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mercoledì 25 dicembre 2019

Tanti locali di Milano appartengono alla storia


 

AL “BOEUCC”, AL “SANTA LUCIA”…

LUSSO E CUCINA DI ALTA QUALITA’


A quei tavoli si sedettero grandi nomi

dello spettacolo, come Totò, Edoardo, 

la Duse; Wanda Osiris; del giornalismo, 

tra cui Indro Montanelli, Orio Vergani; 

dell’arte.



 





Franco Presicci

Milano vanta locali che hanno più di un secolo sulle spalle. Quello più antico è la trattoria Bagutto, nome ispirato da un termine lombardo che significa” ingordo”. La sua nascita avvenne nel 1284 in via Vittorini 4, in zona Lambrate, come attesta un documento notarile. Col tempo cambiò diverse volte il nome: nel 1400 fu “Hostaria dei gamberi”; nel 1580, “Hostaria de Quattro Marie alla Canova”. Vi comparve anche, nel 1807, Napoleone Bonaparte. Un bel “curriculum”, non c’è che dire. 

Il Presidente Sandro Pertini all'uscita dal Bagutta. A sx. Presicci
Più giovane, il “Boeucc”, che aprì nel 1696 in via Durini, come osteria. Nel 1939 si trasferì in piazza Belgioioso, una delle più belle della città, radicata nel cuore di Stendhal, che amava, senza essere corrisposto, la baronessa Matilde Viscontini, alloggiata in quel gioiello architettonico. Nelle sale del “Boeucc”, che splendono nel palazzo del giovin signore del Parini, si sedettero illustri personalità del teatro, della musica, della letteratura, della politica, da Toscanini a Maazel, a Piovene… Nel 1810 Carlo Porta vi fece un brindisi per Maria Luigia di Parma, imperatrice dei francesi, che secondo una sua biografia amava i dolci, le corse a cavallo e il gioco del biliardo. Eduardo De Filippo dichiarò che oltre i confini di Napoli gli spaghetti con pomodoro e basilico più deliziosi uscivano da quella cucina. Poi il titolare del “Boeucc” qualche anno fa è deceduto e ne ha preso il posto la figlia, che, laureata in legge, si stava preparando agli esami per diventare notaio. Lo “chef” e il direttore di sala l’accolsero con affetto, aiutandola a prendere dimestichezza con la nuova attività. Del 1820 è il bar caffè pasticceria “Gin Rosa”, in Galleria San Babila, ieri luogo di scontri fra elementi di opposte passioni politiche e oggi dotata di fontane zampillanti. Anche il “Gin Rosa” ha cambiato più volte l’insegna: “Bottigliera del Leone”, “Caffè Canetta”, “Donini”, frequentato da Ernesto Calindri soprattutto all’epoca in cui recitava al vicino teatro di Franco Parenti, che aveva lo stesso nome della piazza (vi portò in scena, nel 63, “Uno sporco egoista”, e io a mezzanotte lo intervistai proprio al Donini, raccontando poi la sua disponibilità, la sua cordialità e la ricchezza dei dettagli delle sue risposte). 


La Galleria Vittorio Emanuele
Nel 1817 nacque Il Cova, il cui titolare, Antonio, simpatizzò per i moti del ’48. Collocato di fianco alla Scala, accolse sodalizi di nobili, convegni, feste da ballo, personalità come Giuseppe Mazzini e Giovanni Verga, che allora soggiornava a Milano. Del 1866, il ristorante “Da Berti”, precedentemente denominato “Osteria dei ladri”, probabilmente per la categoria che di tanto in tanto vi si affacciava. Ammirevole un bel giardino d’epoca, frequentato spesso dal pittore Ernesto Treccani, al quale il fotografo e gallerista Mimmo Dabbrescia ha dedicato un capitolo pieno d’immagini nel suo volume “Visti da vicino”. La “Pobbia”, aperta nel 1850 come osteria con alloggio e stallazzo in un pioppeto, nei giorni nostri è un ristorante elegante tenuto dai discendenti dei fondatori. All’alba del ‘900, vi si fermavano i tram diretti a Gallarate. 

I portici di corso Vittorio Emanuele





La Pasticceria Cucchi accese le luci nel 1928, lanciando a Milano il caffè-concerto e favorendo ispirazione a Giuseppe Ungaretti, maestro dell’ermetismo (nato ad Alessandria d’Egitto da genitori lucchesi), del quale ci piace ricordare alcuni versi: “…Mio fiume, anche tu, Tevere fatale/ ora che notte già turbata scorre;/ ora che persistente/ e come a stento erotto dalla pietra/ un gemito d’agnelli si propaga/ smarrito per le strade esterrefatte/ che di male l’attesa senza requie, /il peggiore dei mali/ che l’attesa di male imprevedibile/ intralcia animo e passi/ che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli…”. L’Hotel Diana Majestic, in viale Piave, venne costruito nel 1908, per aumentare la dotazione di sale da ballo, teatri, ristoranti, caffè piscina a Porta Venezia. 



Biffi in Galleria
Orio Vergani, nel ‘53, vi creò l’Accademia italiana della cucina. Il 1911 è la data di nascita del Bar Jamaica, a Brera, che fu meta di artisti, da Dova a Guttuso a Kodra, di poeti come Salvatore Quasimodo, critici musicali come Giulio Confalonieri e personaggi come Benito Mussolini, all’epoca giornalista, direttore de “Il popolo d’Italia”.
Del !880, l’”Antica trattoria della Pesa”, in via Pasubio, che conserva tracce di una Milano scomparsa. Era facile incontrarvi lo scrittore e giornalista Dino Buzzati, l’editore Arnoldo Mondador, Indro Montanelli, Curzio Malaparte, Luchino Visconti. Nei primi anni ‘40 ebbe come cameriere o cuoco, non si sa bene, Ho Ci- Minh, poi assurto alla carica di presidente del Vietnam (oggi è inutile chiedere informazioni sull’argomento a chi ci lavora, dato il tempo che è passato). L’”Hotel Principe di Savoia” (1927) accolse Gabriele d’Annunzio, Chaplin, Onassis, la Callas… “Al Grand’Hotel et de Milan” (1863) nel 1901 morì Giuseppe Verdi e fu realizzato il primo disco di Caruso. 


