Pagine

Print Friendly and PDF

martedì 30 marzo 2021

Per i balordi era l’ispettore Callaghan

MA IL VICEQUESTORE FILIPPO NINNI

NON HA MAI AVUTO LA 44 MAGNUM

Filippo Ninni in un'operazione
 

Durante la sua carriera si è occupato di migliaia di casi e ha mandato al “gabbio”, cioè in carcere, altrettante pellacce.

Si è occupato anche di omicidi, compreso quello di Mary D’Amelio, e ha risolto quello di Gucci.

 

 

 

 

 

LA REDAZIONE

 

Franco Presicci

Quando lo vedevano arrivare i balordi mormoravano: “Ecco l’ispettore Callaghan”. Qualche altro aggiungeva: “Il caso Scorpio è tuo”, titolo di uno dei film della saga di grande successo interpretata da Clint Eastwood.

Operazione guidata da Ninni

Ma il vicequestore Filippo Ninni, al quale l’etichetta era stata affibbiata, la 44 magnum in possesso invece del poliziotto di San Francisco nelle sequenze cinematografiche, non l’ha mai avuta. E neppure il cipiglio. E non si curava degli epiteti scodellati dalle “mezze maniche”, che si vedevano sempre sorvegliate e quindi disturbate nella gestione dei propri affari da quel segugio che dirigeva il commissariato Cenisio. Questa fauna allignava in un gruppo di case dissestate della periferia. Un angolo ben delimitato, dove circolava l’eroina, come del resto in altre zone di Milano: in via Emilio Bianchi, definito il fortino fino a quando non venne smantellato; in via Odazio, dalle parti del Giambellino, cantato da Gaber nella ballata del Cerutti Gino; al Parco Lambro…. Filippo Ninni era sempre impegnato, vigile, ostinato. Insomma, quando avvertiva puzza di bruciato, usciva coni suoi collaboratori e andava dritto dove lo portava il suo fiuto. Se il naso lo aveva ingannato, chi doveva sapere sapeva che il guardiano del faro stava sempre all’erta. Se cercava qualcuno, non gli dava tregua, passava ore e ore in giro per rintracciarlo; e, se ci riusciva, pazienza, “se non oggi domani lo prenderò”. Le operazioni che conduceva con i suoi collaboratori erano spesso ben studiate. Una mattina io stavo attraversando una via della Comasina, diretto ad un appuntamento con un “trombettiere” (un amico che ogni tanto mi riforniva il… miglio), quando dall’androne di uno stabile mi sentii chiamare sottovoce: era un poliziotto con cui avevo ottimi rapporti che mi pregò di scomparire perché erano appostati in più parti in attesa di un “movimento” fra spacciatori di droga, che se mi avessero visto, conoscendo le mie frequentazioni con il posto di polizia, avrebbero potuto mangiare la foglia. Divenni un fantasma. E un paio di giorni dopo ci venne data la notizia dell’arresto di quattro o cinque “puscher” (mercanti di droga) scoperti in possesso di un bel po’ di sostanza stupefacente. I cronisti, che sapevano dove andare a cacciare, oltre che in questura e negli altri avamposti della polizia, come venivano chiamati i commissariati, tempestavano di telefonate il vicequestore Ninni; e lui non si negava mai, anche se stava predisponendo un piano.

Il vicequestore Ninni

Era gentile, oltre che preparato, intelligente, zelante; ma se una notizia non la poteva dare per tutelare le indagini, se la teneva segreta come il tesoro dell’abate Faria ne “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas. Ho vivo il ricordo di un “blitz” in una fetta della città, dove poi le case abitate da chi trafficava, imboscando la droga nei buchi delle pareti scrostate delle cantine, vennero demolite. Quella operazione venne realizzata con la partecipazione di decine e decine di poliziotti e l’impiego dell’elicottero, con il compito anche d’individuare dall’alto chi scappava per sfuggire alle camionette e alle auto delle volanti. Ninni le conosceva bene le pellacce che si annidavano nella zona: nomi, cognomi, soprannomi, i giri in cui erano coinvolti, i legami, le gerarchie. Il capintesta non si faceva mai vedere, ma Ninni sapeva il suo domicilio e le sue abitudini.

