando l’impegno preso con me. L’acquirente mi rivelò che In precedenza grazie a quella ricevitoria ambulante aveva vinto una bella cifra. Nell’80 le ginocchia di Marche Poll cominciarono a cedere alla fatica e lui venne ospitato in una casa di riposo.Quando nell’82 morì l’amministrazione comunale allestì un funerale di prima classe con tanto di banda e il sindaco, il vice, gli assessori al seguito, oltre a una moltitudine di cittadini commossi. Sulla sua tomba sempre ricca di fiori, solo il nome, il cognome, le date di nascita e di morte e due vasi. E la foto. Ma neppure lì Marche Poll è solo. Tanta gente va a visitarlo, lasciandogli un garofano e una preghiera. “Sì, ma bisogna insistere per un monumento, magari in piazza Bettolo – ho sentito dire da un gruppetto di persone che conversavano davanti al portone del palazzo di via Di Palma che ospitò il cinema Odeon e al primo piano la sede del quotidiano “Il Corriere del Giorno”, che aveva come caporedattore alla pagina letteraria Vincenzo Petrocelli, giornalista attento, scrupoloso, innamorato di questo giornale che purtroppo ha avuto un triste destino. Proprio Cenzo una sera in cui smaltivo la villeggiatura nella mia città, regina del mare, mi offrì uno spazio su Tv Taranto per un’intervista a Marche Poll, ma mi schermii perché allora la telecamera mi creava imbarazzo. In seguito capitolai per il festival dei baffi, che si era appena svolto a Grottaglie con una coda di polemiche, ma ero alla fine delle vacanze e non avevo tempo per un’altra trasmissione. Ancora oggi mi pento di non averlo fatto in una rimpatriata fuori stagione.








mercoledì 22 gennaio 2020


CARA MILANO-TARANTO, QUANTE EMOZIONI

CONTINUI A SUSCITARE IN MIGLIAIA DI FANS









Anche questa estate i partecipanti, provenienti anche da diversi Paesi d’Europa e persino da Hong-Kong e dall’Australia, sfrecceranno dalla Lombardia alla Puglia dal 5 all’11 luglio.



                         
Le foto sono state fornite cortesemente dall'ufficio stampa della Milano-Taranto"

Franco Presicci
Gli organizzatori della Milano-Taranto sono veloci come il vento. E puntuali come quelli della Stramilano dei cinquantamila, efficienti, meticolosi. Con una differenza che la maratona milanese va a piedi e su un percorso molto ma molto più breve e dal Duomo all’Arena (42 chilometri e qualche metro). Ma l’attesa per l’evento è più p meno lo stesso; e ad ogni “tappa” calamita migliaia di persone che all’arrivo dei centauri trabocca vincendo la resistenza del servizio d’ordine. 


Ricordo bene gli arrivi sul lungomare di Taranto; e le attese sotto il sole, e i più fortunati all’ombra delle palme, in viale Virgilio. Sì, li ricordo bene, con tutti i particolari e i discorsi, il fervore della gente che si diffondevano dal grattacielo al palazzo delle poste e quasi al ponte girevole; e dall’altra ai Salesiani, quasi al viale Venezia, una prateria frequentata da falene e oggi viale Magna Grecia, fiancheggiato da stabili enormi e moderni, negozi, e officine e attraversato da migliaia di cilindrate. Ricordo anche l’eccitazione dei marmocchi e dei loro genitori, abituati alle lagne dei più piccoli, impazienti di vedere spuntare quelle vecchie moto nobilitate e tirate a lucido e rinvigorite per l’occasione da quei campioni. Quando si delineava la figura del primo concorrente erano gridi di allegria, di entusiasmo. La folla fluttuava, si sporgeva per vedere meglio il razzo, per poterselo godere più a lungo fino alla conquista del traguardo.
La manifestazione si ripete da quasi novant’anni e non risente neppure un po’ del tempo che si porta sulle spalle. La Milano-Taranto non si logora, non perde colpi e smalto. Sempre affascinante, sempre bella, sempre spettacolare. Le domande dei partecipanti si moltiplicano e grande è l’amarezza di quelli che, presa la decisone fuori tempo massimo, sono costretti a spegnere il motore. Pazienza, saranno più solleciti l’anno venturo.Alla Milano-Taranto si corre. Per la trentaquattresima edizione le iscrizioni sono state aperte lo scorso novembre e in due mesi il numero massimo è già raggiunto. Ancora una volta dunque – parola di chi sta in plancia – la maratona per moto d’epoca, nome di battesimo della Milano-Taranto, ha fatto il pieno. I motociclisti, che hanno risposto all’appello da vari Paesi d’Europa e del mondo, anche questa volta, dal 5 all’11 luglio sfrecceranno sulle nostre strade, dalla terra di Carlo Porta, precisamente dall’Idroscalo, alla città dei due mari, da sempre visitata e cantata da poeti e narratori, ritratta da pittori e fotografi illustri: la “Taranto che vive tra i riflessi, in un’atmosfera traslucida adatta – commento di Guido Piovene - a straordinari eventi di luci”, con i suoi splendidi tramonti sul Castello aragonese, “con il sole divenuto rosso che calava veloce, simile ad un’isola di fuoco, che sprofondasse nelle acque”; la Taranto amata da Orazio, anche per il suo fiume Galeso, che scorre placido e silenzioso tra alberi alti come giganti; la Taranto che incanta. 