Campari in Galleria


Il “Santa Lucia” di via San Pietro all’Orto venne battezzato nel 1929 e il 12 ottobre dello stesso anno sfornò le prime pizze a Milano, che non furono subito apprezzate dai meneghini, ma da poliziotti della questura (allora nella vicina piazza San Fedele), prevalentemente meridionali. Come hanno raccontato Gaetano Afeltra, uno dei grandi del “Corriere della Sera” e poi direttore del “Giorno”, nel suo libro “Milano, amore mio”, e Edmondo Capecelatro in “Storia di una città (Napoli: n.d.a.), attraverso la sua cucina”. Il proprietario del ristorante, per convincere i renitenti, ebbe l’idea di accompagnare la delizia con un frutto. E la pizza ebbe successo, che oggi si è moltiplicato, tanto che viene servita in tutti sapori in molti ristoranti, che vantano pizzaioli di alto livello. Ai tavoli del “Santa Lucia” si sedettero anche due miti: Eduardo De Filippo e Totò, che buongustai di grande classe, davano preziosi suggerimenti culinari allo “chef”. 

Caffè moderno
L'ottagono della Galleria









 










Al Savini”, quasi coetaneo della Galleria Vittorio Emanuele, dove spiccano le sue insegne, alla nascita denominata Birreria Stocker, dotata di divani di velluto rosso e lampadari in cristallo stile Belle Epoque e posaterie in argento, andavano Praga, Guido da Verona, Renato Simoni, la Duse, Puccini. Al Caffè Zucca, sempre in Galleria, stessa età del Savini, Cavallotti e tanti altri personaggi illustri. Il Biffi, anche questo con le vetrine nella Galleria Vittorio Emanuele, locale ad alto livello, elegante, cucina squisita e ottima accoglienza, ottimamente frequentato, ricevette a suo tempo artisti della Scala, giornalisti di nome, scrittori…, Al Bagutta, di Alberto Pepori, nell’omonima via che parte da corso Matteotti (battesimo nel 1924) l’11 novembre del ’26 fu fondato l’omonimo Premio per il miglior libro.                                                                                                                                                                                     Ci pensarono, con altri dieci, tra cui Mario Vellani Marchi, Riccardo Bacchelli, autore tra l’altro del libro “Il mulino del Po” (che ebbe una seguitissima trasposizione televisiva), e Orio Vergani, grande giornalista che, chiamato da Ugo Ojetti al “Corriere della Sera” come inviato speciale della terza pagina, divenne famosissimo anche partecipando a 25 Giri d’Italia e ad altrettanti “Tour de France”, e scrivendo di diversi volumi. Tra i vincitori di quel Premio, troviamo negli anni Giovanni Comisso, Vincenzo Cardarelli, Giovanni Titta Rosa, Leonida Repaci, Carlo Emilio Gadda, Giulio Confalonieri, Giorgio Bocca, Mario Soldati e via dicendo… Al Bagutta, dove pranzò anche il presidente della Repubblica Sandro Pertini, in occasione di una delle sue visite private a Milano, città che amava, un grande dipinto raffigurava la giuria del Premio e tanti ritratti, schizzi, disegni, caricature di artisti, a partire da Vellani Marchi, pittore che prese parte a diverse Biennali di Venezia, creò costumi e scene per la Scala, collaborò alla “Fiera Letteraria”, a “L’”Illustrazione italiana”. Nato a Modena, incontrò Vergani e Bacchelli nel ’25 a Milano, dove morì.
Quanta storia è passata in questi e in altri locali milanesi! Una sintesi è contenuta anche nella guida “Locali storici d’Italia”, di cui è in giro l’edizione dell’anno in corso. Sfogliandola, si possono apprendere particolari interessanti sulle origini e la vita di luoghi di ritrovo prestigiosi e longevi. Ma lo spazio è tiranno e non lo consente. Sarà per una prossima volta.


mercoledì 18 dicembre 2019

Un grande giornalista e scrittore


TRASCORSE LA VITA SCRIVENDO LIBRI
E CRITICHE TEATRALI E LETTERARIE

Ugo Ronfani
 
               












Fu corrispondente da Parigi, intervistò
Sartre, Simone de Beauvoir, Rostand…;
prese parte alla guerra d’Algeria; fondò
la rivista ‘Hystrio’, dirigendola; vinse il
Premio Campione, fu vicedirettore de
“Il Giorno”.
Era severo, disponibile e
amava valorizzare i talenti.                                                                                      
                                                                                                                                   
Franco Presicci 
Correva il settembre del ’76 quando un amico mi regalò il libro “La toga rossa” di Ugo Ronfani, giornalista, critico d’arte e letterario, saggista, uno dei maggiori censori teatrali del Novecento. Da 15 anni era corrispondente da Parigi del quotidiano “Il Giorno” e stava per rientrare in sede con la qualifica di vicedirettore. Cominciai quasi subito a leggere il testo e mi prese al punto che a mezzanotte ero arrivato già all’ultima pagina. Decisi di recensirlo. Quelle pagine, tra l’altro scritte in maniera lucida, stringata, erano così avvincenti, che proprio non riuscii a reprimere il desiderio, anzi il bisogno, di esprimere le emozioni che mi avevano procurato. Qualche mese dopo Ugo venne a cercarmi al giornale e alla presenza di tutti i colleghi mi ringraziò. Era la prima volta che lo vedevo, e da allora vi siamo rivisti molto spesso. 

I direttori Lino Rizzi e Gaetano Afeltra
Occupava una stanza al secondo piano, vicina a quelle di un altro mitico vicedirettore, Angelo Rozzoni, e del direttore Gaetano Afeltra. Diventammo amici. Quando scrisse “La rivolta del vescovo Levebvre”, fui il primo ad averlo fra le mani. Me lo consegnò personalmente al quarto piano, dove era sistemata la cronaca, ma io ero fuori per seguire un grave fatto di sangue. Me lo lasciò sulla scrivania con un biglietto. Mi chiese spesso articoli per la sua rivista dedicata all’Europa, prevalentemente interviste a personaggi importanti, tra cui Giorgio Bocca, che mi ricevette nella sua abitazione in via Bagutta (se la memoria non m’inganna). Gli volevo molto bene e non gli dicevo mai di no. Trovavo sempre un ritaglio di tempo per lui. E quando il giorno prima della mia partenza per le ferie mi dette uno di quegli incarichi, non gli dissi che avevo già pronti i bagagli per andare in ferie a Martina. Eseguii e basta. Quando lo seppe, si scusò ripetutamente. Lo rassicurai: non c’era alcun problema. E così non si fece scrupolo a telefonarmi nella città dei trulli per dirmi che in una località a un’ora e mezza dalla mia, se non erro Metaponto, i carabinieri avevano trovato la testa di una donna che era stata rapita a Milano. Lo bloccai: “Ugo, mi metto in macchina e vado”. E fu felice una settimana dopo, quando gli riferirono che era arrivato un mio articolo sugli ori di Taranto prossimi a partire per Milano per essere esposti, contro il volere di molti nella bimare, tanto che si affidò la decisione a un “referendum”. A Milano l’articolo suscitò l’ira della concorrenza, che se la prese con la presidente della Provincia, l’organizzatrice, accusata di avermi privilegiato. Invece io avevo semplicemente letto un pezzo su “Il Corriere del Giorno, firma di Nicola Caputo, autore di tanti volumi sulla storia, le tradizioni della città. Mi telefonò il grande collega Nino Gorio per rallegrarsi dello “scoop” e per riferirmi della protesta. Mi trovavo molto bene con Ronfani.

