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mercoledì 24 giugno 2020

La storia dei cappottari di Teresa Gentile


Fedele Pavone con i figli
RIPERCORSA NELLE PASSEGGIATE SEROTINE

CON UN RAPPRESENTANTE DELLA 

CATEGORIA



Pierino Pavone, che per quarant’anni aveva

frequentato i mercati del Leccese, mi faceva 

conoscere Martina, mi parlava dell’attività

che aveva svolto, mostrandomi i luoghi degli

opifici, dei depositi..





Franco Presicci
Dopo tanti anni, ho ripreso in mano l’interessantissimo libro di Teresa Gentile: “Dalla tessitura all’industria confezioniera a Martina Franca”, edito da Schena nel 1998.
Pierino Pavone al torchio
Quando lo vidi esposto nella vetrina del tabaccaio che sta tra via Taranto e lo stradone, ero con un ex cappottaro prestigioso mio amico: Pierino Pavone, che mi consigliò di acquistarlo. Accettai il consiglio, appassionato com’ero, e sono, di tutte le testimonianze del luogo del cuore e della memoria. Sapendolo, un altro amico, Peppino Montanaro, che come me e Pierino la sera frequentava il locale di Peppino Cito per fare quattro chiacchiere, mi regalò le fotocopie degli scritti di Aminta Scialpi, che divorai il giorno dopo. Dei cappottari Pierino mi aveva parlato molte volte. Ogni tanto verso le 19 percorrevamo insieme le strade di Martina, dal ringo a “u curdunnjdde”; da via Mercadante al foro boario, e durante il tragitto lui mi raccontava il mestiere che aveva praticato con passione e orgoglio per quarant’anni al mercato in provincia di Lecce. E quando gli confidai che avevo in mente di fare un salto a Cutrofiano per acquistare delle statuine del presepe per la mia collezione, si propose come accompagnatore. A noi si aggiunse Peppino Cito, che scattava quando era in cantiere una gita, per esempio, a Castellaneta Marina, dove Cenzino Ancona aveva una campagna. Partimmo il mattino presto in auto, e quando arrivammo a destinazione, parcheggiammo il mezzo e cominciammo a cercare un laboratorio di ceramica. 
Pierino Pavone

Parlando, mi accorsi di essere rimasto solo: Peppino si era infilato in un negozio di scarpe, attratto dall’esposizione; e Pierino? Era distante e conversava con una persona, a cui toccava il bavero del cappotto. Mi fermai ad osservare, finchè lui si ricordò di me, salutò l’interlocutore e mi raggiunse. ”Pierino, mi hai abbandonato!”, gli dissi sorridendo. “Ho riconosciuto il cappotto indossato da quel signore e gli ho chiesto provocatoriamente chi glielo avesse venduto; e quello mi ha risposto che era stato trent’anni prima uno che veniva da Martina. ‘Sono io’, e lui, dopo aver scavato nella memoria: ‘Sì, è vero, siete proprio voi’”. “Bella soddisfazione!”. “Il cappotto è ancora quasi nuovo, nonostante l’età”. Era contento, ma non volle darlo a vedere. Discreto, sincero, pacioso, di poche parole, intelligente, una sorta di monaco zen, mi ha raccontato tante cose della sua vita di cappottaro e dei tempi andati. E vedendomi attento, curioso, capace di ascoltare senza interrompere, una sera mi sottrasse allo scopone, a cui partecipavano anche Ninì Ponte e un maresciallo dell’aeronautica, Francesco, che scoppiettava a ogni errore del compagno, e mi portò a spasso per Martina per indicarmi i laboratori dei cappottari e ogni altro posto legato a quel lavoro, compreso quello che aveva ospitato il suo deposito, in via Quasimodo, sotto San Francesco. Sembrava non avesse letto il libro di Teresa e mi faceva domande come il professore all’allievo.
I trulli di Pierino Pavone
Gli riferivo che Teresa era stata bravissima a descrivere i cappottari di Martina, che – diceva - salivano sui traini diretti ai paesi vicini, in occasione delle feste patronali e in tutti gli altri giorni per vendere abiti confezionali, e lui ascoltava in silenzio, come fosse in meditazione. “Se non sbaglio tu avevi un furgone con cui trasportavi la merce al mercato, che t’impegnava dalla fine di ottobre ai primi di aprile. Avevi delle donne che cucivano per te”. Assentì. L’ultima volta ci andò con il figlio Giuseppe, di dieci 10 anni, che giorni fa mi ha regalato alcuni suoi ricordi: “Papà aveva una casa a Galatina e rientrava ogni ‘week-end’. Aveva cominciato il commercio dei cappotti quando aveva 16 anni. “Pierino, Teresa ha scritto che i cappottari pubblicizzavano i loro prodotti al grido: ‘Cappe e cappot… tallu… sodi….Martinaaa!’. Io non riesco a vederti dietro il banco mentre seduci gli avventori con quel richiamo”. Rispose accennando a un sorriso e mormorò un paio di parole che non riuscii a captare.
Si vendemmia da Pavone


