Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 26 maggio 2021

Quando frequentavo la chiesa di San Domenico

 

 Intervista di Franco Presicci a Ernesto Calindri

UNA CAPPELLA ADATTATA A TEATRO

PER UNA DECINA DI BRAVI RAGAZZI

 

Tutto cominciò il giorno in cui don

Stefano Ragusa, il parroco, mi

chiese di realizzare il presepe

vicino all’altare.

Dipingevo sulle pareti

dell’”oratorio” i personaggi

di Topolino e recitavo.

 

 

Franco Presicci

Dei miei anni tarantini a volte ho tanta nostalgia. Confesso che spesso ripenso agli amici, alcuni dei quali non ci sono più: Vincenzo Petrocelli, caporedattore al “Corriere del Giorno”; Piero Mandrillo, grande intellettuale; Gino Gattinari, che faceva il medico e aveva una solida cultura umanistica; Giacinto Peluso, scrittore che ha fatto conoscere Taranto e le sue tradizioni e i personaggi dei primi del ‘900 in tanti libri preziosi; Mario Ligonzo, che dal quotidiano della Bimare passò a “Il Corriere della Sera”… Ho ricordo anche dei luoghi che frequentavo di solito: la Chiesa di San Domenico, da dove il Giovedì Santo esce la processione della Madonna, i vicoli, “le strìttele”, le chiàzze, “’a renghière”, le “paranze”, gli urli dei pescatori all’arrivo del pesce, Vincenzo Micoli, che vendeva i frutti di mare “abbascie ‘a marine”… 

Chiesa di San Domenico - foto Antonio De Florio
Il parroco di “Sanemìnghe”, cioè San Domenico, don Stefano Ragusa, che andava e veniva da Martina Franca, la sua città natale, ed era amico di don Martino Calianno, canonico penitenziere molto noto e apprezzato nella città dei trulli. Una ventina di giorni prima di Natale di una vita fa don Stefano mi pregò di cercare una persona capace di fare il presepe tra il suo ufficio e il presbiterio; e gli dissi che, avendo visto tante volte mio padre farlo a casa mia, io stesso potevo subito mettermi all’opera. Accettò, dopo avermi chiesto quanto potesse costare il materiale necessario. Se aveva già le statuine, poco: la creta da sciogliere nell’acqua potevo procurarla senza spendere una lira; i rami di pino si potevano prendere a San Vito e così anche il muschio. Ci pensò su un po’, perché reticente ad alleggerire il portafoglio, e dopo qualche calcolo mentale si decise. Nel preventivo non c’erano un paio di lampadine, ma la provvidenza risolse il problema. 

Il risultato non fu deludente: la struttura aveva montagne innevate con la farina, sentieri sinuosi, discese, scalinate, anfratti, casette realizzate con il cartone, un ponte, una fontana, un recinto con animali, la grotta bene illuminata, i pastori disposti con criterio... Del resto avevo 16 anni e non si poteva pretendere di più. Don Stefano fu contento e mi mise a capo di un gruppo di giovani assidui alla parrocchia, che non disponeva di un oratorio. Ci riunivamo in un paio di locali vuoti, dove conversavamo, facevamo piccoli giochi e io mi divertivo a decorare le pareti con Topolino e altri protagonisti disneyani: facevo i modelli su carta da pacco, bucavo i contorni, ci spargevo la terra d’ombra, appoggiavo la carta al muro e strofinandola trasferivo sul bianco Gamba di legno, zio Paperone, Pippo, quindi passavo al colore. Naturalmente roba da dilettante. 

Poi, visto che ci sapevo fare e che alla parrocchia del Sacro Cuore, alla Tre Carrare, che non avevo abbandonato, mi cimentavo nel teatro, il prete adattò allo scopo un’ex cappella utilizzata come deposito, facendovi costruire il palco da un fedele, che tra l’altro dotò un piccolo locale attiguo di scalini che consentivano l’accesso al tavolato. Una volta stavamo per portare in scena una commedia in cui aveva una sua parte il diavolo interpretato da me e don Stefano, notato che avevo addosso un abito di carta crespa, fattomi da mia madre, mi si avvicinò preoccupato: “Sotto cos’hai? Se l’abito si strappa…”. “Non si strapperà, non è carta normale e io dovrò stare quasi immobile”. 

La cattedrale da un vicolo di Taranto vecchia
La commedia l’avevo scritta io prendendo un po’ di qua e un po’ di là; ma non lo sapeva nessuno. L’avevo confidato solo al sacrestano, soprannominato “’a caggiàne”, perché più che camminare volava. Ma lui non faceva caso a quel nomignolo, anche perché sapeva che l’accostamento con il gabbiano conteneva affetto e simpatia. Sapeva anche di non essere obiettivo: tutto ciò che accadeva lo addebitava a uno dei ragazzi, che si chiamava Sferra, e non al vero responsabile; così l’impertinente che la sera, quando, durante la funzione, lo vedeva afferrare la corda della campana, nel buio del vano, credendo d’impaurirlo, faceva un leggero sibilo con un fischietto o emetteva una voce cavernosa, come fosse un fantasma, la passava sempre liscia.
 
Quando andavo a “Saneminghe”, cioè due o tre volte la settimana, mi fermavo a guardare la porta del seminario (pensando alle vocazioni che si erano sparse nelle chiese); la donna seduta davanti alla sua botteguccia con accendisigari, madonne con la neve in una palla di vetro su un banchetto e pacchi di sigarette in una scatola di cartone della Birra Raffo, le vecchie case, il vicolo in discesa che portava alla bottega di “Cicce ‘u gnùre”, che vendeva le cozze e i frutti di mare, allora abbondanti anche sotto la vicina tettoia della dogana su banchi a scalini di legno con grossi piatti concavi in terracotta, dove “vònghele”, “nùce”, ”còzze pelòse” e “gnore”, cozzagnàchele, “iavatùne”… “ogne tànde sputàvene”. “’Nu tresòre”, di cui era ghiotto anche Piero Mandrillo, che frequentava una volta la settimana la pescheria di via Acclavio, a un passo da via D’Aquino. Poi cominciai a diradare i miei pellegrinaggi nella città vecchia, perchè avevo anche l’impegno della scuola e non potevo distrarmi troppo. 
 
Il ponte girevole aperto

Al borgo conoscevo tante persone. Per esempio il pugile Armando Vernaglione, che sul ring faceva faville, tanto che diventò campione nazionale (ricordo il suo incontro nel gennaio del ’57 con Giancarlo Garbelli). Abitava in via Giusti, di fronte allo stabile della signora Ida, che mi dava lezioni di matematica e un giorno si scandalizzò vedendomi con i pantaloni strappati e non credette che ero stato vittima di un cane irrequieto. In quei pressi allora c’erano “’u fùrne de mèst Petrìne”, l’ufficio dei vigili urbani, fiancheggiato da un giardino con un cancello. Le guardie e “tutt’u quartìere” salutavano con rispetto Vernaglione, come facevo io quando lo vedevo stagliato sulla soglia della sua abitazione, al pianterreno. Diversi anni fa, in una mia rimpatriata mi sentii chiamare, mi voltai e vidi lui, che non era più il gigante di una volta, ma sempre elegante e schivo. 