Sullo sfondo della Milano-Taranto, dunque sfilano i nostri paesaggi, come quelli della Lombardia, esaltati dappertutto. (Carducci e Catullo celebravano Sirmione e Stendhal elogiava Milano come la città europea “che vanta le strade più belle e i più bei cortili”). Anche per questo, va detto grazie a questa competizione, le cui tappe non sono state ancora rivelate. Ma verranno presto rese pubbliche. Intanto, si sa, da trombettieri discreti, che le moto storiche che prenderanno parte alla corsa sono una più affascinante dell’altra, e che impreziosiscono l’iniziativa amata da giovani e adulti, maschi e femmine e contribuiscono al turismo dei luoghi in cui passeranno, tra i più attraenti del mondo: le nostre meraviglie, i nostri angoli stupefacenti, i nostri gioielli: monumenti, chiese dalla Lombardia alla Puglia, ricca di ulivi saraceni e di viti inginocchiate e di trulli, a Martina Franca, e di tratturi, di centri storici, con le meraviglie del barocco, a Lecce…
Chi si mette in sella per la prima volta per percorrere l’Italia a velocità sostenuta rimane così colpito da voler ripetere l’esperienza. Come informano i fautori della gara più della metà dei protagonisti di questa edizione hanno già sfrecciato, tra colline ben modulato e spianate di verde e castelli, cascine, ville di delizia… almeno una volta. E dà soddisfazione sapere che il 54 per cento delle iscrizioni vengono da Svizzera, Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Austria, Francia, Stati Uniti, Principato di Monaco e addirittura da Hong-Kong e Australia. Insomma, anche quest’anno sarà contraddistinto da un insieme di lingue, culture, usi e tradizioni diversi. 

Ed ecco una curiosità: “Verrà redatta una classifica assoluta dedicata esclusivamente alla categoria ‘Gloriose’, di cui faranno parte i mezzi fino alla classe 175 cc, le cui marche e modelli hanno partecipato alle mitiche Milano-Taranto dal 1950 al 1956”. Già, il 1950, data dalla quale la competizione prese il nome che porta oggi. Alla sua nascita, nel 1919, fu chiamata la “Freccia del Sud” (come il treno che portava gli emigranti al Nord, dissanguando le campagne), con un percorso da Milano a Caserta, conquistata da Luigi Girardi su una Garelli 350 cc., a una media di oltre 38 chilometri orari. La gara subì un’interruzione dal ’25 al 1932, quando venne ribattezzata “Milano-Napoli, con partenza dall’Idroscalo di Milano, percorso 900 chilometri, la cui ultima edizione fu vinta da Omobono Terni su una Guzzi 500 cc. Nel ’37, idea di Mario Deintrona di Taranto, vide la luce la “Milano-Roma- Taranto”, con 1400 chilometri di tragitto. 

Dal 1950, a pochi anni dalla fine della guerra, dai lutti, dalle distruzioni, dal terrore delle bombe, dalle affannose fughe nei rifugi antiaerei, mentre gli italiani cercavano di dimenticare la borsa nera, la tessera annonaria, l’olio di ricino, i figli della lupa, i balilla, gli avanguardisti, le camice nere, la Milano-Taranto-Roma assunse il nome di Milano-Taranto. E continua a volare per la volontà, l’impegno, la passione, la competenza di Franco Sabatini, patron del Moto Club Veteran di S. Martino in colle (Perugia). Adesso comincia il conto alla rovescia. E nei bar, nei dopolavoro, nelle piazze, nelle case si conversa sula Milano-Taranto, sulle sue glorie, sulla sua storia, sui centauri che per niente al mondo rinuncerebbero all’impresa. Tra gli spettatori più assidui e più affezionati scorrono a iosa i ricordi delle trepidazioni, delle ore trascorse sui cigli delle strade, sotto il sole, nella calura estiva. La Bimare in particolare la vive con orgoglio, la Milano-Taranto. Oggi non ne ho la possibilità, ma ai miei tempi (tempi ormai lontanissimi) ero tra i primi a raggiungere viale Virgilio deciso a conquistare un posto in prima fila per attendere i bolidi con infinita pazienza. Così li chiamavamo: bolidi. 

E bolidi erano quegli uomini che ci esaltavano. E lo fanno ancora, ad ogni edizione. Un amico che aveva in garage tre o quattro moto storiche e aveva già partecipato alla corsa me ne parlava con vanto. “Tu non puoi immaginare la gioia che si prova a macinare chilometri tra curve, salite e discese, tra panorami suggestivi. Io, perdonami la presunzione, mi sento Giacomo Agostini, Valentino Rossi, Mike Hailwood, quando sono in sella e corro senza la preoccupazione dell’autovelox. Che emozione a stare sulla moto e volare; e vorrei comunicare anche a te questo piacere immenso portandoti sul sellone biposto dalla città in cui vivi a quella in cui sei nato”. Povero Mimmo Vacca, me lo chiese anche un’altra volta. Era un secolo fa e io dovetti dirgli di no, assorbito dal lavoro di giornalista presso il quotidiano “Il Giorno”. Per lui la Milano-Taranto era il più grande spettacolo del mondo, termine mutuato dal film del ’52 di Cecil De Mille. E lo è anche per me, che non ho mai posseduto neppure una bicicletta. Ma mi balugina il desiderio di fare una rimpatriata nella mia città e rivivere i giorni dell’adolescenza su quel tratto del lungomare tra l’altissimo fungo di cemento con affaccio sul mare e il Palazzo del Governo, un punto qualsiasi, purchè in prima fila. Ritroverei il vigore della giovinezza, in quella siepe umana che ogni volta alla Milano-Taranto si spinge fino ai giardinetti che stanno di fronte allo stabile che ospitò la sede de “Il Corriere del Giorno” guidato da Giovanni Acquaviva e di fianco a quello del cinema Paisiello da tempo chiuso. Cara Milano-Taranto, quante emozioni.





mercoledì 15 gennaio 2020

Un angolo suggestivo di Milano


VICOLO DEI LAVANDAI

UNA CHIESA DI PITTORI 


Qualcuno lo ha definito una piccola
La tettoia dei lavandai sul rizzolino
Montemartre. Decine di artisti vi
avevano lo studio. Tra i più famosi
Guido Bertuzzi e Aldo Cortina, amico
di Bettino Craxi. La tettoia, sbilenca,
sul “ricciolino” d’acqua è monumento
storico.




