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mercoledì 30 novembre 2022

L’iniziativa di un giovane vignaiolo

 

VIENI IN CAMPAGNA, AFFITTA UN FILARE

CURALO E RICEVERAI BOTTIGLIE DI VINO

Cartello filare di Olimpia Bucci
 

Luigi Menaggia, 28 anni, ha avuto l’idea e l’ha sviluppata. 

E sono in molti ad avervi aderito, anche giovani sotto i trent’anni e gruppi. 

La Cantina Smeralda, retta dalla sorella di Luigi, Eleonora, si estende anche in Puglia.

 

 

Franco Presicci

Quando t’imbatti in un giovane imprenditore sagace, intelligente, volitivo, incalzante, dalle idee e dai programmi innovativi da mettere subito in cantiere, ti convinci ancora di più che questo nostro Paese sbalestrato possa riprendersi.

Luigi Menaggia

Qualche giorno fa, ho conversato con Luigi Menaggia, 28 anni, titolare dell’azienda agricola “Cantina La Smeralda” di Paderno Dugnano, e dal colloquio sono uscito rinfrancato. Luigi si racconta e racconta con fluidità, sicurezza, facendoti venir voglia, all’età di Matusalemme, di seguirlo nel suo lavoro di artista del vino, come Franco Cologni, già presidente mondiale di Cartier, creatore in via Statuto nel capoluogo lombardo della Fondazione Mestieri d’arte, definisce chi coltiva la vigna, la ingravida e la porta alla vendemmia. Che è festa, gioia, anche se fatica, non vana se la grandine non ha fatto un flagello. La campagna. Ricordo “Solo e pensoso i più deserti campi/ vo mesurando a passi tardi e lenti/ e gli occhi porto per fuggire intenti, ove vestigio uman l‘arena stampi…”, di Francesco Petrarca, che fra i travagli d’amore trovava conforto nelle passeggiate fra i campi; e la solitudine, la pace, il silenzio nella Cascina Linterno di Milano, dove curò l’orto e mise mano alla correzione del “Canzoniere”.

Grappoli
La campagna, isola felice, esaltata nelle “Georgiche” di Virgilio, e nei versi “Non più con poco sole aria maligna/ Non più la via tumultuosa e stretta/ ma l’alto, dove la città soggetta/ apparisce una grande ombra sanguigna…ma il mio libero cielo e la mia vigna/ dove ogni zolla sempre un germe aspetta…” (di Giulio Gianelli). La campagna, sogno di tante persone deluse, stanche della città frenetica, dei clacson che rumoreggiano per irrequietezza, dispetto per un sorpasso, a volte divertimento. Meditazioni veloci, al termine dell’istruttiva e piacevolissima conversazione con Luigi Menaggia, che ha rinunciato alla laurea in ingegneria per scegliere quella del vignaiolo, anzi l’opera di coinvolgere persone predisposte, magari senza saperlo, a intraprendere un percorso tra filari di viti da curare in cambio di bottiglie di ottimo vino da sorseggiare. 

Paolo vendemmia
Ma ascoltiamo lui, che parla senza orpelli, senza enfasi, con frasi nette, calibrate, con un pizzico d’orgoglio per il suo lavoro: “In una villa che avevamo a Briona, Novara, in Piemonte, di proprietà della mia famiglia, ero in cantina e trovai una bottiglia intonsa del 1972 con l’etichetta ‘Cantina La Smeralda’, scoprendo che quel nettare proveniva da un vigneto già acquistato dai miei genitori. Mio padre, Walter, oggi 73 anni, aveva comprato 1500 metri di terreno, che in dieci anni sono diventati 3 ettari con vigneti messi a dimora. Quindi io dall’età di 13 anni ho trascorso il mio tempo libero dallo studio aiutando i miei nei lavori in campagna”. Non faccio troppe domande a questo giovanotto così determinato, colto, convincente, gentile, disponibile, dal linguaggio galoppante, simpatico. Lui le anticipa e io lo ascolto con avidità. ”Nel 2015, aiutato da mia sorella, Eleonora, e da mio cognato, Mauro (che per anni ha svolto la sua professione di cuoco nelle cucine dei dintorni di Milano), ho aperto un ristorante a Cinisello per vendere il vino prodotto da noi. Nel 2020 è arrivata la pandemia e abbiamo dato in gestione l’attività”. 

Grappoli
Luigi, perito meccanico, lavorava al ristorante, e anche nell’azienda di famiglia; ma facevamo fatica a trovare un canale di vendita. Allora lui al ristorante portava in tavola le sue bottiglie della “Cantina La Smeralda” e le raccontava, trovando attenzione, interesse e curiosità. Da qui l’idea. “Perché non accogliere gli avventori del locale in campagna e mostrare loro le varie fasi della lavorazione del vino, dalla potatura alla vendemmia e all’imbottigliamento?”. Un cliente gli disse: “Luigi, se tu realizzi questa cosa che hai in mente io ci sto”.

Uva e cane
Fu così che nel 2019 “abbiamo concretizzato l’idea di far vivere agli ospiti le esperienze del vigneto, della produzione di quel vino che servivo ai tavoli del ristorante di Cinisello”. Di conseguenza gli interessati hanno preso in affitto un filare, lo “trattano”, forbici in mano, seguendo le indicazioni del vignaiolo. “Adesso siamo presenti in quindici regioni d’Italia, Puglia compresa (in masseria ‘Cuturi’ di Manduria), con 30 cantine aderenti al progetto, intitolato “Vinoinvigna. Un produttore di Grosseto, Michele Ranieri, ha detto, parlando di viticoltura: ‘Il vignaiolo è un cuoco che ha l’opportunità di cucinare un piatto solo all’anno: se viene male, lo ripete l’anno successivo”.

Olimpia Bucci

Alla nostra conversazione è presente un’entusiasta cliente di Luigi Menaggia, Olimpia Bucci, che assorbe e prende nota parola per parola. Ha sempre amato la campagna, come me, legato ai ricordi della terra a San Severo, e ai versi di Sandro Berganzini: “Gli alberi cantano/ ronzano frullano/ chioccolìo di merli/ ticchettii di picchi spaccalegna, pigolio d’implumi…”. Come a Martina Franca, dolce, solare, musicale, con eserciti di pampini, di grappoli destinati al palmento, di viti genuflesse. Poesia è il vino; rifugio la campagna. Ma è il caso di parlare di versi con un vignaiolo ferrato, nella testa del quale si avvicendano idee da sviluppare, progetti, mercati da conquistare? Sì, il vino è gusto, e anche bellezza. “Il vino è come la poesia, che si gusta meglio, se si capisce davvero, soltanto quando si studia la vita… si entra in confidenza dov’è nato” (Mario Soldati).