Teresa, in quel libro, racconta ogni aspetto dell’industria confezioniera della sua città, dedicando molte pagine alla categoria dei cappottari. Parte da lontano: nel 1927 una cinquantina di ditte della città occupavano circa 400 operai e alcune sartine lavoravano a domicilio. Il libro è un serbatoio di avvenimenti. Mi ha avvinto. L’ho letto con vero piacere, colpito anche dai dettagli. Teresa delinea persino la quantità di cappotti e capi maschili che veniva prodotta (attorno ai 40 mila capi, venduti in Puglia, Marche, Calabria); il costo delle stoffe, che oscillava tra 10 e 20 lire al metro; e i metri necessari per un capo: 2,50. Per Pierino ovviamente la mia esposizione non era una novità; eppure non schivava il discorso. Aggiunsi che quel libro era prezioso per chi volesse informarsi sull’industria confezioniera di Martina. C’era tutto: gli sviluppi, i periodi di crisi, la ripresa grazie all’intelligenza, alla tenacia, all’intraprendenza dei martinesi. Alla laboriosità delle donne che filavano e tessevano alla luce dei lumi. Un mondo che non conoscevo.

Pierino Pavone
E quando incontrai una di queste donne nel negozio di ottica di Lella Cito, in via della Libertà, proprio per la mia ignoranza non ebbi l’idea d’intervistarla. Anche perché Annina – così si chiamava - bassina, esile, taciturna, che nonostante l‘età continuava a tessere coperte e altro e a fare orecchiette “a memoria”, come diceva lei, a causa della vista, era sempre molto indaffarata. “Insomma, il libro ti è piaciuto”. “E’ da tenere in libreria per utilizzarlo all’occorrenza, data la ricchezza degli elementi che custodisce. Parla anche di personaggi specializzati nell’allestimento di abiti ecclesiastici, sottane, cappotti, “paletots”, zimarre, mantelline e altro, come Maria Campanella e Leonardo Marangi. Parla dei matrimoni che consentivano a famiglie di concorrenti di allentare la competizione. Seguono le biografie, che informano sulla operosità, l’inventiva, il coraggio del popolo della città dei trulli.

Il padre Fedele Pavone
Giorni fa, ripassando il libro, ho telefonato a Giuseppe per sapere se una foto del libro fosse quella di suo nonno; e lui: “Aspetta, sto lavorando in campagna, tempo fa ho trovato, fra le cose di mio padre, un volume, vado a vedere”. Il titolo era quello di Teresa Gentile, quindi Pierino lo aveva letto e la foto era del suo papà, Fedele. Le biografie contribuiscono ad immerge il lettore nel fervido ambiente dei cappottari. Come anche le fotografie, tra cui quella della donna al telaio, dove i fili di lana diventano tessuto. Bella anche quella della giovane che cuce a macchina a tarda notte. Sfilano i Salamina, una dinastia; Francesco e Nicola Caramia, altra dinastia; Grazia Basta Lucarella alla macchina per cucire; Pietro Carelli, “che si reca cona la moglie Rosa Pamettino in giro per i mercati e porta merletti e stoffe a Locorotondo; Cosimo Cannarile… Ci sono le foto di auto, depositi, insegne, punti - vendita, mercati, stabilimenti, macchine, lavoranti, tavolate, documenti. Michele Annese, direttore di “Minerva News”, anima dell’Università del tempo libero e del sapere di Crispiano, già segretario generale della Comunità montana di Mottola e già direttore della Biblioteca “Carlo Natale” della città delle cento masserie”, mi diceva che molte donne, tanti anni fa, alzandosi molto presto, con il treno salivano a Martina a lavorare alle confezioni. Un opificio a Crispiano c’era già; a questo se ne aggiunsero due, i cui titolari senza chiudere l’attività a Martina, assunsero una quarantina di persone. Uno dei due prese in affitto un locale della madre della professoressa Silvia Laddomada, in via Castello, e lo utilizzò come laboratorio. Poi, lasciando il locale ad un altro confezionista, tornò a Martina e s’insediò nella zona industriale. E’ stata una civiltà, quella dei cappottari.
Pierino Pavone in campagna
Pierino, che è deceduto all’età di 75 anni, e ha curato con tanto amore la terra lasciatagli dal padre sulla via di Mottola a un chilometro da Martina (faceva di tutto, potava gli alberi, arava, accudiva alla vigna, orgoglioso del cappero che lussureggia sul bordo del piazzale). Adesso lo sostituisce il figlio Giuseppe, che dopo il diploma si è iscritto all’università, ma si è messo subito a lavorare e non gli rimane tempo per le aule dell’ateneo. Non ci sono più Peppino Cito, Ninì Ponte, Cenzino Ancona… I locali di Peppino nel ringo sono stati svuotati delle decine di trulli in terracotta, del forno, dei quadri, delle migliaia di foto che Peppino aveva scattato in varie parti del mondo. A me restano i ricordi: le partire con Cito, che voleva sempre vincere, con Ninì Ponte, ex mobiliere che conservava in campagna sulla via del cimitero tutti gli attrezzi del mestiere, compresa la sega elettrica e il bancone, con Cenzino, alla presenza come spettatore di Franchino Lodeserto, sempre in abito scuro e “papillon”. Soprattutto ho nostalgia delle passeggiate serotine con Pierino, che, profondo conoscitore di papa Galeazzo, un arciprete fantasioso, strambo, furbo, burlone, mordace, autore di barzellette, aneddoti e piccoli racconti, poi riuniti in un “Breviario”, abitante a Lucugnano, nei pressi di Tricase, mi parlava di quel prete dalla tonaca lisa, vissuto nel XVII secolo, e delle sue imprese. Conosceva a memoria le sue storielle, come quella dell’asino instabile venduto a un ingenuo contadino e della trovata elaborata dal prete per non riprendersi il quadrupede che ad ogni passo inciampava. Qualche volta ero io a sollecitare il ritratto di questo personaggio della letteratura popolare salentina, che avevo sentito evocare da mia madre quando mi sorprendeva incoerente: “Sei come papa Galeazzo: fai come dico e no come fazze”. Caro Pierino Pavone, stavo molto volentieri in sua compagnia. Durante una delle nostre passeggiate, mi disse: “Un giorno ti porterò al cimitero per farti vedere come i miei stanno sistemati là”. Non abbiamo avuto il tempo.