Franco Presicci

Nello studio di Guido Bertuzzi, che dipingeva i pretini con la veste rossa e la cotta bianca con orli ricamati; i negozi dell’alzaia del Naviglio Grande; i tetti con i comignoli; i cortili delle case di ringhiera; i balconi inghirlandati di fiori…, oltre agli amici (il panettiere, il fabbro, il venditore di pezzi per le radio e i grammofoni di una volta…) si potevano incontrare persone note. Non soltanto dunque appassionati delle sue opere. Un giorno, in visita all’amico pittore, notai un signore che se ne stava seduto in silenzio tra una vecchia cassapanca e un tavolo pieno di disegni, le gambe accavallate e le braccia conserte: osserva le immagini della riva tra la darsena e il “pont de preja”, che si andavano delineando sulla tela. 

Uno degli ultimi barconi sul Naviglio Grande
Sulle prime, distratto da un’opera, un banco di venditore di frutta, ricca di colori vivaci, appoggiata sulla mensola del camino, mi sembrò uno qualunque; invece era Bearzot, il “Vecio”, come lo definì il romanziere Giovanni Arpino. Il grande allenatore di giocolieri della pedata si alzò, mi strinse la mano e tornò a sedersi prima ancora che il padrone di casa facesse le presentazioni. Qualche settimana dopo ci trovai Giovanni Lodetti, già centrocampista asso europeo con la nazionale, vincitore di coppe-campione, di coppe delle coppe e quant’altro. Sapendo che stavo organizzando una serata in onore di un libro sulla storia della squadra di calcio di Bari, alla galleria d’arte di Mimmo Dabbrescia, in via Carlo Torre, Bertuzzi ne approfittò per invitarlo, e il “goleador” accettò. Mantenne la promessa e lo feci accomodare al tavolo dei relatori. Figlio di un valente cantante dell’Eiar (l’antenata della Rai), Bertuzzi aveva giocato nel Milan-ragazzi e qualche volta fra gli adulti della stessa formazione, ed era così rimasto in contatto con parecchi ex compagni di sgambate. Ma non ne parlava. Quando venni a saperlo da amici comuni, lo incalzai sull’agomento. “E’ acqua passata, ero giovanissimo, non vale la pena rispolverare quei giorni”.
Bertuzzi intervistato da Tele Monte Penice
All’epoca io esploravo Milano per Tele Montepenice, antenna molto seguita fondata nel ’77 da Franco Rizzi. A reclutarmi era stato Guido Nicosia, ottimo giornalista che, da inviato del “Giorno”, passò ad “Avvenire” come inviato speciale internazionale. A Guido Bertuzzi volevo molto bene, e quando decise di pubblicare una cartella di acqueforti con poesie di Armando Brocchieri e mi chiese la prefazione, esortandomi anche a parlare al “vernissage” nella galleria del pittore Giacomo Cottino, che era all’inizio di vicolo dei Lavandai, vicino alla bottega di Guido, di fronte alla famosa tettoia, sotto la quale scorre il “rizzolino”, un rivolo d’acqua che sfugge al Naviglio Grande, mi schermii. “Questo non puoi chiedermelo: qualcuno potrebbe non vedere di buon occhio l’idea di far illustrare la cartella su Milano a un ‘terrone’”. “Scherzi, Milano non ha questo vizio”. E accettai. Poi, gli dedicai un servizio in televisione. Erano gli anni ’60. Bertuzzi non c’è più, nel vicolosi vede gente nuova, molti “atelier” di quel tempo hanno sbarrato le porte, e se qualcuno è aperto è grazie a figli o altri parenti, che ricordano Guido con stima. Era un uomo buono, generoso, affabile, ottimo conoscitore della terra del Porta, di cui commentava, a richiesta, i luoghi che erano spariti, quelli da vedere, gli avvenimenti, le ricorrenze, i segreti.
Gigi Pedroli
E ai giornalisti che andavano a trovarlo per la prima volta non mancava di indicare i suoi colleghi che lavoravano da quelle parti (Bernardoni, Fornoni, Pacini, Formenti, Marutti, Vitali, Brignoli, Spampinato (che, se non ricordo male, veniva da Genova per dipingere qui); Sarik (Riccardo Saladin, genovese trapiantato a Milano), che si trasferirà alla Fornace Curti, dove allestiva manifestazioni con presentazioni di libri accompagnate dalle chitarrate di un grande acquafortista e cantautore, Gigi Pedroli, con studio in un salone della stessa Fornace e un altro, da sempre, in fondo all’alzaia con l’insegna di Torchio dell’Incisione. A una di queste manifestazioni partecipò anche l’eccellente fotografo Mario De Biasi, tra l’altro autore di numerose pubblicazioni.