Due vendemmiatrici

E gli avventori di Luigi si avvicinano al luogo dove il vino viene alla luce, che è il luogo dell’anima, il luogo del ristoro spirituale e prendono confidenza anche con gli odori della campagna, con la sinuosità del paesaggio. Il vino affascina, dà tono ai convivi, allegria alle comitive. Il vino celebra gli avvenimenti. Lo Smeralda di Luigi scoraggerebbe la renitenza dell’astemio. A proposito, il progetto “Vinoinvigna” è costruito sulla base di un contratto che regola l’esperienza in tutti gli aspetti giuridici. “Consumare vino in modo consapevole, riscoprire il territorio è sostenere un’attività agricola locale; è un’occasione di evasione dalla ‘routine’ quotidiana; è la riscoperta dei valori che si sono perduti e la vita della campagna e delle pratiche che si vanno spegnendo. Il vino è anche un mezzo per familiarizzare con le attività e i modi di vivere ‘Di mio padre che a pestare l’uva/ S’era fatto i piedi rossi/ Di mia madre timorosa/ che porta un uovo caldo nella mano” (Leonardo Sinisgalli), della campagna, che se non è più quella dei quadri di Giovanni Fattori, a tirare l’aratro non sono più i buoi, ma una macchina che si tira dietro il vomere; a trasportare le fascine non sono più gli asini, lavoratori instancabili e dignitosi da tempo in pensione, resta un’oasi in cui trovare la serenità, il lavoro in delizia.

Il trattore
Molti giovani manifestano il desiderio di tornare alla terra. “Mio padre – aggiunge Luigi - vive solo una parte di campagna, dell’azienda; e nonostante sia il produttore, il vino lo assaggia soltanto”. Luigi Menaggia è partito da solo nella sua splendida esperienza enologica, “e adesso siamo in cinque”. Domanda: “Sono in molti ad aver risposto al suo appello?”. “Sì. Hanno aderito coppie sui 40 -50 anni, anche sotto i 30, gruppi di amici. Il 60 per cento dei clienti ama più la campagna che il vino”. Il viaggio è nato da un ricordo d’infanzia della campagna del padre, che inizialmente faceva il vino per la famiglia. Adesso le redini della vigna le regge la sorella Eleonora, donna del vino. Lui naviga nel progetto Vinoinvigna, accompagnato dall’amore di Alice, psicologa dello sviluppo. Mentre ci salutiamo, mi vengono in mente il Falerno di Orazio e di Cesare, e i versi di Rocco Scotellaro: “Non gridatemi più dentro, non soffiatemi in cuore/ i vostri finti caldi, contadini/ Beviamoci insieme una tazza colma di vino!/ che all’ilare tempo della sera/ s’acquieti il nostro tempo disperato /Ma nei sentieri non si torna indietro./ Altre ali fuggiranno/ dalle paglie della cova/ perché lungo il perire dei tempi/ lindo conserva un guanciale di pietra”. Un ultimo pensiero di Luigi è andato alla Puglia, uno dei suoi amori: il nonno, Nazario, era di Ischitella, paese garganico, che ha dato i natali a Pietro Giannone, saggista, storico, giurista; la nonna, Cosimina, di Rodi Garganico, che fa parte come il primo del Parco Nazionale del Gargano e produce arance e limoni Femminello. Ricordando, i suoi occhi si accendono.







mercoledì 23 novembre 2022

Nel tempo a Milano il Natale è cambiato

Opera della Casa del presepe di Taranto

DOMINA IL NORDICO ALBERO A PUNTA?

MA NO, SONO IN MOLTI A FARE IL PRESEPE

Anche una volta si giocava a

tombola; si andava a Messa a

mezzanotte e poi si gustava la

“Barbajada”. 

I doni li portava Babbo Natale, come oggi, e fioccava la neve.   

C’erano gli zampognari nelle strade e gli spazzacamini.

 

Franco Presicci

Erano gli anni 70 quando scoprii vicolo dei Lavandai, a Milano; e lo studio del pittore Guido Bertuzzi, uomo buono, generoso, disponibile, grande conoscitore della terra del Porta. Avevo una gran voglia di “entrare” nella città, di esplorare le sue strade, scoprire i vecchi mestieri, la vita di una volta.

Bertuzzi in vicolo dei Lavandai

E lui, paziente e attento, rispondeva ogni volta alle mie curiosità. Una mattina gli chiesi: “Com’era da queste parti tanti anni fa il Natale, Guido?”. Lui aprì un cassetto e mi regalò un opuscolo sulla festa più bella dell’anno sul Naviglio Grande e una sua acquaforte raffigurante una grotta. E cominciò a parlare dell’argomento, tenendo tra le mani il libretto, scritto dal poeta Armando Bocchieri e da Giorgio Saini (edizione Rekord) negli anni 60. “In quel Natale c’era più poesia; i bambini lo aspettavano con ansia e credevano che i giocattoli li portasse davvero Babbo Natale. Le nonne e le mamme preparavano i dolci¸ i forni ardevano, e il Pinocchio di legno, la trottola, il monopattino, la farfalla e il trenino di latta erano allineati sulle mensole del negozietto vicino, mentre i genitori più ricchi si attardavano davanti alle vetrine della Rinascente, dove il treno in miniatura correva grazie al motorino elettrico. L’uomo con la pancia sporgente, la barba bianca, l’abito rosso, il cappellino con una pallina bianca sulla punta ricadente sulle spalle faceva la figura di avervi provveduto lui.

Casa di ringhiera (2)

Casa di ringhiera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E c’era la neve, proprio come recita la bella canzone ‘Bianco Natale’, che ha come tema la coltre bianca che porta gioia e serenità”: una fortuna per gli spalatori, che, togliendola dalle strade, facevano anche loro una buona festa. “Da tempo – continuò Guido – la poesia è decaduta e il mistero di Babbo Natale si è sciolto, diventando una sagoma decorativa”.

Oggi la maggior parte della gente passa la giornata al ristorante, preferibilmente fuori porta”. Ah! C’erano i grammofoni, alcuni a tromba, che spandevano le note di “Tu scendi dalle stelle”, che i piccoli imparavano a scuola interpretandole con le maestre, mentre non era ancora stata inventata “A Natale puoi”. In questi giorni Ho ritrovato nella mia libreria l’opuscolo datomi da Bertuzzi. Era stato presentato appena uscito nella Galleria di un'altra figura imponente del vicolo, Angelo Cottino, a un passo dall’atelier del pittore, in vicolo dei Lavandai 4. Il testo voleva far rivivere una tradizione ambrosiana “che i tempi non hanno offuscato: quella della celebrazione del Natale a Milano, che ha conservato intatta la freschezza, la spontaneità, la partecipazione, che sono state sempre fondamentali caratteristiche del popolo milanese, soprattutto quando la celebrazione vede come protagonista la gente del Naviglio”. Non mi sfugge una poesia di Brocchieri, preparatissimo sugli usi, i costumi, le tradizioni … di Milano: “Forza Celest ch’el fiocca!/ stavolta chi la tacca/ Na sciarpa de poarett/ incrosada sott la giacca/ la beretta con i alett/ e su ’n spalla la bajra/ el primm tram l’è drè ch’el riva;/ gh’è el Tognin manovrador…”. Il tram arriva, guidato dal Tognin. E subito dopo un dipinto di M. Dondi.

