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mercoledì 31 maggio 2017

A colloquio con il pugliese Salvatore Seccia





IL BARBIERE DI GALLERIA MAZZINI

 

NON DIMENTICA NICOLO’ CAROSIO

 

 

Ebbe tra i suoi clienti anche

 

Cesare Maldini, Ivanhoe Fraizzoli,

 

Gino Bramieri e altri nomi noti

 

non soltanto dello sport e dello

 

spettacolo.

 

Seduto a un tavolo del bar che stava di fronte

 

alla sua barbieria, la “Voce”, il mito: Carosio,

 

indicava ai passanti il figaro che vi lavorava.

 









 
 Franco Presicci


“Signore e signori, è Nicolò Carosio che vi parla”... Bisogna tornare agli anni Sessanta-Settanta per ritrovare il radiocronista considerato la prima voce, il cantore del calcio italiano.
Ricordo filatelico di Nicolò Carosio
Teneva incollati i tifosi alle sedie, mentre lui descriveva i gol, i tuffi, le parate spettacolari, le goleade, le cannonate, i rigori, le geometrie inventate sul campo dai campioni, come fosse non allo stadio, ma su un palcoscenico di fronte a una platea affollatissima. E quando la palla bucava la porta avversaria e lui urlava “Reteee!” (e non “goal”, per l’allergia del regime alle parole straniere), si accendeva la frenesia anche in chi attraversava la strada con il pensiero altrove. Ha raccontato i “derby”, i Mondiali, le finali…, esaltandosi ed esaltando. Era la “Voce” con la lettera maiuscola. Un mito. Padre funzionario della dogana, madre pianista inglese, laurea a Venezia in legge, debutto a Bologna nel ’33, Carosio non fu tra le vittime della tragedia di Superga (4 maggio ’49: l’aereo del grande Torino caduto al ritorno da Lisbona), perché era rimasto a casa per il battesimo del figlio.
Galleria Mazzini
Era popolarissimo anche fra chi non seguiva il “foot-ball”. Continuò ad esserlo con l’avvento della televisione, con il suo stile originale, ricco di accenti e di colori che toccava direttamente il cuore. Fu una calamita, fino al ’71, quando l’età della pensione lo sottrasse alla scena. La sua ugola limpida e secca, quelle sue grandi interpretazioni da mattatore erano attese con ansia come un avvenimento teatrale. Ci metteva l’anima, il grande commentatore, s’immedesimava, si sentiva sul campo, tra i giocatori, li incalzava, travolgeva chi stava con l’orecchio teso. Nella vita privata era un buontempone. A volte si sedeva a un tavolo del bar che stava quasi all’ingresso della Galleria Mazzini, a due passi dal Duomo e da piazza Missori, e sorseggiava una bibita, esortando i passanti a farsi tagliare i capelli o la barba da Salvatore Seccia, oggi 69 anni, titolare del salone di fronte. “Come tosatore non ha uguali, è un maestro”, commentava. Qualcuno lo riconosceva e si fermava a fargli domande sui suoi entusiasmanti racconti al microfono della Rai; altri lo salutavano con devozione e passavano oltre. Era un bell’uomo, forse orgoglioso dei suoi baffetti alla William Powell. Lo racconta Salvatore, barbitonsore di classe, appassionato di calcio e suo estimatore.

Salvatore Seccia al lavoro
Me lo descriveva mentre metteva ordine nella capigliatura del prefetto Francesco Colucci, per la verità non tanto folta, ed era in attesa dell’arrivo di Cesare Maldini, che parlava poco e ascoltava molto. Della “Voce”, riferendosi non a Frank Sinatra, ma a Carosio, parlerebbe per ore; ma anche di un altro suo cliente degli anni passati: Ivanhoe Fraizzoli, titolare di una fabbrica di divise militari ed alberghiere, successore, nel ’68, del petroliere Angelo Moratti alla presidenza dell’Inter. Non da oggi somigliano ai salotti, le barbierie: luoghi in cui in attesa del loro turno gli avventori alleggeriscono la noia parlando del più e del meno: delle partite già giocate e di quelle in programma; oltreché dell’attività del governo, dell’assillo delle tasse, dei fatti che ci tengono con il fiato sospeso, degli amori e dei loro tramonti nelle famiglie patrizie. Insomma, sono “simposi senza vino”, come vennero a suo tempo definite. Da Salvatore capita di sentirti chiedere a bruciapelo: “Ricordi Nicolò Carosio in Fancia-Italia nel ’58?”. E se non si è appassionati di calcio; se non si conoscono i virtuosismi degli assi, i primati dello sport, si prova imbarazzo, come il tale che, avendo frequentato sì e no la quinta elementare, si senta imprigionato da un saputo, magari finto, in una domanda sulla battaglia di Canne. 
Il salone di Seccia
Salvatore è un patito delle schermaglie calcistiche, ne conosce la storia e le storie, e di Carosio. “Lo sai che aveva una generosità quasi unica? Ha aiutato una nidiata di giornalisti, compreso il papà di un noto uomo politico che è anche scrittore raffinato” (il nome? “Mai farne anche in omaggio alla ‘privacy’”). Si faceva radere tutte le mattine. Era elegante, sempre in giacca e cravatta, espressione seria, quasi severa. Sulle poltrone girevoli di Salvatore Seccia in Galleria Mazzini si sono sedute parecchie personalità del mondo sportivo; e ancora adesso non sono pochi quelli che varcano la soglia della sua barbieria, dove si parla anche di Varenne, andato in pensione con la fama di “re indiscusso del trotto mondiale”; o dei pugni di Primo Carnera, un Sansone campione mondiale dei pesi massimi dal ’33 al ‘34. C’è tanto da imparare da Salvatore Seccia, che con amici e clienti vive l’attesa di un “derby” con la stessa emozione di uno sposo alla vigilia delle nozze. Lo sa anche Tito Stagno, il giornalista che fece la telecronaca dello sbarco del primo uomo (Armstrong) sulla luna (20 luglio ’69), commentato contemporaneamente da Ruggero Orlando da Houston; e lo sapeva Gino Bramieri, il grande attore comico affermatosi nella rivista con Macario. Entrambi affidarono a Salvatore la propria chioma.
Il Prefetto Colucci con Seccia
Ha preso per i capelli anche Carlo Sangalli, presidente dell’Unione Commercianti, i poliziotti Achille Serra, poi prefetto di Roma; Paolo Scarpis, questore di Milano, quindi prefetto di Parma; Lucio Carluccio, questore di Brescia e di altre città; il prefetto Francesco Colucci, tutti già pilastri di via Fatebenefratelli, come da commissari Vito Plantone, Mario Nardone, Mario Jovine, Enzo Caracciolo, il maresciallo Ferdinando Oscuri impegnati nella caccia a banditi di grosso calibro e a bande agguerrite e solidamente organizzate, come quelle “del cinese”, “della dolce vita”, “dei Tir”, “del lunedì” e via dicendo. “Salvatore – chiesi un giorno a Seccia mentre era intento a modellare il cespuglio di un signore con un paio di baffi alla Peppone (Gino Cervi), avversario di don Camillo (Fernandel, al secolo Fernand Joseph Desirè Contandin) –, di te non parli mai?”. “Io sono un umile barbiere, che devo dire?”. Scherza, è simpatico, un giocherellone. Diverte. Parla per paradossi, spara occhiate come fulmini, si esibisce in duelli verbali e fa il sornione. Chi usa con abilità pettine, forbici e rasoio svolge un mestiere d’arte, gli dico. E’ storia lunghissima, la vostra. Nell’antichità i tuoi colleghi andavano di porta in porta a offrire le loro prestazioni; in tempo di guerra anche a Milano esercitavano nei parchi con il cliente seduto sulle panchine; in Vietnam compiono l’operazione accosciati sul pavimento di fronte all’avventore nella stessa posizione; in Cina usano come poltrona il risciò…”. Facendo fremere il baffo alla Einstein, conclude: “Io ti ho già evocato Nicolò Carosio, che era, lui sì, un personaggio a tutto tondo. Mi appassiono soprattutto quando ne parlo lavorando sulla testa dei più giovani”. Salvatore è di Margherita di Savoia, il paese che signoreggia sull’Adriatico, sulla sinistra della foce dell’Ofanto (celebrato da Orazio e nominato da Virgilio), e odora di sale, iodio e bromo. Odori di farmacia, che partono dal III secolo avanti Cristo.