Il direttore del Giorno Lino Rizzi


Guido non si mosse mai dai suoi due localini con il camino, pieni di oggetti con le superfici dipinte da lui: padelle, spianatoie, tegole, mattoni, addirittura ferri da stiro… E poi le tele, grandi, piccole. Il Carletto, uno degli abitanti del vicolo, simpatico e un po’ brontolone perché, secondo lui, il “rizzolino” non era sempre limpido, diceva che Bertuzzi era un mito. Eppure nello stesso vicolo, fra gli altri, aveva lo studio un altro personaggio notevole: Aldo Cortina, che era stato allievo di De Pisis, aveva una grande libreria universitaria di fronte alla Statale ed era presidente del comitato della mostra “en plein air” di via Bagutta.
Aldo Cortina
Aldo era amico anche di Bettino Craxi, amante della pittura e a quanto si diceva usava egli stesso pennelli e colori. Ogni tanto, soprattutto la domenica, il presidente andava a fargli visita, anche per vedere le mostre ospitate nello studio, frequentatissimo da gente comune, tra le quali un tassista (non ne ricordo il nome) che con la fisarmonica interpretava divertenti canzoni meneghine. Aldo Cortina era nato a Belluno, e a Milano aveva due fratelli, di cui uno, Renzo, aveva una fornitissima libreria-galleria in piazza Cavour, di fronte al Palazzo dell’Informazione, dove aveva la sede “Il Giorno”. Renzo scrisse anche un libro, “Horca miseria”, il cui titolo era suggerito da “Horcinus Horca, di Stefano D’Arrigo, del ’75, che vinse anche il premio della Fondazione Cino Del Duca. In quelle pagine, sfilavano tante personalità dell’arte, del giornalismo, dell’industria…, con episodi, anche spassosi, di cui erano stati protagonisti. Insomma un libro informatissimo. Renzo aveva ottimi rapporti con il giornalista, scrittore e pittore Dino Buzzati, di cui teneva esposto in vetrina un’opera di notevoli dimensioni, raffigurante un grosso cane accucciato. Da lui fecero mostre, fra gli altri, Filippo Alto e Attilio Alfieri, entrambi scomparsi. 

Intervista televisiva
Poi Renzo morì, la galleria d’arte passò al figlio, che si trasferì nel cortile della vicina via Turati, al numero 3, dove ricordo una personale di Alfieri curata dal figlio (io scrissi un pezzo sul “Giorno”, diretto da Lino Rizzi, che aveva sostituito Gaetano Afeltra; e Raffaele De Grada, Raffaelino per gli amici, una critica sul “Corriere della Sera”). Un terzo Cortina (pare si chiamasse Mario) aveva anche lui una libreria, in via Francesco Sforza. Tornando a Guido Bertuzzi, da aggiungere che per me era un serbatoio di notizie. Per “Il Milanese”, settimanale fondato da Arnoldo Mondadori, chiuso e riaperto da altri, un pomeriggio – sarà stato giugno, l’anno il ’76 – mentre gli chiedevo d’intervenire a una serata al Cida (Centro informazioni d’arte), in via Brera, mi raccontò di Dosolina, la ragazza uccisa dai tedeschi mentre in bicicletta portava in salvo in Svizzera un bambino ebreo. 
Cortile dell'alzaia
E mentre raccontava udimmo l’urlo di un bambino, uscimmo e scorgemmo un abitante del vicolo impegnato a recuperare una palla caduta nel rizzolino. “Si ripete inutilmente che non bisogna tirare calci alla palla nel vicolo, ma…”. Colsi l’occasione per chiedergli dei giochi più in uso ai tuoi temp. “La campana, frequente fra le ragazzine; le cinque pietre; la botte, un po’ pericoloso, perchè uno faceva rotolare il recipiente mentre un altro si accingeva a cavalcarla. Un altro gioco consisteva nello spingere con una mazza un cerchio di legno; il cavallo: si prendeva la rincorsa e si saltava sul dorso di un compagno piegato, come fosse la groppa d’un quadrupede. In piazza Vetra i più grandicelli giocavano ai dadi… E poi la lippa: con un bastone si colpiva un pezzetto di legno appuntito ai due lati e lo si riprendeva al volo, sempre con il bastone, lanciandolo il più lontano possibile.

Guido Lopez e Giovanni Lodetti

Mi hanno riferito che tantissimi anni fa dei discoli sulla spalliera del naviglio spargevano un liquido corrosivo, che tagliavo i panni stessi ad asciugare. Naturalmente, in questo caso, non si può parlare di gioco, ma di una mascalzonata”. E voi - mi domandò - come giocavate?”. Alla livoria: lanciavano due sfere d’acciaio l’una contro l’altra non con le mani ma con palette di legno, fatte da noi stessi, verso due chiodi conficcati nel terreno, una decina di centimetri distanti fra loro. Le sfere provenivano dai cuscinetti delle ruote dei camion americani. Confezionavamo una palla con stracci legati con la corda: il campo, la strada; le porte quattro pietre. Diffusi anche la lippa, che in dialetto di chiama “’u spezzìedde”; e “‘u turnìedde”, che consisteva nel lancio di monete o bottoni verso un cerchio tracciato per terra con il gesso: vinceva chi riusciva a centrare l’obiettivo da una distanza di una decina di metri e oltre). Era da poco finita la guerra, i soldi erano pochi e ci arrangiavamo, non potendo pretendere dai genitori giocattoli, come ad esempio lo yo-yo, che risalendo alla Grecia antica era stato rilanciato negli anni Venti. I più fortunati potevano aspirare a un Pinocchio o a un cavallino di legno o addirittura alla bicicletta. Allora i doni li portava la Befana e non Babbo Natale. E la Befana aveva non solo le calze, ma anche il sacco rotto”. Guido era molto interessato e ascoltava con attenzione. Non l’ho dimenticato. Come non ho dimenticato Cortina. Oggi, andando a trovare Gigi Pedroli o Romualdo Caldarini, succeduto a Cortina nella presidenza del Bagutta, “Arte a cielo aperto”, passavo dal vicolo dei Lavandai e mi fermavo davanti ai loro studi. Poi se ne sono andati anche altri artisti che lavoravano in quel budello che Armando Brocchieri definì “chiesa di pittori”.




mercoledì 8 gennaio 2020

Quanta storia sulle targhe stradali


A MILANO BISOGNA CAMMINARE


CON LO SGUARDO VERSO L’ALTO


Da via Fava, dove aveva sede il

quotidiano “Il Giorno”, a piazza

del Duomo si assorbono briciole

di storia. In via Lanzone fu ospite

il Petrarca, poi trasferitosi alla

Cascina Linterno. In via Borsieri,

all’Isola, Garibaldi.