mercoledì 17 giugno 2020

Ugo Tognazzi, commissario in questura



INTERROGAVA CARLO DELLE PIANE
CHE SI AUTOACCUSAVA DI UN DELITTO


Ugo Tognazzi con Presicci nel camper


Ricevette il cronista nel camper messogli a disposizione dalla produzione.

Disse che a Milano si trovava bene e a suo agio nei panni del poliziotto.
           
La sua presenza nel cortile di via Fatebenefratelli 11 provocò grande fermento.

Tutti volevano vederlo.
L’attore era cortese, simpatico, sorridente.









Franco Presicci


In via Fatebenefratelli 11, sede della questura di Milano, ho visto entrare ogni giorno tanta gente in manette e senza. I primi uscivano, ed escono, dalle Volanti con la testa bassa, se gregari o pesci piccoli. I “boss” con l’aria di chi andava a passeggio.
Tra gli invitati Plantone, Catalano, Papi, Argentine, Jovine e signore
Qualcuno l’ho anche sentito parlare con un sottufficiale dal muso duro, mentre ammanettato al polso di uno dei due poliziotti della scorta, aspettava la macchina che lo avrebbe portato in carcere: fumava tranquillamente una delle più costose sigarette tirata fuori dal taschino della camicia a righe blu. Era uno che nella malavita ci metteva poco a dare l’ordine di eseguire una condanna a morte, se non aveva voglia di essere lui stesso a premere il grilletto. La sua cattura fece parlare tutti i mezzi d’informazione. Li ho visti di giorno e di notte, stando in cortile o alla finestra della sala-stampa. Uomini e donne. In quel cortile la mattina del 5 febbraio del 1988, un freddo che faceva battere i denti, notai un camper parcheggiato di traverso sulle strisce bianche riservate alle auto di servizio e una a quella del giornalista che non arrivava in tram.

Intervento del questore di Milano Catalano
La curiosità, innata in chi bazzica le redazioni dei giornali, mi spinse a chiedere che cosa facesse lì un mezzo insolito. I poliziotti di guardia all’ingresso erano impegnati con un gruppo di persone che chiedevano chi la stanza di un commissario, chi quella di un ispettore che li aveva convocati e il percorso per raggiungerli dato che si sarebbero persi prima di individuare la porta giusta, tante erano quelle disseminate al termine del corridoio lungo e semibuio al piano terreno. Mi rivolsi al piantone, un ragazzo appena arrivato a Milano, ma non ne sapeva niente o forse credeva di doversi tenere per sé un segreto di Stato.

Jovine e Olivieri
Salii allora dal capo di gabinetto Paolo Pifarotti e, dopo avergli chiesto se c’era qualcosa da segnalare, seppi che si doveva girare un film tratto da uno dei romanzi di Renato Olivieri, “Maledetto Ferragosto”, un giallo appassionante che avevo letto un paio di volte. E siccome la giornata si prevedeva senza scosse, di quelle che non producono notizie neppure se piangi in cinese, tornai nel cortile, dove avevo avvistato il maresciallo Ferdinando Oscuri, un poliziotto di ferro, dal fiuto finissimo, come quello di un cane da tartufi, e il vicequestore Francesco Colucci, che, come Oscuri, conosceva molto bene la criminalità milanese e il suo sottobosco. Verso le 11 comparve Ugo Tognazzi, cappotto di cammello, l’aria un tantino stanca, un sorriso amabile. Si avvicino al regista, Sergio Corbucci, lo salutò, scambiò qualche parola e si diresse verso il camper messogli a sua disposizione dalla produzione. Intanto era arrivato Alberto Berticelli, il mio collega e amico che veniva a mietere notizie in questura per “Il Corriere della Sera”. Non potevo lasciarmi scappare l’occasione d’intervistare la “star”. Senza pensare se fosse o meno il momento giusto, mi affacciai e chiesi il permesso di entrare, dopo essermi presentato come cronista del “Giorno”. Tognazzi fu cortesissimo, e sorrise quando gli dissi: “Mi scusi, Tognazzi, sono notoriamente un rompiscatole, ma confido nella sua comprensione”. “Non si fa così, bisogna chiedere l’autorizzazione all’ufficio-stampa, che è a Roma. Ma sorvoliamo e parliamo in questa casa viaggiante.

