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mercoledì 27 dicembre 2023

Un altro artista è scomparso




L’ABRUZZESE GIUSEPPE ROSSICONE VERO MAESTRO DELLA CERAMICA

 
 
Rossicone nel suo laboratorio
Nato a Scanno nel 1933, era venuto
nel capoluogo lombardo, aprendo il
suo laboratorio in via Chiossetto, 10, 
vicino al Palazzo di Giustizia.






 
 
 
 
 
Franco Presicci
 
 
E’ trascorso qualche mese dalla scomparsa di Giuseppe Rossicone, il grande ceramista che aveva la bottega, storica, in via Chiossetto, a due passi dal Palazzo di Giustizia e dal Conservatorio. Se n’e andato in silenzio, lasciando una visibile traccia della sua preziosa attività, che in oltre sessant’anni e più aveva attirato nel suo spazio i più autorevoli artisti, intenzionati a collaborare con lui.
Il Rossicone al lavoro

Lo conobbi negli anni Settanta e a poco a poco diventammo amici: una delle prime volte che andai da lui vi trovai Evi Zamperini Pucci, una bellissima signora, maestra dell’ikebana, che ai tempi di Ferruccio Lanfranchi, capocronista del “Corriere della Sera”, era stata una delle donne più eleganti e affascinanti alle feste del Circolo della Stampa.

Era stato Giuliano Adonai, eccellente pittore veneto che viveva a Milano e per qualche tempo era stato direttore di “Historia”, succedendo al professor Alessandro Cutolo, a indicarmi Rossicone: “Vai in via Chiossetto, avrai da scrivere tanto del personaggio e delle sue opere”. Paolo Cavallina, il notissimo giornalista che sull’ammiraglia della Rai conduceva la trasmissione “Chiamate Roma 31-31”, mi aveva appena telefonato incaricandomi di scrivere ogni settimana, uscita la domenica, una pagina intera sugli abruzzesi a Milano, a colori, sul quotidiano “Il Messaggero del Mezzogiorno”, di cui aveva assunto da qualche mese la direzione, Peppino, come lo chiamavo io, era nato a Scanno e, giovanotto di talento, aveva vinto il prestigioso Premio di Gualdo Tadino. Era dunque per me l’abruzzese giusto. L’articolo uscì, lui lo mise in cornice, anche perchè era la prima volta che appariva su un giornale con tanto di fotografia.

Quando per questioni di lavoro nel suo laboratorio arrivavano artisti importanti come Remo Brindisi, Ibrahim Kodra, Ernesto Treccani, Attilio Alfieri, Domenico Purificato… lui, con un certo orgoglio, mostrava il quadro. E così io presi contatto con questi nomi già rilevanti nel panorama dell’arte.
Attilio Alfieri

Remo Brindisi

Tutte le occasioni erano per me buone per fare un salto da Peppino. Un giorno vi incontrai il pittore Max Quatty, un tipo curioso e simpatico, oltre che artista di valore, con studio anche lui in via Chiossetto di fronte a quello di Peppino, la cui porta, a vetri, era ai piedi di una decina di scale; e aveva mezza dozzina di localini ricavati con grossi fogli di faesite. Quello in cui lavorava al tornio era enorme, con una finestra che dava sul cortile e consentiva a Peppino di vedere l’ospite che si avvicinava alle scale.
 


In quella bottega si respirava un’aria di quiete, lontana dai rumori della strada, tra i multipli di Arnaldo Pomodoro, Cascella, Cantatore, Cassinari, Dova, Harloff, Fiume, Gentilini, Bodini, Schifani, Purificato, Terruso…; suonatori di banjo di Kodra, sculture dello stesso Rossicone…
Jbrahim Kodra
Si potevano passare parecchie ore interessanti in quella piccola galleria d’arte, i cui pezzi prendevano il viaggio verso gallerie istituzionali per esservi esposte. Vi sostammo un paio d’ore con Diego Alto, per un’intervista a Peppino sul grande Filippo, papà del giovane, che di professione fa il fotografo d’arte. Peppino rispose a tutte le domande sull’uomo e sul pittore, che, nato a Bari, nel ’92 era deceduto in una clinica di Notwill, in Svizzera, per le conseguenze di un incidente stradale nei pressi di Ancona. Diego voleva sapere come fosse il padre al di fuori dell’ambiente domestico: severo o buontempone. Peppino l’aveva conosciuto dal punto di vista professionale, e queste domande andavano fatte a me o al giornalista Costantino Muscau, inviato speciale del “Corriere”, o al questore Vito Plantone
Il prefetto Jovine e il questore Plantone