La dogana vista dal mare
Mi facevano tristezza gli amici e i conoscenti che per l’età erano diventati irriconoscibili. Mi capitò d’intercettare un mio cugino mentre parlava con un signore un tantino agitato. Quando si lasciaro
no gli chiesi chi fosse, e lui: “Com’è, non’nge t’u recuèrde? Angele P., c’avenèv’a scòle cu mmè’ e ère pùte amìche tuve”. Angelo P, già, studente del liceo scientifico, bravissimo specie in scienze; e qualche volta nel pomeriggio vendeva crema per scarpe, calzatoi e “ciucculatère”, andando per strada con un carrettino. Poi si laureò e vinse il concorso per l’abilitazione all’insegnamento. Era un’ottima persona anche da ragazzo. Lo prendevamo in giro perché era un po’ strano. Una sera un gruppo di amici stavano chiacchierando sul lungomare; uno di loro mise un bracco attorno ai fianchi della fidanzata e si accorse che erano già occupati da quello di Angelo. La ragazza stava subendo l’invasione per non accendere il fuoco. 

Di altri nessuno sapeva dirmi nulla. Uno, di nome Brescia, si era laureato in Giurisprudenza e insegnava; un altro ancora si era trasferito a Desio, dove era preside in una scuola media. Gli anni passano, gli alberi si seccano, le vie della memoria cambiano fisionomia, i palazzi che furono belli, prestigiosi, con le facciate ben tinteggiate, si screpolano, qualcuno ha le finestre tappate e gli uomini perdono le forze, assumono un altro volto o lasciano questo mondo. In via Nettuno, dove sono nato e ho abitato per tanti anni, ci vado ancora, senza conoscere più nessuno. 

Cozze e frutti di mare 40 anni fa alla Dogana
Quando ci tornavo per le ferie mi fermavo sulla soglia dell’androne del palazzo, osservavo attentamente la gente che passava, nella speranza di identificare un viso, ma rimanevo quasi sempre deluso. Fui felice il giorno in cui, fermo di fronte a piazza Fadini, grande mercato di frutta e verdura, sentii una mano sulla spalla. Era il titolare del panificio La Sorsa, che emanava profumi proprio lì, all’angolo con via Leonida. Mi invitò a entrare nel negozio, mi presentò festosamente sua moglie, fra tante facce curiose che sicuramente mi presero per una persona importante. Il fornaio mi sollecitava a ricordare questo e quello, i tempi del vicino Savoia, 50 lire il biglietto… Potevo mai aver dimenticato quel cinema, dove andai con mia madre e mia nonna a vedere una volta “La Traviata” e un’altra volta “Rigoletto” e poi da solo tanti altri film, soprattutto “western”?
 
Com’è cambiata la mia città. Scomparse l’edicola di Zappatore in via Di Palma, quella di fronte all’Arsenale e quella tra via Mazzini e via Leonida, il cui proprietario aveva un pastore tedesco che a volte la domenica mi pregava di portare a spasso (mi davo le arie perché indossavo i pantaloni alla zuava, confezionati dalla mia mamma). Sparite le arene (Artiglieria, Corallo, Monacelli, Italia, Arsenale). La Sem è rimasta sulle cartoline d’epoca. Come i tram, che avevano la fermata all’angolo tra via Leonida e via Mazzini prima di girare a sinistra, attraversare piazza Ramellini e proseguire verso Solito. Sparite dalla circolazione anche le carrozze. Quando avevo 12 o 13 anni con gli zii Nina e Dionigi e i miei tre cugini prenotavamo quella di “zì Mechèle” per andare alla stazione a prendere il treno per Martina. Il vetturino dava forti colpi di frusta quando una voce gridava: “Alè, alè, alè, ‘u uagnòne stè’ rète”. Anch’io mi accomodavo sull’assale e viaggiavo gratis fino a quando quel grido non mi segnalava al conducente. 
 
Di ritorno dal Collegio Manzoni, che aveva la sede in corso Umberto, di fianco dell’agenzia viaggi Ausiello, mi mettevo sul predellino del tram. Se arrivava il controllore abbandonavo la postazione del mezzo in corsa. Tutto questo è ben conservato nel mio archivio mentale. Come gli anni del Teatro Orfeo, dove per il settimanale “Sette Giorni“, di Bari, direttore Papandrea, intervistai in tempi diversi Eduardo De Filippo, Emma Gramatica, Elsa Merlini, Ernesto Calindri, Paolo Carlini, Paolo Poli… Oltre a Milva, purtroppo deceduta a 80 anni poco tempo fa, che andai poi a vedere negli anni ‘60 al Lirico di Milano per il quotidiano “L’Italia”: in prima fila Pietro Nenni, che alla fine di “Bella ciao” le lanciò il basco. La incontrai con il marito Maurizio Corgnati alla Ricordi. Quando la grandissima cantante si esibì all’Orfeo aveva vent’anni e appena vinto con Alighiero Noschese il Premio “Voci nuove”, indetto dalla Rai.. 
 
Insomma su “Tàrde nuèstre” e “sus’a tùtte le besciù ca tène” non ho scritto un libro, ma ce l’ho in bozze nella testa.

mercoledì 19 maggio 2021

Una sera a cena con Ottavia Piccolo

BRAVISSIMA COME SEMPRE

NELLA “BIONDINA” TELEVISIVA


Ottavia Piccolo e Enzo Catania
Lo sceneggiato girato nel 1981

In vicolo dei Lavandai e dintorni.

L’attrice ne fece cenno davanti

a un piatto di orecchiette a casa

mia e la notizia venne subito

captata da quel vulcano di idee

Enzo Catania, capocronista de

Il Giorno”.


Franco Presicci

La biondina è una ragazza che dalla vita riceve soltanto delusioni. Allevata da una zia, aspira a una vita indipendente, ma devia: si sposa senza amore, accumula debiti e finisce nelle alcove clandestine. La forza della sua personalità non riesce a sconfiggere le avversità. E’ la sintesi di un romanzo di Marco Praga, commediografo consacrato non ancora ventenne. 

Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele

Suo capolavoro per la critica “La moglie ideale” (1890), portata sulle scene con enorme successo da Eleonora Duse, accompagnato da un trionfo nel 1889 con la commedia “Le Vergini”, interpretata da Virginia Marini. Fondò e diresse la compagnia stabile del Teatro Manzoni di Milano, fu critico teatrale per “L’Illustrazione Italiana”, si occupò della Società autori e editori, di cui fu presidente. Del 1893 è il romanzo “La biondina”, dal quale nel 1981 la tivù trasse l’omonimo sceneggiato, affidando il ruolo di protagonista alla bravissima, deliziosa colta e intelligente attrice Ottavia Piccolo. Registi, i fratelli Antonio e Andrea Fazzi.