Mar Piccolo

 

 

Poi fu nominato capo della Squadra Mobile e dette filo da torcere alla malavita con più spessore. Nell’aprile del ’93 eseguì un grosso “blitz” contro un ben organizzato clan che – secondo l’accusa - faceva affari miliardari con la vendita di armi e il traffico di hascisc, gestito in quasi tutto il Paese da elementi acquartierati al Nord e al Sud. Il clan, che riuniva soggetti imparentati fra loro, “proteggeva” anche gli spacciatori del famoso fortino, che fu oggetto di una grande inchiesta giornalistica prima di essere espugnato. Le indagini erano state condotte per un anno dal vicequestore Filippo Ninni e dal capo della sezione antidroga. Il magistrato, anche sulla base di migliaia di ore d’intercettazioni telefoniche, spiccò 41 ordini di custodia cautelare e l’irruzione scattò all’alba con l’intervento di 600 uomini, tra funzionari, sottufficiali e agenti della questura. Un’altra operazione condotta da Ninni fu quella denominata “I fiori di San Vito”, con oltre 300 persone in manette. Se Ninni facesse il conto dei malavitosi che ha impacchettato, riempirebbe un libro. La sua memoria è inossidabile, un serbatoio inesauribile di fatti e di nomi indagati anche quando andò a dirigere la Criminalpol, dove s’incrementò i suo zelo e la passione per il mestiere, mandando al “gabbio”, il carcere nel gergo della malavita, migliaia di naviganti nel codice penale, contribuendo così notevolmente ad infoltire l’affollamento di piazza Filangieri, dove ha sede San Vittore. Adesso che è in pensione, non ama ricordare quei giorni. Se lo tenti, parla d’altro. Di Taranto, per esempio, dove è nato. Anzi, la sua culla è stata Talsano, ma poi questo agglomerato si è legato alla Bimare e quegli abitanti sono tarantini con orgoglio.

I colleghi Ninni e Jacovelli
Lo dice anche lui, che tra l’altro ama il dialetto locale, quello che gli è rimasto nel cuore dopo tanti anni a Milano, una città che ha sempre dovuto combattere con i banditi, boss, gregari, rapitori, spacciatori, omicidi, rapinatori, spaccatori di vetrine, colletti bianchi, camorra, ‘ndrangheta, mafia (Luciano Liggio venne arrestato a Milano nel ’71 in via Ripamonti dal colonnello Visicchio della Guardia di Finanza)… Mi dispiace il suo silenzio, perché ha tante cose da dire. Per esempio è stato lui a suo tempo a risolvere il delitto Gucci, di cui si parlò in tutto il mondo; e lui indagò con altri sul caso della povera Mary D’Amelio, la bravissima studentessa diciassettenne uccisa la sera dell’8 novembre del 1987 in via Candiani, mentre andava a prendere il treno per far ritorno a casa. Episodio così doloroso, che Corrado Augias gli dedicò una puntata di “Telefono Giallo”, alla quale prese parte anche Miriam Mafai e telefonicamente Franca Rame, in polemica con la canzone “Un amore rubato”, che il conduttore aveva fatto cantare da Luca Barbarossa. Neppure su questo omicidio Ninni scuce una parola. Ma come passa il tempo della pensione? Ogni tanto prende il treno alla stazione Centrale o la macchina e corre a Taranto.

Ninni tra Plantone,l'attrice A.Maria Rizzoli e Presicci

 

 

