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mercoledì 25 agosto 2021

Mangili, l’inventore dei coriandoli

 

A VENEZIA COME A CRISPIANO

I DISCHETTI DI CARTA SONO ALLEGRIA

1969 - 1° Carnevale crispianese organizzato dalla Biblioteca comunale di Crispiano
 

Giovani e adulti li lanciano in grande quantità, sommergendo le

maschere e il pubblico. Li ho visti piovere pure in qualche

matrimonio e nelle grandi feste all’Hotel Quark

dell’Associazione regionale pugliesi a Milano.

A Crispiano venivano lanciati da una telecamera che simulava

riprese televisive.

 

 

 

Franco Presicci 

Ragazzini impegnati a raccogliere coriandoli da terra
“A volte basta un’idea per cambiarti la vita. Non come quella del camionista che mise la gonna al suo bisonte della strada per far sì che non s’infangassero le ruote in caso di diluvio, e venne al giornale per conquistare un po’ di spazio; o come quello che sosteneva di aver inventato un nuovo tipo di pipa, ignorando che qualcuno ci aveva già pensato. Molti furono coloro che si presentarono a “Portobello”, condotto da Enzo Tortora in televisione (gentiluomo e grande uomo di cultura), dove il pappagallo, comprimario delle puntate, nonostante fosse ripetutamente sollecitato, non parlava mai. 

Carnevale Associazione Pugliesi

Parecchi di loro si esibirono con proposte divertenti, come l’autista dell’Azienda tranviaria municipale di Milano, che consigliava di livellare il Turchino per disperdere la nebbia e l’altro che nell’80 aveva progettato la pattumiera aspirapolvere. Tutti o quasi venivano gratificati dagli applausi e soprattutto dai complimenti del conduttore, esempio tra l’altro di eleganza di stile. Parecchi fecero davvero una bella figura con congegni nuovi e utili, la gran parte brevettati. L’ingegner Enrico Mangili, milanese titolare di una filanda a Crescenzago, un paese non lontano dal capoluogo lombardo, nel 1875, non dovette scervellarsi per inventare i coriandoli e le stelle filanti: stando seduto in poltrona, magari in un momento di riposo, che si concedono anche gli imprenditori, stava osservando i dischetti di carta che si ammonticchiavano sul pavimento, uscendo dalle macchine perforatici che bucavano i fogli da utilizzare nell’allevamento del baco da seta. Materiale di risulta, dunque. “Eureka!”, dovette aver esclamato l’ingegnere, che era persona generosa, membro della Famiglia Artistica e fondatore di un istituto per i dipendenti bisognosi. Non credo abbia subito pensato all’uso che se ne sarebbe fatto. Certo è che anziché continuare a raccogliere i cerchietti in un contenitore per gettarli via, prese a farli mettere da parte con cura in attesa dell’idea giusta sul come farne tesoro.

Manto stradale ricoperto di coriandoli

E quell’idea non si fece attendere molto. Ne accantonò tanti, ma proprio tanti, e li propose ai negozianti per venderli a Carnevale. E così le folle che scendevano in piazza durante quella festa per insanire vedevano svolazzare sulle loro teste tutte quelle montagne di “farfalline”, che invadevano anche il pubblico che assisteva alla processione di uomini, donne e ragazzine in maschera e no, in costumi stravaganti, ispirati a personaggi storici, fiabeschi o inventati per l’occasione. Fu, dunque, quello dei coriandoli, un successo immediato, dal Nord al Sud, alle isole. Da allora non si è mai visto un Carnevale senza il lancio di coriandoli e stelle filanti, che appena escono dal rotolo sembrano buccoli che poi formano lunghi nastri che si attorcigliano sui vestiti o incoronano teste. I coriandoli, fatti di tanti colori, sono simbolo di festa, di allegria. Al Carnevale di Venezia, glorificato in un bellissimo libro fotografico di Fulvio Roiter, edito dalla Celip con presentazione di Guido Lopez, questi pezzi di carta piovono dall’alto, dal basso, sommergendo i partecipanti. Così anche ai Carnevali di Viareggio, di Putignano, di Massafra.