Via Mazzini
“Sono un pugliese doc e barbiere per caso”. Docente per alti meriti in un’importante scuola della categoria, non scelse deliberatamente il mestiere di figaro. “Il salone era aperto proprio davanti a casa nostra, e io ci andavo per fare il ragazzo-spazzola. Quando compii i sedici anni salii sul treno della speranza e approdai a Milano”. Dovendo guadagnarsi il pane, quasi istintivamente cercò una sala da barba, trovandola in via Fara, vicino al palazzo del Comune di via Melchiorre Gioia, dove di solito innalzavano il tendone i circhi di Liana e di Moira Orfei…, e scatenavano musiche e rumori i “luna-park”. Fatto il suo tirocinio, si trasferì in Galleria Mazzini. E la Puglia? “Penso molto a questa nostra terra luminosa, una meraviglia, un miracolo”. Si è tenuto la casa dei genitori non solo per andarci, ma anche per mandarci gli amici. “Come dimenticare la Puglia? La Puglia è parte di me”. Mi saluta con una beffa: “Scommetto che non hai ricordo dell’amichevole Italia-Cecoslovacchia allo stadio della Vittoria di Bari nel ’47. In campo Bagigalupo, Gabetto, Carapellese…”. Una domanda da “Lascia o raddoppia?”. Contro la malattia del calcio non è stato vaccinato.





mercoledì 24 maggio 2017

Il Festival presentato al Piccolo di Milano




LA SPLENDIDA MARTINA

 

AVVOLTA DAL BELCANTO

 


 

 

 

Escobar e Punzi

 

 

Il battesimo il 14 luglio, a Palazzo

 

 

Ducale, con l’ "Orlando Furioso",

 

 

di Antonio Vivaldi. Il I° luglio e il

 

 

4 agosto “Amore e Marte”, visioni

 

 

arte, immagini dalla Magna Grecia

 

 

al Rinascimento.













Franco Presicci



Per il settantesimo compleanno del Piccolo, fondato da Paolo Grassi, padre pugliese, e Giorgio Strehler, triestino, grande festa in via Rovello, il 14 maggio, la sera precedente la presentazione del Festival della Valle d‘Itria. 

Via Rovello
Il teatro fu inaugurato con “L’albergo dei poveri” di Massimo Gorki, regia dello stesso Strehler e attori Marcello Moretti (l’interprete di Arlecchino), Lilla Brignone, Lia Zoppelli, Gianni Santuccio, Salvo Randone, Mario Feliciani…, nel Palazzo Carmagnola, donato, alla fine del ‘400 da Ludovico il Moro alla propria amante Cecilia Gallerani. La via che vanta l’edificio, la Rovello, appunto, un passo da piazza Cordusio, e due dal Castello Sforzesco, era tranquilla, riservata; e nel tempo ha contenuto un po’ di tutto: granai, municipio (sino al 1861), dopolavoro, deposito d’armi, archivio civico, ufficio per la riscossione delle imposte, sede delle estrazioni del lotto, caserma della legione Muti … Nel 1515 divenne patrimonio della città; e dal ’47 ospita un simbolo, un capolavoro, un esempio ammirato nel mondo. Per l’intensa e importante attività scenica, sempre di altissimo livello. Echeggiavano ancora le note del genetliaco, quando il 15 ha avuto inizio la conferenza-stampa della rassegna martinese, dove il presidente Franco Punzi, che alla celebrazione aveva partecipato con i suoi collaboratori, ha detto che il “Piccolo” ha compiuto felicemente i suoi 70 anni; il Festival è arrivato ai 43, e anche in questa edizione propone un cartellone nutrito e allettante. E, consegnando a Sergio Escobar, che dirige quel tempio, una targa raffigurante l’Arco di Santo Stefano di Martina, ha aggiunto che la città dei trulli fa tra l’altro rivivere l’idea di teatro di Paolo Grassi, che fu tra l’altro sovrintendente della Scala e presidente della Rai. “Questa mattina qui c’è tutta la nostra cittadinanza attraverso lo ‘staff’ del Festival, che continua a lavorare sempre con maggiore impegno… La storia ci rende più forti, ma sentiamo la necessità di rinnovarci, e lo facciamo con un’attenzione particolare ai giovani, che domandano musica. Io sono deputato a questa responsabilità”.