Come Ulisse – gli disse un amico - che torna ad Itaca dopo anni di assenza e di peripezie. “Che cosa c’entra Ulisse? Io nella mia città torno spesso, rivisito amici e parenti, vie, piazze, fontane, paranze, mercati, il ponte girevole e quello di pietra a Porta Napoli… Vado a pesca nel borgo antico; e mentre reggo la lenza, aspettando che il pesce abbocchi ascolto i dialoghi dei pescatori che rammendano la rete o preparano le lampare. E’ un piacere sentire quei suoni e quelle cadenze, rari nella città nuova. Taranto per me è una riconquista, una riscoperta, allettanti le novità che mi si parano davanti agli occhi: strade nuove, palazzi nuovi, quartieri rinnovati… Taranto mi dà gioia, mi esalta”. Non lo interrompo e lui prosegue: “Così l’ultima volta, quando si poteva passeggiare sul lungomare o in viale Virgilio fino ai i Salesiani, o in via Garibaldi facendo a piedi la discesa Vasto respirando il profumo del Mar Grande e del Mar Piccolo. La malandra è un’altra storia. Un’altra vita”. Ma vale la pena di raccontare, sia pure per sommi capi, almeno qualche curiosità. E alla fine mi ha dato il contentino, parlandomi del balordo a cui aveva detto: “La prossima volta tocca a te”, avendo come risposta; “A me? Se lo sogna. Non mi prenderà mai”. “Va bene, quando accadrà ii offrirò il caffè”. E accadde. Allora il “giovanotto” ricordò al vicequestore la promessa del caffè e venne dirottato al bar vicino, da dove, dopo aver sorseggiato la bevanda, fu portato in ufficio anche per rispondere alle domande sui 50 chili di eroina che teneva nascoste. Visto che ce l’abbiamo fatta, comandante? Come lo chiamano, con rispetto, i poliziotti che su Facebook hanno creato un loro gruppo.



mercoledì 24 marzo 2021

Ricordi di viaggi in treno e altro

LA LOCOMOTIVA A VAPORE

Antica locomotiva da restaurare
SUSCITA TANTA NOSTALGIA

 

Quella che andava dalla Bimare

a Martina ciuffava festosamente.

Si viaggiava in terza classe, detta

carro-bestiame. I vagoni erano

sempre affollati. Nel dialetto la

macchina era “’a Ciucculatère”.



Franco Presicci

Mi presentavo mezz’ora prima alla stazione di Taranto per vedere i treni in movimento, aspettando quello per Martina Franca, che alloggiava sul binario morto, a ridosso del primo. Mi piaceva vedere la locomotiva a vapore ansimare sbuffando. Mi piaceva la sua forma; osservare il ferroviere che riforniva il forno di energia.

Affascinante locomotiva a vapore

Stavo tanto tempo ad ammirare “’a Ciucculatère”, come la chiamavamo a Taranto in dialetto, e salivo nella carrozza pochi attimi prima che si muovesse in direzione della città dei trulli. La prima tappa era Nasisi, dopo cinque minuti di corsa. Durante la guerra, a Nasisi, per ordine superiore, il convoglio doveva arrestare il suo tragitto, perché lo scalo di Taranto era a rischio bombe. Povera Taranto! Mi vengono spesso in mente un palazzo sventrato, credo in via Anfiteatro, e l’orizzonte fiammeggiante visto dal piazzale della casa di campagna dello zio prete, a Martina, che ci ospitava; i palloni frenati, che dondolavano sul Mar Grande per intrappolare gli aerei nemici; i ricoveri nella Villa Beaumont, un altro vicino a casa mia, di fianco alla scuola elementare Acanfora; il lugubre sibilo della sirena. Le città erano ferite; la gente aveva paura; i viveri erano razionati; ogni stabile aveva il suo capo fabbricato dotato di maschera antigas per difendersi in caso di attacco chimico e svolgere protetto le mansioni che gli spettavano: mentre gli altri coinquilini nella stessa eventuale occasione, si dovevamo proteggere con un fazzoletto bagnato premuto sul naso e la bocca.

Vecchio treno sulla piattaforma
Sono alcuni dei ricordi che suscita in me quella sagoma viaggiante con il suo bel fumaiolo sul muso. Non dimentico la sera che di ritorno a Martina due persone, per una questione di posto, si scambiarono insulti roventi, culminati in una stramazzata (“Riprendi la zappa che hai appena lasciato”) che scatenò, più che indignazione, una beffarda risata generale, perché i passeggeri erano quasi tutti arsenalotti pendolari che rientravano a casa. Avevo sentito quella espressione in un altro alterco tra un martinese e un tarantino. Colpa anche dei vagoni, che erano sempre affollati e imponevano gomitate per salire e accaparrarsi un posto a sedere, in terza classe, detta carro-bestiame. Quando la terza fu abolita, la seconda prese il suo posto: praticamente cambiò solo di nome.