o all’ingegnere Martino Colafemmine, al questore Enzo Caracciolo o a Bruno Marzo, che era stato presidente dell’associazione regionale pugliesi, che in quegli anni aveva sede in piazza Duomo e aveva Filippo come dotto e preparato responsabile delle attività culturali: fra le tante iniziative quella della presentazione del libro di Franco Zoppo, “Belmonte”, da parte di Arnaldo Giuliani, allora capocronista del quotidiano di via Solferino. Tra il pubblico Paolo Scarpis, poi nominato questore di Milano, quindi prefetto di Parma, e altre personalità.
Giuseppe Rossicone era infaticabile: dalla mattina alla sera a plasmare l’argilla, anche per fare faraglioni e figure. Il suo laboratorio era il tempio delle forme e dei colori. In un angolo, il fuoco sacro, che rende perenni gli oggetti che uscivano dalle mani dell’artista. La ceramica è arte antica e Rossicone ne conosceva tutti i segreti. “Oggi nella consapevolezza del passato non è facile incontrare ceramisti innovativi e liberi da condizionamenti e imitazioni”, scrisse Elda Pucci. Per questo l’incontro con l’abruzzese di Scanno suscitò in lei viva commozione. E Carlo Franza, critico di lunga militanza: “Solo un artista, un creativo, un imprenditore d’arte come Giuseppe Rossicone poteva dar vita ad un laboratorio, o meglio a un’officina della ceramica, a Milano in via Chiossetto, fin dagli anni storici del dopoguerra ovvero negli anni in cui Milano era tutto un fermento, quella Milano della grande Brera, come la significò Franco Russoli, che per tutti gli artisti d’Italia e del mondo diventava un mito da vivere intensamente…”.
Di Bella, Tognoli, Chechele e Presicci

Lo apprezzavano tutti, Giuseppe Rossicone. I critici e gli intenditori che si avvicendavano nelle sue mostre: nel ’61 alla Vila Reale di Monza; nel ’66 a Palazzo Strozzi a Firenze, e poi a Positano, a Cortina, in Canada, in Usa, riscuotendo dappertutto successo. Era sempre presente alle esposizioni degli altri artisti e faceva parte – detto per la cronaca – della giuria del Premio Milano di Giornalismo, che si celebrava ogni anno al ristorante di Chechele e Nennella di via Vittor Pisani (un anno fu assegnato ad Antonio Di Bella, direttore del “Corriere”, e ad Alberto Cavallari, corrispondente da Parigi dello stesso quotidiano).

Grazie a Rossicone divenni amico dei pittori Ibrahim Kodra e Attilio Alfieri, che usava rigorosamente il rosso delle angurie che si vendevano sotto il suo amato Conero, Remo Brindisi, che aveva definito azzurro ferrigno il colore che decorava i piatti e i vasi di Giuseppe. Ancora grazie a lui intervistai Ernesto Treccani, andandolo a visitare la prima volta nel suo studio in una traversa di via Turati; e intervistai Pozzi, che dipingeva le osterie, gli Arlecchini innamorati sotto la luna, le barchea vela; Domenico Cantatore, di Ruvo di Puglia, al quale Giuseppe Giacovazzo dedicò il primo documentario a colori della televisione. Credo fosse il ’76 e andai a vederlo in corso Sempione in compagnia di Filippo Alto, che del giornalista divenuto direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno” era amico d’infanzia.
Chechele Iacubino

Filippo Alto

Nel laboratorio di via Chiossetto, Filippo eseguì alcuni suoi multipli, raffiguranti ognuno più brani di Puglia legati da rami d’ulivo o da un tralcio. Via Chiossetto, da un antico termine dialettale milanese, “Ciussett”, è bollata come nastrino stretto, brutto e storto, mentre è una via silenziosa, discreta, tranquilla e per niente malfatta. Quado io andavo al suo numero 10, dove Peppino Rossicone creava le sue opere, mi soffermavo sulla soglia dell’androne proprio perché mi piaceva osservare quel serpentello, dove c’erano a quel tempo lo studio di un alto esponente della finanza e all’inizio, in cui la via (o vicolo per accontentare i guastafeste) incrocia via Francesco Sforza, le redazioni di cinque periodici, tra cui “Qui Touring”, di Mario Oriani, che con il tempo aggiunse “Storia Illustrata”.

Peppino mi riceveva sempre con un sorriso comunicativo e mi guidava in un luogo striminzito, arredato con una scrivania con pile di carte, un paio di scaffali con cataloghi di artisti noti come quello di Bruno Contenotte, che otteneva risultati psichedelici, con le sue vernici (uno 40 per 50,
Rossicone, Kodra e Alto
con la copertina che cambiava forma e colori poggiandovi una pano). Da Peppino conobbi anche Fulvio Nardis, abruzzese anche lui, che aveva un castello a Orte e sognava di portarvi Bogiankino della Scala. Oltre che pittore Fulvio era restaurato e, se non ricordo male, aveva il suo quartier generale a Palazzo Clerici.

Un giorno un amico definì Giuseppe “re della ceramica”; e lui rispose che i re e i principi appartenevano a un mondo molto lontano, che lui aveva incontrato soltanto nelle fiabe. Era comunque un maestro, anche se lui non l’avrebbe mai ammesso, non amando l’enfasi e la retorica. Gli volevo bene, anche perché uomo sereno, rispettoso, paziente, generoso, ospitale, distante mille miglia dal folclore e dal manierismo. Adesso Giuseppe Rossicone non c’è più. Ha raggiunto Kodra, Brindisi, Alto… oltre le nuvole.





martedì 19 dicembre 2023

La storia di un passerotto trovato sulla neve


GIBBIRICCì FU INSIDIATO DA UN GATTO

CHE DOPO VARI APPOSTAMENTI LO UCCISE


Nido in gabbia
La nonna Graziella lo aveva curato

amabilmente ospitandolo nel cestino

in cui conservava la lana per i

maglioni destinati ai nipoti. 