Ballerina tra Abbascià e Lenoci

Il palo della cuccagna a Crispiano
Ovunque si snodano milioni di chilometri di stelle filanti; milioni di “moscerini” colorati. Non meno a Milano. Il banchetto che all’epoca smerciava coriandoli e stelle filanti in Galleria Vittorio Emanuele fu preso d’assalto; la voce si diffuse con la rapidità di un fulmine e vennero aperti altri punti di vendita, che in poco tempo esaurivano il prodotto, 5 centesimi per la quantità contenuta in un cartoccio piccolo quanto quello del caldarrostaio (che ancora oggi spande l’odore del frutto sul fuoco alle fiere che si tengono in alcuni periodi e in varie zone di Milano). Evidentemente Mangili credeva che i coriandoli e le stelle filanti avrebbero scoraggiato l’abitudine di ricorrere a oggetti pericolosi; e invece no: fino a qualche anno fa certi irresponsabili facevano uso, per esempio, di arance con lamette. Tanto che nel capoluogo lombardo qualche anno fa il Comune incaricò Tullio Barbato, fondatore e direttore di Radio Meneghina, di organizzare un servizio di controllo per garantire sicurezza ai cittadini. Mangili sapeva che già allora, e anche prima, venivano lanciati sulla folla oltre a fiori, confetti, frutta, zucchero con all’interno semi di coriandolo (pianta aromatica delle ombrellifere con funzioni digestive); come già al tramonto del ‘700, spadroneggiavano monete roventi appena estratte dallo scaldino; “benis de gess”, pallottole di gesso e fango tirati con una sorta di fionda; uova marce o intrise di sostanze maleodoranti. Le autorità persero la pazienza, come in altre circostanze, e intervennero contro tutti gli abusi, stabilendo per i trasgressori 25 scudi di multa o due “tratti di corda in pubblico”. L’ingegner Mangili, che morì nel 1917, anno di nascita dell’Atm (Azienda tranviaria municipale), aveva inventato le stelle filanti guardando le striscioline di carta che scivolavano nelle trasmissioni dei messaggi telegrafici con l’alfabeto Morse. La paternità delle stelle filanti gli venne riconosciuta da tutti; mentre quella dei coriandoli contestata da Ettore Fonderi, di Vittorio Veneto, autore di brevetti di centrali ad acetilene. Sosteneva, questo professionista, che all’età di 14 anni lui aveva sparpagliato sul Carnevale di Trieste, dal proprio balcone di casa, migliaia di pezzettini di carta multicolori, facendo accorrere la polizia austriaca allarmata.
 
Fuochi d'artificio come coriandoli
Disputa a parte, coriandoli e stelle filanti hanno arricchito il Carnevale, che a Milano ha avuto nel tempo edizioni modeste e altre di grande splendore, con giostre, musiche, tornei, balli, soggetti importanti in costumi sfarzosi e originali. Il governatore spagnolo, Giovanni Velasco, che abitava in un palazzo cinquecentesco in corso di Porta Romana e amava essere presente pomposamente alle feste pubbliche e con grande partecipazione di popolo, dette impulso alla baldoria e per agevolare il corteo dei carri e delle carrozze (un anno addirittura duemila), nel 1598 fece allargare una via, che gli venne poi intitolata. E il suo collega e connazionale Gaspare Tellez Giron Gomez incrementò il Carnevale del 1860, nel quale spiccò la presenza di Vittorio Emanuele II. Ai dischetti di carta hanno anche dedicato una canzone, “Coriandoli,” di Brunetta, la più bella rocker italiana degli anni 60. La fortuna del brano fu tale che si avvalse anche delle voci di Mina e di Marcella Bella. Stando al racconto di uno studioso di curiosità milanesi, Enrico Mangili distribuì per la prima volta i coriandoli in una festa per bambini svoltasi alla piccola Cannobiana. Figure tradizionali del Carnevale Ambrosiano sono Meneghino e Cecca.

2019-Mago Gabriel al Carnevale di San Paolo
I panni del primo a suo tempo li ha indossati anche Gianni Magni, bravissimo cabarettista, attore e mimo, uno degli elementi dei Gufi, che comprendevano anche Nanni Svampa, Lino Patruno, Roberto Brivio, tutti fuoriclasse, eccellenze che tra l’altro pescavano i vecchi canti dei contadini. Di coriandoli e stelle filanti ne ho visti lanciare tantissimi, anche al Carnevale del Fegatino, che fino a qualche anno fa si svolgeva in luglio a Crispiano, con carri originali: un anno un carro evocava la mitologia greca, un altro portava una telecamera, dinanzi alla quale il pubblico si metteva in posa per essere ripreso e invece improvvisamente l’occhio magico sputava una valanga di coriandoli, che i ragazzi raccoglievano da terra a manate per scagliarli a loro volta. La gente arrivava da ogni parte, invadeva tutte le strade in cui passava a suon di musica il corteo. Un Carnevale stupendo, interminabile, con danzatori, musici, libellule in abiti color del cielo.

Carnevale del fegatino-Pro Loco Crispiano
Un Carnevale tutto da vedere, con le macellerie aperte per arrostire i fegatini, che i turisti e i locali mangiavano seduti ai tavolini degli stessi esercizi tra bancarelle illuminate e ricche di giocattoli e di quegli oggetti di carta in cui si soffia per farli allungare e fischiare. Ogni volta tornavo a casa con i capelli policromi come fossi stato dal parrucchiere per i colpi di sole. Come mancare a quella festa così affollata e divertente, chiassosa e coinvolgente. Io ero sempre presente anche alla sagra del peperoncino piccante, architettata da Alfredo De Lucrezis e dai suoi “Amici da sempre”; e al presepe vivente e a quello che lo stesso De Lucrezis e compagnia allestivano con il pane o la pasta scaduti. Non c’erano coriandoli né stelle filanti; ma li ho visti lanciare sulle teste degli invitati e degli sposi a un    matrimonio fuori della chiesa.














mercoledì 18 agosto 2021

MILANO BELLA

La Scala del libro, seducente e gioiosa
di Franco Presicci

“Milano è la città più ideale per andare a passeggio. Non ti aggredisce, non ti stuzzica, non molesta con l’esibizione delle sue meraviglie. Ti lascia camminare in pace, libero e trasognato”. 