Martina, piattaforma1230

Quando la gloriosa locomotiva a vapore stronfiava più lentamente per fermarsi sul primo o sul terzo binario di Martina Franca, scaricati i passeggeri, si dirigeva verso il binario di scambio e raggiungeva a ritroso la piattaforma girevole, che le faceva mutare il senso di marcia. E anche quella manovra mi prendeva. Restavo sotto la pensilina fino a quando non veniva eseguita. Sono rimasto affezionato, alla “Ciucculatère”. Oltre vent’anni dopo (ne avevo ormai quasi 30) mi trasferii a Milano e spesso mi veniva voglia di fare un salto a Martina, quindi prendevo il treno per Bari Centrale, dove per raggiungere la città del ristoro estetico e spirituale, dovevo salire su un treno della Sud-Est, che si fermava dopo 800 metri, nella prima stazioncina, e lì contemplavo la “mia” locomotiva a vapore che, costruita nel 1901 in Belgio, era parcheggiata dal 1963 come nel celebre museo di Francesco Ogliari a Ranco. Era ancora bella, ben tenuta, una testimonianza storica preziosa, un monumento, un cimelio in seguito, purtroppo, compromesso dal tempo. Era il periodo della scuola e in quel minuscolo scalo il treno cominciava a riempirsi di ragazzi. E pensavo con gratitudine a Richard Trevithich, che nel XIX secolo fu tra gli inventori di quei gioielli. Il treno che mi trasportava era tirato da una locomotiva moderna, che non mi lasciava indifferente, ma vuoi mettere l’altra? Se è vero, come ha detto qualcuno, che la locomotiva a vapore somigliava a un dinosauro o a un pachiderma senza testa, rispondo che ha però il fumaiolo che ciuffando emette quelle nuvole bianche che si gonfiano e si disperdono. Un giorno alla stazione di Noci salì un sosia del tenente Sheridan, con l’impermeabile bianco come il famoso detective interpretato dall’attore Ubaldo Lay negli anni Cinquanta anche nei seguitissimi “Caroselli” televisivi. Il nuovo passeggero era inglese, parlava molto bene la nostra lingua, era garbato, alto e sottile, taccuino e matita nella mano sinistra. Guardava il paesaggio dal finestrino, tesseva lodi alla bellezza del nostro Paese; all’incanto di quell’angolo della Puglia, alle sue viti, ai suoi ulivi, ai suoi fichi, alle sue ghirlande di fiori, alla sua luce, ai campi ben pettinati e prendeva appunti. Mi sembrava Goethe, che in un diario compilato in un suo viaggio in Svizzera del 1797 scriveva: “Partenza da Francoforte poco dopo le 7. Sulle alture di Sachsendhausen molti vigneti ben curati, tempo nebbioso, coperto, gradevole. Dietro la torre di guardia, bosco, Strada raccomodata con calcare…”. Sheridan era anche un conoscitore della storia delle ferrovie: lo dimostrò intervenendo in una discussione tra due passeggeri del Nord, che conversando giocavano a carte.

Vagoni di altri tempi
Disse che il primo treno passeggeri del mondo a trazione a vapore fu quello che il 27 ottobre del 1825 inaugurò la Stockton & Darlington Raillway; e che gli inglesi furono anche i primi a costruire stazioni ferroviarie. E siccome mi stimolò, gli accennai a Ferdinando II, che fu il primo a costruire strade ferrate da noi: il tronco Napoli-Portici, che venne battezzato solennemente il 26 settembre del 1839 con un treno di otto vagoni e la locomotiva, a vapore, di nome “Vesuvio”. Il convoglio partì alle 13 con a bordo il sovrano, che se aveva bisogno che il mezzo andasse più forte o più piano dava l’ordine a un ferroviere appostato sul predellino che lo trasmetteva al conducente. L’inglese ascoltò in silenzio, ma era al corrente dell’argomento. Infatti continuò affermando che l’allestimento della rete da Napoli a Capua venne affidata ad Armand Bayard de la Vingtrie, un ingegnere francese; e che la prima tratta, da Napoli a Portici, fu attraversata da una macchina inglese, la Bayard. Scese a Martina, città dove per Mario Soldati si potrebbe scegliere di vivere, diretto all’Azienda vinicola Miali, da dove, nel pomeriggio, doveva proseguire per Lecce.

