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mercoledì 30 gennaio 2019

La Milano dell’artista Nado Canuti


 
RACCONTAVA LA CITTA’ DI UNA VOLTA

E LA SUA AMATA CASA DI RINGHIERA 


Trasferitosi in via Fanfulla da Lodi, lo scultore realizza opere prestigiose che fanno il giro del mondo.

Con altri nomi diventati come lui famosi, frequentò il bar Giamaica,la latteria delle pie sorelle Pirovini e il locale di mamma Lina, tutti a Brera.

 

Franco Presicci*

Come ho detto un’altra volta su questa pubblicazione di Michele Annese, a me molto cara, delle case di ringhiera m’innamorai nel ’74, visitando per Telemontepenice, un’antenna pavese, quelle di via Borsieri, all’Isola, dove al civico 14 trascorse una notte Garibaldi. Almeno così si diceva. Un busto dell’eroe dei due mondi all’ingresso c’è, ma chi riferisce l’episodio lo fa con molta prudenza.
Canuti nel suo studio
Comunque, in quelle due ore passate in quella strada, che, all’alba del ‘900 e anche prima non godeva di buona fama, nonostante vantasse botteghe di artigiani laboriosi e valenti, oltre ai natali di personaggi come Silvio Berlusconi, Giulio Confalonieri, il re dei frigoriferi Giovanni Borghi…, presi la cotta, colpito dai balconi che corrono lungo le facciate. Era un sabato e da una cucina schizzò una voce: “Abbassa quella radio, per favore”, che è anche il titolo di un libro di Gianni Isola sull’ascolto radiofonico negli anni ’30. Cominciai così un pellegrinaggio per Milano, cominciando da corso San Gottardo, già borgo dei formaggiari, i cui cortili sono vicoli che sboccano in via Alzaia pavese, il naviglio che dalla darsena va a Pavia. Girovagando, mi ritrovai in corso Garibaldi, corso di antica data, tra l’altro noto per una brutale azione dei tedeschi che durante le Cinque Giornate del 1848, con l’appoggio di soldati boemi saccheggiarono un caseggiato di via degli Angioli, uccidendo un accendilampade municipale.
La casa di ringhiera
La casa che cercavo era al numero 89 (se non ricordo male) e mi era stata indicata da Franco Nasi, allora capocronista del “Giorno” che dopo la prima edizione si leggeva tutta la cronaca e con la sua scrittura minuta e ordinata interveniva dove era necessario. “Curioso come sei – mi disse - scriverai un bel pezzo con tutti gli artisti che v’incontrerai”. Sorpresa. Nel primo cortile (ce n’erano tre a zig-zag) m’imbattei in Mario Ligonzo, un tarantino che per anni aveva confezionato la prima pagina del “Corriere del Giorno”, assieme a Livio De Luca (grande abruzzese prestato a Milano, quindi a Taranto), e intanto dipingeva e in via Mignogna aveva una galleria d’arte, che ospitò pittori illustri, fra i quali Francesco Boniello (che suscitò grande ammirazione con un falso dichiarato di un quadro di Caravaggio eseguito da lui, esposto all’ingresso del suo “atelier”, allora in corso Umberto, vicino al ponte girevole). Fu Mario, con il quale ristabilii i rapporti, andandolo a trovare nel residence in cui alloggiava e al “Corriere della Sera”, dove era stato chiamato da Tito Stagno, a indicarmi gli altri pittori: Mario Bardi, che in ogni tela metteva un elemento barocco in omaggio alla sua Sicilia; Bertero;
Edizioni d'arte Severgnini,Comune di Lodi
lo scultore Nado Canuti, che lavorava in uno studio ampio e luminoso con entrata sotto un arco che prendeva aria dal terzo cortile, in fondo al quale signoreggiava un fico prolifico che con i suoi frutti a campana sembrava un albero di Natale fuori stagione. Canuti, appunto. Bussai alla sua porta e mi accolse con l’affabilità di un familiare, facendomi visitare lo studio e le tante opere che conteneva, sino a qualche giorno prima esposte in una personale intitolata “I racconti di padre”. Passando da un bancone ad un altro, Nado mi parlò della sua vita; della bomba che quando aveva 15 anni lo aveva privato di alcune dita; del destino di quella casa di ringhiera, insidiata dalla voglia dei milanesi di cambiare e dalla voracità del cemento armato… Dopo qualche anno le previsioni si avverarono: lo stabile venne spopolato, avvicinandosi la data della sua demolizione, e Nado trasmigrò in zona Loreto in via Fanfulla da Lodi, vicino al centro sociale Leoncavallo, da cui partivano i cortei che scuotevano Milano. Lo avevo perso di vista. Trascorsero gli anni e lo rintracciai per caso nel gennaio del 2006.
Opera di Nado Canuti
Gli telefonai, fissammo un appuntamento, ci riabbracciammo, mi chiese notizie, se ne avevo, della vecchia casa di ringhiera di corso Garibaldi; di quella di fianco, dove a suo tempo andavano a dipingere artisti famosi che venivano anche da Bergamo. Nado si commuoveva spesso quando si parlava dell’amata Milano sparita. “Diamine, ci vivo da più di quarant’anni; come faccio a non essere innamorato di questa città!… Prima ci ero venuto, qualche volta, per incontrarmi con Marco Valsecchi, critico d’arte del quotidiano ‘Il Giorno’… e con Franco Russoli. Frequentavo la galleria ‘Le ore’ di Fumagalli. Avevo già in mente di piantare la baracca a Milano, sollecitato dallo scultore Broggini e dal pittore aquilano Remo Brindisi, che acquistava le mie sculture per il museo della sua villa a Lido di Spina”. “Grande, Remo Brindisi”, lo interruppi. “L’ho intervistato più volte nel suo ‘atelier’ di via Pietro Calvi, anche quando Mimmo Dabbrescia lo inserì con varie foto in uno dei suoi volumi intitolato “Uomini e arte”. Nato a Bettole di Chiana, Canuti stava a Piombino, impiegato all’Ilva. Scolpiva e dipingeva nei momenti liberi, incoraggiato da Mino Maccari e da Pier Carlo Santini. “A Milano avevo un contratto con la Contemporarte, che vendeva porta a porta.