Così dice Maurizio Cucchi, poeta, consulente letterario, traduttore…e buon conoscitore della città. Lo dice in un libro, “La traversata di Milano”, Oscar Mondadori, un libro bellissimo e affascinante, che lessi alla sua apparizione, nel 2007, e ho ripreso in questi giorni. Un libro che si legge con interesse e gioia. Di pagina in pagina il lettore si sente accompagnato su percorsi che probabilmente non conosce e ricerca, scoprendo bellezze e curiosità.

La Galleria

Milano non è una città vanagloriosa; non è una donna che s’imbelletta per mascherare la sua bellezza che sfiorisce. Anche perché la bellezza di questa città, così tanto amata da Stendhal, lo scrittore francese che qui avrebbe voluto essere sepolto, rimane intatta fino a quando l‘uomo non l’intacca. E’ accaduto negli anni passati, ai primi del ‘900, quando, per esempio, per fare spazio al cemento armato usarono il piccone contro la Pusterla dei Fabbri (XII secolo), “ che – ricorda Raffaele Bagnoli - dal punto di vista artistico, storico e monumentale aveva un indiscutibile valore”. Milano è una città discreta, magari anche restìa, non desiderosa di essere esaltata. Accetta qualunque giudizio se ci facciamo pellegrini tra le sue vie e le sue piazze, i suoi monumenti, le sue tracce storiche, le sue chiese... Indifferenza? Superbia? Ma no. E’ riconoscere la libertà di ognuno di dire quello che vuole. E se lo dice per ignoranza è affar suo. 

Piazza Gaie Aulenti
Sono passati ormai tanti anni (era il ’76) da quando “Il Milanese”, settimanale che ebbe alterne vicende (fondato da Arnoldo Mondadori, poi estinto, poi fatto rinascere sotto la guida di Angelo Rozzoni, mitico vicedirettore del quotidiano “Il Giorno andato in pensione; ancora chiuso e riaperto) mi dette l’incarico di andare in giro per la città per raccontare tutto quello che vedevo. In seguito Guido Nicosia, inviato dello stesso quotidiano, mi arruolò per Telemontepenice, un’antenna del Pavese, con lo stesso compito. Cominciai da via Lanzone, dedicata a un nobile che guidò il popolo ribellatosi contro la nobiltà intenzionata ad asservire la città dopo una rivolta esplosa per l’omicidio di un popolano. Via Lanzone è una via stretta nei pressi della basilica di Sant’Ambrogio e dell’Università Cattolica. E’ anche vicina a via Caminadella, che prende il nome dalla prima casa fornita di camino. 
 
Piazza Belgioioso di A. Inganni

A quel tempo i camini erano un lusso: divennero un bene comune nel secolo XIII, quando le case del ”popolino” smisero di essere edificate in legno e con il tetto di paglia. E naturalmente si fece largo il mestiere di spazzacamino, perchè la fuliggine bisognava pure eliminarla. Scarpinando per Milano, di cose ne imparai, anche consultandomi con Raffaele Bagnoli, che era esimio socio della Famiglia Meneghina e scrittore serio e fertile; e parlando con la gente che incontravo, chiedendo notizie sulla vita che nella contrada si svolgeva, soprattutto nelle case di ringhiera, dove gli uni davano una mano agli altri e spandevano i panni su un filo che andava da una ringhiera all’altra. Il gabinetto di decenza era in fondo al ballatoio, sul quale si allineavano le porte. Mi alzavo presto per cominciare la ronda, sempre con la macchina fotografica a tracolla. 

Corso Vittorio Emanuele
In via Borsieri, nel quartiere denominato Isola Garibaldi, anche perché gli abitanti erano convinti che al numero 14 avesse passato una notte il re dei due mondi (a testimoniarne la presenza c’è una nicchia con il busto). Di certo hanno avito qui i natali Silvio Berlusconi, Fedele Confalonieri e Giovanni Borghi, il fondatore dell’Ignis che riempì il mondo di frigoriferi, e che Gianni Brera chiamava “Giuanin” in una bellissima pagina che gli dedicò sul “Giorno”. Ai primi del 900 via Borsieri non aveva una buona fama: frequentata dalla malavita, che probabilmente si dava ai duelli rusticani, se nella farmacia vicina veniva spesso richiesto il cosiddetto “unguent de dodes”, che curava le ferite da martino, cioè il coltello a serramanico, tradotto dal gergo della categoria. Ma vi lavoravano mugnai, noleggiatori di cavalli…Nella zona c’era il Foppone della Mujascia, dove vennero sepolte personalità come Cesare Beccarini e il poeta Parini. Mi spinsi sino a via Cascina Barocco, nell’estrema periferia, ricca di strutture rurali oggi quasi tutte un ricordo.
Cortile di corso San Gottardo