Viale Monte Santo




Franco Presicci
Amavo percorrere Milano da un capo all’altro, nei rari giorni di libertà dal lavoro, e con lo sguardo verso l’alto, per ammirare i giardini pensili e per leggere le targhe delle strade: era un modo di conoscerla meglio. Abitavo in via Angelo Fava, non asfaltata, con la serra Fumagalli, un meccanico, un bar, che serviva caffè e zibibbo anche di notte ai giornalisti del quotidiano “Il Giorno”, la cui sede era al numero 20. Fava fu medico milanese e patriota, che appoggiava il governo provvisorio composto a Milano in seguito ai giorni movimentati del ’48. Attraversando via della Giustizia uscivo sulla Melchiorre Gioia, dove scorreva ancora all’aperto il Naviglio Martesana con decine di topi grossi quanto conigli che saettavano sulle sponde. Gioia fu economista, letterato, filosofo e storico nato a Piacenza e deceduto a Miano nel 1767.

Tram vicino alla Centrale
A volte m’incamminavo verso via Ponte Seveso, nome proveniente da un antico ponte collocato sull’omonimo “fiume” che, venendo da Como, scivolava appunto nel piccolo quartiere di Seveso; quindi la vista spaziava di fronte alla stazione Centrale, inaugurata nel 1931, il primo approdo degli emigranti con la valigia di cartone partiti dal Sud: i cosiddetti “terroni”, termine allora usato non proprio come offesa, perchè è appunto dalla terra che questa povera gente proveniva per guadagnarsi il pane quassù. E quella terra l’avevano affidata alle mogli, esperte, laboriose ed energiche come gli uomini. A volte nello scalo, definito la “cattedrale del movimento”, entravo, vedevo arrivare i treni, affollati, che si svuotavano a poco a poco, con alcuni che passavano a chi li aspettava le valigie di cartone dal finestrino. Quel treno, detto della speranza o “Freccia del Sud”, lo presi anch’io, stando venti ore in piedi, sorretto dalla ressa che si formava nel corridoio, straripando nel gabinetto di decenza e sulla piattaforma.
Il Naviglio Grande

Quando giunsi a Milano erano in corso i lavori credo per la metropolitana in piazza San Babila, il sindaco era Gino Cassinis, che durò in carica tre anni; Luigi Meda l’assessore all’Istruzione; Piero Bassetti al Bilancio, al Lavoro, alla Statistica, all’ufficio Studi e Organizzazione. Al Teatro Gerolamo era in scena “Milanin Milanon”, di Roberto Leydi e Filippo Crivelli; e incominciava l’attività il teatro di Palazzo Durini, proprio di fianco a quello in cui aveva abitato Arturo Toscanini. In quel teatro assistetti alla rappresentazione de “La leggenda di ognuno” di Hofmannsthal, seduto di fianco al grande Giovanni Mosca, che negli intervalli, passeggiando, mi parlò delle insidie in cui poteva incorrere chi lavorava in una redazione e delle difficoltà di entrare nella professione. Uomo simpatico e alla mano, giornalista, umorista, disegnatore, drammaturgo, scrittore (“Ricordi di scuola”…), critico cinematografico e teatrale, era stato chiamato a Milano da Cesare Zavattini per confezionare il settimanale “Il Bertoldo” con Giovanni Guareschi, papà di don Camillo e Peppone… Tornando in via Durini, non si può non citare la chiesa di Santa Maria della Sanità dei Camilliani, che avevano preceduto i Cappuccini nel Lazzaretto, di cui faceva parte anche fra Cristoforo descritto da Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi”. 
Stazione Centrale
In piazza Duca D’Aosta, dando le spalle alla Centrale, sorta dopo lunghe traversie prodotte dalla Prima guerra mondiale e da motivi economici emersi negli anni successivi, e guardando verso via Vitruvio (nome dell’architetto romano attivo alla corte dell’imperatore Ottaviano Augusto, dove compose il suo “Trattato di Architettura), c’era la redazione del quotidiano “L’Italia”, che, fusosi nel ’67 con “L’avvenire d’Italia” di Bologna, dette vita ad “Avvenire”, primo direttore Leonardo Valente. A “L’Italia” collaborai anch’io, come vice critico teatrale, e in quella veste fui tra quelli che intervistarono i Beatles il giorno prima della loro esibizione al Vigorelli. Andando a spasso per Milano si assorbono tante notizie, grandi e piccole. In via Boscovich (nome del gesuita dalmata che fondò l’osservatorio di Brera), vicina alla Centrale, all’ultimo piano con fontana sul terrazzo aveva dimora Giovanni D’Anzi, che nel ’35, per fare uno scherzo ai napoletani e ai romani che a Milano intonavano canzoni sulle bellezze delle loro città, scrisse in pochi minuti “O mia bela Madunina”. All’epoca il musicista si esibiva al Trianon, che accoglieva anche la compagnia partenopea “Piedigrotta”, che cantava Napoli, il Vesuvio, il sole, la luna, l’amore, le delusioni. Il brano di D’Anzi, dedicato alla Madonnina che svetta sulle guglie del Duomo, fece il giro del mondo.