Bertuzzi nel suo studio
Il racconto si snoda con un pizzico di nostalgia anche per l’atmosfera che regnava nei luoghi di allora: “Oggi pensare alla chiesa di Santa Maris al Naviglio piena zeppa di persone, con tantissimi in piedi è come pensare a una favola”. Allora – commenta Guido - forse erano molto di più quelli che si recavano in chiesa per assistere alla funzione sacra. Le donne con bambini a casa preparavano il pranzo e gli uomini s’incontravano per scambiarsi idee su come allestire il presepe, dove erano ancora assenti il pizzaiolo e il pescivendolo… giunti da Napoli con l’immigrazione. La mattina di Natale tutti a soffiare nelle trombette sulle ringhiere e nei cortili, lasciando, alla fine, la tazzina con residui di caffellatte bene in vista sul tavolo, come prova che con il contenuto avesse fatto colazione il neonato di Betlemme. Le trombette dovevano suonare tutte nella stessa ora, probabilmente per fare arrivare il suono il più lontano e il più in alto possibile.
Gli zampognari

Poi un gruppo di suonatori andava nel vicolo dei Lavandai a portare la serenata alle famiglie. Anche allora il Natale suscitava ricordi. Anche allora si rimpiangeva il Natale di una volta e si raccontavano storie di pastori che a suo tempo smaltivano la notte all’addiaccio per controllare il gregge, mentre qualcuno di loro preferiva zampognare. I pastori, con strumento musicale o no, sono elementi essenziali del presepe. Siano in adorazione o in cammino con un seguito di pecore, con doni o senza. A quell’epoca lavoravano gli spazzacamini, di cui si erano perse le tracce sino a qualche tempo fa e che adesso stanno ricomparendo. Torneranno forse di moda, perché con la crisi che stiamo attraversando chi ha un camino lo accenderà di sicuro per scaldarsi e quindi all’occorrenza dovrà farlo pulire. Quegli spazzacamini provenivano dalla Val d’Ossola, dalla Valtellina, dalla Val d’Intragna e facevano una vita grama, resa meno grama da alcuni benefattori “inscì bei, inscì grand, inscì sciur”: così belli, così alti, così signori, dicevano grati i milanesi. Per intendersi tra loro, senza farsi capire dagli estranei, gli spazzacamini, come anche gli ombrellai, avevano inventato uno dialetto chiamato “tarusc”. Un opuscolo interessante, questo. Informava con stile semplice e scorrevole, Bertuzzi, senza pretendere di aver detto tutto sulla festa di quei giorni così lontani nel tempo.

Naviglio Grande

Sul Naviglio Grande – parola di Brocchieri e Siani – non si usava preparare il cenone della Vigilia. Si usava invece riunirsi dopo la Messa di mezzanotte e assaporare la gustosa “barbajada”, bibita di latte o panna e cioccolata, caffè tutto poi frullato fino a quando non faceva la schiuma: inventata dal napoletano Domenico Barbaja, impresario teatrale, morto a Milano nel 1841. La servì quando inaugurò il suo “Caffè dei virtuosi” nella odierna via Verdi, un locale molto tranquillo frequentato prevalentemente, come riferisce Sandro Piantanida, da artisti e giornalisti e da clienti che si ostinavano a indossare il cappello a tricorno con il codino e il tupè. II mattino dopo al suono delle campane, urli di gioia di grandi e piccini. All’ora di pranzo tutti a tavola. Menù: antipasto di salami, ravioli in brodo ristretto, contorno di spinaci, sottaceti, mostarde di Cremona, tacchino arrosto ripieno, formaggi, frutta secca e bianco di Valpolicella, il dolce, il caffè… La sera bastavano gli avanzi. I ragazzini non riuscivano a stare a tavola sino alla conclusione del rito, preferendo correre a giocare con i doni ricevuti. I grandi sistemavano sul tavolo le cartelle della tombola; e chi aveva una bella voce andava in chiesa a cantere per il vespro. Il giorno di Santo Stefano nessun rito. Il pranzo doveva essere consumato velocemente perché alle 15,30 nell’oratorio di San Giovanni Nepomuceno, sulla Riva, la compagnia del Borsi si presentava alla ribalta. Si ricorda ancora uno dei testi, “La pianeta perduta nella neve”, con musica eseguita dall’orchestrina ”Gaetano Donizetti”. 

Presepe

Quei Natali ci sembrano remoti, come remoti gli anni in cui nelle case sul Naviglio abitavano soprattutto i meridionali, forse approfittando del basso costo degli affitti, e abbondavano i laboratori degli artigiani. Il Naviglio, che ancora oggi durante le feste si riempie di luci e di fiori, è stato celebrato da scrittori, pittori, poeti, giornalisti: da Alfonso Gatto a Carlo Castellaneta, a Gaetano Afeltra. Nel suo libro “Navigli” Castellaneta ha scritto che il presepe è morto.

La tettoia di vicolo Lavandai
“Ormai è l’albero di Natale che trionfa, il laico e nordico abete sfolgorante di palloncini…Così il pallido Gesù Bambino che ogni dicembre tornava a nascere nella mangiatoia… è stato spodestato dal rubicondo Babbo Natale, divenuto simbolo dominante delle Sante Feste”. Non sono in grado di dar torto allo scrittore; so però, e me lo dicono figuli che realizzano figure che popolano le scenografie natalizie, che i presepi a Milano sono in tanti a farli, magari assieme all’albero. Castellaneta aggiunge anche che “ormai chi porta i giocattoli è lui, il vecchio dalla barba bianca, secondo precise istruzioni contenute nelle letterine che i piccini imparano a scrivere fin dalla prima elementare, sapendo benissimo che saranno pagati con la tredicesima dei genitori…”. A noi i doni li portava la Befana, di notte, “con le scarpe tutte rotte”, e a cavallo di una scopa, entrando nelle case attraverso la gola del camino.