Arnaldo Giuliani
Caracciolo, Pagnozzi, Colucci
Tra poco in una stanza con accesso dal cortile bisogna interrogare l’indiziato”. “Carlo Delle Piane”. Un modo elegante per dirmi che dopo far presto? Comunque, si sedette invitandomi ad imitarlo. “Mi troverò a mio agio in questo ruolo. Non è la prima volta che indosso i panni del poliziotto”. “Lo so. Mi vengono in mente ‘Il commissario Pepe’ del 1969, regista Ettore Scola, con una sua ottima interpretazione, inutile dirlo: lo dice anche Morando Morandini, critico cinematografico del mio giornale, molto severo nei giudizi. Anche quel film era tratto da un romanzo, autore Ugo Facca de La Garda. Ricordo anche ‘La mazzetta’ (tratto da un libro di Attilio Veraldi), diretto Sergio Corbucci. Lei era il commissario Assenza…. La parte del funzionario di polizia le sta a pennello: è convincente”. Risposta: “Il poliziotto italiano è sobrio, ricco di umanità e non ha paraocchi”. Aggiunse che a Milano si trovava molto bene. La considerava più vivibile di Roma. E poi qui aveva una casa e, se non ricordo male, la madre. Giulio Ambrosio, il “detective” del romanzo di Olivieri gli piaceva. Era colto, intelligente, amante dell’arte. 

Gerosa e Olivieri
Per lui Olivieri cesellava “gialli” in ogni zona della città. Come “Largo Richini”, in cui, come in altre occasioni è preso dai dubbi, non si lascia condizionare dalle prime idee, interpreta le parole dei testimoni, osserva l’ambiente con meticolosità, come Oliveri, nato a Sanguinetto in provincia di Verona, e deceduto qualche anno fa a Milano, osservava ogni angolo della città, per conoscere le vie, i palazzi, la gente: ogni particolare. I suoi gialli nascevano in piazza Napoli, in viale Romagna, in piazza del Carmine, all’Idroscalo, in piazza Aspromonte, in via della Spiga, una via importante e famosa, silenziosa e tranquilla. Seguiva la cronaca nera, anche quella del passato, e dirigeva una rivista d’arte della Mondadori. Era giornalista e scrittore. Tognazzi sapeva già tutto. Intanto si era sparsa la voce. “In questura si sta girando un film?”. Qui da noi si sta truccando Ugo Tognazzi?”. “Sì, ma non lo si può disturbare”. E chi avrebbe potuto, ormai, protetto com’era, da una specie di posto di blocco.
Un giovane collega riuscì a superare la barriera e fu fermato mentre si accingeva a spingere lo sguardo oltre le tendine del camper. Nelle celle le luci erano accese. Ugo Tognazzi era già il commissario Ambrosio. Uscì dal camper, andò nella cella, dove Carlo Delle Piane era pronto per l’interrogatorio. “Ciak si Gira”. Alle 14 il commissario Ambrosio era nuovamente fuori, preso di mira dai fotografi dei quotidiani e delle agenzie. Qualche paparazzo lo invitò a mettersi vicino alla “pantera”. Il commissario non si sottraeva alle esigenze dei “clic”. 

Colucci, Catania, Serra
Poi fu avvicinato da un commissario vero: Francesco Colucci, dirigente della divisione di polizia giudiziaria, che gli aveva concesso il proprio ufficio per due mesi (come aveva fatto con Pupella Maggio). Domandai a Colucci: “Com’è Tognazzi?”. “Eccezionale, simpatico, effervescente, bonariamente pungente all’occasione, come lo si tocca suona”. E un funzionario, a sua volta: “Signor Tognazzi, che cosa sta succedendo nelle celle di sicurezza?”. “Carlo Delle Piane si sta autoaccusando di un delitto”. E tornò dentro, dicendo: “L’imputato non può attendere”. Poi spunto Achille Serra, capo della Squadra mobile”, che cercava Oliveri. Olivieri non c’era. Chi lo conosceva bene, sapeva che era persona corretta e riservata. E dava di lui qualche notizia: “A Milano dal ’39, milanese convinto, era stato pittore e redattore di politica estera in un quotidiano autorevole, aveva diretto le riviste “Grazia”, “Arianna, “Antiquariato”, “Millelibri”, “Arte”. Il film doveva avere il titolo del romanzo. Ma il tempo era grigio, imponeva gli abiti invernali e “Maledetto ferragosto” era anacronistico, quindi divenne “I giorni del commissario Ambrosio”. Renato Olivieri, detto il Maigret di Milano, era d’accordo.