Per molti giorni peregrinai per Milano, percorrendo le vie Torino, Armorari, Piatti, Cesare Correnti. Margherita (c’era il carcere in cui venne detenuto Silvio Pelico), Manzoni, Bigli, Cavour, Palestro, Venezia…, scoprendo pezzi di storia. In via delle Ore scoprii che ricordava il primo orologio, eseguito dall’artista cremonese Francesco Pecorari, che Azzone Visconti fece collocare nel 1335 sul campanile della piccola chiesa di San Gottardo, fino all’anno Mille chiamata di San Giovanni alle Fonti. In via Armorarì, in virtù di un cosiddetto paratico, avevano i laboratori gli armaioli, mentre gli orafi stavano in via Orefici e i fabbricanti di speroni in via Speronari. Il paratico aveva anche lo scopo di evitare contese tra quelli che esercitavano lo stesso mestiere. Fu in quel periodo che feci i primi quattro passi a Brera, dove s’imponeva la famosa Galleria “Apollinaire” del geniale martinese Guido Le Noci, da cui passarono tutti i maggiori rappresentanti dell’arte contemporanea, compreso Christo Javaceff.
Hotel Gallia


Le Noci mi accompagnò al bar Jamaica, a suo tempo frequentato da importanti personaggi, come Giulio Confalonieri, critico e storico musicale, amico dei barboni; Pietro Cascella, Arturo Carmassi, Antonio Recalcati, Pietro Manzoni, Salvatore Quasimodo, il musicologo Beniamino Dal Fabbro, il critico d’arte Marco Valsecchi, Luca Crippa... e persino il direttore de “Il Popolo d’Italia”, Benito Mussolini, che tutte le mattine veniva a bere il caffè dalla signora Lina. Le Noci mi presentò Dino Buzzati, che mi prese in simpatia e mi dette il suo numero di telefono di casa; e Pierre Restany, grande amico del gallerista. In via Fiori Chiari (denominata così forse per qualche giardino ricco di fiori squillanti), presi a coltivare l’amicizia del baritono Giuseppe Zecchillo, che creava quadri surreali con spaghetti, tubettini, farfalle, linguine e maccheroni, forse in ricordo di Giuseppe Prezzolini, che a quel tipo di pasta dedicò un libro (“Maccheroni”), edito da Rusconi.

Piazza Gae Aulenti
Poi per una televisione di Pavia, Telemontepenice, tornai a girovagare per Milano, raccontando tutto quello che una volta si trovava nelle varie strade. In via Caminadella, per esempio, che parte da piazza Sant’Ambrogio, fino al 1100 le case erano di legno e i tetti di paglia. Per riscaldarsi si ricorreva al braciere ricavato da fango impastato. Quando comparvero i camini una “primizia” venne installata proprio in un’abitazione in questa strada, e i milanesi le affibbiarono il nome di “casa caminata”, quindi il diminutivo che finì sul marmo. Omenoni, chi erano questi signori a cui avevano intestato la via che parte da piazza della Scala? Non erano persone, ma gli otto giganti messi a sostegno dell’architrave del primo piano del palazzo costruito nel 1575. E perché via Olgettina? Perché da via Padova porta all’omonima cascina accostata ad altre. 
Cassina de' Pomm
 

C’è anche via Lega Lombarda, che non ha nulla a che fare con gli attuali fautori della Padania, ma una confederazione formatasi nel 1167 per fronteggiare Federico Barbarossa. In piazza Vetra, una delle più vecchie della città (“Platea Vetus”) si accendevano i roghi o s’impiantavano i pali per le esecuzioni. Toccò a Caterina da Brono, ”quivi bruciata quale colpevole di aver innamorato il suo vecchio e gottoso padrone a mezzo di sortilegi da lei stessa confessati mediante tortura consistita nello strappargli lembi di carne con tenaglia arroventata”. E nel 1566 al rogo finirono i briganti Giacomo Legorino e Battista Scorlino, che avevano imperversato nel bosco della Merlata. Nel 1631 Gian Giacomo Mora, di professione parrucchiere, venne ucciso con l’accusa di aver propagato la peste. In più gli demolirono la casa erigendo al suo posto una colonna, detta infame dal popolo. Non furono le sole esecuzioni in quella piazza. Per eseguire la condanna di Caterina Medici, presunta colpevole di aver tentato di avvelenare con miscugli il senatore Luigi Melzi, nel 1617, montarono palco, detto baltresca, e palo per dare la possibilità alla gente di assistere al tragico evento. In via Bigli abitava il Premio Nobel Eugenio Montale e in tempi più lontani, quelli delle Cinque Giornate, ospitò il Comitato Rivoluzionario.
Galleria Vittorio Emanuele
Via Andreani ricorda le imprese del conte Paolo, il primo in Italia a prendere il volo, nel 1783, a bordo di una mongolfiera, da Moncucco alla Cascina Seregno, dopo la famosa impresa in Francia dei fratelli Mongolfier. Mi piacerebbe continuare, ma lo spazio è tiranno. Avrei da parlare della centralissima via Borgonuovo, di piazza Belgioioso, di via Monte Napoleone, via Turati, anch’esse scrigni di storia. Ma tempo al tempo. E’ bello, oltre che istruttivo, fare la ronda a Milano, da corso Venezia, con le sue facciate Liberty, a via Lanzone, ispirata a quel nobile milanese che istituì il primo Comune per mettere un freno al prepotere dei nobili; a piazza Cavour, con l’austero Palazzo dell’Informazione; alla la Galleria Vittorio Emanuele, così cara a Giuseppe Marotta, tanto da dedicarle uno dei suoi libri (“Mal di Galleria”). E camminando mi vengo in mente fatti e cose, come il “Gamb de legn”, il trenino Milano-Magenta, che aveva la stazione in un cortile di corso Vercelli. Era entrato in funzione nel 1879 e per la sua lentezza si era guadagnato quel nomignolo. E “el barchett de Boffalora”, che tagliava l’acqua del Naviglio Grande barcollando, con il suo carico di venditori di verdura e altri prodotti delle cascine.






mercoledì 1 gennaio 2020

La ricerca del padre nel ricordo degli amici


DIEGO E GIORGIO ALTO, I FIGLI DELL’ARTISTA

RACCOLGONO NOTIZIE PER UN DOCUMENTARIO

Rossicone intervistato da Diego Alto






Filippo ebbe molti amici ed estimatori, la maggior parte dei quali non ci sono più. Del pittore hanno parlato un giornalista e l’ottimo ceramista Peppino Rossicone. Il pensiero di Arnaldo Giuliani accanto a una litografia e scritti dei critici Sebastiano Grasso e Raffaele De Grada in altre, oltre che sul “Corsera”.