Lo aveva messo in gabbia per

difenderlo dal nemico, molto scaltro

e furbo.

 

 

Franco Presicci

La neve mi affascina. Soprattutto quando copre con le larghe falde tetti, terrazzi, strade, piazze, monumenti, alberi, tratturi. Un manto candido che crea un’atmosfera da favola. Fu sulla neve che tantissimi anni fa, osservando lo spettacolo magico di tutta quella bambagia (non ne avevamo mai vista tanta), scoprii un passerotto implume, infreddolito che invocava la mamma, emettendo insistenti cinguettii. Lo raccolsi e, tenendolo nel palmo di una mano, lo portai alla nonna, Graziella, che amava come me gli uccellini.

Uccellini crescono
Alla sua vista la vecchietta vuotò subito il cestino cilindrico in cui conservava i gomitoli di lana che utilizzava per fare i maglioni per i nipoti, lo imbottì di ovatta, e quella fu la nuova casa dell’orfanello. La nonna lo adottò, dedicandogli tanto amore: lo imbeccava più volte al giorno e avendo capito che era avido di briciole di pane bagnate di latte, fu quello il pasto che gli preparava. Del resto non avevamo niente di meglio: di biscotti non ce n’erano neppure per noi. Era da poco finita la guerra e continuavamo, come tutti, a razionare il cibo. L’uccellino diventava grandicello, si riempiva di piume, balzava sull’orlo del cestino di vimini, sbirciava i dintorni e rientrava. Una mattina volò sulla mia spalla, da lì sulla mia testa, strisciò il becco sul mio naso, forse in segno di affetto o di gratitudine. Quelle esibizioni divennero più frequenti, mi cercava, zampettava sul piccolo tavolo che utilizzavo per fare i compiti, giocava sui quaderni, lasciò una traccia della sua zampetta su un tema che stavo componendo proprio sui miei rapporti con lui; e consegnai lo scritto alla maestra con quell’impronta. Fui così invitato a leggere le imprese del mio piccolo volatile, la dimestichezza che si era stabilita fra noi e la paura che mi prendeva al pensiero di perderlo. “Mettiamolo in gabbia – propose la nonna - ne ho una un po’ sgangherata nello sgabuzzino del cortile, ma abbastanza grande e comoda. Tuo zio Dionigi la può raddrizzare”. “No, ti prego, la gabbia no. E’ nato libero, ormai è abituato a passeggiare, saltare, planare sul comò, sulla cassapanca, ad affacciarsi in cucina al rumore delle padelle, mi fa le moine, è gioioso, la tua proposta mi fa star male. Chiudendolo in gabbia restringiamo il suo campo d’azione. La gabbia è una prigione per i malfattori, non per le bestioline che ci ha donato il Padreterno”. La nonna lo chiamava: “Gibbiriccì”. Fu la prima idea che le era venuta in mente senza essere ispirata da niente. “Ti piace questo nome?”, gli chiese; e il piccolino mi guardò fisso, come volesse sapere il mio parere o dire: “Un nome vale l’altro”.

Casetta

Quando gli parlavo avevo sempre la sua attenzione. Veniva sul mio dito indice, lo percorreva, si spostava sull’altro, lo accarezzavo ed ero sicuro che le mie premure lo rendevano felice. Una mattina al risveglio me lo ritrovai sul cuscino come una sentinella intenta a vegliare sul mio sonno. L’idea della gabbia era superata? Lo speravo. Spesso – mi riferì una cuginetta non ancora pronta per i banchi scolastici – mentre io ero a scuola la nonna ripeteva alla mamma che non poteva passare il tempo a vigilare su quel gioiellino, al quale tra l’altro inavvertitamente avrebbe potuto fare del male. Una sua amica le aveva confessato che infilando il piede in una ciabatta aveva ucciso un passerotto del suo… allevamento, che durante la notte si rifugiava in quella calzatura, dopo aver fatto tante acrobazie come il nostro “figlioccio”.

E allora l’idea della gabbia riprese piede, complice mia zia, che, salì su una scala e conficcò un chiodo nella parete del cortile, in alto, e vi appese la gabbia con all’interno “Gibbiriccì”, al quale dovetti spiegare singhiozzando che non avevo il potere di evitare quella decisione, resa necessaria anche per la presenza dei gatti, che gironzolavano nei dintorni. Avevo detto alla nonna che avremmo potuto cercare di allontanare il pericolo, ma lei, a malincuore, mi fece notare che ai felini basta un balzo per fare un boccone.