Papi, Argentine, Rizzi, Alessi, Presicci
Era stimato e amato non soltanto dai suoi lettori. Io avevo con lui un ottimo rapporto. E quando mi chiese una recensione al suo “Largo Richini”, organizzai una serata in un noto ristorante milanese, invitando un gran numero di poliziotti, carabinieri, finanzieri, magistrati, tra cui il procuratore generale Beria di Argentine, il presidente e il vice del tribunale civile Alessi e Papi; il direttore e il vice del “Giorno” Lino Rizzi e Enzo Catania; e tanti altri giornalisti della carta stampata e delle televisioni. Guido Gerosa, che era al “Giorno” anche lui nella veste di vicedirettore, presentò il libro in maniera avvincente e Arnaldo Giuliani, che stava per lasciare il “Corriere della Sera”, dove aveva l’incarico di capo cronista, intervistò un bel “bouquet” di questori (Plantone, che venne da Catanzaro, Jovine, da Roma, Putomatti da Cuneo, Pagnozzi, Caracciolo, Catalano, che dirigeva la questura di Milano), Achille Serra, Francesco Colucci, facendo emergere episodi anche divertenti della loro carriera. Era la sera del 25 maggio dell’87 ed erano presenti anche i dirigenti della Casa editrice Rizzoli, con la signora Silvestri, capo ufficio stampa. Alla manifestazione i giornali dettero molto spazio: un quotidiano titolò “Tanti poliziotti veri per un poliziotto di carta”. Umberto Catalano consegnò a Olivieri una medaglia con l’immagine della facciata della questura. Il quotidiano del pomeriggio “La notte” riservò una pagina con una bella fotografia. Titolo, “I racconti della madama”. Il giorno dell’inizio del film qualcuno ricordò quella serata, che era stata un avvenimento. Qualche altro cercava di vedere dentro il camper, un guscio vuoto, perché Tognazzi era altrove. Nello stesso cortile della questura era stato anche Michele Placido. Incontrai invece, al carcere di San Vittore, Vittorio Mezzogiorno, mentre girava una scena in cui veniva colto da un forte mal di testa.






mercoledì 10 giugno 2020

Quando venne arrestato l’ultima volta


TELEFONO’ AL SUO VICINO DI CASA
DI PRENDERSI CURA DEL SUO GATTO
Oscuri, il questore Bonanno, Gino Cervi

Per tutti i profitti della sua attività di
ricettatore venne soprannominato
dalla mala e dai cronisti Paperon de’
Paperoni. Si diceva che negli anni 70
si fosse fatto costruire in Svizzera una
villa da nababbo. Da giovane aveva
frequentato il ring, al quale preferì un
altro mestiere.


Franco Presicci
Nel mondo della malandra gli avevano assegnato il soprannome di Paperon de’ Paperoni per il profitto derivante dalla sua attività di ricettatore: si diceva che disponesse di forzieri e magazzini pieni di merce rubata, compresi oggetti preziosi e che in Svizzera si fosse fatto edificare negli anni 60 una villa da nababbo. Nato in un’ottima famiglia dell’alta Italia, aveva intrapreso questo mestiere, diverso da quello previsto nella palestra di pugilato agonistico che aveva frequentato. Viveva a Milano, era intelligente e conduceva i suoi affari con abilità imprenditoriale.
L'ex commissariato trasformato in pub
Ciononostante, gli investigatori, guidati dal maresciallo Ferdinando Oscuri, bussarono spesso alle porte della sua “azienda” e non ne uscirono mai delusi. Almeno così raccontavano le cronache e così lo descrivevano i poliziotti che lo avevano mandato più volte al “gabbio” (la cella). Sempre secondo le voci correnti, i ladri, i topi d’auto, le “mani di velluto”, come vengono definiti i virtuosi del borseggio, i “volinisti”, autori del furto con destrezza, affidavano a lui ogni sorta di malloppo. 

Un amico istruito sui meandri della mala, sui suoi abitanti e sulle loro specializzazioni mi aveva parlato ripetutamente del personaggio e del suo presunto pozzo di San Patrizio. Finchè per me venne l’occasione di captare le risposte – stando per motivi personali, leciti, in una stanza di un commissariato il 24 luglio dell’80 - che dava al sottufficiale che stendeva il verbale per l’arresto. Mi fece anche un po’ di tenerezza, oltre che simpatia, sentendolo supplicare il maresciallo, cintura nera di judò e sosia di Bud Spencer, o meglio di Folco Lulli (deceduto nel ’70), protagonista nei film “I compagni”, “Il Passatore”, “La ragazza di Trieste” (ne interpretò una quarantina), perché gli concedesse una telefonata al vicino per pregarlo di prendersi cura del suo gatto.

Poliziotti nel mezzanino del metrò
“Adesso mi mandate alla ‘casanza’ (o meglio il carcere: n.d.a.) e il mio micino rimane solo. Lui non ha alcuna colpa”. Piangeva, non per finta, non per fare teatro: non era il caso, visto che, lacrime o no, in piazza Filangieri, a San Vittore, doveva andarci. Il poliziotto, un duro, un mastino, barba e baffi folti e neri, corpulento e in completo scuro, non so se per pietà o per stanchezza, gli porse la cornetta del telefono; e lui, rivolgendosi all’interlocutore: “Ti prego, t’imploro, prenditi cura del mio micio: mi hanno arrestato, non so quando potrò tornare a casa e la bestiola al mio ritorno non la troverò più viva, se tu non compi questo atto di carità”. L’altro lo rassicurò e lui smise d’implorare, sicuro che il vicino avrebbe mantenuto la promessa. L’arresto, conclusione di indagini partite da alcune rapine, era stato preceduto dalla perquisizione, che, se non ricordo male, riempì il carniere con gioielli per il valore di cento milioni e altro. 
                          