Il prefetto Santioriello, Escobar, Punzi
Parlando come sempre a braccio, senza cedimenti all’enfasi e alla retorica, e con qualche battuta scherzosa, Punzi ha messo in evidenza le novità del 2017; ha accennato ai sacrifici e alle difficoltà, che tuttavia non inducono a far lievitare il costo del biglietto... “Martina ha portato il suo Festival in Europa; e il Festival ha fatto scoprire la bellezza della Valle d’Itria, i trulli, la luce e il calore della nostra città… Con la musica il Festival ha lanciato un messaggio di civiltà, di amicizia; ha rappresentato opere mai eseguite nei tempi odierni; ha lanciato talenti freschi”… Ha aggiunto che la 43.ma edizione è dedicata alla figura di Rodolfo Celletti, storico direttore artistico della rassegna, ricorrendo il centenario della sua nascita. “A lui si deve l’intuizione artistica su cui si basano ancora oggi le scelte di un Festival fedelmente impegnato in percorsi di ricerca e di approfondimento del Belcanto italiano”.

Santoriello,Patruno,Escobar,Punzi,Triola,Luisi
Gli verrà dedicato anche un convegno. Dopo un rapido intervento del prefetto Ferdinando Santoriello, commissario prefettizio di Martina, è arrivata una notizia inattesa e gioiosa. L’ha portata Aldo Patruno, direttore generale del Turismo e della Cultura della Regione Puglia: “Al ritorno da Milano Franco Punzi è atteso in Regione Puglia, a Bari, per concordare, con le altre sei fondazioni partecipate del territorio, la procedura negoziata per il programma artistico dei prossimi tre anni, con relativo finanziamento”. Sono esplosi gli applausi, accompagnati da commenti entusiastici del pubblico (critici, attori, registi, editori, melomani, giornalisti, semplici cittadini…). Poco prima Punzi aveva confidato che “sappiamo soffrire, dal punto di vista economico, ma abbiamo fiducia.

Escobar, Punzi, Triola
Siamo poveri nelle tasche, ma ricchi di spirito”. Le parole innovazione, ricerca, impegno, che al Festival hanno un valore sacro, sono tornate con Alberto Triola, che ha sottolineato come la rassegna sia fortemente identitaria, ma tesa verso il nuovo, senza dimenticare mai di dare sempre più visibilità agli artisti, che in seno al Festival vivono tra l’altro l’umanità dei rapporti. “Puntiamo dunque sui giovani. In questo cartellone ne compaiono molti: interpreti, registi... Il nostro è un teatro di grande qualità”. Il Festival - ha proseguito il direttore artistico – ha scritto pagine splendide, tra l’altro portando il suo messaggio dal Palazzo Ducale, chiuso, austero, possente, il luogo del potere, in ambienti aperti, estesi, come le masserie. Quella di quest’anno, nel momento in cui scriviamo, non è stata ancora decisa; e speriamo che si scelga la “Monti del Duca”, uno dei gioielli dell’architettura rurale crispianese, che, appartenuto ai duchi di Martina Franca Caracciolo-De Sangro, è un palcoscenico naturale (spettacolare il cortile), la cui data di nascita si colloca tra il XVI e il XVIII secolo.
Annese, Lenoci, Presicci
Breve il discorso del direttore musicale Fabio Luisi, che ha anche evocato le passeggiate giornaliere con il compianto maestro Celletti dal Park Hotel a piazza Roma. “Celletti mi ha fatto capire che cos’è un festival. Un festival è ricco d’iniziative, rende intellettualmente avidi, ci stupisce, ci sorprende, con proposte e idee sincere; mette alla prova le nuove leve; è un’occasione educativa, una sfida…”. Poi, rispondendo a una domanda di uno spettatore ha spiegato: “Per le opere inedite, che richiedono un’accurata, impegnativa, lunga ricerca anche di documenti, facciamo un lavoro di squadra certosino…“. Un lavoro apprezzato dagli intenditori, che lo seguono numerosi, provenendo da ogni parte del Paese e da diverse zone europee e persino dagli Stati Uniti e dal Giappone. Assistendo agli spettacoli del “Valle d’Itria”, nelle chiese, nei chiostri non soltanto di Martina, oltre che nel cortile dell’imponente Palazzo Ducale, eretto nella seconda metà del Seicento, si trascorrono ore esaltanti, rapiti dalla magia della musica, dall’intelligenza teatrale, dai virtuosismi degli interpreti, dalla fantasmagoria dei costumi, dalle scenografie… 

Il maestro dell'obiettivo Albano coglie le novità
Il battesimo a Palazzo Ducale il 14 luglio, con l’”Orlando Furioso”, Antonio Vivaldi, dramma in musica in tre atti, libretto di Orazio Braccioli, direttore d’orchestra Diego Fasolis, regia Fabio Ceresa (replica il 31). Si continua il 15, il 18, il 22 luglio e il 1° agosto, nel Chiostro di San Domenico, con “Altri canti d’amor”, Claudio Monteverdi; il 16, il 24, il 28 luglio “Le donne vendicate”, Nicolò Puccini, in scena in una masseria; il 19 e il 30 luglio, a Palazzo Ducale, con “Un giorno di regno”, Giuseppe Verdi, melodramma giocoso di Felice Romani; il 29 luglio, il 2 e il 4 agosto ancora a Palazzo Ducale con “Margherita d’Anjou”, Giacomo Meyerbeer, melodramma semiserio in due atti di Felice Romani; il 23, il 25 e il 27 luglio, nel Chiostro di San Domenico, “Gianni Schicchi”, Giacomo Puccini, con gli artisti dell’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti; il 26 luglio il Concerto dello Spirito, nella Basilica di San Martino; il 1° agosto il concerto “I Barrocchisti”, a Palazzo Ducale; il 3, concerto sinfonico, nello stesso edificio; il 24 luglio, Festival junior con “C’era una volta Gianni Schicchi”; e poi i “Concerti del sorbetto”; “Canta la notte” e altri momenti. Il 1° luglio e il 4 agosto “Oltre il Festival, Amore e Marte”: arte, immagini, visioni dalla Magna Grecia al Rinascimento.
Alla fine della mattinata, altra musica, “griffata” da Angelo Costantini: una tavolata piena di odori, colori e sapori della nostra terra: dalle mozzarelle ai salumi, ai formaggi, a ogni altro bendidio, comprese le friselle condite con pomodoro pachino, olio e sale. Il nostro famoso nettare, elogiato anche da Mario Soldati, ha fatto la sua parte superba, tra l’altro ricordando Guido Piovene, che, facendo colazione a Martina, bevve “uno squisito vino bianco secchissimo” e contemplò “il più bel barocco pugliese”. Alcuni, già sognando le note che in estate avvolgeranno questa città dalle origini incerte, ma ridente; le vie del centro storico, “qua e là con pendenze lievi come fossero corde tirate e allentate” (Cesare Brandi), i Palazzi patrizi, le “’nchiostre”…, al “Piccolo” hanno brindato al Festival della Valle d’Itria alzando i bicchieri. Altri hanno osservato che anche in un calice di bianco o di rosso può esserci una storia. In questi c’era il sole di Martina, tra l’altro culla di tanti uomini illustri.