Stazione di Martina Franca

Lo accompagnai per un po’ e mi parlò dei nettari che l’azienda martinese produceva e spediva in tutto il mondo. Qualche anno fa mi recai, come faccio ancora oggi, alla stazione di Martina per osservare il via vai sui binari, le nuove linee architettoniche dei convogli, mentre le scampanellate elettroniche che segnalano gli arrivi rompono il silenzio; e chiesi a un addetto alto, gentile, premuroso se fosse possibile vedere la piattaforma girevole; e mi indicò il luogo, in fondo a sinistra rispetto al cancello d’ingresso e alle carrozze d’epoca disposte in fila su binari senza sbocchi. Ci andai e, guardando bene fra altri vagoni che tradivano i chilometri di strada ferrata che avevano percorso negli anni, intravidi la piattaforma, almeno quella parte che emergeva dall’erba e dai sassi e quella che mi lasciavano vedere le ruote delle carrozze che le stavano sopra. Nei giorni successivi mi fu detto che in un anno o due la piattaforma sarebbe stata dissepolta, restaurata come base di una “Ciucculatère” tirata a lucido. E fui sopraffatto dal rimorso, perché oggi per andare da Martina a Taranto mi servo dell’auto e non del treno. Ho fatto l’eccezione una sola volta, per andare a Crispiano, a incontrare il vulcanico Michele Annese, che ancora non aveva fondato questo giornale e l’Università del Tempo libero e del Sapere: era il “deus ex machina” della Biblioteca “Carlo Natale”, fiore all’occhiello, orgoglio, biglietto da visita, emblema, punto di riferimento della città. Conoscendo il mio amore per le strade ferrate, Michele mi chiese se fossi andato in treno. E snidò il mio senso di colpa. Mi ripresi subito, pensando che non c’era più la locomotiva a vapore a trainare il serpentone. Dopo qualche giorno domandai al mio amico Gabriele Lepore, un giovane talentuoso, ottimo bagaglio culturale di treni e strade ferrate, se ci fosse ancora quello splendido esemplare di locomotiva a vapore che faceva tanta bella figura in quella stazioncina appena fuori Bari. C’era, in attesa di essere rimessa nuovo. E mi inviò due immagini significative, pubblicate qui.

Carrozze d'epoca
Qualcuno di questi gioielli (tali sono per quelli che amano il settore) oggi sono esposti in qualche piazza o su qualche rotonda, per abbelllimento. Nel 2015, quando l’Aisaf di Bari ebbe la felice idea di organizzare “Un treno chiamato jazz” con diverse orchestre a bordo sulla linea Bari-Martina Franca fu annunciato che sarebbe stato tirato da una macchina a vapore; ma a Martina arrivò un locomotore diesel e non quello promesso (non per colpa – mi dissero – di chi aveva allestito l’avvenimento). L’iniziativa ebbe molto successo, meritatamente: i numerosi viaggiatori si divertirono molto e cantarono al suono delle orchestre sistemate nelle carrozze. Una continuò a rallegrare i curiosi sul marciapiede della stazione d’arrivo a poca distanza da quelle antichità che resistono al freddo e alla pioggia. Una festa eccezionale. Indimenticabile quel treno che faceva viaggiare la nostalgia, in un periodo in cui nessuno poteva neppure immaginare che saremmo stati attaccati da un killer spietato: il Covid 19.







mercoledì 17 marzo 2021

Quando a Milano nacque “Il Rosone”

     FONTE SACRO “LA PORTA ROSSA” CON MOLTISSIMI NOMI ILLUSTRI

Padri fondatori del periodico di cultura e informazione, Franco Marasca e Peppino Palumbo, di Foggia entrambi. Padrino Antonio Velluto, giornalista della Rai e assessore comunale.