La polizia si era presentata prima al domicilio di certi elementi conosciuti per le loro imprese, quindi alla porta di Paperon, che, oltre al mestiere di “riccardor”, come nella Bassa Padana viene indicato il ricettatore, a quanto pare, aveva le mani in pasta anche nel campo variegato del falso. Salì dunque sulla volantina del commissariato, diretta alla “casanza”, da dove uscì tre mesi dopo con l’obbligo di firmare una volta la settimana l’apposito registro in un commissariato. Ma dopo qualche mese fu ricoverato in ospedale, a causa di un insistente mal di testa, provocato da un colpo di pistola che lo aveva ferito la notte del 25 luglio ’75: tre killer incappucciati gli avevano sparato sulla porta di casa. Motivo? Un mistero rimasto tale fino ai suoi ultimi giorni. 

Controlli di polizia
Il pub la Madama



















So che alla notizia della sua morte, avvenuta nel gennaio dell’80, molti detenuti di San Vittore si commossero, giudicandolo tutto sommato una brava persona. Un quotidiano importante titolò: “Morto in un letto d’ospedale Paperon…, primo ricettatore dei ladroni di Milano”; e un altro: “E’ morto Paperon, il buono della mala”. A quanto mi fu riferito non era uno spaccone né un esibizionista, ma gli piaceva circondarsi di cose belle; e a quanto pare non ricettava soltanto per fini di lucro, ma anche per ragioni… estetiche. Era gentile, rispettoso. Dopo tanti anni lo ricordo con benevolenza. E penso che se tutto il popolo della malavita fosse stato come lui, ci sarebbe stata meno violenza e quindi meno sangue versato sulle strade. Oggi la malandra è spietata, facile all’uso delle armi. 

Il giornalista Paolo Chiarelli
Ricordo la quantità di mitra, pistole, caricatori, radio ricetrasmittenti… che ai miei tempi di cronaca bollente la polizia allineava sui tavoli congiunti in occasione delle conferenze-stampa dopo un “blitz”. Paperon non è il solo esponente della “maglia”, la mala, in cui mi sono imbattuto. Non dimentico la suora laica, Angela, che aveva fatto parte di una banda molto bellicosa. Un pomeriggio mi dette appuntamento in un bar affollato di gente arcigna e incuriosita dalla mia presenza; mi invitò ad un tavolino in fondo a una delle sale e cominciò a raccontarsi. Tra l’altro, mi disse che un giorno, mentre stava per uscire di casa con in pugno una pistola “per andare a vendicare alcuni miei compagni in carcere infamati da certe maldicenze di chi stava fuori, sentii una voce: ‘Dove vai con quel cannone?’. Mi fermai di scatto: era la voce del Signore che mi parlava. E mi cucii questo saio”. Al termine, mi regalò una medaglietta della Madonna, raccomandandomi di non spargere più peperoncino piccante nei miei articoli. L’ho sentita al telefono mesi fa e mi ha fatto la stessa raccomandazione. Figlia di una circense, abitava alla Comasina.

Controllo di polizia

Ho conosciuto anche un ex spaccatore di vetrine, che ha passato molti anni in galera. Quando era nel carcere di Opera, durante un permesso venne a cercarmi al giornale, il 2 novembre del ’79, il giorno della scoperta della strage di Moncucco: sette persone ammazzate in un ristorante perché testimoni dell’uccisione del proprietario. Mi porse un libro sulla sua vita di sbandato (questo il titolo) e gli suggerii d’intraprendere la carriera di editore, pubblicando scritti di altri detenuti. Promise che ci avrebbe pensato, ma quando tornò per ringraziarmi della recensione non aveva ancora cominciato. Uscito in libertà vigilata, si era messo dietro il banco di un’oreficeria, forse della moglie. La viglia di Natale un tossicomane vi entrò, arma in pugno, e la svuotò, lasciandolo al verde. Venne al giornale e affranto mi riferì l’episodio, commentando: “Chi la fa se l’aspetti, vero?”. “No, non è così che la penso”, risposi. Ero davvero dispiaciuto. 

Catania e i prefetti Serra e Colucci


Tra i personaggi che ho conosciuto nella mia vita professionale c’era anche il “bandito gentiluomo”. A capo di una banda di rapinatori del dopoguerra, al termine dell’assalto in banca lasciava la mancia al cassiere, ringraziava e si ritirava con il bottino. Mai sparato un colpo. Un giorno un collaboratore di piano al “Giorno” venne a dirmi che ero atteso nel salottino. A sentire lo pseudonimo con cui si era annunciato credetti a uno scherzo.

Invece quando lo vidi comparire nel salone della cronaca e venire verso di me claudicando rimasi sbalordito. “Che cosa vorrà da me? Pensai: “Ho scritto di lui più volte in inchieste sulla malavita dell’epoca e sicuramente qualche passo non gli è andato a genio, quindi è venuto per farmi la ramanzina”. Sbagliato: mi chiedeva un’intervista. “Nel paese in cui vivo, narro la mia storia e nessuno mi crede. Se esce un suo articolo sul ‘Giorno’ con tanto di fotografia si ricrederanno”. “Ma i suoi parenti…!”. “Sanno tutto, non ho nascosto nulla nemmeno agli altri”. Era uno “scoop” e non me lo lasciai scappare. Quante storie avrei da snocciolare. Anche strane. 