Nado Canuti e il tenore Mario Del Monaco nel '70
Mi ci aveva portato Maccari. In seguito conobbi Ottone Rosai, Orfeo Tamburi, lo scultore Quinto Martini, che cercava di dirottarmi a Firenze. Milano era il mondo degli artisti e vantava un fermento culturale di altissimo livello. Ero entusiasta. Nonostante i sacrifici che dovevo affrontare. Le tasche non languivano sempre”, grazie alla vendita di qualche opera; e quando era a secco c’erano le sorelle Pirovini, con le quali aveva accumulato un conto chilometrico Jbrahim Kodra, a dargli una mano. Erano religiosissime, una di loro insegnava catechismo nella parrocchia di San Marco e quindi non rifiutavano agli artisti il “pagherò domani”. Nado andava anche alla latteria-trattoria della Dina, in via Solferino, la via del “Corriere della Sera”, assieme a Dova, Bonalumi ed altri nomi diventati tutti famosi. Apripista Agenore Fabbri.
Copertina libro di Dabbrescia
Al bar “Giamaica”, la cui titolare era chiamata mamma Lina per il suo carattere autoritario, Canuti s’incontrava con Pietro Bianchi, critico cinematografico, e Giulio Confalonieri, storico della musica, entrambi del “Giorno” (poi il secondo traslocò al “Corriere”); con lo stesso Valsecchi, Salvatore Quasimodo, il musicologo Beniamino Dal Fabbro, il pittore Antonio Recalcati, Emilio Tadini, autore tra l’altro del libro “La lunga notte”. Del Giamaica era assiduo anche Kodra, che al suo arrivo a Milano, richiesto di tenere un discorso alla presenza di Mussolini, non conoscendo la nostra lingua, recitò in albanese i numeri da uno a cento intervallandoli con le parole “duce”, “fascismo”, “Mussolini”, “patria”, “vittoria”, le uniche che conosceva. “Era una Milano – dice Nado – in cui l’arte trovava nutrimento in tutte le avanguardie. Era anche una Milano più generosa. Gli artisti venivano accolti festosamente, facevano una mostra e vendevano tutto. Non perdevamo un ‘vernissage’, anche due o tre al giorno. Vi si offrivano formaggio, olive, salatini, pasticcini. I galleristi avevano un lungo elenco di appassionati sempre presenti, che non si limitavano alla visita: acquistavano anche.
Altra opera di Canuti
Bonalumi
Le inaugurazioni più numerose erano il giovedì e il venerdì. I critici Valsecchi, De Micheli, Russoli… recensivano le mostre… Una volta lasciai lo studio aperto per una settimana e nessuno toccò nulla: Milano era anche una città tranquilla. Ottimi i rapporti umani.Per il poeta Alfonso Gatto, “bella umanità… Milano era ricca di bella gente. C’era la nebbia e faceva freddo… Una città diversa con tante gallerie, tra cui la Boccioni di Nencini, l’Apollinaire di Guido Le Noci…”, alla quale, quando chiuse, Dino Buzzati dedicò un necrologio sul “Corriere d’Informazione”, diretto da Gaetano Afeltra. Buzzati e Le Noci erano amici; amico del gallerista, che andava spesso anche a Parigi ed era noto in tutta l’Europa, era anche Pierre Restany. Poi Canuti, che godeva dell’amicizia e della stima del tenore Mario Del Monaco, tornò al punto dolente: lo studio di corso Garibaldi. “Era enorme e vi faceva un freddo cane. Una mattina, dovendo ricevere una visita di Marco Valsecchi comperai tre stufe. Ma quando il critico uscì mi disse che forse nell’installarle si erano sbagliati: le stufe erano fuori non dentro”. Ha creato opere che sono andate in giro per l’Italia, con mostre prestigiose, che comprendevano monumenti alla Resistenza. Ha esposto in collettive a Palazzo Reale, al Castello Sforzesco, alla Permanente, alla Triennale…”. Di lui hanno scritto critici illustri. E’ un grande artista, Nado. Semplice, buono, ospitale, amante di Milano come pochi. Quando vi sbarcò dominavano gli urlatori, che imitavano i Platters (Tony Dallara, Betty Curtis…); trionfava “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli; al Gerolamo era in cartellone “Milanin Milanon”; la Feltrinelli faceva terno con il “Gattopardo” e il “Dottor Zivago”; Ermanno Olmi girava il film “Il posto”; era da poco apparsa la minigonna, che scandalizzava moltissima gente; il ministro delle Finanze Trabucchi emise una circolare in cui si chiedeva: ”… ma chi sono tutti questi ricchi? Indagare, indagare”. Le signore continuarono a fare avanti e indietro nei “foyer” di via Montenapoleone per farsi invidia a vicenda, tra lampi di macchine fotografiche. Presenti all’esecuzione del “Poliuto” Grace Kelly e il principe di Monaco Ranieri, Onassis ed altri “vip”. Quant’acqua è passata sotto i ponti.