La macchina da presa piazzata in vicolo dei Lavandai, sul Naviglio Grande, e dintorni, non era una novità: erano state già girate scene del commissario Maigret interpretato da Gino Cervi; di “Cinque Giornate”, di “Bubu di Montparnasse”… E ogni volta con folle di curiosi anche sui ponti, ma ben lontani dal luogo di operazione.

Ad accennare all’avvenimento fu la stessa attrice qualche sera prima del “ciak”. Era a cena a casa mia, con Enzo Catania, capocronista de “Il Giorno” di via Fava, altri colleghi e il vicequestore Tornatora, che allora aveva l’ufficio al commissariato Ticinese in via Tabacchi, e lo disse per caso a mia moglie Irene, senza pensare che era attorniata da cronisti con le orecchie lunghe e ficcanaso: Enzo agguantò subito la notizia ed esplose, com’era suo costume quando si trovava di fronte a un’esclusiva. “Faccio una pagina intera sul giornale, Il pezzo lo scrive lui”, indicando me, “e chiamo il fotografo Uliano Lucas, che è un maestro”. Domani va bene?”.

Presicci con Enzo Catania

Ottavia, forse un tantino stupita, acconsentì e il giorno dopo eravamo sul “pont de preja”, uno dei tanti che stanno a cavallo del “Ticinello”, che scorre placido e silenzioso tra Ripa Ticinese e l’alzaia, due sponde animate da passanti, esercenti, artisti, pellegrini, turisti attratti da questa meraviglia. Una Milano pittoresca, che negli anni Cinquanta – come ricorda Gigi Pedroli, grandissimo acquafortista con Studio dell’Incisione all’inizio dell’alzaia venendo dalla stazione di Porta Genova – era abitata da molti meridionali.

  La tettoia di vicolo dei Lavandai

Un luogo dove tanti vorrebbero tenere casa e dove molti artisti avevano lo studio, specialmente in vicolo dei Lavandai: Formenti, Aldo Cortina, Bertuzzi, che tempo prima mi aveva presentato una signora di 92 anni che aveva venduto la lisciva alle donne che si sfiancavano sotto la tettoia, diventata monumento nazionale e accoglie scolaresche e turisti desiderosi anche di ascoltarne la storia, in cui echeggiano personaggi, le cui voci si sono spente da tempo: l’omino che curava le lampade ad olio sparse per le strade, per esempio. Negli anni Settanta c’era ancora chi poteva parlare, per averlo sentito dire, dei carri che entravano nei cortili (sui fianchi degli ingressi ci cono ancora gli incavi scavati per far passare i mozzi delle carrozze) o della sfangatrice del Comune, specie di traino tirato da un cavallo; dell’ambulanza dei pompieri o del barchett de Boffalora, un natante malridotto – gli dedicò pagine crude Paolo Valera nel suo volume “Milano sconosciuta” - che trasportava soprattutto venditori ambulanti ed ebbe maggiore notorietà ai primi del 900; o del “Gamba de legn”, il trenino in servizio tra Milano e Magenta con la stazione in un cortile di corso Vercelli.

                Il Naviglio Grande

Tutto questo e tanto altro veniva in mente conversando con Ottavia, donna sempre affascinante e attrice di grandissimo talento, che mi ascoltava osservando lo scorrere del Naviglio Grande, che fino al 1178 giungeva solo ad Abbiategrasso. Poi Beno da Gozzadini, podestà di Milano nel 1257 decise di allungarlo. Ma il clero e la nobiltà, appesantiti dalle tasse emesse per realizzare quei lavori, lo fecero ammazzare, gettando il corpo nel Naviglio, che allora si chiamava Tesinello. L’impresa di Beno da Gozzadini fu ripresa dal Torriani, che lo aveva sostituto nella carica.

Con Ottavia – nata a Bolzano e interprete di tanti film, come il “Gattopardo“, “Metello”, “Il lungo silenzio”, “Zorro”, “Il prezzo della vita”, “Nel giardino delle rose”, “Marciando nel buio” e tanti altri - ci soffermammo a lungo sul tema del Naviglio, anche perché sullo sceneggiato non poteva spingersi troppo. Parlammo delle chiatte, che portavano il marmo per la Fabbrica del Duomo da Candoglia in via Laghetto, vicino all’Università Statale; sabbia, carne e altra roba; della “rozza dei navigli”, cavalli stanchi e macilenti che dall’alzaia tiravano i barconi che navigavano controcorrente... Poi Ottavia tornò a visitare il vicolo e il giorno successivo andò a Roma per provare i costumi. Anche lei amava questa Milano. Peccato che avesse poco tempo per poterla godere.

            Enzo Catania

Il Giorno” uscì con il titolo “Scopriremo in Tv la Milano dell’Ottocento”. Catania, nella cui testa baluginavano idee interessanti, affidò a Luisella Seveso l’incarico di scrivere una serie di articoli sulle vie della città, sulle loro curiosità, su quello che c’era una volta e quello che c’era più. E Luisella assunse il compito con il suo solito entusiasmo.

Si è scritto tanto sull’argomento. Nel libro “Il Naviglio Grande a Porta Ticinese” di Sergio Benedetti, pubblicato in copie limitate dalle Edizioni “Pont de Preja”, si leggono poesie in dialetto meneghino di Armando Brocchieri, che fra l’altro conosceva a menadito la storia della zona. Quel libro fu presentato nella galleria d’arte di Angelo Cottino una sera del Settanta non da un milanese ma da un terrone arrivato a Milano da quattro o cinque anni e già interessato alle vicende vecchie e nuove della città del Porta: il sottoscritto.

Al vicolo, che Brocchieri definiva “chiesa di pittori”, sono tornato tante volte. Non è più quello di una volta. Non ci sono più Guido Bertuzzi, Aldo Cortina, Sarik, al secolo Riccardo Saladin, il Carletto, simpaticamente autonominatosi custode de “el rizzulin”, un rivolo d’acqua alimentato dal naviglio (guai se scopriva un pezzo di carta galleggiare); non c’è più da tempo Elvira Radice, amica di una fotomodella che proprio accanto alla sua porta seppellì il suo cane morto di cancro, dopo essere stato portato perfino a New York (almeno così mi disse Bertuzzi al corrente dell’amore che la ragazza aveva dato al suo Fido nel tentativo di salvarlo.

Ingresso del Piccolo Teatro

            Ponte sul Naviglio

 

 

 

Mi piaceva andare in quel pezzo di Milano, romantico, tranquillo, popolare. Mi piaceva entrare nello studio di Aldo Cortina, fra l’altro titolare di una famosa libreria universitaria di fronte alla Statale. Una sera nel suo “atelier” incontrai Bettino Craxi, che era suo amico ed estimatore. Aldo era generoso, disponibile, ospitale. Quando si andava da lui la domenica mattina, prima di stringerti la mano ti consegnava un bicchiere di vino buono. Era stato allievo di De Pisis e dipingeva anche sistemando il cavalletto sulla sponda del Ticinello. Come Guido Bertuzzi, che amava raccontare vecchie storie sul vicolo e sul naviglio. Mi disse che il suo studio era stato un’osteria, dove una volta era stato visto il feldmaresciallo Radetzki, aggiungendo che gli era stato riferito da altri. Quando Guido seppe che sarebbe arrivata Ottavia Piccolo per girare “La biondina” gli brillarono gli occhi e mi pregò di accompagnarla nel suo studio. Era uno dei suoi “fans”. Lo ero anch’io. Da anni vedevo i suoi film: mi piaceva il suo bellissimo volto da bambina. Mi piaceva il suo modo di recitare. Catania mi esortava ad allestire un’altra serata, invitando Ottavia, la quale ricordava le orecchiette che aveva gustato da noi e avrebbe voluto ripetere. 