Ugo Ronfano a sinistra
Uomo coltissimo, schietto, acuto, con l’abitudine di lasciarsi scappare ogni tanto una parola in francese, e per questo qualcuno scioccamente sorrideva. Era anche severo. Mi affidò la “cucina” di una pagina sulla linea del freddo e mi raccomandò di non avere indugi nel tagliare ciò che andava tagliato. Un’altra volta per queste pagine speciali mi mandò a intervistare un capoccione dell’Alitalia. Non lo trovai e ripiegai sul capo delle pubbliche relazioni. Più di una volta andammo a cena insieme e in un’occasione ci fece compagnia il pittore Mario Bardi, un siciliano già docente di storia dell’arte al liceo scientifico, che rimase molto colpito dalla cultura e dai giudizi del nostro commensale, tanto che poi mi chiamò al telefono per dirmi: “Ronfani mi ha affascinato”. E mi invitò a fornirgli notizie della sua biografia: aveva scritto una quindicina di testi teatrali rappresentati anche all’estero e in televisione; per la poesia (“Nella città straniera”, “I porti per l’allegria”…); saggi, tra cui “Trent’anni di teatro francese”; “Rapporto sulla Francia di Mitterrand”; il pamphlet “La morte di Pulcinella”; romanzi, come “La toga rossa”, “Il cavallo d’oro”… ; altri lavori come “Lo stuzzicadenti di Jarry”; “La rosa e la spina”; Premio Campione con “Perché De Gaulle” e “Salotto parigino”; Premio Estense con “Il nuovo teatro in Francia”. Nel ’76 tra i primi cinque selezionati per il Premio Estense… Nel 1988 fondò e diresse la rivista di teatro “Hystrio”. Per la televisione curò “.

Ugo Ronfani con Jean Rostand
Pomeriggio a teatro”. Diresse l’Istituto per la formazione al giornalismo di Milano e fu coordinatore artistico del bicentenario goldoniano. A Taranto iniun albergo di viale Virgilio allestì un convegno sul teatro, presente Ernesto Calindri. Ricordo che tantissimi anni fa prese parte a un premio che aveva come tema la bicicletta e arrivò secondo, se non sbaglio dopo Gianni Granzotto. Ma lo aveva fatto per sfizio. Insomma un’attività intensa, la sua. Il lavoro lo appassionava, gli faceva “sentire la fortuna di vivere fortemente questo periodo”. Un lavoro vissuto anche con momenti di rischio professionale “in certi viaggi d’emergenza per verificare gli attimi più drammatici della guerra d’Algeria, attimi in cui a Parigi gravava l’atmosfera pesante degli attentati al plastico, della caccia al terrorista…”. Me lo raccontò durante una mia visita nella sua casa di via Raffaele De Grada, al villaggio dei giornalisti, a due passi dalla sede del “Giorno”, che allora era nel palazzo dell’Eni n via Angelo Fava. “Le luci esplodevano in più di cinquanta teatri; nonostante la guerra d’Algeria a Parigi nacque il ‘Nouveau Thèatre’. 

Il pittore Mario Bardi con Presicci
Si schieravano non già sulle grandi ribalte, dove si continuava a fare del teatro digestivo da boulevard, non sulle scene sovvenzionate, dove si recitavano Corneille, Molière, ma nei teatrini della ‘rive gauche’ con i mostri sacri del nuovo teatro: Adamov, Genet, Jonesco, Beckett. Intorno a questa costellazione, che è la matrice del muovo teatro francese, c’era la vecchia vena del teatro ‘naturalist’, il teatro esistenzialista, che ripropone i vecchi tempi dell’angoscia esistenziale suscitati dalla guerra. C’è soprattutto, sul piano non più dei contenuti, ma delle grandi strutture, il grande esempio del teatro di Jean Vilar…”. Non facevo molte domande, ascoltavo, questo eminente giornalista e scrittore; questo pozzo di cultura che aveva conversato con Sarte, Rostand e Simone de Beauvoir… Che impressione hai avuto di questa scrittrice? “Cominciava a interrogarsi sul suo futuro prossimo, confessava le sue inquietudini, meditava. Aveva perso molto della sua combattività; discuteva sulla dignità di prendere congedo dai piaceri della vita, sul mistero dell’esistenza”. Com’era arrivato, Ugo Ronfani, al giornalismo? “Per caso. Avevo cominciato l’attività politica, quando mi accorsi che la parola detta, gridata, quella del comizio, del dibattito era più approssimativa della parola scritta. 