Franco Presicci
Il padre, Filippo Alto, data di nascita 1933, Bari, è morto nel ’92 all’ospedale di Notwill, vicino al lago di Sempach, in Svizzera, dopo un incidente stradale avvenuto un paio di giorni prima di Natale, nei pressi di Ancona. Loro, Giorgio e Diego, erano ragazzini. Sapevano che Filippo era un pittore apprezzato, che insegnava disegno, ma ignoravano il mondo che frequentava fuori casa, gli amici, gli estimatori, i semplici conoscenti.

De Grada, il pittore Aramu, il critico Manzella, Alto
Erano abituati a vedere a cena i critici d’arte Raffaele De Grada e Sebastiano Grasso; i questori Vito Plantone e Enzo Caracciolo; i giornalisti Giacomo De Antonellis, della Rai, e Costantino Muscau, allora inviato speciale del “Corriere della Sera”…, ma non sempre erano presenti alle conversazioni, perché Ada, la mamma, li mandava a letto presto senza eccezioni. Filippo non amava parlare di sé, del suo lavoro, soprattutto mentre in tavola fumava un bel piatto di pasta con i ceci con un pizzico di peperoncino, di cui non solo noi pugliesi siamo appassionati. “Papà con noi era severo, ma fuori com’era?”. Mi hanno chiesto il giorno che tutti e due sono venuti da me a sollecitarmi il racconto delle ore trascorse con Filippo per un documentario su di lui che stanno preparando.

Il prefetto Colucci, il questore Caracciolo, l'inviato Muscau


“Però che bei frutti ha dato quella severità. Guardate, sono i ‘no’ che aiutano i virgulti a crescere; i ‘sì’ spesso servono a sbarazzarsi dei fastidi”.Giorgio era seduto davanti a me, nel mio studio, e Diego dietro gli armamentari (fari, obiettivi e macchine da presa), più alto del fratello e del padre, che qualcuno definì il vichingo dell’arte. Giorgio mi lasciava spazio, senza mai interrompere lo scroscio dei miei ricordi. Si è deciso ad intervenire quando la commozione mi ha bloccato le parole. “Tu volevi molto bene a nostro padre, e lui a te; e ci scusiamo se ti abbiamo causato un’emozione così forte. Non lo avevamo previsto”. Ne avevo di cose da dire. Cominciando da quello che scrisse Arnaldo Giuliani, uno dei pilastri de “Il Corriere della Sera”, di cui fu anche capocronista, nella presentazione di una litografia che Filippo aveva eseguito per distribuirla agli invitati nella serata di consegna del Premio “Le Porte di Milano” al professor Silvio Garattini: “Non è vero che i tempi hanno cancellato tutte le distanze.

Rossicone, Kodra, Alto
 
Se lo hanno fatto nello spazio, non hanno potuto farlo nel tempo. Ci sono negli uomini come nelle stelle lontananze immense che nessuna immaginazione può colmare e ‘chiudere’. E che pur colmano e ‘chiudono’ soltanto perché l’ottica dei tempi mutati ha lasciato intatti, anzi ha migliorato segreti telescopi. Così, nel cielo d’asfalto di Milano, l’Alabama può anche apparire un buco nero mentre, in un riflesso di improvvisi bagliori la Puglia può illuminarsi come una costellazione che è lì, a portata di mano, da toccare, da sentire, da vivere, da scoprire o riscoprire e da amare, quasi come una impensabile orsa maggiore apparentemente dimenticata e presente. Me lo ha insegnato Filippo Alto, un illirico dei nostri giorni, un ‘malato’ della sua terra dove ha radici che si perdono sotto il muschio delle querce, un artista che fa musica con i colori e che racconta antiche storie e sapienti favole con la sua pittura. 
 
Alto, la figlia di Chechele e Nennella, Giacovazzo, Chechele, Presicci
Ho avuto l’avventura e il piacere di conoscere Filippo Alto una sera nella calda casa dell’amico comune Franco Presicci, anch’egli venuto di Puglia e diventato cursore delle dure cronache milanesi. Filippo, che era in compagna della moglie, l’Ada bella e solare, mi diede sulle prime l’impressione di un uomo del tutto quieto, con una certa avaria di parole, ricco invece di silenzi e di attenzioni. Insomma, un garbato attore di quegli estemporanei ‘recital’ che l’occasione mette in scena con la regia improvvisata dei primi incontri”. Arnaldo non terminava qui il suo ritratto. “E invece. Invece la tavola di casa Presicci aveva il ‘comme il faut’ della gastronomia pugliese ed è bastato questo minimo, quasi banale aggancio per accendere la conversazione anche da parte di Filippo. E sono state trombe e tamburi…”. Pochi come Filippo sapevano alimentare la compagnia. E quando il caso gliene dava l’occasione, con misura, senza arroganza e con sapienza “raccontava la fiaba vera e i simboli della sua terra, i riti, gli uomini e le donne, l’olivo e il fico, il romanico e il trullo, la siccità, le vigne, il sole e i colori…”. Arnaldo è stato un suo grande ammiratore. E se fosse ancora tra noi, illustrerebbe molto bene il padre a questi due rampolli, che vogliono conoscerlo oltre i confini dei loro rapporti personali con lui. 