Rimandavamo sempre, anche a causa del mio lavoro, che non mi consentiva soste e qualche volta mi capitava di presentarmi in ritardo. Successe anche quando avevamo a cena il questore Enzo Caracciolo, che aveva una figura da divo dello schermo. E un cruccio: non aver potuto risolvere l’assassinio della Ferrari alla Cattolica. Da pensionato, quando m’invitava a casa in viale Piave e il discorso cadeva sui delitti di Milano, quel cruccio riemergeva.         Anche lui era innamorato dei navigli e non mancava di dire che era un peccato che li avessero coperti. Quanti poeti, pittori, maestri della penna… hanno amato i navigli. Alfonso Gatto, Gaetano Afeltra, Indro Montanelli, Alberto Vigevani… li amavano. Vigevani intitolò un capitolo del suo “Milano ancora ieri”, “Padre Navigilo”, “che scorrendo tra ponti, chiuse, mulini e passerelle, si diramavano in minori canali che portavano acqua ai campi e alle risaie”. 

E Maurizio Cucchi, ne “La traversata di Milano: “… E’ giorno, e infatti è proprio di giorno è consigliabile andare sui Navigli, quando questi dolci luoghi conservano anche nei primi tratti disseminati di ritrovi e ristoranti una buona parte della loro naturalezza antica”. Poi Cucchi scende dal tram “in via Rovello. Via Rovello significa Piccolo Teatro e Piccolo Teatro significa storia della nostra cultura”. Nel teatro fondato da Giorgio Strehler e Paolo Grassi in una via che è un budello applaudii Ottavia Piccolo dal volto di bambina in “Calamity Jean”, invitato con mia moglie da lei stessa. E “La biondina”? Inutile dire che mi piacque. Ottavia fu di una bravura altissima. Ma non toccò a me recensire lo sceneggiato. Io ero e resto un cronista.







mercoledì 12 maggio 2021

QUEST'ANNO RICORRE IL 44esimo DELLA MORTE DI PETROSILLO

Petrosillo in una litografia di Mandel

(In appendice: ALEA-ALEA, A’ RREVAT’A FESTE DE SAN CATAVETE(Filastrocca di Presicci come omaggio al cognato Dino, che sta in cielo).

 

ALFREDO LUCIFERO PETROSILLO

POETA, COMMEDIOGRAFO, SAGGISTA 

 

Molti lo considerano un mito. 

Ha vinto Premi, ha scritto libri, ha

diretto giornali tra cui

“’U Panarjidde”, periodico satirico

edito da Vincenzo Leggeri sin dal

1902.

Strillone straordinario Marche Poll,

al secolo Amedeo Orlolla.

 

Franco Presicci

Ero quasi ancora “’nu uagnòne” quando cominciai a leggere le poesie di Alfredo Lucifero Petrosillo: in casa lo conoscevano e si parlava spesso di questo poeta e commediografo in lingua e in dialetto tarantino, che, nonostante fosse una “firma” di tutto rispetto, seguita e amata, era una persona alla mano. Poco prima delle 16.30, ora in cui suonava la sirena dell’Arsenale per segnalare l’uscita dei dipendenti, un pomeriggio mi piazzai all’angolo tra via Leonida e via Di Palma, vicino all’edicola che stava sotto un grosso albero ad ombrello e aspettai mio padre, che sbucasse tra la folla. Improvvisamente intercettammo don Alfredo. 

Per la prima volta potei scambiare due parole con lui, che camminava con passo spedito, quasi ballando. “Questo è mio figlio”, gli disse papà. E lui mi regalò un sorriso amabile, ponendo una mano sulla mia spalla. Poi mi fece tante domande: sulla scuola, sulle materie che mi piacevano di più, sugli insegnanti e su che cosa avrei voluto fare da grande. Mi fece un’ottima impressione. Non aveva un tono paterno e mi trattava come fossimo amici da tempo. Avevo 13 anni? Qualcuno in più? 

Con il passar del tempo incontrai uno dei suoi figli, Pierino, che frequentava il liceo scientifico, dov’era in classe con mio cugino Enzo, che da medico in pensione è da anni “cittadino” di Lecce, la città che stando alla leggenda fu edificata un secolo prima della guerra di Troia. Un giovane che abitava nel mio stesso palazzo ed era come me un appassionato della lettura mi dette in dono altre poesie di don Alfredo, dicendomi che per lui l’artista era un mito. Le divorai e qualche giorno dopo le ripresi in mano e mi appassionai; quindi cercavo di sapere qualche frammento della sua vita privata sollecitando l’omonimo di San Pietro, che collezionava il “Giorno Ragazzi”, ma la curiosità naufragava nel silenzio. 

Ero “’nu uagnòne cchiù grànne”, una ventina d’anni, forse più, quando ebbi la possibilità di scrivere su “La Tribuna del Salento”, settimanale di Lecce dell’onorevole Ennio Bonea, che insegnava all’Università della città che fu nel cuore di Federico II e per il suo splendore venne esaltata come la “Firenze del barocco”. La redazione era in via Ammirati, 12. Mi venne l’idea d’intervistare il poeta tarantino; ne parlai a Totò Vergari, pilota del giornale, che mi rispose subito di sì. Petrosillo mi ricevette in casa sua, dove mi accolse von una cordialità che alleviò il mio imbarazzo. 

Mi sentivo importante mentre don Alfredo si raccontava con scioltezza, guardandomi con quegli occhi come olive tonde, lucide. Ripercorreva i suoi primi versi; descriveva il piacere che provava quando li componeva; il suo amore per Taranto, dove era nato il 16 giugno del 1905 da un impiegato del Comune… M’incantava quando “accarezzava” la Bimare, le sue preziosità, le caratteristiche architettoniche di certi edifici, la sonorità di alcune parole dialettali. Il dialetto, che masticavo con gioia di nascosto da mia madre.

La Dogana
Amavo il Mar Piccolo, le lampare, le paranze, i venditori di pesce che urlavano la freschezza della loro merce, le scalinate dai gradini corrosi, la via di Mezzo, poi da me attraversata tante volte, le “strìttele”, e mi amareggiavo nel vedere le facciate puntellate di certi stabili con gli occhi tappati, perchè all’interno non c’era più nessuno. Non lo dissi a don Alfredo: tenni a cuccia la presunzione. Io dovevo soltanto ascoltare: ero ancora “nu mezzòne” e lui un monumento. Gli chiesi dei suoi lavori, e lui mi citò “Trasparenze”, versi del 1925; “Gente latina”; “I canti”… le commedie “Lo spettro del tempo andato”; “’A fumèche”, andata in scena al Teatro Orfeo nel 70 ; “Tarantine so”, applaudita sempre all’Orfeo due anni dopo, “ ‘A sorte d’u penziunàte”, che ebbe le luci della ribalta nello stesso anno, e altro ancora.