Una quarantina di anni addietro lessi su un quotidiano autorevole che un ladro aveva in mente di creare il sindacato della categoria. Forse a difesa dagli improperi lanciati contro di loro da chi subisce il danno? Incredibile. Nel suo lavoro un giornalista incontra capitani d’industria, personalità della cultura, politici, primari, questori, prefetti e quindi anche elementi della “mala”. Ho intervistato pure un famoso “boss”. Me li ricordo tutti, anche quelli che la malandra la combattevano. Come mamma L., una signora molto a modo, che, stanca di vedere il suo quartiere assediato dagli spacciatori di droga, a mezzanotte usciva di casa, suonava la tromba per chiamare a raccolta la gente e tutti insieme perlustravano le strade. Tutti i giornali parlarono di lei. Tra i cronisti più simpatizzanti dell’iniziativa, il sottoscritto, che dopo aver seguito il corteo, ne parlò sul “Giorno”, di cui era capo cronista Enzo Catania; e Paolo Chiarelli, ottimo collega de “Il Corriere della Sera”.





mercoledì 3 giugno 2020

La quarantena ha sviluppato la fantasia


Calamaio cinese in porcellana bianca di G. Radice
I TANTI MODI DI AMMAZZARE LA NOIA DURANTE GLI  
ARRESTI DOMICILIARI





Chi ha rivisto le sue collezioni; chi ha

scritto un romanzo; chi ha realizzato

casette per gli uccelli; chi ha rimesso

in sesto una bicicletta sgangherata; chi

ha fatto cinquanta volte il giro delle

stanze di casa e ha visto i film di John

Waine.








Franco Presicci
Il bravissimo Aldo Cazzullo, inviato e editorialista del “Corriere della Sera”, nel suo libro “Metti via quel cellulare”, rivolto ai suoi figli, dice tra l’altro che non ne può più di quell’aggeggio onnipresente addirittura in pizzeria. E’ un problema di tutti.
Disegno di Piero Lotito
Nelle ore libere dallo studio mia nipote se ne sta seduta sul divano a guardare non so che cosa sul telefonino. Sentendo scoppiettare le sue risate, credo siano cartoni animati forse giapponesi. Io non la rimprovero, perché sono il nonno e non ho questo compito. Ma un giorno con il solito tono bonario le ho chiesto se qualche volta quello strumento non le venga a noia. Mi ha risposto di no, perché le dà la possibilità di cambiare pagina gustando le bellezze di un paesaggio, come il lago di Como con un piroscafo che lo attraversa o di apprendere come si prepara un piatto particolare. Il “coronavirus” ha reso indispensabile questo simbolo dei tempi che viviamo. La clausura è stata vissuta male da tante persone, che, non potendo andare al bar o al circolo per una partita a scopa o a tressette, chiamavano l’amico e si confidavano.

Scultura di piombo
L’ho fatto anch’io, che pure, oltre a scrivere per assolvere il mio impegno morale per “Minerva news”, ho rispolverato un hobby che avevo abbandonato da tempo: le “sculture” di piombo. Il mio amico Gianfranco Radice, persona colta, curiosa, titolare di una collezione di libri di ogni genere anche antichi, di etichette di bottigliette di profumi, di ventagli grandi quanto flabelli d’Oriente e quant’altro, ascoltando la confidenza non si è meravigliato. E mi ha chiesto di spiegargli il procedimento: “Metto dei pezzi di piombo in un tegamino, li lascio sciogliere su un fornello e rovescio il contenitore in un recipiente semipieno d’acqua; quindi interpreto il risultato: un tronco d’ulivo o un’ala di farfalla. In passato ne facevo tante anche per mostrare il “fenomeno” ai ragazzini che con i genitori venivano a trovarmi. L’dea baluginò negli anni 60, quando mi ricordai che il giorno di San Paolo a Taranto – potevo avere una dozzina d’anni – sull’argomento fui erudito dalla nonna, prodiga di particolari: aggiunse per esempio che la forma emersa avrebbe indicato il mestiere che avrei fatto da grande: il contadino. Riprendendo quel passatempo da sigillato in casa, mi sono divertito e ho accumulato oggetti da regalare a Natale.

Presicci in un disegno di Lotito
Ah, ho anche letto un volume sulla storia dei viaggi in treno,


Casetta per gli uccelli

contemplando le immagini di passeggeri altezzosamente seduti in prima classe con il cappello a cilindro e “papillon”, di fianco a signore con gonne a campana e linea morbida e cappelli con guarnizioni di fiori. Il mio amico Antonio ha trasformato uno dei suoi due box in falegnameria e ha costruito parecchie casette per gli uccelli. E siccome ci ha provato gusto è rimasto incollato al bancone e continua a fabbricare. “Sempre meglio che stare con le braccia conserte davanti alla televisione ad ascoltare le tiritere dei “signor so tutto”. “L’idea mi piace – ho osservato - ma se fai tutti questi ricoveri per volatili, diventa un problema di spazio”. “Ci ho pensato.