Gaetano Afeltra
E dall’altra parte mi rendevo conto che la parola scritta nell’atmosfera un po’ artificiale della creazione letteraria correva il rischio dello scollamento dalla realtà. Allora fra la realtà gridata in modo spiccio come uomo politico e una parola che si confrontava con la realtà nuda, quotidiana la soluzione migliore era la seconda”. Non potevo non domandargli che cosa fosse rimasto del Ronfani che si calava nel personaggio del professore nella “Toga rossa”, delle intemperanze, dell’estremismo, dell’entusiasmo che spingono il docente a parteggiare per l’evaso Vincenzo Oblato fino a gettargli addosso la toga del giudice. “Lo sdegno per l’ingiustizia sociale… E’ cambiato il modo di rivoltarsi: dalla generosa, cieca contestazione, fatta a testa bassa, come il toro nell’arena, alla consapevolezza che non tutto è da buttare”. Parlava con distacco, con un tono qua e là un tantino professorale, ma in uno stile lineare, pulito, scorrevole. Come se dettasse un pezzo per il giornale. Metteva persino a posto le virgole. Forse aveva un po’ l’aria del parroco di città, robusto, non alto, cordiale. Pessimista sulla solidità della democrazia in Italia, assertore dell’azione individuale, accanto a quella collettiva, nella ricostruzione della società. Ugo Ronfani, che aveva vinto anche il Premio Fabbri, morì nel sonno a 82 anni. Ai funerali nella chiesa Sant’Angela Morici, a Milano, in via Cagliero, a un tiro di schioppo dal “Giorno”, parteciparono pochissimi colleghi di via Fava; Franco Abruzzo, che dal quotidiano dell’Eni era passato come redattore capo al “Sole-Ventiuattr’ore e allora presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia; Piero Lotito, giornalista e scrittore; il titolare della galleria di via Carlo Toma, “Spazio Prospettive d’arte” Mimmo Dabbrescia, accompagnato da uno dei suoi due figli, e altri. Era socialista e non penso fosse credente (non ne parlammo mai). Eppure il celebrante rivelò che Ugo andava a fargli visita in chiesa e si confidava con lui.


                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      



mercoledì 11 dicembre 2019

Taranto in una mostra al Castello Aragonese

TANTE BELLISSIME IMMAGINI CATTURATE

DALL’ALTO CON IL DRONE E DAL BASSO 
L'Ammiraglio Salvatore Vitiello con Cataldo Albano


Un grande fotografo, Cataldo Albano, ha percorso ogni angolo della città in cui è nato per esaltarne le bellezze. 

Ha quindi raccolto in un volume i suoi scatti e li ha proposti nella Galleria Meridionale del noto maniero, 
dove è stato accolto da un impareggiabile anfitrione: l’ammiraglio Salvatore Vitiello.



Foto di Sergio Malfatti


Franco Presicci

“Taranto vive tra i riflessi, in un’atmosfera traslucida adatta a straordinari eventi di luce...”: scriveva Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”. Al fulgore dei suoi tramonti sul Mar Grande aveva assistito anche lo scrittore “come ad uno spettacolo, ad un tramonto splendido, col sole divenuto rosso che cala veloce, simile a un’isola di fuoco che sprofondasse nelle acque. Così, dallo stesso luogo, a un grande plenilunio con sfolgorii bianchissimi e i punti brillanti dei fari disseminati al largo”.

Il trailer della mostra nella Galleria del Castello Aragonese
E ancora: “La città vecchia è collegata a quella nuova con un ponte girevole su un canale per cui passano le navi andando tra il Mar Piccolo e il Mar Grande, spettacolo gratuito e quotidiano…. Il meglio della vita di Taranto vecchia è all’aperto, sulla banchina, tra la muraglia delle case e il Mar Piccolo. E’ uno dei posti più vivaci dell’Italia del Sud, e non saprei trovarne di paragonabili; sembra illustrare una novella orientale, di quelle dove i pesci parlano e spuntano anelli preziosi…”. E Nerio Tebano, nel ’52: “Ho raccolto un po’ di sole: lo terrò stretto tra le mani./ Dono d’amore andrò nei vicoli/ di Taranto vecchia, schiuderò…/ le mani, darò ad essi la luce…”. E’ lunga la schiera dei poeti e degli scrittori che hanno esaltato Taranto. Così Annapaola Petrone Albanese, nell’85: “Aperto il ponte, l’isola diventa/ un approdo lontano./ Basta un solco di mare, un castello imponente/ un brusio che si perde/ a separare un mondo di persone/ Giocano nel tramonto i ragazzini/ sulla sponda di terra che lambisce/ le paranze già pronte per la pesca…”. In via Garibaldi, che dalla discesa Vasto porta a piazza Fontana, dopo aver passato la Dogana, andava Alfredo Nunziato Majorano per ascoltare i suoni, le armonie, le onomatopee del dialetto dai pescatori che ricucivano le reti tra le barche a riposo. E ci andavano forse anche gli altri poeti per sciacquare il loro dialetto nelle acque del Mar Piccolo, “peccerìdde” per Alfredo Lucifero Petrosillo. E qui tra paranze e ”schife”, o piccole barche, ancorate a riva, gomene e “lambare” per la cattura dei pesci di notte, è venuto il grande fotografo Cataldo Albano, tarantino doc che vive a Verona con la nostalgia della sua culla. Taranto vecchia è una calamita per le migliaia di turisti che sciamano in questa città e uno scrigno di tesori da immortalare per un cacciatore d’immagini come Cataldo Albano. 

Il dott. Cataldo Albano - Fotografo
Ha trascorso giornate intere ad esplorarla: dai pontili con corde e gomene e mitili, l’oro della città, intrecciati vicino alle barche a secco con “le curnecìdde”, a “’u chiudde”, pescatore, con le labbra screpolate e i capelli arrostiti dal sole. L’obiettivo di Aldo ha scrutato tra i vicoli , “strittele” in vernacolo; ha atteso la sera per riprendere gli occhi luminosi delle case, la luna che si specchia sulle onde, mentre le lanterne delle lampare si accendono e “’u chiudde” si prepara per affrontare il suo faticoso lavoro. Ha scattato centinaia di foto, una più bella dell’altra: il ponte girevole che si apre e si chiude dopo il passaggio delle navi (una festa per i ragazzini). E poi il faro di San Vito, sorpreso di giorno e di notte; i tesori del Museo Archeologico; interni delle concattedrali, il canale navigabile che unisce i due mari; la chiesa di San Giuseppe; le scalinate corrose; il Castello Aragonese, il cui primo nucleo venne eretto nel 780 (altri indicano un’altra data) da Niceforo Foca, quindi completato da  Ferdinando d’Aragona e poi rimaneggiato e rafforzato a difesa dei turchi, dei quali la città aveva terrore.... E proprio nella Galleria Meridionale del castello Cataldo ha allestito una mostra dei suoi scatti migliori, raccolti anche in un libro: “Taranto: due mari e un’anima”. 

L'Assessore alla Cultura del Comune di Taranto Fabiano Marti
All’inaugurazione erano presenti l’ammiraglio di divisione Salvatore Vitiello, l’assessore comunale alla Cultura Fabiano Marti, Nicola Cavallo, presidente della Giovane Orchestra Jonica (il flautista Giuseppe Palmisano ha aperto la serata interpretando un pezzo di Bach), la poetessa Mariella Cuoccio, che ha letto alcuni suoi versi. Tutti hanno preso la parola per commentare l’evento. Il professor Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha dato il meglio di sé - come ha riferito Michele Annese, anima dell’Università del Tempo libero e del Sapere di Crispiano e già dinamico, colto, esperto direttore della biblioteca comunale “Carlo Natale” di quella cittadina -, tracciando un po’ il profilo biografico dell’autore e messo in evidenza la preziosità e la ricchezza del libro, che ha definito stupefacente. 