giovedì 11 maggio 2017

Attilio Alfieri, burbero, polemico, gentiluomo




IL GRANDE PITTORE CHE AMAVA

IL ROSSO ACCESO DELLE ANGURIE

 


Opera di Attilio Alfieri

 

 

 

 
Attilio Alfieri

 

 

 

 

 

 

 

Con il suo carattere irritava i critici, che per un lungo tempo lo ignorarono,

 

  

 

“Sono sempre stato un libertario

e ho pagato un caro prezzo. 

Non mi pento, rifarei tutto quello

che ho fatto”.

 

Fu un anticipatore, la sua opera era “ricca di impeti e empiti

lirici”, come scrisse Franco Russoli.


 






Franco Presicci


Durante il mio percorso professionale ho incontrato tanti personaggi: da Enrico Maria Salerno a Enzo Tortora; da Tony Renis a Mike Bongiorno, a Pippo Baudo, a Memo Remigi; da Renato Guttuso a Domenico Cantatore; da Sandro Pertini al capo dell’FBI, William Webster (quest’ultimo nell’agosto dell’85 ad Assago, al convegno mondiale sulla criminalità organizzata). Del pittore Attilio Alfieri sono stato amico. Lo conobbi nel ’74. Una mattina andò nel laboratorio, in via Chiossetto 10, del ceramista Giuseppe Rossicone, per accordarsi su un lavoro da fare insieme, e lesse un articolo che avevo pubblicato sul “Giornale del Mezzogiorno” diretto da Paolo Cavallina, noto per aver condotto su Raidue “Chiamate Roma 3131”.
Rossicone nel suo laboratorio
La Torre Velasca
La pagina, incorniciata e appesa a una parete, gli piacque e chiede Peppino a presentarci. Alfieri era artista eccellente e persona generosa. Ma facile alle impennate; burbero, polemico e schietto. Non le mandava a dire a nessuno. Neppure ai critici più severi. Tanto che questi lo ignorarono per un lungo periodo. Rossicone mi raccontò che, sfornate le piastre raffiguranti i sette vizi capitali eseguite dal pittore, questi si inalberò perché il rosso non somigliava al cremisi delle angurie che il padre vendeva a Loreto. Quel colore era per lui un simbolo importante, evocativo del tempo trascorso nella sua città natale, dove da ragazzo aveva suonato il clarino nella banda. Sognando un’alba che si poteva godere soltanto a Milano. Non si raccontava volentieri, Attilio. Soprattutto con chi vedeva per la prima volta.
Tuttavia, mi fissò un appuntamento nel suo studio in via Pantano 17, nel capoluogo lombardo, dove viveva da anni, quasi sotto la Torre Velasca; e siccome lo avevo anticipato di un quarto d’ora, impiegai una quindicina di minuti osservando un restauratore che spalmava la porporina su una cornice antica. Attilio arrivò con il suo passo felpato e mi sorprese nel cortile riposante, immerso in un’aria di pace che mi ricordava il chiostro dei cappuccini di San Severo. Mi regalò un sorriso, aprì la grande porta di legno del suo studio, al pianoterra, uno stanzone illuminato da una finestra con le sbarre. Mi indicò una sedia, che cigolò sotto il mio peso, e mi trasferì su una brandina camuffata da divano. Risolse l’alternarsi del “tu” e del “lei” in maniera sbrigativa: “Parliamoci da vecchi amici, senza formalità”, mentre guardavo tre o quattro carote e altrettante cipolle che essiccavano su un tavolino. “Naturalmente non devo mangiarle. Devo dipingerle in quello stato. Ecco così”, mi disse. E mi mostrò una natura morta che cedeva alle seduzioni del colore in un’esaltazione lirica. Aprì una cartella e senza dire una parola sfogliò una serie di acquerelli molto suggestivi eseguiti sulle facciate bianche di vecchi calendari. Prevalentemente paesaggi “marchigiani”, tra cui il Conero.
Attilio Alfieri - 1° a destra
“Vuoi ascoltare la narrazione della mia attività professionale? Bene, preparati a far tardi”. Si alzò, andò alla scrivania, aprì un cassetto, facendo emergere il ritratto della madre. “Mi è molto caro, lo tengo come una reliquia. L’ho fatto tantissimi anni fa”. E si accinse a rivelarmi il proprio ordito biografico; la sua crescita difficile, come l’aveva definita Domenico Cara. Partì dai manifesti per la Fiera di Milano da lui realizzati nel ’33-’34 e oltre; del suo rifiuto di tutti gli “ismi” che affollavano il mondo dell’arte (“Non ho niente a che fare con questa roba: io sono libero, indipendente, se vuoi ribelle, contestatore”) e rivendicava le sue “anticipazioni attribuite ad altri”. E. Persico scriveva che Alfieri “è certamente da annoverare tra i più significativi pittori d’avanguardia, anticipatore di quella rottura ideologico-formale del ‘900. E. Barilli: “Credo che Argan abbia centrato molto bene il problema, lamentando che molte sue cose non siano state conosciute o meditate con la giusta attenzione, al momento buono”. Nei primi tempi, quando abitava in via Solferino, lavorava di notte (di giorno rinfrescava stanze). Gli piaceva stare davanti al cavalletto o seduto alla scrivania impegnato nei suoi disegni, mentre la città dormiva in un silenzio squarciato dalle sirene delle ambulanze, dei carabinieri della polizia o dei pompieri. Respirava la notte, che per lui aveva un fascino indefinibile.
Altra opera di Attilio Alfieri