In corso San Gottardo, al Ticinese, ebbi un’accoglienza inattesa. La gente fece a gara per riferirmi la storia della zona, indicata come “el borg di formaggiatt””: si calcolava che ai primi del ‘900 nei locali dei cortili (vi si entrava fino a pochi anni fa dal corso e si usciva in via Ascanio Sforza, dove scorre il Naviglio Pavese (vicoli più cortili) si custodissero 900 ruote di formaggio e che quando uno del borgo andava in piazza del Duomo s’intuiva l’origine dall’odore che si portava addosso. Lì la vita era molto movimentata: lavoravano i bottai, c ‘era qualche contrabbandiere e qualche bisca clandestina all’aperto e i ragazzi giocavano spingendo un grosso cerchio con una mazza, nel cortile. Me lo disse una signora anziana, la cui ringhiera si affacciava sui tetti con le tegole rosse. In una di quelle case abitava il fratello della simpaticissima attrice Tina Pica (quante volte l’abbiamo vista con Vittorio De Sica), che faceva il posteggiatore on corso Como; e in via Tabacchi c’era e c’è il commissariato Ticinese, che fu diretto dal vicequestore Vito Plantone - nome di prestigio, già collaboratore di Mario Nardone e tra i pilastri della questura - che aveva come braccio destro l’ispettore capo Armando Sales, poliziotto integerrimo, colto e intelligente. Rimanendo in zona, m’inoltrai sulle sponde del Naviglio Grande, entrai negli studi dei pittori (Guido Bertuzzi, Aldo Cortina, Gigi Pedroli, Sarik, Cottino…), nel laboratorio dei maestri argentieri, nella Galleria di Angelo Cottino, nell’atelier di Liuba Stolfa, degli artigiani, che allora erano tanti. Poi passai al centro, inoltrandomi in vie tranquille, che sanno ancora di antico: via Bigli, a destra da via Manzoni, dove al civico 11 c’era l’abitazione del Premio Nobel Eugenio Montale, che rispondeva al telefono con una gentilezza esemplare (quando morì andai in clinica per rendergli omaggio e partecipai ai funerali, facendo coraggio alla Gina, che era la sua fedele governante). 

Ottagono della Galleria
Sempre in via Bigli trasferì la sua casa e il suo salotto la contessa più famosa del Risorgimento, Clara Maffei, che nel 1863 presentò Boito a Verdi e poi Verdi a Manzoni. Attraversai poi via Borgonuovo, dove abitava il poeta e critico d’arte tarantino Raffaele Carrieri; e via Morone, dove all’angolo con piazza Belgioioso c’è la casa del Manzoni, che anni fa visitai accompagnato dal celebre critico letterario Giancarlo Vigorelli, che era direttore del centro studi manzoniani, e mi regalò tre corposi volumi da lui scritti sull’autore de “I Promessi Sposi”, prima di invitarmi a pranzo al “Bouucc”, uno dei più prestigiosi e antichi ristoranti milanesi (nato nel 1696), che si trova nella piazza che accolse i sospiri di Stendhal per la splendida Matilde Viscontini, moglie del generale polacco Dembowski. La contessa aveva simpatie per i Carbonari e allo spasimante francese preferiva Ugo Foscolo.
 
Piazza Cordusio
Dopo aver ammirato piazza Belgioioso, definita da qualcuno il bel salotto neoclassico di Milano, con il palazzo commissionato all’architetto Piermarini da Alberico XII Barbiano di Belgioioso; dopo aver attraversato corso Venezia e via della Spiga vorrei ascoltare i commenti di uno dei detrattori della città, che inviterei in piazza Cordusio, nata come piazza degli Affari, con quel bel balcone fiorito. E in piazza Eleonora Duse, sorta nel 1924, quando la diva moriva. E in via Montenapoleone, detta una lunga vetrina di eleganza. E ancora in via Borgonuovo, con il palazzo Perego, che ha uno scalone ideato dal Vanvitelli. Amo la Galleria Vittorio Emanuele, “la strada coperta più bella del mondo”. E piazza San Babila, dove l’8 marzo del 1785 venne battezzato il Manzoni. E padre Navigio, come chiama il corso d’acqua lo scrittore Alberto Vigevani. Tanti hanno amato la città di Carlo Porta. L’ha amata Indro Montanelli e l’hanno amata Gaetano Afeltra, che diresse “Il Giorno”; e Francesco Ogliari , che camminava senza mèta per la città guardando qua e là, per scoprire le bellezze nascoste da descrivere nei suoi libri. Gaetano Afeltra, nato ad Amalfi e trasferitosi molto presto a Milano, dove lavorava al “Corriere” il fratello Cesare, ha scritto “Milano, amore mio”. Sarò fazioso, ma Milano per me è bella. Movimentata, chiassosa, invasa dalle auto, ma bella dentro e fuori, in basso, anche con i suoi cortili preziosi, e in alto, con i suoi giardini pensili.

mercoledì 11 agosto 2021

Il tratturo è ora deserto

Il nostro tratturo

RICORDO DELLE VOCI DEI BIMBI

DEI VECCHI E DELLE DONNE

Quasi tutte le persone care sono

morte, tranne Rosa che con il figlio

Francesco cura la sua vigna. Sembra

mutato anche il paesaggio. 

 

Franco Presicci

Una delle ultime volte che ho trascorso un’oretta con lui, Giovanni Montanaro, aveva quasi novant’anni. Era seduto su una sedia sgangherata all’ombra del suo trullo proprio sul gomito del tratturo che s’inoltra da via Mottola. La stessa sera gli fecero la festa di compleanno i suoi tre figli. Beatrice, il marito e la figlia erano arrivati qualche giorno prima da Vigevano per passare con lui qualche giorno di vacanza.