Il prof. Francesco Lenoci
Lenoci ha coinvolto l’uditorio: “Sono tanti i figli di Taranto che non vivono nella città dei due mari,” ma per la stragrande maggioranza di loro, tra cui Cataldo Albano, vale ciò che cantava Domenico Modugno: "lontananza, sai, è come il vento: spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi”. L’amore per Taranto. Taranto, “capitale di mare”, non si dimentica. Taranto l’emigrato se la porta dentro con un pizzico di sofferenza e tanto amore. E grande è l’amore di Albano per Taranto. A riscoprirla non è andato da solo: si è fatto accompagnare dai giovani musicisti dell’Orchestra Jonica, per condividere le impressioni e forse anche perché, come affermava Piovene, passeggiando, qui “sembra di respirare a tempo di musica”. E con il pensiero lo ha accompagnato anche Lenoci, che tra l’altro ha citato Alda Merini (che visse a Taranto quattro anni): “Ho bisogno di poesia”/ questa magia che brucia la/ pesantezza delle parole/ che risveglia le emozioni e/ dà colori nuovi…”. E Taranto è fonte di poesia, è ricca di colori, provoca emozioni ad ogni passo. Il discorso di Lenoci è stato sommerso dagli applausi.

Anfora sonante donata da Cosimo Vestita all'Ammiraglio
E’ toccato poi al figulo Cosimo Vestita, che ha donato un’anfora sonante all’ammiraglio Vitiello, che, impareggiabile anfitrione, sensibile e disponibile alle attività culturali nel Castello, ha elogiato l’opera di Cataldo, già suo ospite ad agosto con la mostra sui sassi di Matera. Il Castello! Scrigno di storia visitato da milioni di turisti; ammirato per la sua struttura architettonica, per il verde ottimamente scolpito in uno dei suoi ampi spazi. In coda alla manifestazione, degustazione del Primitivo del Salento igp delle cantine di Lizzano, che ha come etichetta la copertina del volume di Albano. Volume – ripetiamo - con immagini spettacolari, straordinarie, che tra l’altro fanno nascere il desiderio negli stessi tarantini di fare quattro passi nella città vecchia, in Strada Maggiore, a San Domenico, la chiesa dalla quale il giovedì santo esce la statua della Madonna per andare alla ricerca di Gesù, tra una folla di fedeli con le guance bagnate di lacrime. La gente fa chilometri e chilometri per partecipare alla processione, come a quella dei Misteri, che si snoda il giorno dopo. Di San Domenico, “Saneminghe”, in dialetto, Aldo ha ripreso la bellissima facciata. Si è poi soffermato sul ponte di pietra, a Porta Napoli, che si affaccia su decine e decine di yacht di lusso ormeggiati in Mar Grande.

L'omaggio di Albano al prof. Lenoci
E’ stata una serata interessantissima, che ha anche emozionato il pubblico con le opere esposte. La professoressa di storia e filosofia Wilma Laghezza ha espresso il suo apprezzamento per l’iniziativa, che – ha confidato - l’ha estasiata. Taranto affascina , con la sua luce, il suo mare, con il fiume Galeso, amato da Orazio, Virgilio… Al tramonto del secolo XIX Armando Perotti a questo fiume sacro per i tarantini, che come l’indimenticabile storico di Taranto Giacinto Peluso l’hanno amata e continuano a regalarle i propri palpiti, dedicò una bella poesia: “E ancor tu guidi le sonanti e fresche/ acque per dolce clivo, alla tranquilla/ spera del mar, tra floridi giuncheti/ fiume Galeso… ricordi ancora i tuoi lunghi colloqui/ con l’erbe, con i fior, con l’acque lente/ e la pineta immobile ed il rezzo/ meridiano?...”. E Vincenzo Falco, 1913: “Piccolo Mare, talamo canoro/ di nativi tritoni e di sirene/ accorrenti alle tue sponde serene/ languidamente, dall’Egeo sonoro/ di tue vaghe conchiglie il blando core/ sospira il suono delle cetre ellene/ che si spandea da l’agili carene/ cinte di rose e rilucenti d’oro”… Dolce Taranto, molle Taremtum. “Oh, l’incanto di Taranto/ dal colle di Mottola…” (Ignazio Schino, 1980). Ricordi poetici che le immagini di Cataldo Albano suscitano in chi dalla città di Archita, matematico e filosofo della scuola pitagorica, non si stacca mai. E come potrebbe? L’amore non è una parola vuota. Soprattutto chi vive lontano è legato a Taranto, e nei suoi ritorni la vede sempre più seducente. “Ad ogni uccello – ha ricordato Francesco Lenoci accennando a padron Toni de ‘I Malavoglia’ di Giovanni Verga – il suo nido è bello”. Sono molti i figli di Taranto che stanno lontani dal nido – ha aggiunto il docente – ma quel nido è conservato nel cuore.


Intervento video di Franco Presicci   proiettato  durante la cerimonia di inaugurazione della Mostra di Cataldo Albano, allestita nel Castello Aragonese. 






mercoledì 4 dicembre 2019

A bordo con Enrico Simonetti




             IL GRANDE “CHANSONNIER” INNAMORATO DEL MARE




Cocktail con il vicecomandante

Enrico Simonetti





Alto, signorile, colto, ironico,
sincero, simpatico, impegnato
a rivalutare il pianoforte,    era figlio di un          giornalista-scrittore.

Ottimo direttore d’orchestra 
e compositore.













Franco Presicci

Quando penso ai miei viaggi su quelle eleganti case galleggianti dette le regine del mare, la “Michelangelo” e la “Raffaello”, dall’archivio della mia memoria emerge la figura di Enrico Simonetti, un grande personaggio dello spettacolo. Alto, gentile, simpatico, colto, ironico, sui cinquanta, una sera, durante la navigazione verso Casablanca, si esibì sul palcoscenico di bordo, dove cantò, danzò, suonò il pianoforte, raccontò aneddoti, tenendo la scena per quasi due ore, incantando il pubblico, numeroso e scatenato. 