*La Redazione di "Minerva News", insieme agli amici lettori, esprime al giornalista  Franco Presicci un sentito ringraziamento per la Sua preziosa collaborazione al  giornale, assicurata anche in presenza di crisi di salute.
Al dott. Presicci auguriamo tutti un buona guarigione, auspicando di averlo come insostituibile sostenitore, per lunghi anni ancora. 
Il direttore Michele Annese  

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mercoledì 23 gennaio 2019

Un indimenticabile viaggio ad Altare


Alfio Bormioli

I PREZIOSI SOLDATINI DI PIOMBO

DI ALFIO E AMANZIO BORMIOLI


Gli abiti e le uniformi erano sovrapposti, damine, soldati in un realismo anatomico ed espressivo perfetto; come lo erano le caratteristiche etniche. 

Cavalli al galoppo, all’ambio, al trotto, quello impegnato in una piroetta.

Autentici artisti anche del vetro. Mostrarono come s’introduce un veliero in una bottiglia.









Franco Presicci

Sempre effervescente come la gazzosa versata dalla bottiglia con la pallina (si troverà forse nei mercatini), un giorno Osvaldo Menegazzi mi ordinò di prepararmi per andare ad Altare, vicino a Savona. “Vedrai che la gita ti piacerà!”. Era l’uomo delle novità, delle sorprese, e lo seguii, certo che mi avrebbe fatto fare una esperienza interessante. Durante il viaggio mi parlò di tutto, dei tarocchi d’ispirazione surrealista che stava disegnando, dei diorami… nel suo studio a un tiro di schioppo da piazza Greco; ma nemmeno una parola sul motivo di quel viaggio. Solo quando, giunti a destinazione, aveva parcheggiato mi fece un vago accenno: “Questa è la terra del vetro soffiato. Più di 2 mila abitanti e tanti laboratori specializzati nel settore…”. Due passi a piedi, due colpetti a una porta, un sorriso largo sotto la barba e i baffi folti e neri, gli occhi vispi. Comparve la copia dell’attore caratterista francese Bernard Blier, protagonista di “Legittima difesa”, che indietreggiò per farci entrare, accogliendoci con autentica cordialità.
Osvaldo Menegazzi
Una mitragliata di domande incrociate su sagome di vetro e carte da gioco e quadri con conchiglie vaganti nello spazio eseguiti dal Menegazzi, persona intelligente, briosa, spiritosa. Dissi che non ero riuscito mai a capire come s’inserisce una nave in una bottiglia e il padrone di casa prese una canna, vi soffiò più volte sagomandola, v’introdusse dal fondo il veliero e chiuse l’apertura continuando a manipolare il manufatto. Blier, che in verità era Amanzio Bormioli, artista eccellente, come il padre, Alfio, 74 anni, che si era sollevato dallo sgabello lasciando il tavolo da lavoro e venne verso di noi. Lo studio era riposante, bene illuminato. Il mio sguardo si soffermò su un “Abbraccio”, in cui Amanzio aveva colto l’essenza dell’espressione, lo slancio del sentimento. “Quattro anni fa – era il 13 ottobre del ’72 – si fece largo in me il bisogno di costruire soldatini di piombo. Ho sempre frugato nelle pagine della storia, nei piccoli e grandi particolari delle battaglie: quella di Nikolajewka, evento della campagna di Russia del 26 gennaio del ’43. Mi prendeva anche quella di Magenta del 4 giugno del 1859, nella seconda guerra d’indipendenza italiana… Le studiavo con grande attenzione, soprattutto le lotte del periodo napoleone”. Nei primi tempi le sue mani erano ovviamente incerte; ma ben presto si sono fatte più sicure nel modellare il piombo, trasformandolo in soldati con le divise, gli abiti sovrapposti: damine, cavalli di un realismo anatomico ed espressivo davvero sorprendenti. 
Fanti in una raccolta della  Bertarelli
Colpivano soprattutto i cavalli, per il movimento, la forza. Cavalli al galoppo, al trotto, all’ambio; il cavallo impegnato in una piroetta, nel salto, in una corvetta, in una capriola; il cavallo ferito in battaglia, perfetto nella sua armonia, per fedeltà al dettaglio, dall’unghiella, al garetto, alla criniera… Li ammirai sugli scaffali, su un mobiletto di questo laboratorio di due stanze, striminzito, pieno di libri, canne vi vetro, un elmo con visiera e coprinuca a “coda di gambero”, il banco di lavoro… Menegazzi, che era anche autore di soldatini di carta, era incantato di fronte a queste ricostruzioni e a quelle che Amanzio descriveva: “Isbuscenki, dove gli episodi di eroismo non si contarono: cadde il sottotenente Ragazzi, il maggiore Litta, che gravemente ferito continuò a combattere fino a quando non venne colpito a morte”. 
Soldatino antico
Soldato di Kodra
I personaggi di questa carica del Savoia Cavalleria sul fronte russo (24 agosto ’42) elaborati da Bormioli erano l’alfiere ferito e il comandante che si lancia per evitare che la bandiera caschi in terra; un soldato della scorta, il più vicino all’alfiere, con la sciabola alzata, sta per trafiggere il nemico. Dietro, altri soldati con una funzione estetica. C’era anche un gruppo che rievocava Napoleone alla battaglia di Rivoli (14-15 gennaio1797), dove – raccontò Bormioli – il Corso dovette provvedere a fatica per distribuire le truppe su un fronte molto vasto. Quando poi capì che il nemico puntava su quell’obiettivo vi raggruppò tutte le forze ed ebbe ragione. Osservai un “quadro” per l’Unità d’Italia: un soldato piemontese che baciava la ciociara. “Eseguendo i soldatini – riprese Bormioli – non penso alla retorica di certi libri, ma al soldato come essere umano, con le sue paure, le sue debolezze che si nascondono sotto l’uniforme... ”E cerchiamo di dare al volto di ciascun soldato le sue caratteristiche etniche”, intervenne il papà di Amanzio, Alfio, che non dimostrava i suoi anni. Sino a quel momento se n’era stato discretamente in disparte, partecipando con un sorriso amabile. ”A suggerire a mio padre il nome che porto fu la sua passione per la ‘Cavalleria rusticana’, il melodramma di Mascagni in cui il carrettiere Alfio sposa Lola, della quale è perdutamente innamorato Turiddu”. Era lui, Alfio, che si curava di cesellare le facce, mentre Amanzio faceva il resto; e da quell’esperto di uniformologia che era si occupava anche della vestizione, sovrapponendo gli abbigliamenti in lamine di piombo sul corpo dei militari. Ogni elemento era diverso dall’altro, uno più bello dell’altro. 
Antico soldatino su carta da gioco
Splendidi quelli che ricordavano Balaklava, episodio della guerra di Crimea: 25 ottobre1854, ”combattuta tra Russia e Turchia, comandanti lord Raglan e lord Cardigan per gli inglesi, partecipanti con Francia e Regno di Sardegna e il generale Liprandi per i russi; soldati semplici del 17° lancieri, del 2° dragoni, ufficiali dell’11° ussari, soldati del 14° fanteria e della brigata fucilieri, ufficiali dei granatieri della Guardia. Di fronte ufficiali del 10° ussari, il reggimento preferito da Giorgio IV, che ne divenne colonnello nel 1793, all’epoca in cui era principe di Galles… Una volta salito al trono non smise di occuparsi del suo prediletto”. Roba per collezionisti. E si sa quanto sia diffusa ovunque la passione di raccogliere figurini storici militari, armi, eserciti di piombo, di carta, di plastica… Si ricordano i 300 soldatini d’argento fatti eseguire da Nicola Reger da Maria de’ Medici per il delfino, il futuro Luigi XIII, e trasmessi poi a Luigi XIV, il Re Sole, i cui ideali di Stato si condensavano nella frase “L’etat c’est moi”. Amanzio conosceva la materia e ne discuteva con il suo eloquio piacevole, con alcune cadenze piemontesi che di tanto in tanto ritrovava echi del dialetto ligure; mentre il padre Alfio, tornato aluno sgabello, schizzava facce di soldati sul suo tavolo. Oltre che un artista eclettico, del vetro e del piombo, ricco di idee e di progetti, di iniziative, Amanzio era iscritto alla Società di storia patria.
Kaplan e Menegazzi
Al termine della conversazione, durata oltre due ore, mi aspettavo un immediato ritorno a Milano; invece il programma prevedeva un invito a cena, con un risotto con i tartufi a casa di Amanzio. Lasciammo molto tardi questo piccolo agglomerato piemontese che per poco non era stato inghiottito dal confine ligure; un paese raccolto con gli sdruccioli che s affacciano su scalinate o s’immergono sotto archi aperti tra i caseggiati. Questi ricordi sono scaturiti quando il mio amico Gianfranco Radice, colto collezionista di etichette di confezioni di profumo e di altro, mi ha riferito di una sua visita nel regno di Osvaldo, “Il Meneghello”, trasferitosi da via General Fara nei pressi delle ex Varesine trasformate in un contesto ultramoderno che comprende un giardino verticale, a corso di Ripa Ticinese 53. A ricevere in questo luogo in cui si respira aria di magia, gli appassionati di tarocchi di Osvaldo, apprezzati dal Kaplan, esperto mondiale, e alcuni pubblicati nella sua autorevole e famosa enciclopedia, c’è la bella Cristina, nipote dell’artista surrealista, che ebbi il piacere di conoscere oltre cinquant’anni or sono, grazie a Vito Arienti, grande collezionista ed editore di tarocchi storici (possedeva diecimila mazzi, da quello della Corona ferrea alla Geografia intrecciata nel gioco dei tarocchi). Vito stimava Menegazzi, che tra l’altro stava per pubblicare “I Tarocchi Visconti-Sforza” del XV secolo, con le quattro carte mancanti del gioco originale: il Diavolo, la Torre, il Cavallo dei Denari, il Tre di Spade, ricostruite dal miniaturista Giovanni Scarsato di Milano, in occasione di questa particolare edizione); e “I Ventidue talismani in 22 arcani” ideati dallo stesso Menegazzi, un vulcano. Gianfranco si è soffermato con entusiasmo su quello spazio, elencando tele, libri, bellissime scatole firmate dal Menegazzi, paraventi decorati con tarocchi… un mondo incantato che conosco. Anni fa vi incontrai l’attore Arnoldo Foà.