Franco Marasca

 

Il Rosone è un periodico pugliese di cultura e informazione fondato nel 1978 da Franco Marasca,   edito dall’Associazione culturale omonima con cadenza bimestrale. E’ diretto ai   pugliesi ovunque residenti. La distribuzione raggiunge inoltre tutte le   biblioteche, le scuole, le Università, le librerie, i docenti, gli operatori   culturali, ed altri enti pubblici e privati pugliesi.

Franco Presicci 

Fu davvero una festa grande quella della sera del luglio 1978, in cui si svolse il battesimo de “Il Rosone”, periodico di cultura e informazione fondato da Franco Marasca, giornalista foggiano che insegnava lingua e conosceva bene il russo, e da Peppino Palumbo nelle vesti di direttore amministrativo. Marasca, giovane di talento, pacato, rispettoso, buono, che da tempo pensava ad un giornale che desse risalto anche ai mille personaggi che, venuti con il treno della speranza o “Freccia del Sud”, in questa terra che accoglie tutti e valorizza i migliori, avevano conquistato un posto dignitoso nell’industria, nelle libere professioni, nella carta stampata… ovunque. Ad esempio Antonio Velluto, detto “il principe” per i suoi modi garbati, che aveva fatto una bella carriera alla Rai (dirigente apprezzato e amato che teneva in palmo di mano tutti i suoi giornalisti, e assessore comunale all’Edilizia Popolare).

Dino Abbascià e Al Bano
Era nato a Troia, come Marasca e Palumbo, paese con una chiesa dal pregevole rosone, al quale Franco, che del giornale era direttore responsabile, si era ispirato per il nome; e riceveva tanti amici e colleghi nella sua casa di via Moscova a Milano o in quelle di Troia e di Venezia. Il giorno del suo funerale Rodolfo Grasso, un ottimo giornalista de “Il Corriere della Sera” con incarichi importanti anche nella società della caccia, nella chiesa di San Marco se ne uscì con una battuta: “Fino a ieri io camminavo sul velluto”, abitando al piano di sopra. A quello di Antonio. Franco Marasca a Milano conosceva intellettuali, professori, penne aristocratiche del giornalismo, semplici cittadini e con tutti era alla mano e disponibile.

Chechele e Zucconi
 
 
 
E la sera del ’78 il fonte sacro fu la “La Porta Rossa”, il ristorante di Chechele e Nennella (e dove si poteva solennizzare la nascita se non lì, in via Vittor Pisani, arteria nota in tutt’Italia non per la stazione Centrale a due passi, non per la vicina Boscovich, dove all’ultimo piano di un bel palazzo abitava Giovanni D’Anzi, l’autore di “Oh. mia bela Madunnina”; ma per questo locale che accoglieva soprattutto i pugliesi, residenti o foresti, diffondendo profumi di cucina fin sulla strada. Quella sera, tra i partecipanti, c’era anche Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno”, già inviato e corrispondente da Parigi, dove aveva intervistato Jean Rostand, Sarte, Simone de Beauvoir e altri grandi e scritto libri sul teatro, su monsignor Lefevre, un romanzo (“La toga rossa”). Considerato dagli intenditori il più grande critico teatrale del secondo 900, vincitore di tanti premi prestigiosi (organizzò un convegno sul teatro a Taranto e vi prese parte anche Ernesto Calindri, andato apposta nella Bimare da Milano), era un intellettuale stimatissimo e rispettato.
 