Giovanni Montanaro

Giovanni ormai sentiva poco, ma se si alzava la voce le parole le coglieva. E faceva domande, anche se con una certa difficoltà. Io parlavo e lui annuiva. Gli dicevo “du ’passatùre”, che era cambiato e lui faceva sì con la testa. Gli ricordavo le persone che non c’erano più, a cominciare dalla moglie Stellina, che lo chiamava “Uagliò’’”, quando lui trafficava nella vigna ed era già pronto in tavola o quando stava “indr’o palummìedde” a controllare la funzionalità degli attrezzi che con un suo vecchio amico avrebbe utilizzato per la vendemmia. “E Marie?”, mi domandò, interrompendomi mentre accennavo a mio suocero, Ciro, che con la sua 126 veniva più volte la settimana, quando noi eravamo a Milano, per appurare che tutto andasse bene, in questa nostra terra acquistata da una vedova con quattro figli negli anni 70. Maria e la sorella Rosa, una vedova e l’altra zitella, avevano il trullo attaccato al nostro e come Giovanni qui erano un’istituzione.

Rosa e Francesco nella vigna
Entrambe anziane, generose, disponibili, ignoranti ma sveglie. Per loro, e per molti altri, Giovanni era “Nannine”. Maria aveva quattro figli; e quando soprattutto il sabato sera piombavano tutti da lei, preparava la tavola, faceva i panzerotti e li infilava nel forno, aiutata da Graziella, una delle sue ragazze. Tra gli invitati noi non mancavamo mai. Giovanni apparteneva all’epoca della zappa, ma negli ultimi tempi del suo lavoro si era motorizzato anche lui. Una notte i ladri gli portarono via tutto e lui, che aveva il fucile con regolare autorizzazione, sfogando la rabbia mi disse che mentre quelli operavano lui dormiva, altrimenti lo avrebbe usato. Ma sapevo che non avrebbe mai imbracciato l’arma neppure contro quei serpenti che ogni tanto si attorcigliano sul un ramo di un albero o strisciano tra le “ceppùne”. Anche se innocui, incutono paura. “Vero, Giovanni?”. “E come no. Chìdde mòzzechene”. La memoria di Giovanni non era svaporata. Lui mi faceva l’elenco dei lavori che anni prima aveva fatto nella nostra proprietà, cominciando dal bagno e dalla cucina, che sono ancora in ottime condizioni: neppure un piccolo rigonfiamento nell’intonaco. Aveva anche costruito il ricovero per i polli, quando a mia moglie Irene venne il desiderio di essere svegliata dal canto del gallo. Poi la volpe una notte fece una strage e decidemmo di disfarci dei sopravvissuti, soffrendo. Per me il pollaio era anche uno svago: portavo il mangime, l’acqua e stavo molto tempo ad osservare stormi di uccelli che planavano per banchettare. A volte mi stendevo sulla sdraio all’ombra del glicine e assistevo allo spettacolo di sua maestà (un gallo prestante, dalla cresta imponente e il passo marziale, che dettava ordini a quella trentina di bipedi). Li rievocavo fissando l’antico ulivo, un ombrello vegetale che un amico pittore immortalò con ogni dettaglio. Quell’ulivo con i suoi orecchini neri o verdi, della famiglia considerata dagli antichi greci dono di Minerva, è sempre stato il mio albero preferito. A volte dovevo vincere la tentazione di confidargli i miei crucci. Il più forte, dovuto al tratturo, che aveva perso quasi tutte le sue voci: quelle dei ragazzi che correvano sulle bici o mandavano in aria gli aquiloni o facevano altri tipi di giochi; delle donne che conversavano addossate al muro a secco o sul piazzale di questa o di quella; dei vecchietti che giocavano a scopa urlando quando uno degli avversari azzeccava il “pisellino”, cioè il sette di denari. Fino a una decina di anni fa veniva Peppino a curare la sua terra, dando un’occhiata alla nostra, che la fronteggia. Quando non lo vedevo, urlavo il suo nome e lui mi rispondeva divertito, spuntando dai pampini. Sentivo il rumore della sua motozappa e più che un rumore per me era un suono.
 
Il trattore
Adesso sento il rombo del trattore che pulisce il fondo vicino. Un paio di volte al giorno passa con il suo furgone Teodosio, che ha la campagna al termine della salita e carica e scarica il materiale che gli serve per la sua attività di costruttore. E io conto i morti: Carluccio, lo zio di Giovanni, che aveva il trullo proprio all’inizio della via erbosa, come il compianto Italo Palasciano, giornalista dell’”Unità” e scrittore, chiama i tratturi in un suo libro; Maria e Rosa, che stavano più a casa nostra che alla loro; Stellina, Renzo… Il tratturo li ha persi tutti. Quelli del trullo “Gigio” non vengono più da anni e la loro casa incappucciata, in vendita, non trova acquirenti. Qualche mese fa se n’è andato anche Giovanni; e Donato, il figlio più giovane, è rimasto solo. La moglie di Peppino, Rosa anche lei, sta nella bella casa di via Papa Domenico, (la vecchia strada per Noci), 500 metri da noi, e del vigneto si occupa anche Francesco, giovane intelligente, bravissimo, competente. Prima utilizzava il motocarrello lasciato dal padre; adesso si serve di un furgoncino. Giorni fa l’ho visto spruzzare “’u vetriùle”’ sulle viti. La nostra terra l’abbiamo affidata a Donato, che la tiene pulita e ordinata. Il silenzio dunque domina “’u passatùre”. Ogni tanto, il tardo pomeriggio, dal bosco proviene la voce di una giovane donna che incita le pecore. Qualche volta la sera, fin dopo mezzanotte, irrompe da un trullo non tanto vicino una musica assordante con intervalli di brani di Giacomo Rondinella, Claudio Villa, Gigi D’Alessio... Adesso che non c’è più Giovanni, a volte mi capita di riferire con voce impercettibile e con rammarico al vecchio ulivo dei furti che abbiamo subito. I ladri mi hanno addirittura smantellato le chianghe delle scale esterne, una pila regalatami da Carluccio, un sedile di pietra proveniente dalla nostra casa, che abbiamo venduto, nel centro storico. Che può saperne, l’ulivo? “Le piante ascoltano e tacciono”, mi diceva un anziano “paretaro” un po’ ingobbito e i capelli abbrustoliti dal sole. 
 