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mercoledì 16 gennaio 2019

Lo scrittore e giornalista Goffredo Palmerini




VIAGGIATORE INSTANCABILE E CURIOSO ANSIOSO DI SCOPRIRE LE PERLE DEL MONDO

Nel suo nuovo libro, “Grand Tour a volo d’aquila” storie avvincenti di uomini e donne che si sono impegnate onorando il proprio Paese.
E’ uno dei figli più affermati e
prestigiosi di quella terra stupenda, che è l’Abruzzo.





Franco Presicci

Un nuovo libro del giornalista e scrittore giramondo Goffredo Palmerini.
S’intitola “Grand Tour a volo d’aquila” ed è ricco di cronache, commenti, personaggi, storie... Un libro interessante come i precedenti. Palmerini non delude mai. Le sue opere catturano l’attenzione e la tengono viva fino all’ultima pagina. L’ho sfogliato con l’intenzione di rimandare la lettura al giorno successivo, ma già i primi capitoli mi hanno preso e non mi sono più fermato: “L’Aquila, sette anni dopo il terremoto”; “Constantin Udroiu all’Accademia di Romania: la retrospettiva del grande artista scomparso; “Una Radio per gli italiani a Londra”…; e poi San Severo. Adoro questa città in provincia di Foggia, avendovi frequentato il liceo classico Matteo Tondi, che aveva pilastri come i docenti Casiglio, De Rogatis, Stoico, Ceci, preside Mancini. Conoscevo bene figure, strade, monumenti, palazzi gentilizi, cinema (“Excelsior”, “Marchitto”…), conventi, soprattutto quello confinante con la villa, rallegrata dagli urli di gioia dei bambini, che invadevano la cella di padre Matteo, senza disturbare le sue meditazioni e le sue letture.
San Severo
Erano gli anni in cui Tommaso Fiore vinse il Premio Viareggio con “Un popolo di formiche” e tempo dopo il figlio Vittore, giornalista e poeta, a San Severo il Fraccacreta con “Ero nato sui mari del tonno”; Fernando Palazzi soffrì la delusione per l’esito del Premio Viareggio, dove aveva partecipato con il romanzo “Rosetta”, senza essere sostenuto da quelli che lo avevano incoraggiato ad affrontarlo, e pubblicò la nuova edizione del suo vocabolario; a San Giovanni Rotondo prendeva corpo la “Casa Sollievo della Sofferenza,” tenacemente voluta da San Pio… Erano gli anni del miracolo economico; il Sud si salassava e la popolazione di Milano cresceva del 24,1 per cento e quella di Torino del 42,6. Con il suo stile scorrevole, efficace e godibile Palmerini delinea San Severo con brevi pennellate: “Un pregevole centro storico con importanti monumenti, che l’hanno fatta riconoscere città d’arte. San Severo è una bella città posta nel margine settentrionale della Puglia, tra il Gargano e il fiume Fortore, nella Capitanata – della quale a suo tempo fu capoluogo – laddove confluivano gli antichi tratturi della transumanza.
New York city
Il centro storico, perimetrato dalle antiche mura urbiche, conserva l’intricato impianto viario medievale”… E prosegue: “Bella e ampia la Cattedrale, con fonte battesimale duecentesco e notevoli tele del Settecento, d’influenza napoletana. Altro vanto della città è il Teatro municipale…”, dove quando c’ero io si esibirono fra i tanti il cantante partenopeo Giacomo Rondinella, che allora per molti era un divo; l’attore Guglielmo Inglese, gli studenti del locale liceo classico con “Mister Brandi”, una commedia scritta da un maestro elementare. In un capitolo di “Grand Tour” l’autore ricorda la XV edizione (svoltasi, come sempre a San Severo, nel 2016) del Premio giornalistico ispirato a Maria Grazia Cutuli, l’inviata del “Corriere della Sera” assassinata in Afghanistan il 19 novembre del 2001, sulla strada da Jalalabad a Kabul, assieme al collega del “Mundo” Julio Fuentes e a due inviati della Reuters. Espone il profilo professionale della giornalista, laurea in filosofia con il massimo dei voti e lode all’università di Catania, e del Premio, che, organizzato dal Centro culturale “Luigi Einaudi”, ha il patrocinio dell’Unesco, dell’Unicef e della Regione Puglia; elenca i giornalisti che di quel riconoscimento sono stati insigniti, tra cui Hafez Haidar,” candidato al Premio Nobel per la pace, giornalista, poeta e romanziere, docente di Lingua e Letteratura Araba presso l’università di Pavia, considerato uno dei maggiori studiosi delle religioni, libanese per nascita e italiano d’adozione…. Suggerisco a tutti “Grand Tour”, che porta per mano il lettore attraverso più di 300 pagine.
Hafez Haidar, poeta e scrittore
Nella sua presentazione Hafez Haidar dice che Goffredo ”riesce a cogliere i benevoli frutti delle vicende degli uomini e delle donne e a mettere in risalto le loro opere di vita e di pensiero. In veste di ambasciatore della propria terra e di convinto sostenitore della necessità del dialogo e della benefica contaminazione culturale tra i popoli, ci presenta un’altra Italia, sorgente di luce e conoscenza per tutti coloro che amano il dialogo e credono nei valori fondanti della pace e dell’amore…”. Viaggiatore instancabile ed entusiasta, avido, curioso, ansioso di scoprire le bellezze del mondo e di esaltare la tenace volontà degli uomini di affermarsi ovunque si siano trapiantati, superando sacrifici e ostilità, insulti, lo scherno, il rifiuto, spesso il disprezzo. Palmerini ama andare verso l’altro. “E’ uno dei figli più affermati e prestigiosi di quella terra meravigliosa, che è l’Abruzzo (parole di Tiziana Grassi nella prefazione), coraggiosa e indomita verso cui lo scrittore riversa tutto il suo amore a partire dall’Aquila…