La notte guidava la sua mano di artista, complice della sua ispirazione. Anche i bozzetti per manifesti nacquero di notte: più immagini accostate, squarci, brandelli di realtà circoscritti qua e là da segni, geroglifici…Manifesti e pannelli anche per il Lido di Venezia, datati 1939. E tele con fiori; spezzoni di paesaggi vibranti di luce: case attorniate da prati brillanti, colline modulate con tocco armonioso...: una trama pittorica che induce alla contemplazione. Nel ’43 R. Toselli recensì una personale di Alfieri alla Galleria Barbaroux titolando “Un uomo solo”. Il pittore si ispirava ad oggetti sparsi per strada, che gli procuravano amarezza: erano un indizio di abbandono. “Sono sempre stato un libertario - ripetè - E ho pagato un prezzo per la mia caparbietà a non sottostare a questo e a quello; per la mia volontà insopprimibile di seguire soltanto l’istinto”. Ma un raggio di sole forò improvvisamente la coltre d’indifferenza dei più. E Franco Russoli chiosò: “Da qualche anno Alfieri s’impone finalmente alla fama e all’apprezzamento che la sua opera, sempre ricca di empiti e impeti lirici, merita largamente”. L’esilio di Attilio Alfieri, antesignano e lottatore, si era concluso. Tutti gli “investigatori”, i giudici della tavolozza lo cercavano, lo analizzavano, lo interpretavano, lo celebravano. Quando conversai con lui per la prima volta era il luglio del ’77. Attilio aveva più di 70 anni. Era energico, scattante, determinato, sempre presente alle mostre, personali e collettive, a cominciare da quella di Renzo Cortina: il libraio di piazza Cavour che in vetrina, tra i “best seller”, esponeva le opere dell’amico Dino Buzzati (di Renzo, sceso a Milano da Belluno, ricordo il suo libro “Horca miseria”, in cui si ritrovavano tanti nomi noti dell’industria, del giornalismo, dell’arte, dell’editoria di Milano e non).
Attilio Alfieri nel cortile di via Pantano
Basso, fiero, occhi vivaci, fronte spianata, quasi calvo, spesso Alfieri si aggirava, con gli amici Birolli, Del Bon, nelle mostre alla Bergamini, a Palazzo Reale, alla Permanente. Ma non a tutti i premi che gli venivano assegnati, tra cui uno a Ferrara; un altro, nel ’76 (“La Ginestra d’oro del Conero”), e altri ancora, tutti prestigiosi. Il Comune di Dozza, in provincia di Bologna, lo invitò alla Biennale del “Muro dipinto”, e vi partecipò con entusiasmo. Mi confidò le fatiche affrontate, i sacrifici, le sofferenze, le incomprensioni… senza malinconie. “Se rinascessi rifarei tutto quello che ho fatto, senza mutare una virgola”. E aggiunse che il suo nome lo aveva scritto in grande nel libro dell’arte. In una ponderosa antologia della Mostra “Gli Anni Trenta, arte e cultura in Italia”, voluta dal Comune di Milano nell’80, eccolo con alcuni suoi lavori e una sintesi della sua storia: la sua partecipazione nel 1933 alla Triennale di Milano con opere astratte di notevole interesse; alla Biennale di Venezia; alla Quadriennale di Roma, New York, Amsterdam…alla Mostra universale di Parigi nel ’37… Un “curriculum” lungo e ricco. Mi regalò il catalogo che gli aveva pubblicato Cortina e volle scrivermi una dedica: “Non sei un critico, ma sei riuscito a penetrare nella mia anima e nella mia arte”. Non era da lui esprimersi in quel modo. Ogni tanto con Rossicone ricordiamo quegli anni e le figure di Remo Brindisi, Gianni Dova, Giuliano Adonai, Elvio Becheroni, Ibrahim Kodra, Ernesto Treccani, Arnaldo Pomodoro, Salvatore Fiume… Domenico Cantatore, al quale Giuseppe Giacovazzo, nel ‘76, dedicò il primo documentario a colori della televisione. All’anteprima, nella sede di corso Sempione, c’era anche Filippo Alto, che dell’autore del filmato era amico dai tempi dell’oratorio. E c’erano Mario Azzella, giornalista e documentarista della stessa Rai, e Rossicone, che di Alfieri dice: “Era duro, imprevedibile… un’espressione austera… raramente lasciava lampeggiare un sorriso… ma era un grande pittore e un galantuomo. Ha fatto cose memorabili”…. Se ne andò nei primi anni 90.









mercoledì 10 maggio 2017

A 9 anni cominciò a imparare il mestiere



NICOLA TROCCOLI: UNA VITA

IN CABINA DI PROIEZIONE




Esercitò a Taranto, la sua città natale,

Troccoli da giovane in cabina

continuando poi a Milano.

 

 

Ricorda le scene dei film di Totò, di Ridolini, di Tom Mix;

 

gli attori che ha conosciuto durante il suo lavoro;

 

la barzelletta che raccontò al principe Antonio De Curtis,

 

il “ciao” cordiale di Anna Magnani,

 

la sua amicizia con Walter Chiari e anche i dialoghi di “Nuovo Cinema Paradiso”.









Franco Presicci


C’è chi l’ha visto due e anche tre volte, “Nuovo Cinema Paradiso”, scritto e diretto da Giuseppe Tornatore. Così bello che nel 1989 vinse il “Grand Prix Speciale” della Critica al Festival di Cannes e l’Oscar per il miglior film straniero. “Mi piacque e mi commosse”, confida Nicola Troccoli, che cominciò a bazzicare le cabine di proiezione quando aveva soltanto 9 anni. Proprio come Salvatore Di Vita, il ragazzino siciliano che si acquattava tra l’amplificatore Dolby e l’avvolgiflm e rubava il mestiere ad Alfredo, il proiezionista. Lo ricordi, Nicola? “Certo. Tagliava i contenuti (baci e abbracci) indicati dal parroco, che li riteneva sconvenienti, e li nascondeva a casa sotto il letto. Una sera Alfredo per gioco dirottò la proiezione dalla sala alla piazza; e mentre le immagini scorrevano sulle facciate degli stabili scoppiò un incendio e il cinema s’incenerì. Poi venne ricostruito. A questo pensava Salvatore al suo ritorno in paese per partecipare ai funerali di Alfredo. Erano passati 30 anni e lui viveva a Roma, dove era diventato un regista apprezzato”.