Piero Mandrillo, a destra
Ero già a Milano quando Piero Mandrillo, uomo dalla cultura senza fine, mi parlò a lungo del poeta e commediografo, soffermandosi su “’A fumèche”, che aveva visto e apprezzato. Amava anche il teatro, Piero, e il nostro dialetto, pur essendo nato a Pulsano, dove gli hanno intestato la biblioteca. 
 E sempre a Milano Alfredo Lucifero Petrosillo, a cui non ho mai smesso di dare del lei, mi mandò una copia di “’U travàgghie d’u màre” con dedica: “Al chiar.mo giornalista Franco Presicci la voce e il cuore della nostra città natale, nostalgico ricordo, là, nella bruma della babelica Milano, con fraterna, sincera amicizia”. Nelle prime pagine s’informava che il Premio “Vincenzo Leggieri” era stato assegnato proprio a lui; Il secondo premio, raddoppiato, assegnato, ”ex aequo”, a Cataldo Acquaviva e a Diego Marturano. La notizia era stata pubblicata da “’U Panarijdde”, il periodico satirico tarantino che don Alfredo diresse con saggezza. In un’altra pagina Cosimo Palumbo faceva il ritratto dell’autore: “Mùse pezzùte, uècchie vìvele e chiare/ irte e suttìle cume ‘u calaprìce : ‘u irre e orre fàce cu l’amice/ e ssèmbe fuce cunme a ‘na jumare/ Ma tene ‘u core po’ ‘na cosa rare…”. Lessi subito i primi versi “d’u Travàgghie”: “’A vie d’u cìele luce de tand’uècchie/ Appezzecàte ammìccene, se stùtene/ E’ segnore de rìghe d’ore e argiènde/ A cupele turchine granna-granne. E ind’u prufonde abbisse chète ‘a terre/ Se vonne a sprufunnà le stedde morte/ ‘U mare cittecitte stè abbattute…” e mi commossi.

U Panarjidde del 5 luglio '48
Il mare ammalia, rapisce, incanta, abbaglia. Il mare “quànne rùsce” sembra avere voglia di comunicare. Il mare ha una sua magia. Io sono nato al borgo ma appartengo a “Màre Pìcce”; e ancora oggi, dopo tanti anni in Lombardia, nei momenti di depressione, trovo compensazione nel ricordo dei giorni trascorsi sotto la tettoia della dogana ad osservare i pescivendoli che spruzzavano acqua su scorfani e dentici o su cumuli “de còzze gnòre” e proponevano una miriade di frutti di mare in piatti concavi di terracotta. 
 Ricordo tanti scritti di don Alfredo. Per esempio “Uomini e libri”, “Visioni ebaliche... E ricordo anche i saggi. E tanti versi. “Nuovo Sisifo”, del’46, che custodisco gelosamente anche perché datomi da mio padre mentre parlavo con la nonna, che sferruzzava stando dietro la persiana che dava sulla strada. 
Era da tanto tempo che pensavo di scrivere dei poeti di Taranto: Diego Fedele, che mi aveva conosciuto bambino, mentre osservavo un mio parente intendo a fare gli orli di cemento attorno alle aiuole nel cortile di fianco al suo (mi vengono spesso in mente alcune sue poesie: “’U rafanìedde”, con doppio senso, “’U conzagraste”, “’U caggiuniere”…); Diego Marturano (“’U relògge d’a chiàzze”, che emoziona fortemente soprattutto nella recitazione di Amelia Ressa in un video realizzato dall’Associazione Vito Forleo); Alfredo Nunziato Maiorano, Claudio De Cuia… E non perché sui social si susseguono appunto i video, come quello con la poesia “’U fatiatòre” dello stesso Petrosillo in occasione della giornata del dialetto. 
 E’ antica la mia passione per questi personaggi, tutti scomparsi: don Alfredo il 12 aprile del ’77, quindi quest’anno ricorre il 44esimo anniversario della morte. A Taranto non li hanno dimenticati, anche per merito di gruppi come “Taranto com’era”; “Taranto di una volta”, “Memorie tarantine”…, che su Facebook pubblicano foto e pensieri di Antonio De Florio, Carmen Adamo, Nicola Cardellicchio, Nicola Giudetti, che “cu ‘a zòche so’ attaccàt’a Tàrde nuèstre cum’a le cozze de Mare Picce”...

Nicola Giudetti

Quando ho telefonato proprio a Giudetti, artista e collezionista di cose in uso una volta (e fautore della processione dei Misteri in terracotta con “perdùne” fra balconi di palazzi imbandierati, bene esposti in quella specie di museo che ha in un locale della città vecchia), per avere una foto di Petrosillo in pochi minuti l’ho ricevuta. 

Petrosillo s’impose presto nell’agone culturale. Aveva solo 17 anni e pubblicò i sui primi versi, seguiti o intervallati dalle commedie, tra cui “Don Giuànne Casavècchie”. E negli anni ha incrementato la sua felice produzione. La sua è stata una vita dedicata all’arte della penna. Uomo schietto, pane al pane e vino al vino, attento nello stringere un’amicizia, un po’ polemico. “Quuan,’ave ‘na parole, mìce-mìce/ se nn’esse cume ‘u cècere ind’a cucchiàre, cind’arte fàce e a tutte ’nge rièsce/ e sse lamènde po’ ca stè ‘mmazzèsce…” (ancora Cosimo Palumbo, nel ’46), che lo conosceva bene. 

 Quando uscì il mio articolo mi inviò una lettera in cui mi diceva che se avessi voluto mettere giù ancora un articolo su di lui mi sarei potuto rivolgere all’Archivio di Stato, dove avrei trovato tutto il materiale utile. Da allora non l’ho più visto, don Alfredo.

Foto di Cataldo Albano
Ma ho continuato a leggerlo: “’U vècchie stè ‘ngandàte ‘m bacci’u mare/ E ‘u mare, ‘ndenerìte,/ t’u tremende/ Le parle citte-citte e ‘u vecchie sènde/ ‘U fiate, quedda vocia mascijare/ Ca tande e ttanda vote l’ha parlate…”. Titolo “Chiudde”, parola sulla quale fece uno studio Piero Mandrillo e Giacinto Peluso ipotizzò un significato etimologico (ciurma) e anche il Rohlfs. Secondo altri è il pescatore della Taranto di una volta, un po’ rozzo. 
Rozzo o no, “chiudde” è una parola che mi piace, come mi piacciono i pescatori in cui m’imbatto quando mi faccio pellegrino nel borgo antico: gente cortese, disposta al dialogo, curiosa di sapere chi sei e da dove vieni. Ne ho incontrati tanti “abbàsce ‘a marine”, sorpresi a rammendare la rete o a conversare. Il grande fotografo Cataldo Albano, tarantino verace come le vongole, ha immortalato con maestria “pescatùre” sui pontili e sulle imbarcazioni e il mare che mormora e sciaborda contro gli scafi, esponendo poi i quadretti in una sua mostra al Castello Sforzesco, a Milano e a Verona, con presentazioni di Francesco Lenoci. Anche lui esalta la poesia di don Alfredo Lucifero Petrosillo, che con le sue opere alimentò settimanali e quotidiani, compreso “’U panarijdde”, “quidde peccine ca no lasse de pète a nesciune” o “ca no’ ‘a perdòne manghe a Ccriste”. Quanti tarantini hanno acquistato da Marche Poll, al secolo Amedeo Orlolla, “’U panarijdde”, che Vincenzo Leggeri, nato ad Altamura, in provincia di Bari il 2 febbraio del 1873, fece uscire nel 1902.