Cavatappi figurativo eseguito da Osvaldo Menegazzi
Vado al Parco Nord e appendo i “rifugi” agli alberi in punti nascosti per consentire ai possibili abitanti una certa riservatezza. Al Parco ci sono sedili, campi da bocce, piste ciclabili e tante altre cose, ma nessuno si è preoccupato di predisporre questi ripari per il periodo invernale. Il ‘covid 19’ ha stuzzicato la fantasia”. E ha reso bollenti gli apparecchi telefonici, fissi e portatili. Ho trascorso più ore al telefono in questi mesi che nel resto della mia vita. Cataldo mi ha spedito un video commovente: il matrimonio, celebrato il primo giorno di “apertura”, e il ricevimento in un b&b della figlia di una coppia di amici che non vedevo da quarant’anni. Che bello assistere alla solennizzazione di un amore attraverso il telefonino!
L’ho detto a Saverio N., che, insofferente agli arresti domiciliari, ha impiegato il suo tempo passando in rassegna la sua collezione di cavatappi. “Ne ho di diversi tipi: uno con il manico a becco di uccello, un altro a cappello da prete a tre spicchi; e cavatappi sormontati da una specie di topo o di gatto: cavatappi figurativi molto simpatici. E ho anche cavatappi tascabili. Esistono cavatappi di grande valore, che io non posseggo, perché le mie finanze lasciano a desiderare. Ne vorrei avere uno con la ‘testa’ in metallo a forma d’aquila o di pesce. Ho anche letto la storia, dei cavatappi. 

C’è arte nella fattura di tanti di questi arnesi così utili alla nostra vita quotidiana. C’è chi mi prende in giro, ma allora che dire di quelli che collezionano bottoni? O menù? Ne ho visti, da qualche parte: alcuni eseguiti per le grandi occasioni, e sono davvero raffinati. In una “brochure” dell’Accademia italiana della cucina ((‘Un secolo di menù italiani’) si ammirano anche quelli approntati per i pranzi di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena in una loro visita a Parigi nel 1903. Certo, occorre passione a raccoglierli, e di fronte alla passione non si discute”. 

Piero Lotito
Il mio amico Piero Lotito, giornalista e scrittore egregio, ha ritoccato i suoi romanzi, ne ha cominciato un altro, ha eseguito interessanti disegni e rivisto quelli degli ultimi anni, a cominciare dai ritratti caricaturali dei nostri colleghi. Quando lavoravamo, nonostante le scarpinate alla ricerca di notizie, avevo messo su un po’ di pancetta e lui mi ha raffigurato come una mela; e siccome fumavo i toscanelli, mi ha messo fra le labbra una specie di sigaro da Al Capone. Devo essere per lui un soggetto facile, perché al tempo della cattura di un famoso “boss”, mi ha… colto in un trullo con la scritta: “Arrestato ieri…”. E naturalmente ha incrementato le sue letture. Non gli ho chiesto i titoli, ma io ho ripercorso per la terza volta “Fontamara” di Ignazio Silone, per la seconda la vita e le imprese di Joe Petrosino, che a New York combattè la Mano Nera, e “Il processo Vidocq, nell’800, re delle evasioni francese e poi, per un periodo, comandante della Brigata della Suretè. Luigi Bazzani, che per anni ha guidato prima i tram e poi i metrò, come sempre si leggeva dalla prima all’ultima pagina il “Corriere” e faceva i “puzzle”; e poiché è un patito della corsa e della bicicletta, non potendo andare come nei giorni normali sino al Parco Nord, faceva un giro tra i viali del condominio. Pietro Carrideo,75 anni, abilissimo nel fai da te, ha potato le piante del suo lenzuolino di terreno, restaurato le persiane, sbloccato la serratura della porta blindata di casa, rimesso a posto un tiretto della scrivania, rivisto qualche film western con Joan Waine e “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi. E ha litigato con la moglie Lidia, riconciliandosi subito in nome dell’amore che li lega. 

Mulinelli mediatici bipolari di Lotito
Virgilio A., incoraggiato, istruito e aiutato dalla signora, si è messo a fare lavori in punto croce (centrini, tovaglioli, eccetera). Sergio C. (“Niente cognome, io sono Nessuno”) in cantina aveva una vecchia bicicletta acquistata nel 70 alla Fiera di Senigaglia, mercatino delle pulci attivo fin dall’Ottocento nel quartiere Ticinese (io lo visitai l’ultima volta sulla darsena). Geloso com’è delle sue cose, la teneva appesa al chiodo, sordo alle sollecitazioni della moglie a disfarsene, perché ormai un trabiccolo. Approfittando del divieto di uscire, gli ha voluto ridare una vita nuova, servendosi anche di pezzi che conservava qua e là. “Sembra quasi nuova. L’ho cavalcata fino a piazza Belloveso, a Niguarda, e mi ha inorgoglito. Quando la usavo per andare in azienda cigolava, adesso non più”. Bene, le due ruote sono tornate di moda. A Tonino P., 70 anni, hanno chiesto in prestito il suo Jack Russel, cane vivace e amabile, non avendo alcuna giustificazione per farsi quattro passi. “Io naturalmente ho rifiutato anche perché avrei fatto offesa al mio gioiello, che, permaloso com’è, non me l’avrebbe perdonata”. Insomma, la pandemia ha ucciso tante vite umane, diffuso paura e sofferenze, ingolfato gli ospedali, imposto la segregazione e la gente si è ingegnata. Ma tanti si sono scoraggiati, sognando il momento della libera uscita. Nel nostro condominio e in vari altri a ore fisse un giovane, per sollevare lo spirito, spargeva musica dal balcone, la gente si affacciava, sbandierando il tricolore e applaudendo. Gli anziani si eccitavano quando toccava alle canzoni napoletane o a quelle di Aznavour e di Edith Piaf. Ora il “virus” a quanto pare si va spegnendo e nutriamo la speranza che perda completamente la sua energia.