Troccoli controlla la macchina
Nicola Troccoli, cineoperatore per una vita, ha un’ottima memoria, e ripete non solo frammenti di dialoghi tra Salvatore e Alfredo, ma frasi di Clark Gable in “Via col Vento” e di Alberto Sordi in “Polvere di stelle”…; e descrive i “vip” che assistevano alle anteprime importanti. “Ho avuto anche l’occasione di conoscere attori famosi. Totò, per esempio”. Al principe de Curtis spiattellò una barzelletta e si prese una tiratina d’orecchi, perché raccontando aveva sorriso. “Il finale deve essere una sorpresa, tu lo hai anticipato. E subito dopo: “Quanto pesa un cretino?”. Non lo so”. “E allora vatti a pesare”. Troccoli ci rimase un po’ male, e Totò, mettendogli una mano sulla spalla, lo rincuorò: “Ti stimo molto. Ho voluto sono verificare l’effetto della battuta”. E ne provò subito un’altra: “Signori si nasce e io lo nacqui”, che inserì in un film come la prima.
Taranto-Lampare nel Mar Piccolo



“Sono nato a Taranto in via Anfiteatro (da un lato potevo vedere la chiesa di San Francesco; dall’altro il Palazzo del Governo); e a Taranto cominciai l’attività, con amore. Sentimento condiviso da tanti miei parenti: fratello, cugini, zii…tutti proiezionisti. Poi mi trasferii a Milano, città che adoro. Ci arrivai nel ’58. E fui presto arruolato in un’impresa di pulizie. Successivamente all’Alemagna come autista addetto alla consegna a domicilio dei panettoni. Il mio obiettivo  però era la cabina, un luogo magico, un sogno. Lo realizzai nel ’60, entrando in piazza Prealpi al Donizetti, poi demolito per far posto a un parcheggio; e al Sempione”. Da lì alla Rai come assistente di studio, ma fu di nuovo rapito dal canto della sirena: ed eccolo in via Monte Nero, al Colosseo. Il titolare era l’ingegner Gennaro Rota, presidente degli industriali lombardi e “talent scout. Fu lui ad aprire la strada a Walter Chiari. “Dal Colosseo all’Alcione, dove fu inaugurata la seconda fase del cinerama, battezzato al Manzoni e all’Arti, quest’ultimo poi riservato ai bambini, con i cartoni animati, soprattutto quelli di Walt Disney. Sono stato anche al Durini, al Mediolanum dell’ingegner Pietro Macellari, tra l’altro autore di un libro per la nostra categoria”.
Troccoli in cabina di proiezione
Nicola Troccoli, 85 anni, ripercorre la sua carriera senza interrompersi, tenendo in mano una cartella scura gonfia di fotografie. Senza attendere la domanda cita tante scene che ha visto “dallo spioncino posto di fianco alla finestrella di proiezione. Dovevo guardarle per regolare il suono, la luminosità, l’inquadratura... Erano tanti i compiti dell’operatore: il montaggio, che doveva essere perfetto, delle pizze sulla bobina; il riavvolgimento…Oggi il mestiere è automatico, computerizzato: si regolano i vari programmi del computer per l’intero spettacolo e al resto provvede il ‘timer’”. Le prime pellicole che ha proiettato sono state quelle di Ridolini, tutte quelle di Totò, che riempivano le platee costringendo una siepe umana a rimanere in piedi; di Tom Mix, la “star” del genere western all’epoca del muto (avviò la serie nel 1909 con “The cowboy millionaire” e passò il testimone a John Wayne). “Alcuni attori, tra cui l’amico Walter Chiari, Christian De Sica con il figlio, Massimo Boldi, venivano a salutarmi; e una sera Anna Magnani, che assisteva a tutte le anteprime dei suoi films, passando davanti alla mia postazione, mi lanciò un ‘ciao’ molto cordiale”.
Troccoli in poltrona
Al cinema Manzoni chiacchierò con Aldo Fabrizi, persona affabile che io conobbi a Salice Terme nel ’65, quando gli assegnarono un premio prestigioso applaudito anche da un effervescente, simpaticissimo Enzo Jannacci. Non sono mancati, non per sua colpa, gli incidenti. “All’Alcione, con un nutrito numero di rappresentanti delle istituzioni e di nomi famosi del mondo dello spettacolo, tra i quali Corrado, stavamo proiettando ‘Gran Prix’, che durava circa tre ore, quando l’ingegnere che aveva montato la cabina del cinerama si accorse che si era giunti quasi alla fine della proiezione dopo solo due ore, e venne a darci l’ordine di bloccare tutto. Era stata saltata una pizza. Corrado spiegò l’errore al pubblico e riprendemmo daccapo, finendo a notte inoltrata”. Gli è capitato anche un incendio, come in “Nuovo Cinema Paradiso”. “Fu durante la proiezione del film ‘La famiglia Passaguai’ con Aldo Fabrizi, Ave Ninchi e Peppino De Filippo. Nonostante la paura, riuscii a spegnere il focolaio, provocato dalla celluloide”. Nicola Troccoli, comunicativo, amante del dettaglio, fonte preziosa, inesauribile di notizie e curiosità, è andato in pensione nel 2001, ma per un certo periodo ha continuato a frequentare come volontario alcune sale parrocchiali. La passione fa fatica a spegnersi. Non conosce età.
Troccoli si riposa
In Nicola la si coglie appena introduce il discorso; e nei giudizi che dà anche dell’opera di Tornatore, degli interpreti, da Plilippe Noiret a Leo Gullotta, a Enzo Cannavale…Il film, cinque premi della British Accademy, “rende molto bene l’idea dell’impegno in cabina di proiezione”. Aggiunge che per gli anziani di oggi le storie di Tom Mix sono indimenticabili; e che molti giovani rivedono volentieri ”Totò cerca casa”, “Totò a colori”, “Totò, Peppino e i fuorilegge”, “Totò, Peppino e…la malafemmina”, “Totò story”, “Totò, Peppino e …la dolce vita”… Il nostro incontro sta per concludersi e Troccoli parla di Milano, “dove una volta c’era più ordine, più discrezione, più educazione, più rispetto. Senza togliere nulla alla bellezza della città. Non sono d’accordo con chi la nega, probabilmente perché non la conosce o la conosce poco: non ha mai visitato i cortili, i giardini pensili, il Liberty di certi palazzi come quelli di corso Venezia, certe vie, come la Bigli, la Montenapoleone, la Morone; certe piazze, come la Belgioioso…Un mio desiderio?”.
Taranto Mar Piccolo
Un viaggio non alle Maldive o a Santo Domingo; ma sul Naviglio Grande, le cui acque fluiscono tra cascine, castelli, chiese, ville, grandi spazi verdi, piste ciclabili. Delizioso, questo canale, che succhia dal grande fiume azzurro: il Ticino. Nicola non dimentica Taranto, recentemente decantata su Rai Uno da Roberto Gervaso, scrittore e giornalista (ha tra l’altro scritto alcuni volumi della “Storia d’Italia” con Montanelli), affascinato dai suoi tramonti, “che sono i più belli del mondo”. Nicola si emoziona al pensiero dei due mari, del Castello, del ponte girevole, delle lampàre che si cullano a poca distanza dalla dogana; dell’allevamento delle cozze e anche dei vecchi cinema: quelli ormai chiusi (il “Rex”, l’”Odeon”, il “Paisiello”…), e quelli ancora attivi, come l’”Orfeo”, che risuona delle voci di Wanda Osiris, Eduardo, Emma Gramatica, Elsa Merlini, Paolo Carlini, Ernesto Calindri, Alighiero Noschese... Ha nostalgia della Sem, di via D’aquino, del lungomare, della Rotonda, della fontana di piazza Ebalia, della Villa Peripato. E onora il proprio dialetto. Un tarantino doc che non rinnega le proprie origini, come a Milano fanno tanti pugliesi, che imparano a dire “ghe pensi mi” per camuffarsi.