Uccellini

Nido su un albero
A uno in particolare, colore bianconero, lo sguardo poco rassicurante, sempre appostato, pronto a cogliere l’occasione per compiere l’ammazzamento. Mio zio Dionigi, che era falegname, figlio di falegname, fratello di falegnami e zio di falegnami, ma capo in un hangar dell’Aeroporto militare, che stava oltre lo stadio “Corvisea” (lo raggiungeva con la bicicletta) un bel giorno presentò alla nonna una gabbia che lui aveva architettato con cura anche dei dettagli. Era bellissima, spaziosa: una dimora quasi elegante e fornitissima. “Fidati – dissi a Gibbiriccì, accarezzandolo per fargli coraggio – Loro vogliono soltanto proteggerti. E poi non starai sempre lì dentro. Quando torno dalla scuola ti tengo con me”. Cinguettò, immagino a mo’ di consenso, saltellò su una delle assicelle, poi sul beccatoio, sulla vaschetta dell’acqua. Mi rivolsi al gatto voraci e lo sfidai: “Se tocchi Gibbiriccì, devi vedertela con me”. Che felicità avere quell’ essere così piccolo come amico. Ero figlio unico e lo consideravo un fratellino. Avevo nove anni. Un giorno lo liberai dicendogli: “Vola, ma torna quando te lo dico io”; e lui volò verso il nespolo che stava nel cortile di fronte. Sibilò qualche verso, passeggiò gongolando su un ramo, poi su un altro. Mi accorsi che il “nemico” bianconero era arroccato sulla tettoia dello sgabuzzino e fingeva di dormire. Ordinai a “Gibbiriccì” di tornare e obbedì. Lo rassicurai, gli detti un bacino sul becco e lo portai in casa, chiudendo la porta.

Casetta

Poi affrontai il gatto agitando una canna lunga quanto l’asta di una bandiera, ma quello, arrogante, menefreghista, rimaneva lì immobile come una statuetta di terracotta. Allora io, all’insaputa di mia madre, presi una scala un po’ scricchiolante e misi un chiodo più in alto, illudendomi di poter rendere irraggiungibile la “prigione”, ignorando l’agilità da trapezista dei gatti. Il dramma. Una mattina al rientro dalla scuola trovai la gabbia a terra, con Gibbiriccì dentro, esanime. Il nemico aveva mostrato abilità circensi, fatto cadere la gabbia e per la paura il mio uccellino ebbe forse un infarto. Piansi, disperato. Per giorni e giorni. Ero inconsolabile. Mia madre mi promise che mi avrebbe comperato un altro passerotto al mercato di piazza Marconi, ma io mi ribellai: un altro uccellino non avrebbe mitigato la sofferenza per la morte del mio Gibbiriccì. Era mio amico, mio confidente. E poi? Non ho più voluto vedere quella gabbia: doveva tenere Gibbiriccì al sicuro e invece era stata prima la sua prigione e poi la sua tomba.

Casetta sul capasone
Zio Dionigi
Dichiarai guerra a quel gatto, accusato da un ragazzino che abitava al pianterreno, in un‘abitazione che si affacciava nel cortile, ma appena mi vedeva quello scompariva. Temeva la mia vendetta, ma, amando gli animali, non avrei mosso un dito contro di lui. Lo avrei rimproverato a muso duro, gli avrei urlato il mio dolore, e lui avrebbe forse capito, anche se era pronto a rinnovare il misfatto. Oggi ho molti anni sulle spalle, sono vecchio, ho raggiunto i novanta; eppure ricordo ancora il mio passerotto che accompagnò tanti miei giorni adolescenziali. Gibbiriccì li ha segnati. Non ho mai smesso di pensare a lui, neppure adesso: spesso mi è capitato di raccontare la storia a qualche bambino che viene a trovarmi (figlio di amici, di nipoti, di dirimpettai). Con Cibbiriccì ho coltivato l’amore per gli uccelli. Ne ho avuti tanti: diamantini, canarini, in gabbie grandi quanto voliere. Li ho viziati, facendoli pasteggiare anche con i biscottini. Ogni tanto qualcuno usciva dalla gabbia e volava verso i cipressi del Libano che abbiamo di fronte a casa, qui a Milano. E tornava, tornava sempre.
 Hanno fatto i nidi. I piccoli sono cresciuti anche giocando fuori dalle gabbie, venendo sulle mie braccia, pranzando a volte con noi a tavola. Non ho dato il nome a nessuno, non ho avuto preferenze con alcuno di loro. Li ho tenuti nel giardino della casa di montagna. Non ne ho più, ma costruisco casette in cui vengono a nidificare. Non tutti gli uccellini d’inverno hanno un tetto in cui ripararsi di notte. Io ho un condominio, di volatili. Provvedo al loro sostentamento, anche se li vedo solo uscire ed entrare nella loro casa, su cui ho inciso un nome: Gibbiriccì. Mi basta. E già molto che al mattino presto diano vita ad un’orchestra. Voci deliziose, ammaliatrici. Mi ricordano il mio passerottino, che non aveva una voce lirica, ma quella per me era una voce cara, che mi resterà sempre nel cuore. Quando sono in campagna, a Martina Franca, mi delizia vedere le rondini schierate sul filo della luce e i passeri nidificare nei varchi dei muri. A Milano non raccolgo mai da terra un piccolo merlo caduto dal nido: affido il compito alla sua mamma. Un giorno ho preso un piccolo colombo ferito. L’ho curato e poi l’ho lasciato andare. Gli uccelli devono essere liberi di attraversare il cielo.