Vito Argese con la motozappa
Guardo la quercia, alta quanto la statua di Cristo Redentore, monumento sulla strada per Crispiano; poi l’ulivo e lascio scorrere i pensieri. “Ma nostro Signore non gli ha dato la parola”, ribadiva il paretaro, che di nome faceva Martino. E io: “Tu le ricordi le nostre riunioni, alle quali partecipavano i miei suoceri, Pina e Ciro, appassionato di spettacoli e di sport, i nipoti, le loro mogli e i loro figli... Il barbecue sempre acceso per arrostire carne o pesce? Eri spesso dei nostri”. “Le ricordo, sì. Di solito a governare il fuoco era Francesco, martinese e capatosta trasferitosi a Taranto dopo il matrimonio. Un giorno lo sorpresi a parlare con il fico “recotte” che sta vicino al pollaio, adesso disabitato, mischiando i suoi rami con quelli del noce. Ricordo che diceva: ’Tu mo’, hai fatto fesso a mmè. No m’hà’ mai capetàte. Sì’ cundènde, te sìende addecriàte?’”. “E’ vero, adesso mi viene in mente – gli risposi - Dal piazzale gli chiesi: ‘Francè’, dimm’a mmè’ ce hà succèsse?’. E lui, con un po’ di titubanza, mi confidò che aveva ’nzetàte’ su quella pianta un rametto preso da un albero di mia cognata Antonietta e poi si era accorto che aveva innestato un profico”. Era come aver subito un affronto, uno schiaffo, un calcio sui denti. Era come fosse stata profanata la sua vantata sapienza della campagna. Non gli dissi che la colpa non era del fico. Cercai solo di confortarlo e gli consegnai le chiavi del trullo, invitandolo a frequentarlo liberamente anche in nostra assenza. Ma continuava a lamentarsi, ad avercela con quella pianta, vittima della sua disattenzione. Francesco era fatto così, ma era persona perbene, schietta, gentile. Un giorno Irene diceva che l’erbacea che aveva appena messo a dimora intorno al piazzale del ciliegio era maggiorana; e lui sosteneva inflessibilmente che fosse origano. La discussione andava per le lunghe e chiamai Maria a dire la sua; e Maria, furba: “Francesco che dice?”. “Che è origano”. “E quello è”. La comitiva si è dispersa, dunque. Chi è rimasto in vita ha i suoi malanni e non se la sente di mettersi al volante per passare una giornata con noi. Per fortuna ci sono gli Argese, con i trulli in via Papa Domenico vicino alla chiesa della Madonna della Consolata. Stiamo spesso insieme, ci divertiamo, ci vogliamo bene, facciamo le pizze da Matteo.

Altra immagine del tratturo
Vito Plantone

Non li conoscevamo ancora quando una sera, grazie a Michele Annese, oggi direttore di “Minerva”, venne a suonare sul nostro piazzale il trio “Crispianapolis” della città delle cento masserie e gli amici arrivarono da ogni parte, dalla Bimare, da Locorotondo, da Lecce il questore Francesco Colucci, da Noci il cognato e la sorella del questore Vito Plantone, impegnato a Milano, da Martina Elio Greco e la moglie. “E’ accìse ‘nu jadduzze?”, mi chiese un giorno Vito, nocese purosangue, parcheggiando l’auto. La ghigliottina l’aveva manovrata Maria. Misi in moto il grammofono a manovella appena acquistato in un mercatino e dai solchi magici emerse la voce di Tito Schipa. Una volta nell’oscurità di una sera senza luna sbucò Giovanni in calzoncini corti e maglietta a righe. Con il suo organetto suonava una canzone di altri tempi. Spesso Giovanni ci portava zucche, pomodori, peperoni prelevati dal suo orto. Non capivo quanti mestieri sapesse fare: il contadino, l’ortolano, il muratore… Caro Giovanni. Ho pianto quando ho saputo che non c’era più. E adesso, quando torniamo da Milano, non lo troveremo più seduto sulla sua soglia, lo sguardo opaco, la coppola e gli occhiali scuri; e non ci saranno più Maria e Rosa ad aspettarci davanti al nostro cancello. Le rondini si posano sul filo della luce, compiono acrobazie verso l’antenna della televisione, volano verso il boschetto, e a seguirle ci siamo soltanto io e Irene. Anche il paesaggio mi appare mutato.








giovedì 5 agosto 2021

Vecchia cronaca del “Giorno”

Il palazzo del Giorno in via Fava
TROTTAVAMO COME CAVALLI

A SAN SIRO I GIORNI DELLE CORSE

Ci definivano cronisti di razza e

cani da tartufo. Consumavamo

scarpe, senza guardare al tempo

che passava. Le notti insonni non

erano per noi sacrifici.