Santa Maria del Suffragio - cupola ricostruita
Quel sentimento lo estende a tutto il nostro Paese, anzi il Belpaese, come lui lo chiama. “Con grande gioia esprimo, da aquilano, plauso ed emozione per l’Oscar conferito a Ennio Morricone dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences a Los Angeles per le musiche del film The Hatefun Height” di Quentin Tarantino… Diverse volte Morricone è stato all’Aquila per dirigere applauditissimi concerti, nel giorno memorabile della cittadinanza onoraria, come nell’immediatezza del tragico terremoto del 2009 la sua visita alla città ferita”. Oltre che scrittore di grande qualità, Goffredo Palmerini è un cronista avvincente. Dall’Aquila al Salento: colori, sapori e grazia di una terra di cultura. “Lasciato con mia moglie Metaponto, un mare di perla, e la vasta pineta litoranea alle nostre spalle, la superstrada jonica ci porta a Taranto, città ricca di storia, purtroppo ferita dai guasti ambientali di una grande industria siderurgica non ancora risanati…”. Durante il percorso, tra ulivi, vigneti, frutteti, muri a secco avverte l’odore del mare già quando la strada sta per sfiorare la costa intorno a Porto Cesareo.
Galatone
Destinazione finale, Galatone. E’ stata la cultura a spingerlo sin lì: il Premio Galatone arte e il Premio letterario “Città del Galateo”. Le espressioni dell’anima stimolano Palmerini a intraprendere viaggi vicini e lontani, oltre alle condizioni delle persone che per necessità hanno abbandonato la propria culla, pur rimanendole legate come ricci allo scoglio. E per un’edizione speciale del Premio Antonio Zimei per gli Abruzzesi dell’anno all’estero, “a personalità che si sono particolarmente distinte onorando la propria terra d’origine”, corre a Pescara, e racconta la manifestazione e la commozione che prova ogni volta che entra nella sala “La figlia di Jorio”, al primo piano del Palazzo “che insieme a quello del Comune fa da quinta a piazza Italia”.
Washington, Congresso degli Stati Uniti

I“reportages”, come quello dagli Stati Uniti (le tre intense giornate di Washington) sono il tessuto di “Grand Tour” di Palmerini, uomo colto, sensibile, generoso; giornalista scrupoloso, rispettoso dei dettagli; scrittore delicato, che si fa leggere con molto piacere. Pensa in auto, scrive in aereo, in treno, nella camera di un albergo, abbozza mentre pranza o cena al ristorante, a Little Italy o altrove, ovunque vada per un congresso, per incontri con letterati, pittori, scultori, politici, gente comune, raccogliendo storie da snocciolare in libri e giornali anche esteri, come “La Gazzetta” brasiliana, la “Voce” canadese. Ha contatti con direttori di quotidiani e settimanali, capi di governo, luoghi… E’ ricco di esperienze e competenze; ha una gran voglia d’immortalare i paradisi terrestri in cui s’imbatte mettendoli a disposizione degli amici e non solo. E’ abile come fotografo: usa l’obiettivo come un cacciatore d’immagini professionista. “Il libro è qui davanti a me – scrive Gianfranco Giustizieri – a pagina 322 di ‘Grand Tour’. La sensazione derivante dal fruscio delle pagine, l’odore della carta, il piacere personale di ritrovare la scrittura di Goffredo Palmerini nel suo ‘Italia nel cuore’, One Group Edizioni, l’Aquila 2017, in aggiunta alla bella manifestazione per la presentazione e l’occhio che si sofferma subito sulle pagine 181 e 182, prima di ogni altra lettura: il ricordo di Adolfo Calvisi. E’ un coinvolgimento immediato, emotivo e razionale…”. Scomparso a 98 anni all’Aquila, Calvisi era “un maestro nella scuola, nella politica e nelle istituzioni… Rigoroso, determinato nelle scelte… spiccata sensibilità nel campo sociale”. Fu sindaco di Fossa, sua città natale, amministratore dell’Ospedale San Salvatore… Figura esemplare, come le altre che Goffredo Palmerini illustra nelle sue opere. “Grand Tour al volo d’Aquila”, One Group Edizioni, verrà presentato a Milano il 17 alle 18, nella Sala Meeting Antica della Caffetteria Passerini in via Spatari.