Arcidiocesi di Taranto: Giubileo per i 950 anni del ritrovamento del corpo di S. Cataldo

 
 
 
 
 
 
 
Statua di San Cataldo che si venera nella Basilica Cattedrale di San Cataldo di Taranto, realizzata da Virgilio Mortet.

 

 

 

 

 

 

 

ALEA-ALEA, HA’ RREVAT’A FESTE DE SAN CATAVETE

(un messaggio a mio cognato, che sta in cielo)


Alèa-alèa, hà’ rrevàt ‘a fèste de san Catàvete

e a Tàrde, ‘a cetàte ca ‘stu sande defènne

na vòte se facève ‘nu ruète

pruggessiòne, ‘a ‘nzègne purtàte mmìenz’a mmàre

cu cìende vàrche vùne ret’a l’òtre

fuèche sparàte d’ògne vànne

a bbànne ca sunàve ’mbrà tànda lumenàrie

pe fa’ anòre ‘o sànde

ca passàve sòtt’u pònde ‘ndramènd’a ggènde

ngandàte lucculàve d’allecrèzze

Mò ‘u tradetòre assassìne ca no s’arrènne

vo cu fàce scurèscere ‘a devuzziòne

cum’hà’ fàtte cu le Mestère

tutt’indr’a ccàse achiùse cum’a ‘ngalère

o a ‘nu cumènde

ngorchie lùce appezzecàte sus’a ‘nna lògge

e tànde priamìende: “Catàvete mije

fàmme ‘na gràzzie

no’nge penzà sùl’a le furastìere”.

Mò ‘a clausùre l’hònn’apìerte

ma ama stà’ ssèmbe cauteràte

pur se ‘na criànze, n’anurànze a San Catàvete

ca le meretèsce l’hònne penzàte

Canàteme, ca stè’ ‘mbrà le stèdde

se mundevàve accùm’u sànde

e ci sàpe ce dice d’addà ssùse

ssèmbe pe’ ‘sta recurrènze vulève scè’ a Tàrde

e quànne no’ge putève p’amore c’a Melàne

ère abunesìnne ‘nu cape de rròbbe

e no’nge putève lassà’ ‘u travàgghie

tùtte mangupàte, ‘a fèste

s’a facève cundà’ d’o fràte

Je ‘nu zùmb’a Tàrde vècchie ‘u facève

e accattàve nùce e nucèdde

lupìne e spassatìembe

e sendève pùre l’orchèste

ca stàve sus’a casciarmòneche

ma no’nge aspettàve tùtte l’amìce mije

ca rumanèvene ‘nzign’a quànne lucescève

presciànne indr’a chiàzza Fundàne.

Catà’, tù’ te l’arrecuèrde ’sta festesciàte

sul’a fatje te mandenève, fràte mije

e mo’ t’u dìche chiàre e tùnne:

quànne arrìve ‘u ggiùrne d’u prutettòre

je mànne ‘nu penzìere a ttèje

ca stè’ ssèmbe indr’a ‘stu còre

e ngorchie vòte a le taulàte

a le piàtte ca preparàvene le mugghière

Dino Bucci

Da quànne te ne sciùte tùtte s’hà’ stutàte    

e ne chiànge ‘u còre

Je, mo’ u se’, canàte mije

te vulève assaje bbène, probbie assàje

quànde Mare Pìcce e Mare Grànne mmìse ‘nzìeme

e ‘stu bbène no’nge jèsse sulamènde

pe’ l’accasiòne de l’anne c’accòcchie San Catàvete.

Je m’arrecòrde le seràte

passàte ‘nnànd’a Sandamàte

c’u càvete e c’u frìdde

astettànne cu pacènze a ttèje

pe’ po’ scè’ a ccàsa mèjie pàsse-pàsse

tutt’e ddoje, p’amòre c’addà tenìv’a zìte

e te tuccàve sciucà’ a scòpe cu l’attàne

Ma no parlàme cchiù de ste’ fàtte, Catàvete mjie

scenò facìme menzanòtte

e addò tù’ jàvete mò no sàcce

se sòn‘u cambanìedde

e v’avìta scè curcàre

Ddo’ paròle sùle pa’ nàche

ca te tenève azzeccàte cum’a l’ètere

Te l’hònne cundàte ca ’u bùrghe andìche

na ‘ndìcchie hà’ cangiàte ‘a fàcce?

Sott’u pònde de pètre nàzzechèscene vàrche alegànde

sott’a Duàne no’nge stònne cchiù le pescatùre

tànte negòzzìe tènen’attappàt’a pòrte

hònne mise ‘nu pundìle beddefàtte

U Mare Peccerìdde, ‘stu splennòre

ca tànda vòte n’hà’ fàtte scenucchiàre

mànne ssèmbe ‘na mascìe

e m’addrecrèje quànne ‘u vòca a vesetàre

N’ama parlà’ ‘mbrà ‘ngòrchie tìembe

cùrte o luènghe ‘u sàpe sùle Dje

u ggiùrne ca pur’je hàgghia passà ‘a fenète

                                                              Franco Presicci

                                                     Milano, 29 aprile 2021


                                             





 

 

 

 




mercoledì 5 maggio 2021

L’ avventura di un emigrato di talento

 


IL RAGAZZO AQUILANO

CHE AMAVA IL TRATTORE

 

Il suo sogno americano lo ha

realizzato con sacrifici, grande.

Impegno, idee, laboriosità. 

Una storia edificante, la sua. 

Mario Daniele fa onore al nostro Paese.