domenica 10 dicembre 2023

Crispiano sempre sulla scena

UN DIFFUSORE DI CULTURA

E UN ARTISTA DELL’IMMAGINE


Carmine La Fratta
Michele Annese ha aiutato la sua

città a crescere, realizzando mille

idee nella biblioteca, un caposaldo

della lettura e della formazione del

cittadino, valorizzando non soltanto

le masserie. Un mago della fotografia,

Carmine La Fratta, si apposta davanti

alle strutture rurali e le valorizza con

le sue immagini, che ha esposto in una

mostra, donandole poi ad una scuola

di Crispiano.


Franco Presicci

Cominciai a frequentare Crispiano un bel po’ di anni fa, dopo aver incontrato Michele Annese nel 1998 ai funerali a Noci del questore Vito Plantone, mio amico fraterno. Annese m’invitò nella sua bella cittadina e da allora le visite sono diventate assidue, psicopompo (perdonate il termine reboante) sempre questo anfitrione garbato, solerte, premuroso, direttore dinamico, intelligente, infaticabile, geniale della Biblioteca comunale e segretario generale della Comunità Montana, sede Santeramo in Colle.

Michele Annese

Mi chiese di andare a una manifestazione alla masseria Pilano, presente il dottor Francesco Paolo Liuzzi, ex sindaco, e accettai subito con piacere. Mi sollecitò altre volte, ora alla masseria Monti del Duca, domani alla Lupoli e ancora alla Francesca. E non dissi mai di no, per la simpatia che stava germogliando, per la stima verso la persona. E per l‘interesse che rivestivano le manifestazioni. Sempre grazie ad Annese, al quale oggi sono legato da un’amicizia sincera e affettuosa, a poco a poco ho conosciuto tutte le caratteristiche di questo luogo, tranquillo, solare, popolato di gente laboriosa. In ogni iniziativa che nasceva a Crispiano ero presente: alla sagra dei funghi organizzata dal ristorante “C’era una volta”; alla sagra del peperoncino piccante, ideata e curata dagli “Amici da sempre”; alla festa della lumaca, opera di un altro Liuzzi, nello spazio antistante la chiesa della Madonna della Neve; alla presentazione di libri sul “sagrato” della Biblioteca (la casa del libro per me è un tempio)…Insomma quasi metà delle mie vacanze a Martina Franca comprendevano una decina di salti nella città in cui per quattro anni visse Alda Merini, con il medico traumatologo e poeta tarantino Michele Pierri. Sempre Michele Annese, per quarant’anni corrispondente de “La Gazzetta del Mezzogiorno” (che ebbe fra i direttori Giuseppe Giacovazzo, tra l’altro autore di “Puglia il tuo cuore”, e del primo documentario a colori della televisione, dedicato a Domenico Cantatore) mi ha fatto vivere momenti pungolanti in parecchie strutture rurali, compresa la Belmonte, che fa da sfondo a un omonimo bellissimo libro di Franco Zoppo, docente al Liceo classico “Archita” in pensione, uomo coltissimo, amante delle cozze di Taranto, della storia della città e delle sue bellezze (ha scritto anche un libro in lingua provenzale). 

Una Masseria

Quando alla biblioteca sono state tolte le energie, Michele Annese ha raccolto in un libro importantissimo tutte le vicende del sacrario della lettura: un libro voluminoso, costellato anche di fotografie, ritagli di giornali, testimonianze, documenti, racconti di personaggi autorevoli, tutto quello che c’era da dire e commentare; e se proprio voglio dire una curiosità, ha tra l’altro un peso corporeo di due chili. In queste pagine Annese parla anche delle innumerevoli attività svolte con i collaboratori della biblioteca, oltre che della sua storia gloriosa e dell’indimenticabile, prezioso volume sulle Cento Masserie di Crispiano, la cui mostra fece anche una trasferta in provincia di Modena… Insomma la vita della biblioteca dal ’64 al 2014, 560 pagine con la presentazione di una bravissima giornalista, Anita Preti, del “Quotidiano di Puglia”. La quale, stilando il profilo di Annese senza trascurare ovviamente la generosa operosità da lui dimostrata negli anni a Crispiano e non solo, ricorda un brano della biografia di questo stakanovista che per un pelo non si è trovato ad esprimere il suo talento e la sua voglia di fare in una città del Nord. 