mercoledì 3 maggio 2017

Giuseppe Caleri, maestro dell'arte tipografica







CONSERVA COME UNA RELIQUIA

LA SUA VECCHIA TIPOGRAFIA



Giuseppe Caleri con il figlio Alberto

 

Aveva 13 anni quando entrò per la prima volta

in un'officina, alla Bovisa. Venne  poi arruolato

dal famoso Luigi Maestri.

 

 

Ha realizzato opere

molto importanti e

prestigiose, tra le quali

"La Divina Commedia"

illustrata

da Guttuso, Dova, Crippa.

 

 

Oggi ha un suo stabilimento

 a Corsico,

ai confini di Milano,

dove lavora con il figlio Alberto.

 

 

 

 

Franco Presicci



E’ un maestro, un virtuoso dell’arte della stampa. Un tipografo, un artista, con una prestigiosa vita professionale. Allevato sin da ragazzo tra setolini e balestre, affinato in officine dai nomi prestigiosi, Giuseppe Caleri ha anche una notevole dimestichezza con le piante.

Giuseppe Caleri
Le coltiva su un pezzo di terra che si estende di fianco al suo regno: un capannone con tante macchine moderne e, in un angolo ben tenuto, l’armamentario di una volta, dalla cassettiera al telaio.
Qualcuno lo vuole somigliante ad Errol Flynn, l’attore irlandese che nel ’35 esordì con “Capitan Blood”. Ha 72 anni, un sorriso arioso, una parlantina ricca di toni, bassi, alti, accesi a seconda dell’argomento o del suo umore, passo da maratoneta, battute di spirito argute, sempre garbate. Se si va nel suo stabilimento verso mezzogiorno, si resta imprigionati nella sua cucina, seduti al tavolo fumante di piatti da lui confezionati con l’abilità di uno “chef”. E proprio in cucina parliamo, con frequenti interruzioni, perché il cuoco non sta mai fermo. Apre il frigorifero, stappa una bottiglia e sorveglia la pentola in cui bolle l’acqua per la pasta da scodellare sulle cozze affogate in un rosso delicato. Anche ai fornelli ha dunque talento, tanto che persino Edoardo Raspelli, critico di lunga militanza, severo e scrupoloso, apprezzerebbe il polpettone che è pronto per essere servito, accompagnato da un Primitivo di Manduria.

Caleri sulla pedana di una macchina
“Il peperoncino, manca il peperoncino”, esclama incalzando il figlio Alberto, che lo segue nel lavoro ed è ormai come il gregario che tallona il campione. Poi si alza di scatto: ha dimenticato l’insalata, “accipicchia la lattuga, stavo per raccoglierla, mi sono distratto”; e corre nell’orto, attraversando il vialetto fiancheggiato da piselli, melanzane, peperoni... “. Non sarai la copia di Errol Flynn, non sarai adatto a un film di cappa e spada”, gli dico quando ricompare, ma hai l’energia di un atleta.
“Dobbiamo parlare di fanfaluche o di cose più serie?”, risponde scherzando a sua volta. “No, della tipografia tradizionale che custodisci come un tesoro”. Infilza gli spaghetti, un lampo d’occhi e risponde: “Non la considero un reperto archeologico. Ci lavoro anche, di tanto in tanto, per appagare la nostalgia per gli inizi della mia carriera. Solo piccole cose”. E versa un sorso. Al termine del pranzo, non luculliano ma prelibato, ci conduce alla cassettiera, la apre, pesca i caratteri, compone il mio nome, lega con un elastico quei piccoli parallelepidi e me li porge. “Un ricordo della visita”. Dono gradito. I suoi occhi s’inumidiscono mentre rievoca il passato.
“Vedi questo telo? Lo vedi?”.
Lo solleva e sbuca la storica Pedalina, la macchina più usata nelle vecchie tipografie.
Caleri cura l'orto
Un paio di metri più avanti, la “Heidelberg Stella”, di fabbricazione tedesca, che ha almeno 130 anni. Il pensiero va all’epoca del piombo, quando anche nelle tipografie dei giornali gli addetti circolavano con il camice scuro, orgogliosi del mestiere che facevano. “Il piombo! E’ scomparso come tante altre cose”, sospira. “A partire dagli anni Settanta è stato gradualmente detronizzato, sconfitto dal progresso, dalle innovazioni tecnologiche. Quando c’era il piombo mi sentivo più creativo, avevo più libertà nell’accostamento dei caratteri, potevo realizzare una pagina perfetta, con spazi bianchi e interlinee armonizzati… Adesso il computer ha ristretto il campo della fantasia…”. Mi invita nel suo ufficio e mi mostra un libro da lui eseguito in occasione di una visita di Giovanni Leone all’ateneo di Bari, in cui il Presidente era stato docente dal ’40 al ’47. “Se si compisse un miracolo e Johann Gutemberg, trovandosi a transitare da queste parti in un giorno di pioggia, cercasse riparo nella tua officina, rimarrebbe frastornato da tutti questi macchinari all’avanguardia, ma ti sarebbe grato per la fedeltà e per la passione da te dimostrate conservando questo pezzo di mondo antico”.