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GENTE DI DUBLINO” DI JOYCE

mercoledì 9 gennaio 2019

Roberta Cordani e il suo amore per i navigli


Roberta Cordani

HA RACCOLTO LA SUA MILANO
 

IN PRESTIGIOSI, FAMOSI VOLUMI


 
Curò le sue creature con grande

competenza sollecitando docenti

universitari, giornalisti, come Gaetano

Afeltra e Guido Vergani, critici e storici 

dell’arte, scrittori…

Le presentazioni

si svolgevano nella Basilica di 

Sant’Ambrogio, alla Società del Giardino, a Palazzo Tè …





Franco Presicci



Non lo dice, ma è evidente: coltiva un amore profondo per Milano. Lo si vede anche sfogliando i libri da lei scrupolosamente curati su questa città, che se oggi può sembrare meno affascinante di una volta, possiede una grande ricchezza, purtroppo non da tutti riconosciuta. Roberta Cordani parla senza enfasi di questi volumi ponderosi e splendidi: bellezza dignitosa e pudica, dignità.
Nicola Partipilo,Giulio Nascimbeni,l'ex direttore dell'Ansa Brazzi
“Milano è anche piena di storia, custodita in archivi, musei, biblioteche, collezioni private, edifici… Da lì si possono rintracciare tanti filoni tematici per ricostruire antiche fisionomie”. Quando l’editore Nicola Partipilo, barese a sua volta rapito dalla terra del Porta, a suo tempo le affidò il progetto di un libro sulle vie d’acqua, sulle prime era un po’ spaventata al pensiero di dover condensare in 600 pagine secoli e secoli di avvenimenti. Ma si mise subito all’opera, coordinando gli interventi di diversi autori, tutti specialisti, scegliendo con molta attenzione centinaia di immagini d’epoca colte da fotografi di alto prestigio, tra i quali Mario De Biasi, Fulvio Roiter, Piero Orlandi, dipinti di pittori celebrati…”. Si impegnò a spulciare nella civica Raccolta di stampe Bertarelli, grazie alla generosa professionalità della conservatrice Giovanna Mori e dei suoi collaboratori; per la stesura dei testi sollecitò giornalisti come Gaetano Afeltra, da sempre innamorato di Milano, Guido Vergani, critici e storici dell’arte, docenti universitari, scrittori, come Giuseppe Pontiggia; ripercorse le sponde del Naviglio Grande e Pavese… “Quelle passeggiate mi hanno dato non pochi suggerimenti per l’esecuzione dell’opera e la consapevolezza della specificità di ogni naviglio: vigoroso, nel primo tratto, quello che scivola verso Pavia; tranquillo, silenzioso quello di Bereguardo, vivacissimo il Grande, alimentato dal Ticino, ‘selvaggio’ quello di Paderno”.
Gaetano Afeltra
Sono molti i volumi realizzati dalla Cordani per la Celip. Qualche titolo: “Milano nei palazzi privati”; “I venticinque secoli di Milano”; Milano, Il volto perduto della città”; “I Navigli”; “Natività e Presepi”; “Milano verso il Sempione; “Il Castello”…                Quella sui navigli sembra essere la sua creatura prediletta. “Quando ho assunto l’impegno di quel libro ho trovato tantissimo materiale che illustrava una città favolosa, fatta d’acqua, di ponti, di riflessi, di vecchie botteghe, di artigiani, di pittori, di gallerie d’arte… E mi sono entusiasmata: consultando quelle pagine, i lettori avrebbero potuto compiere un viaggio non solo leggendo ma anche osservando itinerari suggestivi, stampe d’arte, mappe, dipinti di Arturo Ferrari (meraviglioso quello che ritrae il naviglio di via Francesco Sforza con il ponte dell’ospedale); di Giannino Grossi, di Dino Rossi, di Filippo Carcano, di Giovanni Segantini…”.
Un volume della Celip
L’affascina rimettere insieme ciò che è scomparso: “Mi sono commossa creando ‘Milano, il volto della città perduta’. E’ destino delle città cambiare faccia. E Milano, nel periodo tra l’Ottocento e il Novecento, ha cambiato radicalmente la sua”. Cancellati per esempio l’importante Pazzo Visconti di Modrone, tra via della Cerva e il naviglio di San Damiano; il laghetto di San Marco, per Giacomo C. Bascapè “un impareggiabile fiore dell’architettura milanese”; la Pusterla dei Fabbri, che tante accese polemiche suscitò in consiglio comunale tra chi la voleva salva e chi demolita. Cancellate anche tante contrade apprezzate da Giovanni Verga, lo scrittore definito “il gentiluomo di Sicilia”, nel suo libro “Le vie di Milano”. E’ esaltante per me – dice Roberta Cordani, colta, comunicativa, intelligente, di una ironia coinvolgente – “rivisitare la Milano romana, la Milano medievale, la Milano delle corti rinascimentali, la Milano borromaica, la Milano neoclassica di Maria Teresa e di Napoleone; quella della borghesia illuminata e dotta con i suoi valori di progresso e fiducia nel lavoro. Di Milano ammiro le testimonianze d’arte, le chiese e il loro prezioso arredo; i capolavori sparsi dappertutto, che pochi vanno a contemplare”.
Corso Venezia
E lamenta: “Oggi abbiamo tutti il passo frettoloso, siamo distratti, camminiamo con la testa in giù, indifferenti al patrimonio che ci sta attorno, che qualche volta sta in alto come i giardini pensili; i tesori rappresentati da certi cortili come quelli di via Borgonuovo, via Bigli; le facciate degli edifici di corso Venezia; gli affreschi di una cappella… Basterebbe spingersi un po’ più in là del Duomo, portandosi dietro rivoli di parenti desiderosi di conoscere la città, meta quotidiana di turisti che si divertono a inseguire il volo dei colombi. La passione per Milano a Roberta Cordani, e a sua sorella Elisabetta, l’hanno trasmessa la mamma, Anna Lanterna, tra l’altro sensibilissima pittrice e persona di squisita cordialità; e il papà Giancarlo, che fu tra i primi ad introdurre la fotocomposizione nel capoluogo lombardo e attento ricercatore per lo sviluppo delle arti grafiche.
Guido Lopez
Guido Gerosa
E a tutti quella passione era venuta dal bisnonno Antonio, che nella sua tipografia di via Solferino aveva stampato il “Guerin Meschino-Ciarle milanesi”, un battagliero periodico satirico nato il 12 febbraio del 1882. “Se il ‘Guerino’, scrisse Cordani, non avesse avuto la fortuna di trovare la onestà attività di Antonio Cordani, pronta a supplire alle difficoltà che si aggravavano con l’aumentare della tiratura, non avrebbe tardato la catastrofe”. Al ricordo Roberta sorride compiaciuta. L’ho incontrata spesso: dall’editore Partipilo nella sua libreria di viale Tunisia, dove a suo tempo ho conosciuto lo storico Guido Lopez, autore fra l’altro di “Milano in mano”, “Navigliando”, “Milano in Liberty”…, gli scrittori Carlo Castellaneta, Giuseppe Pontiggia, Alberto Lorenzi, l’architetto Empio Malara, grande militanza nella difesa dei navigli, che vorrebbe dissepolti, i grandi fotografi Fulvio Roiter, che è veneziano, Mario De Biasi, che tra l’altro per il periodico “Epoca” girò tutto il mondo…
Palazzo Litta, Raccolta Bertarelli
Tutti stimavano Roberta, alla quale per la presentazione dei volumi furono aperte le porte della Basilica di Sant’Ambrogio, di Palazzo Tè a Mantova, della prestigiosa “Società del Giardino”, che ebbe tra i suoi soci personalità illustri come Carlo Porta. Al “Giardino” la manifestazione culturale promossa da Roberta veniva ospitata nella sontuosa “Sala d’Oro” disegnata dall’architetto Gerolamo Tanzini per festeggiare la visita a Milano dell’imperatore Ferdinando d’Austria nel 1838. Il sodalizio, che ha sede a Palazzo Spinola, in via San Paolo, venne devastata dalle bombe nell’agosto del ‘43 e poi ricostruita. Fu Francesco Bolchini a fondarla nel 1783 fra i milanesi della piccola borghesia, che nella buona stagione si raccoglievano in osterie suburbane per il gioco delle bocce o delle carte e d’inverno al Caffè Cambiasi. Al "Giardino" fu spesso ricevuto con tutti gli onori Stendhal, che ne scrisse esaltandolo, apprezzando anche il palazzo, edificato alla fine del Cinquecento da Leonardo Spinola, intendente del gabelliere Tomaso Marino (nel salone delle feste si ricorda il ballo dato nel 1861 per Vittorio Emanuele I). Alle serate culturali indette da Roberta affluivano centinaia di persone, rigorosamente in giacca e cravatta, sotto lo sguardo severo del maggiordomo in livrea. Tra i relatori la stessa Roberta, docenti universitari e storici, critici d’arte, direttori di musei. Di Milano, delle sue bellezze; di Brescia, Bergamo, Pavia…, si parla piacevolmente con Roberta, che a suo tempo incaricò Guido Gerosa di scrivere il testo delle “Piazze in Lombardia” (venendo da “L’Europeo, dov’era vicedirettore, il grande giornalista, tra l’altro autore di testi storici, compreso quello su Kappler, era arrivato con lo stesso compito al quotidiano “Il Giorno”); al sottoscritto quelli de “I cortili in Lombardia” e delle “Cascine in Lombardia”. Andrea Bosco, della Rai, scrisse il testo dei “Castelli in Lombardia”, di “Benvenuti a Milano”; Gigliola Magrini firmò “I Giardini di Milano”… Tutti libri quasi esauriti e ancora richiesti, anche per le stupende immagini che contengono a piena pagina, catturate dall’alto. Per il volume sulle Cascine Orlandi entrò negli appartamenti padronali, nei luoghi adibiti a stalla, fotografando gli attrezzi; nelle abitazioni dei lavoratori… Riprese sapientemente le architetture, le torri, i merli. Puntò l’obiettivo sulle architetture rurali che si susseguono sui navigli, Grande e Pavese; sulla “Cassina de’ Pomm”, adagiata di fianco alla Martesana, a pochi metri dal tratto del canale che si rovescia sotto l’asfalto continuando la sua corsa sotto pelle. Roberta Cordani, che presentò una sua creatura anche nel caratteristico studio di Gigi Pedroli, grande acquafortista e cantautore di saporiti brani milanesi, può essere orgogliosa di questo suo lavoro, che celebra una città meravigliosa.