Franco Presicci

I cronisti della vecchia cronaca del quotidiano “Il Giorno” galoppavano come un purosangue. Non contavano mai le ore, e quando sentivano l’odore di una notizia le davano la caccia e non si fermavano fino a quando non la prendevamo all’amo Una volta Patrizio Fusar si mise alle calcagna di un ricercato per oltre una settimana, prendendo treni e aerei, annotando i suoi passi, le sue direzioni, le sue soste, i suoi incontri. E quando il mitico vicedirettore Angelo Rozzoni gli chiese di rientrare a casa, cedendo il passo ad un altro segugio, lui lo supplicò di lasciarlo proseguire.

Nino Gorio fra Giuzzi e Pertini

Nino Gorio fece uno “scoop” sensazionale e vinse il Premio Cronisti dell’Anno a Senigaglia. Nino Leoni non fu da meno; e neppure Giancarlo Rizza. Altro cane da tartufi, Maurizio Acquarone, che tra l’altro, il 15 marzo del ’72, scoprì l’identità del corpo trovato sotto il traliccio dell’alta tensione a Segrate. Le penne d’oro non si contavano: Mario Zoppelli, Guido Nozzoli, Mario Nasi, Piermaria Paoletti, Enzo Macrì, Giancarlo Fusco, che scrisse anche libri (“Le rose del ventennio”, “Quando l’Italia tollerava”…). Nel ’79 quella cronaca ebbe altra energia con l’arrivo di Enzo Catania nella veste di pilota. Era un vulcano. Partoriva un’idea dietro l’altra. Non entrava nel salone della cronaca, irrompeva. Lo soprannominavo “Terremoto”. Mi assegnò la prima inchiesta sul “racket” delle pompe funebri, per la quale stabilì 19 puntate e faceva personalmente i titoli ai “pezzi”. 

Enzo Catania

Presicci in un disegno di Mellone
 

Poi a me e a Carlo De Barberis, deceduto ad Antibes recentemente, affidò un’inchiesta sulla prostituzione maschile, per la quale io e il collega trascorremmo sette notti al Parco Ravizza e sul viale della circonvallazione per raccogliere storie, qua e là allucinanti, delle persone che battevano quei luoghi. Una di loro, autrice di un libro autobiografico di poesie, si era invaghita, ricambiata, di un collega d’ufficio e quando la storia trapelò dovette abbandonare il lavoro e per la disperazione si lanciò contro un tram, riportando fortunatamente danni non lievi. Un’altra venne cacciata da casa appena il suo stato si seppe in famiglia; e lei dal suo paese si trasferì a Milano anche per sottrarsi al vituperio della gente. Nel nostro lavoro notturno, esercitato dopo quello diurno, ci accompagnava il maresciallo di polizia Ennio Gregolin, che passava ore e ore sulla strada, di giorno e di notte, a smantellare bische clandestine e ad acciuffare manutengoli. Fu lui a guidarmi una notte nello scalo ferroviario di viale Monza, dove si rifugiavano senzatetto, detenuti appena usciti da San Vittore e chi non aveva i soldi necessari per dormire all’albergo popolare, dove pernottai anch’io due volte per darne conto ai lettori, e rischiai di essere aggredito. Questi emarginati risposero a tutte le mie domande, quasi fossi un confessore in grado di raccomandarli al Padreterno. Quando consegnavo l’articolo, Catania si esaltava e alla riunione di redazione lo descriveva a tutti, direttore compreso. Così faceva con Piero Lotito, Giorgio Guaiti, Nino Gorio, Giovanni Basso, uniti nella “nera”. La fatica, le notti insonni non ci disarmavano. Con un comandate come quel barbuto e scatenato il bastimento poteva navigare su qualunque tipo di mare.

Il cronista Giancarlo Rizza
L’equipaggio era sempre all’erta, disposto a percorrere ogni rotta. Quando il 26 giugno dell’84 il delitto di Terry Broome in corso Magenta riempì le pagine di cronaca e anche le prime, da Roma ebbi la notizia che l’aspirante fotomodella americana era stata arrestata all’Hotel Bahnpost di Zurigo. Lo riferii a Catania, che telefonò alla segreteria di redazione: “Prenotate il primo volo per Zurigo per Presicci”, e alle 14 ero già a bordo di fianco al dirigente della sezione omicidi della questura Enrico Macrì, un amico. Catania era un siciliano doc. Aveva lavorato al “Tempo Illustrato” di Nicola Cattedra, aveva intervistato boss della mafia; a dorso di mulo, seguito dal grande fotografo Uliano Lucas era salito sui monti della Sardegna alla ricerca di sequestratori da intervistare… Non si fermava davanti a niente: era quello che si dice un cronista d’assalto.