Giuseppe Caleri alla cassettiera
“Già Gutemberg…la sua leggendaria Bibbia a 42 linee! Quasi lo rivedo prelevare le lettere dal cassetto e allinearle sul compositoio…”. E’ un uomo buono, generoso, intelligente, amante dell’arte, lavoratore infaticabile. Aveva 13 anni quando entrò per la prima volta in una tipografia alla Bovisa. Dopo aver imparato tutto quello che c’era da imparare, passò alle Arti Grafiche Rosignani, dove realizzò lavori di altissimo livello. Nel ’70 la sede emigrò a Pero e lui venne arruolato dal famoso Luigi Maestri, al quale nel ’63 il Comune, alla Terrazza Martini, dedicò un’esposizione comprendente la “Divina Commedia” illustrata da Dova, Crippa, Guttuso, ed eseguita con i sistemi di allora da Caleri e da due suoi colleghi in due anni. “Da Maestri stampavamo edizioni d’arte e anche altre opere, sempre raffinate, fra cui tutti i proverbi delle regioni e la cucina italiana di Gualtiero Marchesi”. Un giorno in sella a una motoretta regalatagli dal principale cadde e riportò la frattura di un polso. Glielo ingessarono, imponendogli il riposo.
Ma Peppino si liberò il pollice con il taglierino, si fece portare l’occorrente a casa e tenendo le pagine di piombo sulle reti del letto terminò “I Viaggi attorno all’Africa” in tre volumi.
Ma desiderava mettersi in proprio, e così con un compagno di lavoro aprì una bottega tipografica in uno scantinato a San Siro. Nell’80, eccolo nel suo edificio, in cui opera oggi con il figlio Alberto, bravo, ricco di idee, di iniziative, colto, diploma e università, appassionato della sua attività. Alle 7 ogni mattina è già al lavoro, in via De Gasperi a Corsico, ai confini di Milano. Ne esce la sera verso le 8, per correre dal figlio che lo aspetta per fargli vedere i compiti. Giuseppe Caleri è anche un viaggiatore. Tra le sue mète preferite la Sicilia e la Puglia, dove ha molti estimatori, come a Milano e dintorni. Nell’Isola è andato spesso, attirato dalla bellezza del paesaggio, e anche per far visita ad un amico, al quale dava una mano per sistemare l’orto. Lui sa tutto delle piante. Conosce le specie, le tecniche della potatura e dell’innesto, i tempi della semina, le malattie e i parassiti. Descrive la processionaria e il ragnetto rosso, la mosca mediterranea e i porcellini di terra con autentica competenza.
Giuseppe Caleri
Vecchia tipografia
Quando approda in Puglia va a visitare gli ulivi, a Ostuni, Savelletri, Maruggio, soprattutto quelli che sembrano scolpiti dalla mano di un artista consacrato: i tronchi come zampe di efefante o colonne tortili o caverne…Monumenti, capolavori della natura. Secolari, testimoni di epoche lontane. Albero sacro. A Fasano, nei pressi del vecchio stabilimento della casa editrice Schena, un ulivo è genuflesso come in preghiera. “Mi affascina, l’ulivo” - confida Giuseppe - lo rispetto. E’ simbolo di pace. Era un ramoscello d’ulivo quello che portò la colomba a Noè per annunciare la fine del diluvio universale”. Lo stimolo a catturare immagini di queste meraviglie, e di raccoglierle in un libro. “Potrei farlo, mi piacerebbe. Ma occorre avere il tempo”. E gli ricordo il periodico a cui dette vita tanti anni fa, con un paio di pagine dedicate a protagonisti della tavolozza, da Ibrahim Kodra, l’estroso albanese che attraversò oltre settant’anni di storia milanese, a Ernesto Treccani. “Ero giovane, tanta acqua è passata sotto i ponti”. Dagli scaffali prende alcuni libri che ha stampato negli anni e li sfoglia. Ogni libro un atto del cuore. Poi mi accompagna a dare un ultimo sguardo al rullo inchiostratore, alla tirabozze, alla taglierina…. “Ho voluto trattenere le attrezzature delle mie prime esperienze per non cancellare una parte di me. Mi sono modernizzato, ma poi mi ritrovo sempre qui tra queste sopravvivenze. Che emozione quando metto le mani sui caratteri mobili… Se un giorno, per ragioni di spazio, fossi costretto a rimuovere questa ricchezza, lo farei dopo aver trovato un luogo degno in cui entrare a piedi nudi”. Alberto è pronto a spegnere le luci. Si è fatto tardi. Fuori è calato il buio; il fischio prolungato di un treno che, partito dalla stazione di San Cristoforo, al Giambellino, sferraglia verso Mortara, rompe il silenzio. La giornata con Giuseppe Caleri si è conclusa. Ammiriamo il fico che signoreggia sul piazzale; la pergola che, inarcata tra un cachi e un albicocco, s’ingravida di grappoli quando è tempo, e ripara dal sole, in piena estate, il principe dei tipografi mentre si appisola dopo il pranzo; e promettiamo di tornare. Non per un piatto di spaghettoni con le cozze e un polpettone, ma anche per la tranquillità di questo spazio attaccato a Milano.