mercoledì 2 gennaio 2019

Un nome importante della nostra televisione


IL COREOGRAFO E BALLERINO DON LURIO

E IL DADAUMPA DELLE SORELLE KESSLER

Nato a New York, approdò in Italia nel ’57,
diventando una colonna del piccolo schermo.
Numerosi i suoi successi: fu anche, nel 1999,
in qualità di coreografo al Festival di Sanremo
condotto da Fabio Fazio e vinto da Anna Oxa,
con il brano “Senza pietà”. 



Franco Presicci


Sfogliando il mio archivio fotografico, operazione che svolgo quando non ho altro a cui dedicare il tempo, sono emerse alcune foto di Don Lurio, nome di battesimo Donald Benjamin Lurio, detto “signor Dadaumpa”, classe 33, nato a New York, e mi è venuta l’idea di dedicargli un pezzo, essendo stato un personaggio importante della nostra televisione. Lo avevo conosciuto qualche anno fa e lo avevo trovato gentile, spiritoso, educato, simpatico. 

Copertina del catalogo
Poi, precisamente il 22 febbraio ’99 – ero già in pensione - mi telefonò a casa la collega Giovanna Pezzuoli, poi trasmigrata al “Corriere della Sera: “Tu potresti rintracciare Don Lurio? Fa una mostra di suoi quadri in una galleria milanese e ci piacerebbe pubblicare una pagina sull’evento”. Chiamai il mio amico Mimmo Dabbrescia, grande fotografo che aveva cominciato la carriera nel tempio del giornalismo in via Solferino ed era titolare di “Prospettive d’arte”, nome ispirato da una bellissima rivista che dirigeva con saggezza. “Don Lurio è qui a Sanremo, nella veste di coreografo per il Festival con Fabio Fazio; ti faccio telefonare subito dopo la conferenza-stampa”. Strillò l’apparecchio dopo appena 15 minuti. “Sono felice di parlare con te. Chiedimi quello che vuoi: sono a tua disposizione”. Parlava come ad un vecchio amico in una serata conviviale. E siccome aveva capito l’argomento, si mise subito a raccontare. “Fu il mio insegnante delle elementari a incoraggiarmi nella pittura.
Don Lurio (1)
Intelligente e sensibile, aveva intuito la mia vocazione e non si lasciò sfuggire l’occasione di alimentarla, suggerendomi anche di sostenere l’esame di ammissione alla “Hig School of music and art” di Harlem. Ma non era facile arrivare a quelle aule, dove soltanto 50 ragazzi su mille venivano ammessi…”. E fu la stessa maestra a tranquillizzare i suoi genitori, preoccupati del fatto che lui, ancora bambino, dovesse percorrere la strada 155 a nord dell’omonimo fiume, ritenuta piena di pericoli. La maestra riuscì a convincerli e lui s’impegnò nell’impresa. “Per maggiore sicurezza mi scortò sempre un poliziotto”. Così frequentò la High School per quattro anni, studiando diligentemente, e alla fine dimostrò di avere speso bene il tempo. Ripercorreva il passato senza enfasi, con pazienza, con qualche battuta di spirito, com’era suo solito, come se al Teatro Ariston della città dei fiori si trovasse da semplice spettatore. Don Lurio è purtroppo deceduto, nel 2003, al Policlinico Gemelli di Roma, ma sono molti quelli che non lo hanno dimenticato. Forse tanti giovani non sanno neppure chi fosse il ballerino, coreografo e conduttore, non avendone mai sentito parlare; eppure nel nostro Paese la sua carriera fu lunga e brillante. 