La Mamounia di Marrakech
Arrivo a Casablanca
Giunti allo scalo della città marocchina in cui nel ’42 venne girato il famoso film con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, “Casablanca”, appunto, in treno andammo a Marrackech (città marocchina nella quale Elias Canetti, “vagando per i suk, i mercati e le piazze, fra cammelli, mendicanti, cantastorie, captando suoni e voci di una città sconosciuta, trova il fondamento e il respiro di un mondo lontano, pieno di vita e di colore…”, raccogliendo le emozioni in un bellissimo libro), avemmo modo di scambiarci opinioni, mentre il convoglio attraversava contrade percorse da uomini e dromedari. Poi nella grande piazza affollata, soffermandoci davanti a figuranti che calamitavano l’attenzione, fra cui l’incantatore che accosciato suonava un flauto facendo spuntare un serpente da una cesta e il venditore d’acqua bardato di bicchieri metallici e di una specie di orcio, gli chiesi un’intervista. “Domani mattina alle 10, se per te va bene”, rispose.
Il giorno dopo, fatto un bagno in piscina, ci trovammo sotto il primo fumaiolo”. Qualche commento sulla gita nella città più rilevante delle quattro imperiali, fra gli odori e i colori del suk, ricco di spezie, una pausa brevissima. 

Franco Presicci intervista Enrico Simonetti sulla Michelangelo
Quindi: “Ricordo il mio maestro di musica, che mi diceva sempre: ‘Ricordati che il contadino che la domenica va in piazza ad ascoltare la banda deve capire ciò che si suona; altrimenti a che serve allestire una cassa armonica? Sarebbe soltanto folclore’”. Simonetti non l’aveva mai dimenticato, quel maestro, tanto che nonostante il successo sul piccolo schermo, alla radio e alla tivù, contava di ritirarsi ad Alassio, dov’era nato, per aprire una scuola per giovani desiderosi di imparare a conoscere la musica in maniera corretta. Il Comune aveva messo a disposizione gli strumenti necessari. “Ho detto informazione, non formazione musicale”, precisò. “Oggi il giovane prende in mano una chitarra e la strimpella, ma la musica non la ‘sente’ come si deve. Né è aiutato da nulla, in Italia. Tu pensa alla televisione. Quante trasmissioni dedica alla musica seria? Qualche ora alla settimana? Credi che basti? Senza considerare poi che quelle poche trasmissioni sono propinate in modo asettico, non coinvolgono lo spettatore, come si fa altrove, per esempio attraverso immagini, documenti, scritti relativi ai brani eseguiti. Non si contribuisce insomma a un’educazione musicale. Ciò che del resto non si fa nemmeno nelle aule scolastiche. Il risultato? Che il nostro Paese è al livello del Pakistan e del Ghana, stando alle statistiche dell’Onu. Parlava guardando il mare. Come se inseguisse i ricordi che lo legavano alla sua Alassio, la città del Muretto, dei giardini di Villa della Pergola…. Era affascinato, dal mare; beveva l’aria pura e sorrideva. Era la fine di settembre del 1974 e l’attore, pianista, umorista, conduttore televisivo, compositore, direttore d’orchestra, di buone letture (Calvino, Ginzburg, Cassola, Giorgio Saviane, Pavese, pubblicazioni scientifiche…), ogni tanto fra le sue riflessioni qualcuna delle sue battute di spirito gustose e divertenti. Gli domandai: “Che cosa pensi di musicisti come Gaslini, che vanno a suonare nelle fabbriche?”. “Li stimo molto. Con loro la musica arriva direttamente al cuore della gente. E’ un’opera che va senz’altro apprezzata, perchè non è certo colpa dell’operaio se non capisce Beethoven o Mozart. Attento che io faccio un discorso prettamente musicale, non ideologico. In altri Paesi i i giovani imparano fin da piccoli ad ascoltare la musica; sanno a che serve un certo strumento, la sua storia, com’è nato il suono. E’ assurdo che questo non si faccia da noi”. 

Partenza da Genova
Una prova di coraggio
Enrico Simonetti parlava piano, con qualche cadenza romanesca, con quell’affabilità che tutti gli riconoscevano da quando aveva cominciato a comparire sulla scatola magica, dopo una lunga brillante attività televisiva in Brasile con un “Simonetti show” durato ben 146 puntate. Era un piacere ascoltarlo. Non era mai banale, schivava i luoghi comuni, non si lasciava impaniare dalle apparenze. Improvvisamente comparve un signore con un paio di baffi svirgolati verso l’alto, che dopo aver scodellato giudizi sulla città africana da noi appena visitata, chiese il parere dell’artista. 