Gigi Pedroli
E per anni mi sono chiesto come facesse ad entrare nella cucina la vecchietta con il fazzoletto sulla testa e il naso adunco, visto che il camino non ce l’avevano, e come potesse fare tutto quello sforzo una signora incartapecorita. Comunque un anno ci trovammo sulla cassapanca una bella camera da pranzo per mia sorella e un aggeggio che, agitata dalla mano destra, gracidava come una cornacchia. Poi scoprii che era stato fatto tutto da mio zio Dionigi, che era un bravissimo falegname. I giocattoli li indicavamo in una letterina che mettevamo di nascosto sotto il piatto del nonno, che quando, passando dal primo al secondo, la vedeva, manifestava meraviglia e orgoglio. Ma la mattina della Befana non trovavamo mai ciò che avevamo richiesto; ciononostante, non dubitai mai della buonafede del mio vecchietto. Ricordo il gran da fare della nonna intenta a fare i taralli e le pettole, che sfrigolavano in padella. Anche quell’atmosfera è scomparsa. I miei nonni, i mei genitori, zii e cugini non ci sono più; io vivo a Milano, dove qualche volta a Natale vedo gli zampognari. Li vidi sul Naviglio Grande, al Centro incisioni di Gigi Pedroli, grande acquafortista e cantautore, e di rado dalle mie parti, zona Niguarda.








mercoledì 16 novembre 2022

Un narratore prolifico e dallo stile allettante

 

Roberto Vitale
ROBERTO VITALE 

CONCEPISCE STORIE

PER UNA DONNA DAI CAPELLI

NERI


 

Ha sempre scritto, ma ha tenuto

le sue opere nel cassetto. Poi un

giovane editore di Locorotondo,

Paolo Giacovelli, ha pubblicato

il suo “Binario 11”.

 

 

 

 

Franco Presicci

Treni, stazioni, binari sono i coprotagonisti del libro di Roberto Vitale, Binario 11”, edito da Paolo Giacovelli di Locorotondo. Arrivi e partenze da tante città: Firenze, Trieste, Bologna, Livorno, Parigi, Belgrado, Venezia, Marsiglia… E ogni luogo una storia da raccontare alla ragazza dai capelli neri. 

Locomotiva colta da Eugenio Messia

Il treno, i vari personaggi reali o avviluppati in una fantasia feritile, inesauribile, delineati così bene, con uno stile piacevole, scorrevole, rassicurante, accurato, mai affettato. Lei gli ha chiesto “una storia soltanto per me”, e lui, professione ferroviere, non si lascia pregare. Gliene racconta tante di storie, invenzioni mescolate con la realtà: le persone che incontra durante i suoi viaggi, come Enzo il nottambulo, “che raccoglieva il dolore della gente per le vie del mondo: le deponeva in una cassetta a forma di salvadanaio per sbarazzarsi di ferite a volte strazianti … :“C’era un reparto per la tristezza, uno per l’amore, un altro per le lacrime. E uno per la Luna”. “La Luna?”. “Sì’, per conservarla quando è piena, tutta intera e luminosa, così, se vuoi, puoi accarezzarla con le dita”. Ricorda una città che amava: un dicembre pieno di malinconia: si era perso tra le vie di Trieste mentre cercava di raggiungere l’Osservatorio Astronomico. Aveva ripensato alla stranezza della sua vita, quando iniziava a nevicare. Tornò indietro, in direzione della stazione. “ll viaggio era breve. A Malpensa, avrebbe intercettato gli amici per andare a ristorarsi con loro all’Osteria dell’Olmo”, a Gradisca d’Isonzo. Viaggi, quanti. Andando in vacanza per dieci giorni, sempre in treno, a Cesena, le carrozze tirate da una E.428, locomotiva ricca di fascino in livrea color castano, parcheggiata sul binario tredici, sotto la Galleria della stazione Centrale di Milano, che sembra la pancia di un dinosauro. “Non c’era da fare la prenotazione sui convogli diretti. I primi ad arrivare occupavano il posto,” e così fece il padre, riuscendo a sistemare il resto della famiglia nel primo scompartimento. Poi arrivarono gli altri passeggeri e loro si strinsero per fare spazio a due ragazzi napoletani e ad alcuni signori di Termoli. Come sempre, o quasi, avviene negli scompartimenti, i viaggiatori cominciarono a scambiarsi confidenze sul lavoro, sulla lontananza da casa, confessando la nostalgia per le abitudini lasciate, i sacrifici, la sofferenza, le fatiche e le incomprensioni. E poi la gioia di rivedere il proprio Paese. Sempre così negli scompartimenti. Da quando sono nati primi convogli. Dalla Napoli-Portici. Il treno rallentò per fermarsi in piena campagna. “Passò un’ora e mezza. Poi la 428 riprese ad andare, prima lentamente, poi sempre più rapidamente. A Bologna la mamma dimenticò di acquistare il cestino per la colazione”. Il migliore era però quello di Cesena… Sogno e realtà. 

Pagine

Roberto Vitale

Vitale ha il dono della narrazione. E ama il dettaglio, che dà risalto alla vicenda, come un vecchio cronista, che mangiava panino e polvere per agguantare la notizia e impolparla. E in una nota, a proposito dei panini di Cesena, confeziona la sua storia. E tratteggia per completezza: “Nel 1913, Aldo Casali, figlio del ‘buffetier’ della stazione della città che ospita la Biblioteca Malatestiana del XV secolo, concepì l’idea di un servizio di ristoro sui treni per quei viaggiatori che affrontavano lunghi percorsi. Ebbe successo, tanto da essere copiato non soltanto in Italia. Figuratevi la soddisfazione della famiglia Casali, che aveva anche un ristorante della stazione. Ma il 29 giugno del ’44 due bombardamenti rasero al suolo il locale e parte dello scalo. La locomotiva E.428 è la preferita dall’autore di “Binario 11”: “la più veloce, la più grande e la più potente”. S’intravede la passione di Roberto per le strade ferrate, per la vaporiera, che fischia tranciando l’aria e spande fumo dietro di sé mentre corre verso la sua destinazione.

Il Savini in Galleria
Non avrebbe mai pensato, Roberto, che un giorno in lui sarebbe esploso l’amore per questi mezzi di locomozione che sferragliano su due linee parallele, di ferro. E’ un buon conoscitore della materia e ne parla volentieri. Ne ha parlato anche con me la sera in cui mi ha consegnato il libro. E ammetto di non essere riuscito a seguirlo sino in fondo perché lui usava un linguaggio spesso tecnico, che non mi è familiare. E’ in grado di discutere sulla storia di un locomotore, delle caratteristiche meccaniche, oltre che dell’aspetto estetico. E dei comportamenti che i passeggeri avevano ed hanno una volta che si trovano uno di fronte all’altro, o di fianco, negli scompartimenti. Andando verso Cesena i due ragazzi napoletani tirarono fuori “due pani lunghi almeno quaranta centimetri… farciti con una mortadella profumatissima… spezzarono il pane e lo divisero con noi… Due tedeschi aprirono la valigia e per non essere da meno ci offrirono dei dolci che non conoscevamo, buoni e dai sapori strani” (negli anni Cinquanta capitò anche a me di vedere due donne vestite di nero sulla Milano-Taranto, dopo la partenza da Bari estrarre dalla borsa scatolette di tonno, aprirle e imbottire con disinvoltura due fette tagliate da un pane dalla forma bombata. E non fu la sola volta che vidi quella scena). Andare in treno è spesso anche divertente. Per Roberto, per me, per milioni di passeggeri. Il treno è velocità, gioia, spettacolo. Spettacolo, sì: quello che ti sfila davanti agli occhi se riesci a trovare posto vicino al finestrino: cascine, terre ben pettinate, vigneti, boschi, case, contadini al lavoro, passaggi a livello chiusi con fili di macchine ferme, che fanno pensare per rivalsa: “Adesso passo io”.