Uomo nudo (carboncino)
Don Lurio (2)
















Aveva studiato danza a Broadway, con Bobe Fosse e Jack Cole; arrivato in Europa, aveva allestito in Francia una grandiosa scenografia per un programma importantissimo; poi in Italia nel ’57, dove portò le gemelle Kessler (che tra l’altro ballavano il “Dadaumpa”, sigla di apertura di “Studio Uno”, e pare avessero assicurato le bellissime gambe presso il Lloyd’s di Londra). Con loro lavorò in questa trasmissione con la regia di Antonello Falqui, che, vista da milioni di spettatori, lanciò tanti attori, cantanti, soubrette…; rivelò Mina e ospitò celebrità come Totò, Peppino De Filippo, Gassman, Alberto Sordi, Enrico Maria Salerno… Sottile, sguardo penetrante, agile, elegante, faccia birichina, sorriso cordiale. La conversazione con Sanremo si concluse con saluti interminabili e un arrivederci a Prospettive d’arte, in via Carlo Torre - a due passi dal Naviglio Grande - dov’erano allineate le sue opere recenti: “donne su divano rosso”, “un matinèe al Sistina”, giocatori di carte, calciatori (acrilici su tela), ballerine, sedie impagliate, tavoli, pinguini, vasi in ceramica, figure maschili, nudi di donne...        I visitatori commentavano: “Ma guarda Don Lurio, dipingeva senza dire niente a nessuno. Tutti credevamo che fosse soltanto quel ballerino formidabile che ci inchiodava davanti alla televisione. Invece eccolo artista della tavolozza…”. Quando le voci si spensero a Sanremo e le luci nel teatro pure, dopo aver consacrato vincitrice Anna Oxa con il brano “Senza pietà”, alla presenza di MiKail Gorbaciov, già presidente dell’Unione Sovietica e capo della perestroika, Don Lurio venne a Milano e si diresse a “Prospettive d’arte”. Andai a trovarlo. Aveva un forte raffreddore ed era tutto imbacuccato in un cappotto chiaro nello studio di Mimmo Dabbrescia e della moglie Bruna, valente critica d’arte. “Ah, sei venuto, hai mantenuto la promessa. Però, mi raccomando, se mi fai delle domande non cercare di fregarmi, perché so che tu sei furbo”. “Hai letto bene il mio articolo? Secondo te nasconde cattiverie?”. Sorrise, per dirmi che stava scherzando. “Vieni, ti accompagno a vedere la mostra, in questa sala ampia, elegante, ricca di luce…Per anni ho dipinto senza mai poter fare personali: non ne avevo il tempo, preso com’ero dal balletto, dalla coreografia”. “Pittura e danza sono in antitesi?”. “No, in fondo il palcoscenico è una tela bianca, dove i ballerini sono i colori… Colori in movimento perché è lo spazio il vero protagonista”. “Hai scoperto anche la ceramica; quando?”. “Verso la fine degli anni ’80. I miei tavoli sono quadrati o tondi. Uno di 170 centimetri l’ho realizzato a Firenze nel ’92. Una copia è stata acquistata dall’ambasciatore Peter Secchia”. “E i pinguini in terracotta?”. “Raffigurano le caratteristiche dei vari Paesi, ma su un piano sarcastico”. “Qual è il pittore che ti piace di più?”. “L’olandese Karel Appel, per la sua grande carica espressionista”. Nel ’78 Don Lurio comprò un suo quadro alla mostra di Boulevard Haussmann, a Parigi. Otto anni prima era stato in Olanda e si era avvicinato al gruppo Cobra, che Appel aveva fondato nel ’49 con Alechinsky, Corneill, Jorn. “Non hai un po’ di rimorso per il poco tempo che hai riservato alla pittura e alla ceramica? In fondo i tuoi vasi sono ricercatissimi e qualcuno addirittura li colleziona”. “Certo che ho qualche rimorso. Da giovane avrei voluto fare soltanto il pittore. Ai colori e ai pennelli ho dedicato tante ore sottratte al sonno”.
I giocatori di Don Lurio
Don Lurio (3)
Ci fermammo davanti a un quadro, acrilico su tela centimetri 70 per 70, collocato di fianco a “Ballerini”, stessa tecnica, sesse dimensioni. Non fece commenti. Fui io a dare un giudizio favorevole, avendo l’impressione che non mi ascoltasse. Una signora si avvicinò porgendogli un fiore, e lui si commosse. “Ho cominciato a vederla e ad apprezzarla nello show televisivo ‘Crociera d’estate’, che andava in onda da Torino”. Intervenni: “Ricorderà il suo exploit in ‘Canzonissima’ di Garinei e Giovannini, con Delia Scala, Nino Manfredi, Paolo Panelli, Walter Chiari…”. “E ‘Sabato sera’ – rispose la donna, bassina, capelli come il carbone, una collana vistosa, appoggiata a un bastone - in cui si occupò dei balletti? E ‘Quelli che il calcio’ alla fine anni ‘60’?. Don Lurio è stato un grande personaggio. Se si dovessero elencare tutti i suoi successi faremmo notte. Per esempio nel ’92 riapparve in ‘Rai Uno’, in ‘Partita doppia’ di Pippo Baudo, per far rivivere il varietà anni ‘60 assieme alle Kessler…”. La signora si congedò quasi inchinandosi. Lo considerava un monumento, un mito. Lui mostrò imbarazzo. Mi disse: “Ho mosso i primi passi sul palcoscenico nella veste di aiuto di Jerome Robbins. A Parigi aprii una scuola di danza e mi esibii a Hollyvood in Tv con Frank Sinatra, Dean Martin, Jerry Lewis, Sempre a Parigi mi scrissi all’Accademia ‘Grand Chaumier’, ma proprio perché senza un soldo in tasca dovetti alternare le lezioni al lavoro, come seconda vedette nello spettacolo di Edith Piaf. Si raccontava a pizzichi e bocconi, senza un ordine cronologico. Effetto del raffreddore, che forse era influenza. Lo sentii mormorare: “Ma io ho la febbre!”. Qualche giorno dopo, nella stessa galleria presentammo il Volume “Venticinque secoli di Milano”, edito in elegante veste tipografica dalla Celip di Nicola Partipilo, e invitai Don Lurio a sedersi al tavolo dei relatori. Dopo un attimo d’incertezza accettò. Un suo brevissimo intervento creò un malinteso con lo storico Guido Lopez, che protestò. Don Lurio sorrise amabilmente e al termine della serata, moderata dal giornalista Piero Colaprico di “Repubblica”, con un pubblico numeroso e colto, consegnò allo scrittore (autore tra l’altro di “Milano in mano”, “Navigliando”…), in segno di pace, un catalogo dell’esposizione con una dedica. La Galleria “Prospettive d’arte” non c’è più”. L’attività di Mimmo l’hanno intrapresa, non da oggi, i figli: Riccardo, laurea in Scienze Politiche alla Statale; e Paolo in Economia e Commercio alla Cattolica, con una tesi sull’economia dell’arte. Ha insegnato a Brera e con il fratello si occupa di nomi di livello mondiale.



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