Altra masseria
Annese era giovane, aveva già rivelato il suo valore a chi era competente, privo di malizia e disposto ad esaltare chi aveva a cuore le sorti del territorio, quando decise di salire sul convoglio, che allora era etichettato come treno della speranza. Ma, messo il primo piede sul predellino, fu tirato giù da un piccolo gruppo di concittadini che lo supplicavano di non partire: c’era tra l’altro la biblioteca da allestire e lui avrebbe potuto compiere il miracolo con la sua volontà e il suo acume. Annese si fece convincere e il treno partì fischiando senza di lui. Non è vero che non si deve mai tornare indietro. C’è chi rinuncia a un sogno per coltivarne un altro. E il richiamo della biblioteca per Michele fu forte. La voce di dentro lo esortava, gli diceva che quella presa era la scelta migliore. Dopo la biblioteca e la realizzazione di tantissime opere che da essa trovavano alimento, l’Università del Tempo libero e del Sapere, dove ogni settimana si tengono conferenze sull’arte, sulla letteratura, sulle tradizioni con il contorno di musica suonata con la fisarmonica da quel fine dicitore e artista poliedrico, che è Vito Santoro. Poi ha costruito il giornale “Minerva news”, che va a gonfie vele.

Anche la città ha i suoi meriti: ha risposto con entusiasmo e consapevolezza alle proposte di Michele Annese, sia quando ha realizzato l‘iniziativa del libro nei condomini sia quando ha avuto l’idea del libro in vetrina: decine e decine di titoli esposti nelle macellerie, nei panifici, nei negozi d’abbigliamento tra abiti da sposa. Tutto per diffondere la cultura, per far crescere la gente, per avvicinarla alle istituzioni, che a volte fanno orecchio da mercante. I crispianesi hanno accolto con favore tutte le idee e le attività nate in casa loro, come la grande serata svoltasi sul corso principale, in cui un professore dell’Università di Amsterdam illustrò i risultati degli scavi archeologici nella masseria Amastuola. Le masserie: un gioiello, un tesoro da custodire, da tutelare, da amare. E una iniziativa lodevole porta il nome di Carmine La Fratta, un fotografo tarantino di altissimo livello, un artista che fa delle sue immagini dei quadri d’autore sia che colga fiori bellissimi (ai quali ha dedicato il calendario di quest’anno) sia che punti l’obiettivo su una festa patronale con i fuochi d’artificio che fanno spettacolo e la folla sia che esalti il carnevale di Venezia o i vicoli storici di Napoli: quelli di Torò, di Eduardo, di Giuseppe Marotta. 

Il cavallo che balla
Abita a Lama, dove ha il laboratorio, e oltre a riprendere il suo paesaggio, racconta il contesto urbano, le persone, la vita quotidiana, i suoi problemi, il desiderio delle persone di migliorarsi. I fiori, i più strami, i più belli, singoli, messi insieme su sfondo scuro, i meno conosciuti, i colori del cielo e della campagna, la loro poesia, la loro atmosfera di allegria attirano questo artista che con la sua macchina fotografica sa ottenere effetti magici. I luoghi ritratti da lui sono ideali per una passeggiata ristoratrice; luoghi che trasmettono pace e serenità; che invitano alla meditazione e alla contemplazione, che sembrano ricordare le tele di Fontanesi, Millet. 

Muretto a secco

Questi stati d’animo sono frequenti nelle immagini di Carmine La Fratta, fotografo professionista di lunga militanza e passione che cattura, coinvolge, entusiasma. Appena cade sotto gli occhi una sua veduta, vien voglia d’incorniciarla e di appenderla ad una parete per poterla ammirare, dare alimento allo spirito, vantandosi di avere in casa un’opera di Carmine La Fratta, che ha esperienze nell’agone cinematografico come fotografo di scena per i film “Il Miracolo” di Edoardo Winspeare, “Mar Piccolo” di Alessandro Di Robliant”, “Scilla non deve sapere” di Bruno Oliviero. Ha focalizzato le cento masserie di Crispiano con passione, con gioia, le ha allineate in una mostra, che ha affascinato tutti quelli che l’hanno visitata, provenienti anche da altri centri, Taranto, Martina Franca… Visto questo notevole interesse, l’autore ha deciso di donare all’Istituto professionale “Elsa Morante” le immagini su tela esposte, con lo scopo che trovino uno spazio permanente in un posto quotidianamente ben frequentato.

Masseria Le Mesole
L’idea è stata subito accolta con soddisfazione dalla dirigente scolastica, professoressa Concetta Patianna, lieta di mostrare queste immagini che raccontano il territorio con tutte le sue bellezze e le sue peculiarità, “oggi riconosciute come ‘unicità’ della Regione Puglia, di cui le masserie sono la massima espressione”. Luoghi nei quali fra l’altro sono stati spesso portati il teatro e la musica, il libro, di cui spesso l’anima era Michele Annese.  Mercoledì 29 novembre, alle 10,30, nella sala ristorante della scuola, presenti Carmine La Fratta, la direttrice, gli studenti e il corpo docenti, si è tenuta la cerimonia di donazione, con un “coffee break”, organizzato dagli alunni e dai docenti. Subito dopo La Fratta è tornato a Lama e potrebbe aver preso il volo verso altre destinazioni, altri paesi, borghi spopolati, che non hanno alcunchè da offrire agli abitanti e ai loro figli, se non a qualche centenario, che passa le giornate fuori della porta di casa fumando la pipa e ripercorrendo a memoria la storia della sua culla. Tempo fa La Fratta mi aveva accennato a uno di questi villaggi che era intenzionato a immortalare, ma ha avuto altri impegni e quella visita è solo rimandata.





mercoledì 6 dicembre 2023

Natale si avvicina a grandi passi

GIA' SI COSTRUISCONO I

PRESEPI

CON I MATERIALI

PIU’ DISPARATI

 

Figura di Franco Sperti
 Presepe di Franco Sperti

 

Intanto nel borgo di Morimondo a Milano

si può visitare il Museo d’arte sacra e dei

presepi. Ottimi ceramisti espongono i loro

manufatti su facebook, molti ispirati dalle

vie, dai vicoli della loro cittadine, dei borghi.