Copertina del libro
L’autore di “Binario 11” pensava alla sua collezione da bambino e alla E.428 della Rivarossi che non aveva, perché costava troppo. Lo incalza un’altra storia da scrivere per la donna dai capelli neri. Un’altra storia? “C’era vento. Dal finestrino del treno guardava la campagna all’imbrunire, mancava un’ora all’arrivo, aveva fame… Voleva vivere una poesia di Prevért. E pensava a Parigi, desideroso di vedere il mercato delle Pulci alla Porte de Glingnacourt, dove una volta si era perso all’uscita dal metrò”... “Da quanto tempo manca da Parigi?”. “Tanto, signora Marisa”. Marisa gli servì un buon bicchiere di vino frizzante. Sapeva di piacere, a quell’uomo. Mise il dito su un punto della carta e disse: “Qui mi sono innamorata di Vincent”. Quanti personaggi sfilano in questo piccolo mondo di Roberto Vitale. Il lettore ne è attratto e li segue nelle loro avventure da snocciolare. 

Kodra e l'anguilla
Personaggi e città. Milano, ah Milano della Madonnina; la Milano di Giovanni D’Anzi, di Dario Fo, della via Gluck, del “Bar Zucca”, “le cui vetrine erano state immortalate da Umberto Boccioni in un quadro futurista”; la Milano del Savini e del Campari, della Scala e del Gerolamo e di Alessandro Manzoni. Milano con la sua bellezza nascosta, schiva, discreta. Milano gelosa della sua bellezza. E Milano con le sue ferite, che bruciano ancora. Il 20 ottobre del ’43 una bomba lanciata da un aereo frantumò la scuola elementare Francesco Crispi nel quartiere di Gorla, uccidendo 184 scolari, la direttrice, 14 insegnanti, 4 bidelli e 2 genitori. La memoria di quella storia è sempre presente nei milanesi. Poi il ferroviere pensò al racconto che avrebbe scritto quella sera mentre era sul treno diretto a Palermo, “inseguendo le immagini di cavalieri normanni, le voci della ‘Vucciria’, i colori dei mosaici bizantini e i personaggi sul treno nel libro di Elio Vittorini, le conversazioni in Sicilia”. Palermo con la cattedrale del XII secolo, del Teatro Massimo, noto per gli spettacoli di musica lirica.

Stazione Centrale di Milano
Vitale è un narratore piacevole e coinvolgente. “Il treno iniziò a rallentare, fermandosi fuori della stazione Centrale di Milano. Aspettava il via libera per finire la sua corsa al binario 12… Lei lo attendeva davanti al cartellone degli arrivi. “Mi ha contagiato con le ferrovie”, pensò la donna. La Centrale di Milano, che oggi presenta una fisionomia diversa, accolse migliaia di gente del Sud con la valigia di cartone legata con lo spago. Gente che cercava lavoro. Molti ricordano la “Freccia del Sud” sempre affollatissima, che alla partenza ingoiava viaggiatori persino dai finestrini. Viaggiavano attaccati gli uni agli altri addirittura nei gabinetti, seduti sui bagagli e dal ventre del dinosauro uscivano a fiotti, disorientati, forse impauriti da ciò che li aspettava, con il pensiero al paese che avevano lasciato, alla terra che avevano affidato alle loro donne. Storie di ieri, che vivono nel ricordo di oggi. Ma queste sono altre storie. Roberto Vitale le conosce bene e forse le tiene nel cassetto. Qualche accenno biografico? Roberto Vitale, figlio di un noto cancelliere della Corte d’Assise di Milano, è un educatore. Di storie ne ha sempre scritte. Poi ha incontrato Paolo Giacovelli, 29 anni, editore a Locorotondo ed ecco il libro, che si può leggere in qualche ora e con soddisfazione.








mercoledì 9 novembre 2022

Scomparso il prefetto Paolo Scarpis

FACEVA PARTE DELLA STORIA DI

VIA FATEBENEFRATELLI

 

 

Paolo Scarpis
Carriera brillante. 

Dopo l’Accademia di polizia, venne a

Milano e fece la gavetta prima di arrivare

al vertice. 

Un gentiluomo e un ottimo poliziotto. 

Con i cronisti aveva un bel rapporto. 

Conosceva le loro esigenze e quando poteva veniva loro incontro. 

 

Franco Presicci

La notizia è di quelle che arrivano come un colpo di bastone sulla testa e lasciano attoniti. Della scomparsa di Paolo Scarpis, questore di Milano, poi prefetto di Parma… ho saputo in ora antelucana da un messaggio lasciatomi sul cellulare per mancata risposta. “Morto Paolo? Non è possibile, non può essere vero”. Se non fosse un evento così doloroso, avrei pensato ad un errore, anzi ad uno scherzo malvagio.

Una notte con la polizia(a destra Presicci)
Non avevo parole. Paolo era un amico leale, legato ai valori, un gentiluomo. Alto, elegante, severo nel suo lavoro di poliziotto, più sorrisi dolci che frasi, dette sempre a bassa voce, mai un segno di rabbia sul volto. Era gentile, garbato nei modi. Se n’è andato dopo anni di malattia, vissuti in modo riservato, in armonia con il suo carattere. Quando la notizia si è sparsa, su Facebook si è riversata una valanga di emozioni dalle diverse parti del Paese, da Padova a Taranto. Paolo era stimatissimo e amato, rispettato.
Quando era questore di Milano, qualche giorno prima della vigilia di Natale, come da consuetudine, invitava i cronisti nell’anticamera del suo ufficio, al primo piano di via Fatebenefratelli 11, per lo scambio degli auguri. Io non mancavo mai. A volte non mi telefonava Elia, lo storico capo della segreteria, ma Paolo personalmente. “Vieni, vero?”. “Certo che vengo”.
 