Serata a casa Alto, la moglie Ada, l'amica Leda Caracciolo
Ed è per questo che Diego giorni fa ha acceso i suoi fari nella bottega del grande ceramista Giuseppe Rossicone, in via Chiossetto 10, a Milano, una via silenziosa, tranquilla, riposante, che svirgola verso il Palazzo di Giustizia, nel pieno centro di Milano; a due passi dal bar Taveggia, un locale ricco di storia e di cristalli. Diego ha esplorato i vari locali, tutti piccolissimi, pieni di piatti, sculture, lampade, due grosse sfere decorate una da Ernesto Treccani, l’altra da Ibrahim Kodra, quindi ha piazzato i cavalletti e ha acceso l’obiettivo su Rossicone. “Fu Franco Presicci a farmi conoscere tuo padre, dopo avermene parlato a lungo. Ma io avevo già visto alcune sue opere, che mi erano piaciute. Quando Filippo mi espresse il desiderio di fare dei piatti con me, accettai subito. Capii che era una persona riservata, attenta, rispettosa; un pignolo, un precisino, che curava i minimi particolari: non gli sfuggiva. Era di poche parole, colto, informato. Se non ricordo male, insegnava in una scuola. Me lo disse rispondendo a una mia domanda. Ho un ottimo ricordo di lui. E so che conosceva tanta gente, in vari ambienti”. 

Giuseppe Rossicone

Poi Diego è tornato a visitare ogni angolo della bottega, ha aperto i due forni già tiepidi, ha ripreso le opere che contenevano; ha letto un paio di articoli, tra cui uno del critico Carlo Franza: “Solo un artista, un creativo, e un imprenditore d’arte come Giuseppe Rossicone poteva dare vita a un laboratorio, o meglio ad un’officina della ceramica, a Milano, in via Chiossetto, fin dagli anni storici del dopoguerra, ovvero negli anni in cui Milano era tutta un fermento, quella della grande Brera, come la significò Franco Russoli, che per tutti gli artisti d’Italia e del mondo diventava un mito da vivere intensamente. Da quegli anni Rossicone ha dato vita a un centro singolarissimo, e che con quello dei Manzotti ad Albisola si pome come uno dei punti-chiave della ceramica artistica contemporanea…”. Curioso, avido di conoscenza, Diego Alto, che tra l’altro maneggia i suoi attrezzi da fotografo di livello e immortala i suoi soggetti con notevole senso estetico, ha voluto ”ispezionare” anche il ceramista, nato a Scanno, L’Aquila, nel ’33 come Filippo, vinse da giovane il premio Gualdo Tadino, venne a Milano e fece la sua prima mostra bel ’61 alla Villa Reale di Monza. 

Diego Alto fa il video a Rossicone
Era già calato il buio quando siamo usciti da quella bottega storica che ha avuto a che fare con il Ghota dell’arte non solo italiana, da Giuseppe Migneco ad Arnaldo Pomodoro, da Purificato a Gentilini, Chia, Guy Harloff, Pozzi, Cassinari, Cantatore... Adesso si appresta a continuare il cammino alla ricerca di altre personalità in grado di parlargli del padre; come il giornalista Costantino Muscau, che faceva parte della comitiva che si riuniva in via Arganin, da noi, o in via Calamatta, dove Alto allora abitava; come Curzia Ferrari e Sebastiano Grasso, critico d’arte del “Corsera”, presente con sue poesie in una cartella di litografie del pittore barese. Tante personalità frequentate dal vichingo sono scomparse ormai da tempo. 
Giuseppe Rossicone



Non ci sono più Carlo Bo, Giuseppe Giacovazzo, Arnaldo Giuliani, Antonio Velluto, giornalista dirigente della Rai di corso Sempione, che qualcuno chiamava “il principe” per i modi garbati e i gesti eleganti; Franco Marasca, titolare e direttore de “Il Rosone”, sorto a Milano e trasmigrato a Foggia; Mario Dilio, saggista; Raffaele De Grada, critico e docente a Brera; Vittore Fiore, giornalista e poeta, figlio del grande Tommaso, docente all’Università di Bari e meridionalista (“Un popolo di formiche”, vincitore nel ’52 del Premio Viareggio; “I formiconi di Puglia”…); Giuseppe Giacovazzo, che in “Paese Vivrai” scrisse di Filippo: ”Ti racconto – dopo quasi una vita – perché una lontana domenica ti trascinai dalla città a vedere come era fatto il mio paese. Tu ora lo dipingi. Io lo riscopro nella tua pittura…”. E non c’è più neppure Peppino Strippoli, l’apulo-milanese che portò i sapori della Puglia a Milano e aprì il supermercato del vino a Saronno, oltre a parecchi ristoranti (uno di questi, “ndèrr’a la lanze”)… Ma andando a Figazzano (in provincia di Brindisi), dove la famiglia ha un palazzetto, potrà fare un salto a Bari a intervistare Pietro Marino de “La Gazzetta del Mezzogiorno” (“Tra Puglia e Milano, Alto ha trovato la giusta misura di un rapporto umano e artistico. La sua estate pugliese è divenuta sempre più lunga e continua, una presenza recuperata anche di lavoro e non solo di incontri …”: ottobre ‘85); e a Martina Franca Domenico Blasi, direttore di “Umanesimo della Pietra”. Anche a Locorotondo, paese-bomboniera dal centro storico lindo e ricco di fiori sui balconi e sulle porte delle case, c’è chi ricorda Filippo e ne ha nostalgia. Giorgio e Diego ne hanno di lavoro da fare.