Ugo Ronfani

Lezoche sul balcone a Trani

Ronfani non era un nostro corregionale, ma per lui non faceva alcuna differenza essere di Taranto o di Brescia o di Torino. Accettò senza esitazioni l’invito di Franco Marasca, come accettò di andare a Saronno per presentare una mostra d’arte, della quale aveva firmato il catalogo, senza chiedere nulla in cambio. Alla festa ascoltò attentamente gli interventi dei relatori e cortesemente declinò la richiesta di dire la sua. Parlarono Velluto, Marasca, Peppino Palumbo, credo anche Barbacetto, mentre Chechele, seduto come un pascià a un lato del tavolo, sorrideva compiaciuto al pittore Filippo Alto, che dipingeva con passione le viti, gli ulivi, il fico, il paesaggio che si stende attorno a Locorotondo, adagiato su un poggio; a Martina, visioni che affascinavano Giuseppe Giacovazzo, oltre che Raffaele De Grada, Mario De Micheli, Mario Lepore, critici d’arte consacrati. Quando le presentazioni stavano per concludersi a qualcuno venne in mente di aprire le danze, e i giornalisti a malincuore dovettero tornare in redazione, alcuni di loro in tipografia, dove “i camici scuri” stavano sistemando il piombo nella balestra. Trascorsero gli anni e “Il Rosone” fu trasferito a Foggia, seguendo i suoi fondatori. E in quella città, dove nel 1179 Guglielmo il Buono fece costruire una Cattedrale in stile romanico-pugliese, che la terra in uno dei suoi movimenti violenti distrusse; e Federico II nel 1223 volle “regale e imperiale”. A Foggia il periodico continuò ad avere la sua vita felice, dando spazio alle eccellenze pugliesi senza dimenticare le sue origini lombarde. Intanto dalla stessa redazione, in via Zingaretti, usciva anche il confratello de “Il Rosone”: “Il Provinciale”. Ed entrambi avevano lettori affezionali anche al Nord. Poi Franco Marasca si ammalò e quando gli mancavano pochi giorni andai a trovarlo all’ospedale di San Giuliano Milanese. “Ieri è venuto Antonio Velluto, mi ha fatto piacere.

A destra Falina e Marida Marasca

Tu continuerai a scrivere sul ‘Rosone?”. Ho mantenuto la promessa: tutte le volte che Falina, la moglie, donna intelligente, preparata e volitiva, che ha preso subito le redini del giornale, mi ha chiesto un pezzo io ho obbedito. Il 14 maggio del 2002 “Il Rosone” compì 25 anni e per l’occasione allestii una grande celebrazione allo Spazio Prospettive d’Arte di Mimmo Dabbrescia (altro pugliese doc, un nome importante, in contatto con tutti i pittori e i critici maggiori), presenti personalità di ogni settore, compresi i vicequestori Lucio Carluccio e Filippo Ninni ( risolse il delitto Gucci), al momento dirigente della polizia postale e precedentemente capo della Squadra Mobile della Criminalpol; Francesco Colucci, uno dei pilastri della questura;

 

Filippo Alto
Giudice Romeo Quatraro

l’attore Gerardo Placido (lunga e brillante carriera in teatro, nel cinema e in televisione); il baritono Giuseppe Zecchillo (che aveva cantato in tutti i più famosi teatri del mondo, Scala compresa); il commercialista Giacomo Lezoche, che a suo tempo aveva guidato l’Associazione regionale Pugliesi; la professoressa Gigetta Fuiano Squeri con il marito; Dino Abbascià, re della frutta, vicepresidente dell’Unione Commercianti e al vertice nei consigli di amministrazione di diverse aziende; gli amici di Lino Banfi, l’attore che pochi giorni prima era stato invitato da Kofi Annan a partecipare a una riunione delle Nazioni Unite sui problemi dei bambini dell’Afganistan… Insomma, una manifestazione all’altezza di quella del luglio del ’78, tenuta per brindare al primo vagito del “Rosone”. La microfono si alternarono, per la Regione Lombardia, l’assessore Alberto Guglielmo; per la Provincia e il Comune di Foggia Leonardo Lioce e l’assessore Vittorio Fidanza; per l’Università degli Studi della stessa città Rosa Verdone.

Lenoci, Velluto, il quarto Colaprico
Fu poi il turno del vicesindaco di Troia Eduardo Beccia; dei giornalisti Antonio Ventura e Antonio Velluto; di Francesco Lenoci, allora docente all’Università Cattaneo di Castellanza e oggi alla Cattolica; e prese la parola Marida Marasca, figlia di Franco. Presiedeva da par suo Piero Colaprico, oggi capo della redazione milanese di “Repubblica”. Venne ricordata la figura DI Franco Marasca, sul piano professionale e umano; ed emerse qualche episodio noto a pochi: divertente quello del viaggio su un vecchio taxi assieme a Marco Pernice, docente di storia dell’arte, da Londra a Foggia.
 