 

 

 

 

Franco Presicci

Si legge tutto d’un fiato “Mario Daniele, il sogno americano” (One Group Edizioni, 2021), un libro che pare un romanzo sulla vita di un emigrato abruzzese negli Stati Uniti, curato da Goffredo Palmerini. Lo dice lo stesso curatore come il volume – 350 pagine, con belle immagini fotografiche – è venuto alla luce, nato da un desiderio di Mario Daniele di lasciare traccia della sua vita alla famiglia, ai nipoti, agli amici. E tuttavia il desiderio non trovava la persona giusta capace di raccogliere e organizzare una narrazione fedele. […] Avvertii la sua amarezza – scrive Palmerini nella Presentazione - nel vedere in difficoltà un desiderio coltivato nel profondo del cuore. Fu in quel momento che gli offrii una disponibilità, però condizionata: avrebbe dovuto essere proprio lui, Mario, attraverso appunti e ricordi - scritti in qualunque idioma - a raccontarmi la sua storia. Io l’avrei solo trasposta in un italiano chiaro, leggibile, scorrevole, riportando con fedeltà nel racconto quel grande patrimonio di sensibilità, desideri, sogni, nostalgie, amore per la terra natia, voglia di conquistare il proprio futuro in terra straniera, che sono sentimenti così fortemente presenti negli emigrati ma che sfuggono a chi non ha confidenza e conoscenza del fenomeno migratorio italiano. […] Ma ora ecco qualche appunto su questa storia che mi ha inchiodato un giorno e mezzo su un divano, monopolizzando la mia attenzione. Il tempo per leggerlo, quasi senza pausa, apprezzando la scrittura coinvolgente della storia e alcuni brani del curatore, inseriti per illustrare i luoghi (Castelnuovo, Detroit, Rochester) dove le vicende si svolgono o altre utili annotazioni. 

Mario Daniele amava il trattore. Già da ragazzo lo sognava di notte, a Castelnuovo, un piccolo borgo dell’aquilano. Si vedeva già al volante del veicolo che con i suoi denti d’acciaio solcava la terra. E quando in famiglia cominciò a circolare l’idea di comperarlo, fu per Mario come vincere un terno al lotto. Quando infine si decisero, egli saliva sul Same all’insaputa di tutti per studiarne i comandi. Un giorno, presente il padre Quirino, lo guidò per lavorare il campo e ne raccolse la stupita ammirazione. L’esperienza si ripetette e venne chiamato a far rombare il trattore anche nei campi degli altri. Quando si spremevano le uve del vigneto di famiglia, il vino che ne usciva non era sufficiente per l’intero anno. Si comperava quindi il resto dell’uva a Ofena o a Capestrano, a una ventina di chilometri di distanza. Un’ora per arrivarci con il vecchio Ford, lasciato dagli americani nel ’45. Il lavoro nei campi era tanto, ma il guadagno scarso e tardivo, perché i contadini potevano pagare solo dopo i raccolti. Cercò quindi lavoro a Chieti scalo, dove il grano per via dell’altitudine si mieteva prima di Castelnuovo. A scuola non andava bene, era distratto e in quinta elementare si portò l’italiano a settembre. Pensava sempre ai motori e alla fine, a 16 anni, fu assunto in un’officina, mentre a casa gli raccomandavano di non tralasciare la scuola. Si iscrisse ad un corso serale intensivo per ottenere un certificato di studi valevole come il terzo anno delle superiori... Ma la passione per la meccanica cresceva, lo attiravano i motori e quando ne sentiva uno rombare subito gli veniva voglia di metterci mano. Frequentava la parrocchia e don Carmine, un prete intransigente per la “dottrina”, come si chiamava allora il catechismo, chiamava i ragazzi con il suono di una campanella e se facevano i bravi li gratificava con un formaggino, di quelli che arrivavano alla parrocchia dalla Poa (Pontificia Opera Assistenza), che a sua volta li riceveva dagli aiuti americani del Piano Marshall. Era il 1957. Con queste e tante altre notizie Mario Daniele comincia il libro sulla sua vita, curato saggiamente da Palmerini. Daniele gli ha consegnato fogli densi di appunti e il giornalista e scrittore, che da sempre va a in giro per il mondo a pescare le storie degli emigrati, li ha tradotti in un volume che vale la pena di leggere anche per conoscere le idee, i progetti, le fatiche, la laboriosità dei nostri connazionali che in terre lontane hanno fatto onore al loro Paese. Mario Daniele è nato a Castelnuovo di San Pio delle Camere il 12 maggio del ’46, “in un’ora bella, le 5 del mattino, quando il sole già illuminava l’altopiano, come mi raccontava mia madre Esilde”. Daniele si racconta nei minimi particolari, pagine interessanti, che risvegliano anche i ricordi di chi legge. Per esempio: a scuola si andava in “divisa”: grembiule nero con il colletto bianco, una grande “sfiocca” al collo di colore blu. Le punizioni venivano date con una riga spessa che colpiva le mani così forte da renderle rosse come il fuoco. A lui non interessavano Omero e Romolo e Remo: a volte, invece di presentarsi in classe, sostava davanti a un’officina per osservare gli operai piegati sui motori delle auto. E’ lì che voleva passare i suoi giorni e a 16 anni cominciò a fare il meccanico nell’officina davanti alla quale, marinando le lezioni, si fermava ad osservare i meccanici chini sul vano motore. Poi un compare tornato dall’estero prese lui e il fratello in un affare che consisteva nell’acquistare nella zona tartufi e zafferano, da rivendere poi a Milano e in altre città. Tale fu il suo impegno e la sua bravura da essere promosso a dirigere questa attività. Aprì poi a Castelnuovo un negozio di elettrodomestici, aggiungendo questo lavoro al primo. Stava per avviare la costruzione di una stazione di carburanti, ma nel frattempo era arrivata la cartolina precetto per la leva militare e il progetto si bloccò. Ne aveva di stoffa, Mario Daniele! Che piacere poter seguire la sua biografia di uomo intelligente e laborioso. Quando era in servizio di leva in Aeronautica partecipò a una selezione per meccanici specializzati da inviare in Canada, per una collaborazione con l’aviazione canadese, e lo vinse. Quando arrivò in Canada, accolto festosamente da familiari e amici, si accorse del grande amore che gli emigrati avevano per il Paese d’origine. Il lavoro in aeronautica avrebbe dovuto durare sei mesi, sino alla fine del servizio militare. Ma nessuno dell’Aeronautica canadese lo cercò. Allora si cercò un lavoro a Windsor, trovandolo alla Downtown Motors, su Erie Street, sempre come meccanico, per 9 dollari all’ora. Ma ecco sorgere il problema della lingua, che rendeva difficile la comunicazione. Il capo officina gli dette del beduino in inglese, almeno così lui capì, ma il “boss” tornò con un sorriso largo e Daniele capì che doveva studiare la lingua del luogo. Lo fece quando andò a stare a casa degli zii a Detroit. La sera e il sabato si occupava di lotti di terreno per un’azienda immobiliare e aveva bisogno di un’auto. Un cugino provvide subito a procurargliela. Daniele gli promise di restituirgli il denaro al più presto, sentendosi da lui rispondere che avrebbe potuto sdebitarsi riparando gli attrezzi e i mezzi, la ruspa e il camioncino… Passo dopo passo, il giovanotto saliva gli scalini, guadagnando sempre di più. Cambiò ancora società, ma qui si subivano ingiustizie e passò a una compagnia di costruzioni. Reggeva alla fatica: una volta lavorò per 30 ore di seguito. Ma si divertiva anche. La sera con un amico passava da un bicchiere di birra a un ballo in un apposito locale. Ma pensava anche all’Italia e ad Anna Maria, la ragazza che gli aveva toccato il cuore al paese. Era però indeciso se restare in Canada, dove la paga era ottima, era ben voluto e il lavoro gli piaceva, oppure rientrare in Italia. Troneggiava il pensiero di Anna Maria, la cui famiglia riteneva che al suo rientro a Castelnuovo l’avrebbe sposata. Intanto frequentava Detroit e aiutava il cugino Johnny, ma in una visita a parenti a Rochester aveva conosciuto Flora… Fu capace di conquistarne l’interesse e le chiese la mano, superando le prime riserve di lei. Pensava anche ai progetti lasciati in sospeso in Italia, alla promessa fatta alla compagnia Api per la costruzione di un distributore a Castelnuovo …Il padre Quirino si era persino innervosito perché non gli aveva fatto seminare il terreno, destinato alla costruzione dell’impianto per il carburante… Il libro è costellato di particolari: le famiglie, la descrizione storica della città che aveva accolto il suo primo vagito, tanti nomi e cognomi e legami, intrecci di rapporti, descrizione di cene americane in cui la carne veniva servita più cruda che cotta…Del resto Daniele questo libro, avvincente, lo ha dedicato soprattutto ai figli e ai nipoti, perché conoscessero la sua storia, quella di un uomo non è mai stato con le mani in mano. Un uomo che è un esempio, un modello, un emblema. Un uomo che ha avuto il lavoro come mezzo, scopo, orgoglio; nato con l’amore per la meccanica, che aveva il trattore come simbolo.