Catania tra i prefetti Colucci e Serra

Nicola Cattedra, che poi venne a lavorare anche lui al “Giorno”, seduto nella sala di Romeo Giovannini, che aveva tradotto i classici dal latino, Catania lo aveva nel cuore. Quando lo sentiva urlare, guardava oltre la porta e diceva al fattorino: “Chiudi la finestra, sta arrivando il temporale”. Ma erano soltanto tuoni. Una sera un collega dimenticò di fare il giro telefonico, che serviva per captare le notizie, quando c’erano, e solo alle 21, quando composi io il numero, apprendemmo che un paio di ore prima un tale aveva chiesto un bicchiere di vino alla gestrice di un locale alla periferia della città e al suo rifiuto perché visibilmente ubriaco, uscì, salì in macchina, mise in moto e sfondò l’ingresso, investendo la donna. Enzo si arroventò, telefonò agli autisti: “Devi volare, non correre…”. Alla guida Gusmaroli, che portò me e il fotografo sul luogo. Fortunatamente chi si occupava delle indagini era un amico fraterno, che mi informò ampiamente, e subito, quando la concorrenza era ancora sul posto. Catania continuava a chiamarmi sull’auto, perché doveva fare il titolo, e io gli ripetevo quello che gli avevo già detto.

La notte delle bombe in via Palestro

Un giorno mi disse: “Ti nomino caposervizio”. E io: “Che cosa ti ho fatto di male?”. Sorrise e mi invitò al bar di sotto per bere uno “zibibo”. Era la risposta che si aspettava. Gli piaceva scherzare, provocare, stuzzicare. Quando esplose la notizia del delitto del catamarano, il direttore Lino Rizzi (Catania allora faceva l’inviato) e mi disse di scrivere subito una pagina sul fatto e di andare subito dopo ad Ancona, aggiungendo che questo sarebbe stato il delitto di cui si sarebbe parlato per tutta l’estate: la skipper Annarita Curina era stata trovata in mare uccisa da un personaggio che nel luglio dell’88 aveva noleggiato l’imbarcazione con la scusa di una gita. Stetti fuori un mese, feci indagini in Tunisia, arrivando in taxi fino alla spiaggia di Gaar El Melh, nota per essere stata ai tempi rifugio dei corsari. 

Piero Lotito

Giovanni Basso in un disegno di Lotito
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sulla vicenda Catania scrisse un libro, “I delitti dell’estate”, pubblicato dalla Utet, in cui mi dedicò un intero capitolo, in cui riferiva di aver saputo da Piero, un amico cameriere del bar di piazza Cavour, che ero partito per Ancona. Di libri ne ha scritto oltre una ventina: “Dalla mano nera a Cosa nostra”; ”Bettino Craxi, una storia italiana”; “Ustica”; “Giallo Pasolini”… Nel libro sullo scrittore, romanziere, regista, poeta, rievoca tutta la storia e si pone domande, suggerite dalle circostanze. Scrisse anche “Sono innocente”, edito da Longanesi, in cui fra l’altro ricorda la bruttissima vicenda di un giovane accusato di aver assassinato per rapina un benzinaio di piazzale Lotto e fu salvato in una delle ultime fasi del processo dal professore avvocato Giandomenico Pisapia, presentatosi in aula per affermare l’innocenza dell’accusato. Come cronista era stato curioso, puntiglioso, attento, indagatore, coraggioso. Un pilastro per “Tempo Illustrato”. Dove trovasse il tempo per scrivere quelle migliaia di pagine, compresi cinque volumi di Stria della mafia, non si riusciva a capirlo.

Carlo De Barberis
Dal giornale andava via a mezzanotte e vi rientrava alle 7; la domenica era sempre presente; il mercoledì pomeriggio conduceva una trasmissione su Antennatrè Lombardia, tivù per la quale noi della cronaca confezionavamo il telegiornale. Erano giorni entusiasmanti. Io vivevo più al giornale che a casa. Mi nutrivo più di notizie che di pane. La strage di via Palestro, il 27 luglio ’93, tenne tutta la cronaca impegnata. Io rimasi sul fatto due notti e un giorno: la mattino alle 6 aspettavamo l’arrivo del capo della polizia Parisi, e arrivò puntuale accompagnato dal questore Achille Serra e dal capo di gabinetto Paolo Scarpis, e il resto del tempo lo passai tra la questura e tutti i “trombettieri” in grado di suonarmi lo strumento. Non ho vergogna ad ammetterlo: per riposarmi un paio d’ore mi stesi sulla scrivania usando come cuscini le rubriche telefoniche. Se la cronaca la si fa con passione, questi non sono sacrifici. Quando accadeva un fatto grave e i fotografi erano tutti presi da altre cose, mi portavo appresso Antonio Mellone, bravissimo disegnatore del giornale. Antonio era un artista, ricostruiva gli ambienti con una precisione certosina. Ricostruii dopo trent’anni la rapina all’agenzia del Banco di Napoli di largo Zandonai e Antonio con la sua matita fece rivivere l’episodio solo grazie alla narrazione dei presenti ormai sparsi in altre sedi e alcuni con la memoria impallidita. Allora non eravamo giù più nella mitica sede di via Angelo Fava, ma ci eravamo trasferiti in piazza Cavour, dove nessuno di noi aveva perso lo smalto. La scacchiera aveva perso qualche pedina: Piero Lotito aveva preferito la cultura: Giorgio Guaii la scuola; Giovanni Basso la cucina. Ogni tanto Piero tornava al vecchio amore, soprattutto quando era di turno la notte; e Giorgio la domenica, quando io trottavo alla Stramilano, non come maratoneta, ma crome cronista con altra maglia. Vecchia cronaca! Quanta nostalgia.