Francesco Colucci
Era un incontro semplice, fatto di chiacchierate fra lui, noi assidui frequentatori degli uffici della questura e i funzionari, che i neofiti tampinavano nel tentativo di strappare chissà quale chicca. Seguiva un piccolo “buffet”. In tempi andati, quando sulla plancia c’erano altri questori, tra cui Fariello, Carnimeo, gli auguri ce li facevamo in piazza Duomo anche la vigilia di Capodanno, mentre il freddo entrava nelle ossa; e allora vi partecipavano anche il comandante dei vigili urbani e altre autorità. Conobbi Paolo, quando era dirigente dei Servizi generali.
Dalla sua scrivania, attraverso una vetrata, si vedeva l’ispettore che teneva i collegamenti con le Volanti sparpagliate per la città e riceveva le segnalazioni degli accadimenti. Scarpis arrivava sempre puntuale e alle 11 in punto riceveva il drappello dei cronisti, ai quali dispensava le notizie della nottata, dando i particolari richiesti, se ce n’erano; altrimenti ognuno faceva poi da sé, se era il caso. Il suo rapporto con noi era franco e gioviale.
Controlli di polizia
Il questore Marangoni, Gattari e Scarpis
Alberto Sala, Scarpis e la presidente SogeMi Monzin
Non si negava mai. Alcuni dei nostri erano spesso assillanti, ma lui sempre calmo, paziente, consapevole delle esigenze della stampa. All’epoca fu tra i compilatori del Cct (coordinamento controllo del territorio): ad ora fissata polizia e carabinieri si dovevano mettere insieme per sorvegliare gli obiettivi sensibili, cioè banche, oreficerie e quant’altro. Per giorni cercammo di fargli tirar fuori dal cassetto il documento: si decise quando il piano fu perfezionato. E allora lo spiegò riga per riga, soddisfacendo ogni domanda. Ciononostante i più avidi, fingendo di non capire, lo sollecitavano, ricavando battute spiritose. Poi Paolo divenne capo di Gabinetto, dopo qualche tempo vice questore vicario. Ogni tanto, prima di andare in sala-stampa o d’imbucarmi nel lungo budello che porta alla squadra Mobile e al piano superiore alle Volanti, andavo da Paolo per salutarlo e scambiare due parole.Paolo Scarpis aveva 77 anni. Nato il 22 aprile del ’45 a Macerata, dove i colombi vengono detti “pistacoppi”, si trasferì nel capoluogo lombardo, dove fece la gavetta. Nel ’67 era entrato nell’Accademia di polizia; nel ’71 arrivato a Milano, poi commissario a Lodi, e poi ancora a Milano come capo del personale in piazza Sant’Ambrogio, quindi in via Fatebenefratelli. Nominato questore, fu destinato a Brescia, La Spezia, Brindisi. Ovunque apprezzato per la sua personalità e per le sue doti professionali, nel 2003 ritornò Milano al vertice della questura (su incarico del capo della polizia Gianni De Gennaro), anche qui mostrando saggezza, esperienza e tanta bravura. Su quella poltrona, lo avevano preceduto Sciaraffia, Lucchese, Serra, Antonio Fariello (proveniente da Torino), Marcello Carnimeo, Catalano, Tria, Boncoraglio...
Alberto Rocco Maria Sala
Era circondato da amici, estimatori e aveva ottimi rapporti personali con alte personalità esterne alla questura. La sua scomparsa ha suscitato molto rammarico. Francesco Colucci, che dopo essere stato vice capo della Mobile e poi questore a Bergamo, Lecce, Genova, promosso prefetto passò al ministero, mi ha detto: “Scarpis era un amico caro, come sai, schietto, aperto, un poliziotto autentico, preparatissimo”. Per Filippo Ninni (capo della Mobile e della Criminalpol, e prima dirigente del commissariato Cenisio, dove i malviventi lo avevano etichettato “ispettore Callagham”) “era sincero, onesto, ottimo poliziotto, diplomatico con le persone di cui non si fidava”. Il vice commissario Silvano Gattari: “Persona amabile, schietta. Andai a trovarlo in ospedale e ne uscii afflitto”. Per Luigi Pagano, già direttore di San Vittore, coordinatore delle carceri di Lombardia e autore del bellissimo libro “Il direttore”, Paolo “era un gentiluomo e un grande professionista”. Per Alberto Rocco Maria Sala (già Antimafia, Antiriciclaggio, Anti finanziamento terrorismo, quindi manager e consulente), sul quale Sebastiano Sandro Ravagnani ha scritto il volume “L’ultimo dei dinosauri”: “Aveva grandi capacità, comprensione e rispetto per gli altri. Riceveva e ascoltava i cittadini che lamentavano un problema”. Per Alberto Berticelli, cronista del “Corsera” e conoscitore di tutte le articolazioni della questura, “un signore e un grande questore”. Per Paolo Chiarelli, anch’egli del quotidiano di via Solferino: “Bravo, davvero bravo”. Apprezzamenti da Lucia Ziliotto, che dopo aver lavorato all’antirapine in via Fatebenefratelli, traslocò a Padova per assumere il compito di capo della Mobile. “La Gazzetta di Parma”, che ebbe come direttore a suo tempo il grande Baldassarre Molossi, ha scritto: “E’ morto Scarpis, prefetto nella nostra città dal 2008 al 2010, dopo essere stato per 25 anni alla questura di Milano”. Tanti altri poliziotti hanno dichiarato la loro ammirazione per Paolo Scarpis e i giornali ne hanno illustrato l’attività professionale e le qualità di grande signore.
Ninni e Sala
da sin. Gino Palumbo e Kodra