E lui, pacato, sporgendosi per osservare la prua che tagliava le onde: “Non abbiamo visto niente di più che qualche stucco merlettato sul soffitto di un palazzo importante e quel mondo di cartapesta tenuto forse in piedi per gli stranieri dall’ente per il turismo: dietro il venditore d’acqua, l’incantatore di serpenti e gli ambulanti che ti si attaccano addosso come zecche c’è sicuramente qualcosa di meglio, molto meglio”. L’interlocutore rimase per un momento come la moglie di Lot tramutata in statua di sale e poi sparì, mentre lo “chansonnier” mi sussurrava che non capiva “le persone superficiali, quelle che straripano, quelle che allungano la stoffa che hanno…”. E aggiunse: “Mi viene la tentazione di istituire un club dei matti, degli stralunati. Ne troverei tanti, dappertutto, in ogni settore”. Non frequentava gli ambienti degli artisti, non gli piaceva oziare al caffè o conversare, sorbendo una bibita, di tasti o dei versi di Cesare Pavese (“Ha scritto musica con le parole”). Lo osservavo con ammirazione: era come in televisione: senza storture divistiche, il gesto discreto, il sorriso cordiale. “Le mie virtù? E’ difficile parlare delle virtù, uno se le dovrebbe inventare. Diciamo caratteristiche, caso mai”. Una virtù tuttavia riuscì a trovarla: “Non esco mai dal mio orticello. Sono un maestro-presentatore e non voglio fare altro, se non è indispensabile. Proprio in quei giorni gli era stato proposto d’interpretare un film con Edwige Fenech, ma il progetto non lo entusiasmava.
Adriano Bet
Avrebbe letto il copione ma probabilmente lo avrebbe rimandato al mittente con tante grazie. “Se ho accettato di fare televisione l’ho fatto solo per rivalutare il pianoforte, per valorizzare la musica. Credo di esserci riuscito”. Doveva la sua amicizia con il pianoforte a sua nonna: un’americana che, venuta in Italia per studiare canto, s’innamorò di un italiano e se lo sposò. All’età di sette o otto anni, Simonetti accompagnava al piano l’amata signora che cantava le romanze con il marito. L’arte dunque era l’insegna della sua casa. Il padre era pittore, scrittore, giornalista, con un notevole gusto per la musica e antifascista: condannato a morte, si salvò in extremis dal plotone di esecuzione. Sapendo che lavoravo al “Giorno”, espresse la sua ammirazione per Giancarlo Fusco, di La Spezia, penna nobile e prolifica. “Nella sua vita ha fatto di tutto, anche l’attore. Un grande giornalista e scrittore. Tra i suoi libri, ‘Le rose del ventennio’, ‘Duri a Marsiglia’, ‘Gli indesiderabili’ … Scrisse anche un testo teatrale con Enzo Biagi”. Il padre del commissario Montalbano, Andrea Camilleri, suo amico, lo indicò come “genio dell’affabulazione, della battuta”. Simonetti aveva navigato molto, quell’anno, esibendosi nel teatro di bordo. “Sì, ho navigato molto, ma adesso scendo a terra e riprendo alla radio le due trasmissioni che conosci: ‘E ora l’orchestra’ e ‘Le piace il classico’, al sesto anno, 140 puntate e un indice di ascolto molto elevato. Il mare fino all’anno venturo sarà solo una speranza”. Quella notte gli venne consegnato un premio, in occasione del concorso “La dama dello zodiaco”. Il premio consisteva in una splendida scultura in oro di Sforza di Genova, raffigurante l’elemento fuoco. La motivazione della giurìa, della quale facevo parte anch’io: “Il calore delle esecuzioni del maestro Enrico Simonetti, la profonda sensibilità da lui dimostrata come pianista, l’impegno assoluto nel rivalutare il pianoforte”. “Dama dello zodiaco” fu eletta una deliziosa, giovane signora bulgara, Margaret Boeri, residente da undici anni a Milano, dove dirigeva una clinica ereditata dal marito. La dama aveva fatto la giornalista nel suo Paese ed era studiosa di astrologia, materia che a tempo perso coltivava anche Enrico Simonetti. A consegnare i riconoscimenti, Adriano Bet, capo ufficio stampa della Società Italia di navigazione, armatrice delle due gemelle del mare, “Michelangelo” e “Raffaello”.  Enrico Simonetti è deceduto nel ’78 a Roma, ma molti lo ricordano ancora. Con stima.







mercoledì 27 novembre 2019

Natale è ormai alle porte


Zampognari in un cortile milanese

ATTRAVERSANDO L’ITALIA

ALLA RICERCA DEI PRESEPI



Da Bergamo a Lecce artisti
autentici ricostruiscono la
Natività, che spesso finisce
sugli scaffali dei collezionisti
e dei musei, come quello di
Brembo di Dalmine, che ha
circa mille manufatti arrivati
anche da Paesi lontani.





Franco Presicci

                                                    
Riecco Natale. Nelle case ci si prepara ad allestire il presepe, a tirare fuori dalle scatole di cartone guardastelle, pastori, pecorelle, pizzaioli, la stella cometa, che guidò i Re Magi alla grotta del Bambinello. Molti hanno in mente il progetto; altri faranno nascere e crescere il paesaggio in modo estemporaneo. Qualcuno rimarrà fedele alle costruzioni del nonno e del papà, che però non avevano tutti gli elementi di oggi. L’illuminazione, per esempio, allora si otteneva con una normale lampadina nascosta dietro una roccia”, un sasso, o appesa in cima all’abete o al pino.

Presepe Associazione La Natività
Ai giorni nostri sono a disposizione i “piselli” policromi, che producono effetti teatrali. “Mio padre – mi dice un amico che dedica al presepe una stanzetta – ricopriva un’ossatura di legno con fogli immersi in un secchio colmo di creta e acqua, inzaccherando pavimento e pareti, e ogni volta, smontata l’architettura, bisognava ridipingere. Io confeziono a modo mio la cartapesta. E mentre mi accingo a inventare la scenografia, penso alla mia mamma, che dava una mano a mio padre plasmando l’argilla per fare le statuette. Faceva le forme con il gesso, le riempiva e maneggiava colori e pennelli”. All’epoca – una settantina di anni fa – non circolava molto denaro, anzi le tasche piangevano, e siccome al presepe non si voleva rinunciare, a Taranto qualcuno andava sulla via per San Vito e fuori dello stabilimento balneare Praia a Mare e raccoglieva da terra i rami secchi dei pini e strappava dalle pareti il muschio.

Scena natalizia a Milano
Non esistevano l’erba e il terreno sintetici. La passione per il presepe ha avuto alti e bassi, ma non si è mai esaurita. Ai primi del Novecento nei bagagli degli emigranti, tra calze e magliette, c’erano il pescatore, il pollivendolo, la lavandaia, il gregge, tutti in terracotta, perché avvertivano il bisogno di fare il presepe nella terra che li avrebbe ospitati; e i loro discendenti continuano la tradizione. Nessuna competizione con l’albero di Natale. In quasi tutte le abitazioni, a Milano, come nel resto del Paese, l’uno e l’altro convivevano come adesso sapientemente. Negli anni Venti e trenta per lo scrittore Carlo Castellaneta Il Natale a Milano era atteso dai bambini non soltanto per il presepe, ma per i regali. “Una febbre che raggiungeva l’acme il pomeriggio della vigilia e la sera vedevi sui tram genitori carichi di pacchi… La Rinascente era il paese dei balocchi…”. 

Presepe Associazione La Natività
Le confezioni venivano sistemate sotto l’albero o vicino alla grotta della natività. C’è da restare ammirati davanti a certi impianti scenici della nascita di Gesù, tra l’altro con la neve ottenuta con il borotalco o con fiocchi di bambagia o altro. A Cantù, a Brescia, a Bergamo… si realizzano presepi spettacolari, con il Bambino che scalcia nella stalla di una minuscola cascina realizzata con polistirolo o mattoncini in terracotta o in gesso, con gli elementi architettonici ispirati alle strutture agricole vere, con la ringhiera, il cortile, le abitazioni dei contadini, i pomodori appesi, il granoturco accumulato su una panca, la carriola, il carretto… Ovunque, i manufatti spesso escono dalle mani di autentici artisti. Stupefacente, a Milano, il presepe meccanico, un vero gioiello, collocato accanto al “scior Carrera”, una statua sulla quale venivano appiccicati foglietti di protesta o sfottiture con obiettivo il potere, come Pasquino a Roma fino al 1870, la presa di Porta Pia. Nel capoluogo lombardo era famoso con altri il presepe quello del Cordusio che rimaneva acceso fino al carnevale ambrosiano. Presepi venivano creati anche in case di importanti capitani d’industria entrati nella storia. 