Un libro che si legge volentieri, anche per la bella prefazione di Goffredo Palmerini che apprezza questi uomini, che poi finiscono nei suoi libri. Mario fa una lunga carrellata di iniziative che non annoia, anzi cattura l’attenzione. Racconta dettagli e fatti importanti. Come il suo amore per Flora e il fidanzamento. Alla fine di novembre ’68 le regala un anello con un piccolo diamante mandatogli dalla madre. La data del matrimonio fissata al 12 luglio ’69. La cerimonia affollata, anche con parenti arrivati dall’Italia. Sposati vanno ad abitare a Windsor, in Girardot Street. Flora viene assunta dalla compagnia Burros a Detroit; lui è ancora alla Marendette Bros, una compagnia che costruisce strade, ponti, i parcheggi all’ippodromo di Windsor, e altre opere. E la sera, per la stessa compagnia, Mario va con la ruspa a caricare sale che arriva dalla miniera sulle navi da trasporto ormeggiate sul Detroit River. Dopo il matrimonio con Flora torna in Italia per una vacanza di sei settimana. Gli viene in mente di aprire una pizzeria in piazza Duomo a L’Aquila, ma le pratiche procedono con lentezza esasperante e decide di rientrare in Canada e poco dopo di andare a risiedere negli Stati Uniti. E’ in arrivo un figlio, ma lui non rallenta il passo. Dà l’anticipo per l’acquisto di una pizzeria, fa fatica ad avviarla ma poi trova le giuste misure per ingranare nelle sue attività imprenditoriali. Compera una casa a Livonia, nell’area metropolitana di Detroit; diventa socio del Rotary Club di Farmington Hill. E’ ormai un uomo che conta. Acquista un fabbricato, lo restaura e lo arreda, lo dà in affitto. Apre un ristorante, ma lo dà in fitto a buone condizioni ad una grossa catena del settore. A Rochester arriva il padre Quirino, che dopo 60 anni va a conoscere uno dei suoi fratelli partito prima della sua nascita. Il “Time Union”, il giornale di Rochester, dedica molto spazio all’evento. Nuovo ritorno in Italia e nuovi onori anche dal Rotary aquilano. Al rientro negli Stati Uniti, nell’area di Detroit va in crisi l’industria automobilistica che ha qui le più granfi marche, anche a causa dell’aumento del prezzo della benzina, seguito alla guerra del Kippur. Quindi crisi energetica ed economica. A Detroit intanto scoppia una terribile rivolta dei neri contro la popolazione bianca, che richiese l’esercito per sedarla. I bianchi tendono a spostarsi sempre più in periferia. Mario acquista una fattoria, che poi liquida con buoni risultati. Chiude il ristorante per aprire un night club. Poi lascia definitivamente Detroit e si trasferisce a Rochester, nello stato di New York. Apre una pizzeria a Pittsford, con un successo enorme. E qui si apre una lunga serie di successi: nella ristorazione, con alcuni grandi ristoranti, la produzione e la vendita di preparati alimentari, la gestione di un porto turistico nella baia di Irondequoit sul lago Ontario, l’acquisto e il restauro di un albergo, l’avvio di un’attività di importazione di macchine da caffè e attrezzature da bar e commercializzazione, la realizzazione di una catena di impianti per lavaggio auto, grossi investimenti immobiliari con la costruzione di appartamenti e uffici, anche in Florida, l’avvio della costruzione di un imponente centro commerciale per una grande società americana. Insieme a queste attività economiche, tante altre iniziative di carattere sociale e un forte impegno nella comunità italiana, tra queste la realizzazione dell’Italian American Cultural Center, punto di riferimento per la comunità italiana, di cui Daniele è stato presidente per molti anni. Come pure è stato amministratore di un ospedale e per 15 anni Vice Console onorario d’Italia nella giurisdizione di Rochester. Tante altre attività solidaristiche, negli Stati Uniti e anche a L’Aquila, dopo il terribile terremoto del 2009. Tanti i riconoscimenti ricevuti, sia negli States che in Italia. Tra questi il prestigioso Ellis Island Award. Numerose le relazioni ad alto livello con il mondo politico e istituzionale americano, a testimonianza delle qualità che Mario Daniele ha saputo mettere in campo per guadagnare la stima e il prestigio. […] Ciascuno da questi ricordi – annota infine Palmerini – trarrà stimolo per rammentare altre storie, arricchendo quella memoria condivisa che dà alimento al senso di comunità, sia di Castelnuovo nell’aquilano, come pure alle comunità italiane delle città del Canada e degli Stati Uniti laddove Mario ha intessuto la sua vicenda umana e imprenditoriale, lasciandovi sempre un segno positivo d’impegno sociale, di generosa solidarietà e di servizio alla comunità. Restano esemplari gli anni resi come Vice Console d’Italia a Rochester, una carica onoraria nella quale Mario Daniele ha dato il meglio di sé per servire la comunità italiana. L’apprezzamento al suo servizio “diplomatico” onorario è un ulteriore prestigioso riconoscimento ad una vita spesa anche per gli altri, nel campo dell’associazionismo, del sociale, della solidarietà. Egli con il suo esempio rende onore alla terra d’origine e all’Italia.” Sembra incredibile che un uomo solo abbia potuto realizzare tante cose. Mario Daniele le ha fatte, circondato da tantissimi amici, parenti ed estimatori. Fortuna? No, capacità, cuore, testa, impegno, voglia di creare. Il libro non finisce qui: seguono ancora pagine su pagine, attraverso le quali è narrato tutto quello che ha saputo fare un ragazzo di Castelnuovo che sognava il trattore.