Una carriera davvero brillante, la sua. Sulla soglia della pensione fu chiamato a dirigere l’Aise, l’ex Sismi. Il giorno in cui compì quarant’anni la moglie Laura gli fece una sorpresa: invitò i suoi amici più cari, compresi il sottoscritto e Alberto Berticelli, in un ristorante vicino a Foro Bonaparte senza dire nulla al marito. Appena lui rientrò a casa, gli espresse il desiderio di festeggiare in un locale. Paolo accettò e andò dove lo portava il cuore di lei. La porta della sala, tenuta chiusa fino al suo arrivo, si spalancò e il silenzio assoluto fu rotto dagli auguri, mentre si accendevano le luci. Lui incantato, il solito sorriso aggraziato sulle labbra, si sedette, osservando il nettare che un cameriere gli versava nel bicchiere. Una serata memorabile: molti vollero fare un brindisi, lui rispose, commosso: “Grazie. Non me lo sarei mai immaginato”. Non ricordo il menù, ma fu anche quello favoloso. Paolo era anche un uomo di compagnia ed era contento quando poteva stare con le persone che gli volevano bene. Passate le 20, la comitiva lasciò il ristorante alla spicciolata.
Allora gli venne l’idea di andare in un noto locale notturno del centro, nei pressi di piazza Duomo, con quattro amici rimasti, io e mia moglie compresi. Lì venne salutato con riguardo dai gestori, che ci scortarono fino a un tavolo in fondo. Alcuni di noi intrecciarono le danze, lui no, preferì rimanere al suo posto guardando i passi delle coppie. Un compleanno coronato da genuine manifestazioni di affetto. Accennai a quell’avvenimento parlando al telefono un giorno con Laura. “Sì, fu bella, quella serata”, commentò, ma non era la festa dei cinquant’anni”, mi corresse, “ma quella dei quaranta”. Quanti anni spesi svolgendo il lavoro senza risparmiarsi, con grande competenza e piacere, ligio al dovere, da ottimo servitore dello Stato.
Paolo amava i quadri, ammirava il pittore albanese Ibrahim Kodra. Un giorno l’artista ci invitò nella sua abitazione-studio di piazzale Lagosta (sulla facciata del palazzo del civico 2 hanno inchiodato una targa in sua memoria), dove conversammo un’ora e mezza fra tele in partenza per una mostra. Al centro della stanza, che ha la finestra che si affaccia su viale Zara, un cavalletto con un’opera destinata a una Galleria di Palermo. Echeggiava la voce di Ghiringhelli, che fu sovrintendente della Scala e in quel locale aveva preceduto Kodra. Anche al pittore albanese piaceva lo stare insieme. Spiritoso e buono, lo si poteva considerare l’inquilino della porta accanto. Per lui cene e musica andavano sempre bene. A Milano dal ’38, divenne il re di Brera. Dipingeva personaggi-totem, anche paesaggi di Sciacca e di Positano, marine con barche a vela…paesaggi e suonatori albanesi, opere emozionanti, di grande vigore espressivo. Nel suo Paese era stato campione di lancio del disco e conservava uno stile atletico, tanto da sembrare più giovane della sua età. Ritornando dalla visita, ripercorsi un po’ la storia di Ibrahim, da tempo scomparso, e l’interlocutore ascoltava con attenzione. Paolo Scarpis sapeva anche ascoltare. Io l’ho conosciuto così.




Un uomo eccezionale è volato oltre le nuvole

DALL’AMATA STRAMILANO ALLA MARATONA DI NEW YORK

                                                     

Il sorrriso da birichino

Cesare Isabelli, 83 anni, amico di

tutti, disponibile, cordiale, ironico,

maratoneta nato, ha macinato tanti

chilometri anche per stare tra la

gente


Franco Presicci

Quando tanti anni fa atterrò nella Grande Mela per partecipare alla maratona faceva un freddo da cani. Ma non s’imbottì per ripararsi. Nelle ore prima della partenza fu in ansia, immaginando la folla in cui si sarebbe immerso. Pensava al momento “clou”, a come sarebbe stato: se più bello, più grandioso, più avvincente della Stramilano, di cui non si perdeva un’edizione. Navigare in quel fiume era per lui una gioia straordinaria. Tornò contento d’aver vissuto quella esperienza oltreoceano, ma non ne parlava con nessuno. Neppure con gli amici più cari. 

Non era uomo da enfasi. Non amava il palcoscenico e neppure le quinte. Preferiva la platea. E faceva cose grandi, obbedendo al suggerimento manzoniano di donare con “quel tacer pudico che accetto il don ti fa”.

Cesare stappa una bottiglia

Cesare soffia sulle candeline

Cesare Isabelli era un uomo eccezionale. Alto, snello, un sorriso dolce, passo da maratoneta, tifoso dell’Inter, non riusciva a trattenere la voglia della strada. Macinava chilometri e chilometri senza stancarsi, per andare a far visita a un amico o a un altro. Ogni giorno superava la soglia dei fratelli Gammone, a Niguarda, e quelli, scherzando, gli dicevano: “Lo fai per allenarti per la Stramilano, vero?”. E lui sorrideva. Ma non lasciava impunita la battuta: dopo qualche minuto, con una faccia da birichino: “Non capisco perché abbiate intrapreso questo Cesare soffia sulle candelinemestiere. Non potevate fare dell’altro?”. Il mestiere a cui accennava è quello delle pompe funebri, che i Gammone, Vincenzo, Tommaso e Nicola, nativi di Venosa, in cui nacque il poeta Orazio, esercitano da molti anni. Gli volevano molto bene, sapevano che celiava, che la malignità era mille miglia lontana da lui. Passava ore a duellare con i fratelli Gammone, titolari di una delle agenzie più serie di Milano. Duello impari perché era quasi sempre Cesare a vincere la partita.

Cesare con Nicola Gammone
Gli piaceva provocare, vedere gli altri ridere. E quando si alzava per andarsene, i padroni di casa: “Domani vieni?”. Certo che si sarebbe stagliato sulla porta, il giorno dopo. Nel quartiere in cui abitava lo conoscevano tutti e tutti lo stimavano. Cesare avanzava verso il cancello e si fermava a scambiare due parole con i gruppetti che si formavano sotto il portico. Ma se la conversazione scadeva nelle cianche, tanti saluti e via. “Scusate, ho un appuntamento”. Non sopportava le malelingue, che sono come la gramigna, allignano ovunque, nelle città, nei paesi, nei quartieri, nei borghi. Quale che sia la dimensione del contesto in cui si vive, c’è sempre chi deve cigolare, insinuarsi nella vita privata della gente. Cesare era un gentiluomo di altre generazioni: discreto, gentile, corretto, amante delle buone letture e dei cruciverba. Disponibile. La vecchietta del condominio aveva bisogno di fare l’abbonamento all’Atm? Pronto a farlo lui. “Non mi costa niente, faccio due passi in più”. A furia di fare due passi, le sue gambe avevano fatto il giusto rodaggio per sgambare alla Stramilano. Lo conobbi proprio lì.