Affollati i mercatini di Natale in ogni parte

del nostro Paese.

 

Franco Presicci 

Natale si avvicina. L’atmosfera si respira anche su Facebook, dove fra l’altro compaiono immagini di vicoli di Locorotondo con palline colorate e nastri argentati su un abete o appesi a un filo steso tra una facciata e l’altra, e luci su un balcone e sulla porta di una casa. E non solo a Locorotondo.
 
Una via di Milano

Anche nel centro storico di Martini Franca. Da tanto sono presenti i anche i mercatini nelle diverse parti del Paese, piccole e grandi, compreso Crispiano, che è sempre la prima e la più attenta ai dettagli. Molti sono affaccendati nell’allestimento del presepi, alcuni di dimensioni che occupano metà stanza, se non una intera, magari con personaggi semoventi, con acqua che gronda da una collina o scorre placida in un canale. Non c’è Natale senza presepe. Meglio se accoppiato all’albero con fiocchi d’ovatta sparsi qua e là per simulare la neve. Siamo pronti per andare a visitare pubbliche e private scenografie popolate di statuine anche piccolissime, che collocate gradualmente danno il senso della prospettiva. Chi osserva un presepe spesso si sofferma con lo sguardo sulle figure tipiche: il guardastelle, il dormiente, la lavandaia, il pizzaiolo, il pescivendolo, il fabbro, la donna che cura gli animali del cortile, le casette illuminate, il contadino che ara la terra, il vecchietto ricurvo con la lanterna. Il presepe affascina, emoziona. Il martinese Michele Sforza ha iniziato a costruirli con idee originali, in gesso, con ulivi e fichidindia, come gli viene richiesto dall’amico che glielo chiede come atto di cortesia. il presepe gli dà gioia, lo trasporta in un mondo incantato.

Presepe di Michele Sforza
Ne vedo altri con tante caverne con il selciato sparso di erba sintetica macchiata di polvere marrone e gli interstizi delle rocce con licheni ricavati dal tronco di un vecchio mandarlo della campagna della Valle d’Itria. Il risultato è accettabile. Io scruto ogni particolare, le facce dei personaggi, i loro atteggiamenti, le luci, l’architettura nel suo insieme, con gli oggetti, gli attrezzi, il ficodindia eseguito con semi di zucca e chicchi di riso. “Già alla fine di ottobre - racconta il mio amico Gigi Sabelli, quarant’anni trascorsi a fare o a visitare presepi - scatta in me l’idea di preparare il materiale necessario per mettere in piedi la struttura, a volte assistito da mia moglie e da uno dei miei figli, che ha preso da me la passione. Vedi, la fattura del presepe deve coinvolgere la famiglia. E la mia aspetta volentieri questo periodo. Anche l’altro figlio adora il presepe, ma lui ha così tanto da fare che si porta il lavoro a casa, e lo capisco se non mette le mani nell’argilla. Ma quando vede l’opera compiuta, il nostro piccolo mondo fatato, si entusiasma, e mi accorgo che è dispiaciuto per non aver collaborato”. Il presepe Gigi lo toglie il giorno dopo la Befana.
 
Figura di Franco Sperti

Quello che faceva mio padre con carta da giornali immersa in un secchio pieno di argilla sciolta in acqua, rigorosamente bisognava disfarlo l’8 gennaio, dopo l’arrivo della vecchietta, che da me non veniva e io ingenuamente la giustificavo per il fatto che non avevamo il caminetto, da cui, secondo la leggenda, scendeva. Mario S. mi dice che è così grande l’emozione che gli suscita la rappresentazione sacra che s’immagina accanto al portatore d’acqua, all’uomo che si toglie il cappello davanti alla grotta della Natività. L’ho sentito dire anche da altri, e devo dire la verità: succede anche a me.