Statuine nella Casa del presepe
All’allestimento dei presepi popolari spesso contribuiva tutta la famiglia, come in molti casi anche oggi. Alcuni depongono subito Gesù tra bue, asinello, san Giuseppe e Maria, nel truogolo o per terra su strati di paglia; altri preferiscono portando alla mezzanotte del 24 dicembre, in processione, cantando “Tu scendi dalle stelle”, composta a Nola nel 1754 dal vescovo Alfonso de’ Liguori, diventato santo. In Puglia il presepe sarebbe stato incrementato dallo scultore Stefano da Putignano tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. Suoi presepi, bellissimi, si trovano in diverse parti della regione. Non dimentichiamo le statuine e gli impianti scenografici del Leccese, che prevedono anche l’albero della cuccagna, con salumi, formaggi, frutta in alto, come nella vita reale accadeva durante le feste paesane; la raccolta di fichid’india, oltre all’angelo e ai Magi, la cui radice, “mag”, vuol dire dono. Le statuine di Cutrofiano, Ruffano… fanno parte di collezioni private e pubbliche. Sempre a Lecce e dintorni si svolge il mercato di Natale. A Milano la fiera di Sant’Ambrogio, dove qualche banco vende statuine. A Napoli al presepe e ai suoi personaggi è riservata tutta una strada. E sempre nella città campana Carlo VII, re dal 1734, s‘impegnò in quest’arte, con la collaborazione della moglie Maria Amalia, che cuciva i vestiti per la lavandaia, la Madonna, San Giuseppe… 

Presepe Associazione La Natività
Con il tempo sono sorti gruppi, associazioni, musei. Famoso quello di Brembo di Dalmine, che conta un migliaio di presepi, tra cui quelli partenopei: uno del ‘700, di grandissime dimensioni, 79 personaggi, 32 animali, una notevole quantità di attrezzi. Anche la Puglia ha il suo posto nel Museo, sorto in terra bergamasca, per il fatto che in questa regione la produzione presepiale è sempre stata molto diffusa. A Martina Franca, quattro o cinque anni fa tre appassionati – Michele Sforza, Martino Minardi, Giuseppe Semeraro - hanno formato l’associazione “la Natività”, con sede in un locale nei pressi del municipio, dove compongono presepi suggestivi, con sentieri, muri diroccati, cortili, forni, piazze, tratturi, interni di case illuminate e con il paiolo che pende dalla gola del camino: tutto attorno alla grotta che ospita il Bambino. 

Statuette nella Casa del Presepe
Hanno idee originali nella elaborazione dei vari elementi: ulivi saraceni ottenuti spruzzando colla a spray su ciuffi d’erba, su cui poi spargono origano … Hanno fantasia, esperienza, abilità, e anche talento. Fanno da sé anche le statuine piccolissime per le esigenze della prospettiva. I loro presepi sono realizzati con molta cura: gli ambienti, come quelli del fabbro, del falegname, del bottaio, del maniscalco… ricostruiti nei minimi particolari, con gli strumenti del mestiere, frattazzo, sparviere, incudine, fucina, rampino, martello a portata di mano dell’artigiano… Sono dunque dotati di pazienza, sono meticolosi, attenti, per i loro progetti, alle abitudini della gente nei mercati, nella vita privata e anche in campagna, dove si può vedere il contadino che, seduto su un muretto a secco che delimita un vigneto, pasteggia con un panino e un bicchiere di vino; o un pastore, in mano un bastone, che porta a spasso il suo gregge con l’aiuto di un cane. Meriterebbero quindi che il Comune della città pugliese, così laboriosa e intelligente, mettesse a loro disposizione un locale più ampio. Sino a qualche anno fa uno del gruppo, Michele Sforza, ha creato il suo presepe in una chiesetta sconsacrata nel ringo, sempre visitato e apprezzato da molti suoi concittadini, che in questo periodo vivono come altrove tutte le iniziative tradizionali. 

Presepe Associazione La Natività
A Taranto, nei pressi del Palazzo del Governo, in via Principe Amedeo, c’è la Casa del Presepe, che fu aperta un’ottantina di anni fa da Antonio Mazzarano, deceduto qualche anno fa a 105 anni. I figli, tra cui Giuseppe, continuano a costruire presepi a regola d’arte. Il presepe dà felicità, in chi lo esegue e in chi lo ammira. E’ magica, fiabesca, da sogno l’atmosfera del presepe. Quando ci si trova di fronte a uno di questi paesaggi sacri si resta estasiati. “Vorrei entrarci, trovarmi in un cortile con oche, conigli, agnelli, galli, galline, in quel silenzio e in quella pace che danno ristoro”, commentava l’anno scorso un amico milanese, mentre ascoltava due zampognari entrati in un cortile lungo il Naviglio Grande. Non è soltanto per un senso religioso”. E’ forse il desiderio inconscio di sottrarsi al frastuono, al caos alle insidie della città; alle competizioni del luogo di lavoro. Il presepe affascina. Ne ho visti tanti. Anche quelli che costruivano “Gli amici da sempre”, tra cui Alfredo De Lucreziis, a Crispiano, fatti con pane o biscotti scaduti. Presepi meravigliosi, grandi, in una saletta vicina al corso principale. Presepi con ponti, cascate, archi, fontane, colonne, scalinate e figure fortemente espressive, fondali con sorgenti di luce. Un tempo, a Taranto, la mia città, era famoso il presepe della chiesa di san Pasquale in corso Umberto, di fronte a piazza Garibaldi. Il grande evento di Betlemme, borgo detto “casa del pane”, lo riviviamo ogni anno nella ricorrenza di Natale. Con gioia. “Non rinuncerei mai al presepe”, mi dice l’amico. “Che Natale sarebbe senza il presepe?” Che vuol dire mangiatoia, stalla, greppia e anche chiusura con una siepe. “L’albero è freddo, ornamentale, nonostante la stella sul puntale”. No, anche l’albero, innevato con coriandoli bianchi e con pezzettini di ovatta, incanta.