Stramilano

Non facevo parte dell’equipaggio della maratona dei cinquantamila, ma come inviato de “Il Giorno” ero sempre presente alla manifestazione: il “general manager” Gianluca Martinelli e il presentatore Attilio Monetti, che tra una fiammata di esaltazioni e l’altra snocciolava date, fatti, vittorie, glorie dell’atletica, m’invitavano a salire sul palco degli ospiti, dove conobbi anche Isabella Rossellini in veste di madrina di non so più quale edizione. Una mattina, come sempre, le avanguardie della fiumana un quarto d’ora prima dell’ora prevista, dopo vari minuti di tensione, ruppero gli argini, travolgendo quasi anche la banda dei bersaglieri, e via verso corso Venezia, applauditi da un vasto pubblico assiepato oltre le barriere. Mentre i meno frettolosi sfilavano quasi a passo d’uomo mi raggiunse un grido gaio: era Cesare Isabelli, che mi salutava sventolando il braccio destro. “Guardalo lì, pensai, che forza, che coraggio, Cesare Isabelli fra cinquantamila pettorali, un anno firmati da Ottavio Missoni. Salii in macchina e l’autista raggiunse la valanga umana, placata e sparpagliata al posto di ristoro di viale Tibaldi, che offriva latte, yogurt, bibite, panini, “briosce”, mele della Valtellina…, accerchiato da ragazzi sui pattini, sulle bici, gagliardi, scatenati, divertiti; mentre nel resto del serpentone alpini ottantenni, figure pittoresche, famiglie con un bimbo in carrozzina o con l‘ombrello aperto sulla testa, un “moschettiere” in sella a un velocipede, fanciulle in minigonne di ogni colore con cartelli inneggianti a questo e a quello procedevano a passo cadenzato ... Cesare marciava tranquillo, soddisfatto della giornata, non certo lentamente come il prete che passeggia leggendo il breviario. Perché correre? Per andare dove? Per arrivare primo al traguardo dell’Arena? Ridicolo. Non è questo la Stramilano. Correre si doveva a quella dei professionisti, in programma nel pomeriggio, con in prima fila campioni come Alberto Cova, per dirne uno. Cesare entrava nell’Arena, magari con Samuele Jannuzzi, un uomo di 86 anni, Speedy Gonzales delle Poste, che con la Stramilano era agli sgoccioli, e traeva onore e vanto dalle sue tante partecipazioni, dalle sue medaglie e dai viaggi a piedi da Milano a Monza e ritorno per allenarsi, alla sua età. Cesare lo conoscevo già, abitavano nello stesso condominio, io al terzo, lui al quinto piano. Ma l’amicizia vera, quella che ti lega finchè non suona la campana, sbocciò quel giorno alla Stramilano. Quando per il mio giornale lo intervistai, avendo anche saputo che aveva preso parte alla maratona di New York, scoprii che preferiva parlare poco di sé. Che fatica scucirgli le labbra, tirargli fuori le parole. Era più forte di lui. “Parliamo anche dell’Inter – mi disse – la maratona di New York è così lontana”. Ma dell’Inter io non sapevo niente, non sapevo, e non so, niente di calcio. Lui palpitava, per quella squadra. Quando i suoi “goleador” descrivevano geometrie sul campo, lui stava sulle spine: appena vedeva gli avversari avvicinarsi troppo alla porta del cuore guardava da un’altra parte per non vedere la sfera violare la rete. ”No, Cesare, è della maratona di New York che dobbiamo parlare; e anche della Stramilano”. E lui cedette, per parlarmi della giornata, del clima, delle curiosità, delle pratiche burocratiche, del paesaggio, della bellezza della maratona, della sensazione che si prova camminando con gli altri, pensando a Frank Sinatra che canta “New York New York”…

Stramilano in piazza Duomo

Ricordò la sensazione indescrivibile che si avverte navigando in quella folla per le vie di Milano, bella, seducente, affascinante… “Non hanno capito niente quelli che sostengono il contrario”. Ehi, Cesare, puoi parlami della tua Bergamo, della tua Inter finchè vuoi, ma non è quello il tema, oggi. E lui aprì un sorriso comunicativo, per dire “Va bene”. Scrissi l’articolo, aiutato anche dal mestiere; e gli feci anche una bella foto. Non mi sembrò particolarmente toccato, quando mi lesse: non gli importava finire sui giornali, ma calpestare il terreno come i segugi di una volta sulla pista di una notizia. Mi gratificò con “Bello, grazie”. Quando veniva a trovarmi, e veniva spesso, sollecitava me a parlare, sapendo che non mi sottraevo. Mi faceva raccontare del mio percorso professionale e voleva saperne sempre di più. 

Stramilano professionisti
Sempre delicato, discreto, curioso: “Arrivava nel mio studio e mi diceva: “Se stai lavorando continua, io mi seggo, sto dieci minuti in silenzio e vado via”. Spegnendo il computer: “Stai scherzando? Parliamo finchè vuoi, magari della Stramilano, di quando hai cominciato a frequentarla, se sei arrivato primo, qualche volta, all’Arena. “Cose vecchie, passate, quasi non le ricordo più. Mi divertivo, vedevo gente, consumavo scarpe assieme a loro. Anzi, tu potresti parlare di quel tale che dipingeva correndo in bicicletta e di quello che teneva una scimmia sulle spalle”. Già, morì vegliato per cinque giorni dal primate. Morì anche Jannuzzi e me lo disse Piero Lotito che aveva visto il manifesto stracciato sventolare sulla facciata alla destra del cancello della casa di don Samuele, come lo chiamavo io. Era pugliese di Bitonto. Cesare sapeva chi era Lotito, un mio caro collega e scrittore, che da Foggia era venuto a Milano per fare il giornalista, un mestiere lastricato di difficoltà. Gli parlavo spesso del giornale, dei miei colleghi, del mio lavoro, delle mie disavventure e delle mie piccole e meno piccole soddisfazioni. Lui in silenzio ascoltava intervenendo con le domande. Cesare Isabelli non c’è più. E’ volato verso le nuvole a 83 anni, qualche giorno fa. Di lui ho tanti ricordi, della sua generosità, della sua lealtà, della sua franchezza. Un tale gli chiese di dare il voto a suo genero e lui rispose: “Non posso, io sto da un’altra parte”. A un giovanotto che aveva dato del terrone a un anziano: “La terra è nobile e nobile chi la lavora”. Potrei scrivere un libro, dopo che avrò finito di piangere la sua scomparsa. Certe amicizie si incardinano dentro di te e non si spengono mai. Quando non veniva a trovarmi mi preoccupavo. Era stato dal fratello dalla salute instabile, era morta la sorella, era andato a far visita ai genitori al cimitero, ad accompagnare da qualche parte i nipoti, che considerava gioielli? Una volta – ero un ragazzo – in corte Un uomo eccezionale è volato oltre le nuvoled’assise a Taranto sentii il principe del foro Antonio Altamura proclamare in un’arringa che quando un uomo muore s’intenerisce l’universo. C’era dell’enfasi in quella frase, ma mi è rimasta nella memoria indelebile. Quando muore una persona che non ho conosciuto mi commuovo; quando muore un amico piango, mi sento il vuoto attorno, un vuoto che non si colma. Con Cesare ho perduto un fratello, un pilastro. Lo credevo immortale. Ma soltanto gli oggetti sopravvivono. Le persone se ne vanno, ma restano nel nostro ricordo. Poi noi le seguiamo. E’ come una ruota che gira. Anche il ricordo si scioglie. E ci vogliono anni, perché “a tenerci in vita” provvedano le nuove generazioni. Atletico, come un attore di cappa e spada, come Errol Flynn, come un acrobata, agile, instancabile, maratoneta nato, Cesare se n’è andato in una notte di agosto in una stanza dell’ospedale di Niguarda, a pochi passi dall’ufficio degli amici Gammone. La voce si è sparsa in un baleno: “Cesare ha preso la via delle nuvole”. Non ci credeva nessuno. Il condominio ha perso una voce e un cuore. La Stramilano un pettorale da albo d’oro, per la passione. La città un galantuomo.