Presepe di Franco Sperti

Il presepe racchiude simboli e valori: la fontana, il laghetto, il mulino, la donna con la brocca, il pozzo sono segni d rigenerazione, di salvezza; la fiamma sotto il paiolo della polenta e quella che pulsa sotto i tre bastoncini rossi o nella lampadina che simula il fuoco: la purificazione; la cometa, il cielo stellato, la luce che splende nelle grotte e fa da guida: la fede. Passo in rassegna su Facebook le opere dei presepisti, che sono capolavori. E sempre su Facebook ho letto la notizia che a Morimondo, Milano, si è aperto il Museo d’arte sacra e dei presepi. Conto di salire in macchina e di andarci. E voglio andare nuovamente a Cantù, dove anni fa ne ho visti di meravigliosi: veri artisti, costruiscono cascine di piccolissime dimensioni con tutti gli ambienti di quelle vere (stalla, fienile, cortile, abitazione per i contadini, ringhiera con granturco, pomodori, cipolle pendenti…e nell’ovile o in un alloggio per i salariati fanno nascere il Bambino. Mi propongo di andare anche a Dalmine per contemplare ancora una volta i bellissimi presepi provenienti da ogni parte del mondo. Mi attirano quelli napoletani, esemplari preziosi, storici, stupendi, con magnifici giochi di luci e di colori e figure ispirate alla vita quotidiana della città. A Napoli gli autori, autentici artisti, facevano a gara: tutti volevano inventare il presepe più pregevole, più bello, più ricco, più toccante. Il XVIII secolo espresse esemplari eccellenti. Mi viene in mente il presepe Cuciniello del XIX secolo. La tradizione continua alla grande in via San Gregorio Armeno, visitata da migliaia di turisti. Recentemente i capolavori sono stati fotografati dal maestro dell’obiettivo Carmine La Fratta, laboratorio a Lama, appena fuori Taranto. Notevoli anche i presepi del Leccese, del Bresciano, della Bergamasca, del Mantovano, con figure plasmate con svariati materiali: dalla cartapesta alla ceramica al legno, al gesso. A Lama, Francesco Sperti, 82 anni, da una ventina d’anni fa il suo bel presepe casalingo con soddisfazione e tanta manualità: lo monta, lo disfa ogni anno, lo rimonta aggiungendo ogni volta delle novità. I personaggi indossano vestiti eleganti confezionati da lui, maestro sarto in pensione. Le facce, le mani e i piedi sono opera di un suo amico che si è messo a riposo, abbandonando l’attività. 

Particolare di Presepe
Francesco Sperti ha lavorato per quattro anni a Napoli e nelle ore libere faceva una passeggiata imboccando via San Gregorio Armeno, pieno di botteghe di figuli di chiarissima fama. Il vecchio sarto (vecchio per modo di dire) ha fantasia, amore per queste costruzioni sacre, che non sono soltanto un atto di fede. Me lo ha fatto conoscere Carmine La Fratta., che ringrazio. Anni fa con due amici, Peppino Cito e Pierino Pavone, da Martina Franca andai a Cutrofiano, vicino a Lecce, dove trionfa il Barocco, in cerca di una bottega di statuine in terracotta o in cartapesta. E ricordai che le origini del presepe in Puglia sono lontanissime. Artefice della diffusione del manufatto nella regione sarebbe stato Stefano da Putignano, autore di presepi prestigiosi in pietra locale dalla metà del Quattrocento all’inizio del Cinquecento. Gli si devono originalissimi presepi in pietra locale. A Martina Franca, i presepi che ricordo più di tutti sono quelli di Michele Sforza. In una quarantina d’anni ne ha costruiti molti. Il più grande fino a qualche anno fa in una chiesetta nel ringo, di fronte alla Basilica di San Martino: presepe che occupava metà del tempio, di fronte all’altare. Fino a un anno fa il gruppo “I Soliti Ignoti”, di cui Michele faceva parte, costruì un presepe all’aria aperta in piazza XX Settembre. La mia amica Anna Bruno, pediatra, mi ha promesso di portarmi in una località lombarda (ho dimenticato il nome), per farmi vedere un presepe lungo non so più quanti metri. Non abbiamo ancora concretizzato il proposito, perché lei sta tre mesi all’anno in una struttura in Africa a curare gratuitamente i bambini.
 
Particolare di presepe
Quando ero piccolo e c’erano ancora i nonni era quasi un obbligo costruire il presepe. L’artefice, come detto, era mio padre, che, lavorando, inzaccherava di argilla sciolta nell’acqua tutta la parete a cui l’addossava. Un amico gli procurava un ramo di pino per incorniciare il presepe e un altro il muschio vero, che andava a prendere in campagna (il verde, nel mio quartiere, a Taranto, allora cominciava subito dopo la via Giovan Giovine, un po’ dopo l’orto di mesta Ronze). Le luci erano quelle normali e le statuine le faceva mia madre. Il nonno stava a guardare, seduto attorno al braciere, raccontando a noi nipoti storie sul presepe che improvvisava, e ogni tanto s’interrompeva per dare un consiglio sulla posizione di un personaggio. Ai suoi tempi verdi il presepe ko aveva fatto lui. Allora io pensavo che un giorno il presepe l’avrei realizzato io, acquistando le figure nel negozio che stava in via Montebello e teneva presepi, “carillon” con canzoni di Natale, personaggi di due, tre, cinque, dieci, quindici centimetri e oltre schierati sulle mensole, sui tavoli, in vetrina, luci multicolori, che chiamavo piselli (adesso non se ne trovano quasi più) … Aveva anche statuine in cartapesta, provenienti dal Leccese. Insomma tutto il mondo del presepe. Il negozio era sempre affollato: segno che anche a Milano tantissimi fanno il presepe. Nel ’29 al ristorante “Santa Lucia” arrivò la pizza e nel presepe comparve il pizzaiolo.