Parte del pubblico
Non lo si sarebbe mai immaginato in un’avventura del genere, Franco, così serio, prudente, accorto, tranquillo. Sull’episodio scrisse uno splendido articolo (“Tremila chilometri per amore di un taxi”) Piero Lotito, giornalista e scrittore egregio, anch’egli foggiano. Nel settembre dello stesso anno l’iniziativa si ripetè a Foggia, anche lì con l’afflusso di tantissima gente. Franco Marasca non c’è più da diversi anni. riposa nel cimitero del suo paese, in una tomba proprio di fronte all’ingresso. Falina, un giorno ormai lontano, mi ci portò e nella mia mente, tra la commozione, si affollarono i ricordi di un uomo che a Milano ha lasciato una traccia irremovibile, come l’hanno lasciata uomini come Antonio Velluto, Chechele Jacubino, che era di Apricena e voleva dire grazie a Miano per avergli aperto le porte; Domenico Porzio, Raffaele Carrieri, Guido Le Noci; Romeo Quatraro, magistrale coltissimo e inflessibile; Giacomo Lezoche, di Trani, la bellissima città da cui provenivano tanti suoi compaesani per aprire quelle osterie che presero il nome dal loro luogo d’origine: i “Trani”, ai quali Vincenzo Pappalettera (autore di “Tu passerai per il camino, premio Bancarella; “Nel lager c’ero anch’io”…) dedicò uno splendido libro: “Il Trani di via Lambro”. Un inno ai pugliesi, che per Milano hanno fatto tanto, in ogni campo. Li troviamo ovunque, magari alla guida della carrozza. La lista è lunga, e a spulciare i nomi più illustri ci vorrebbe una vita. Molti Milano li ha onorati con l’Ambrogino d’oro o con altri riconoscimenti. Quassù chi merita ha il suo.











lunedì 8 marzo 2021

La notizia ha addolorato tutti

E’ MORTO CARLO TOGNOLI GIA’ SINDACO DI MILANO

Presicci con Tognoli
Primo cittadino dal ’76 all’86,

era cordiale, irreprensibile e

disponibile. Se qualcuno lo

fermava per strada, non si

negava, ma lo ascoltava. Era

amato, rispettato, stimato.

considerato un’ottima guida.

Il Covid se l’è portato via.

 

Franco Presicci

Ho saputo da Facebook che il Covid si era portato via Carlo Tognoli, che fu sindaco di Milano dal ’76 all’86. Lo ha spento a 82 anni tra il dolore di tantissimi cittadini, socialisti come lui e non, che lo consideravano, non a torto, una guida sicura, intelligente e irreprensibile.

Tognoli al Giorno

 

Una persona affabile, alla mano con tutti. E se qualcuno lo fermava sulla strada per Palazzo Marino, sede del Comune, lui lo ascoltava, con interesse, con pazienza. Persona rispettata, anche da chi nell’urna non gli dava la preferenza. Una mattina mi telefonò alle 7 per dirmi che un fatto che avevo pubblicato non si era svolto nei termini riferiti dal protagonista: non aveva occupato il suo ufficio, si era fatto ricevere per protestare contro un’ingiustizia che a suo dire aveva ricevuto, alla fine aveva ricevuto la promessa che il sindaco avrebbe accertato subito i fatti e eventualmente avrebbe provveduto; e lui, lasciato l’ufficio, si era fermato per un po’ di tempo nel corridoio senza far rumore. Quindi nessuna occupazione.

Di Bella e Tognoli
Vero invece che il protagonista della storia si era presentato all’ufficio anagrafe per rinnovare la carta di identità, dichiarando che la sua professione era quella di “combattente per la libertà”. L’impiegato gli aveva spiegato che quella voce non poteva essere presa in considerazione e che quindi andava rettificata. L’utente si era ribellato, minacciando di rivolgersi personalmente al primo cittadino, alzando il tono della voce, dicendosi vittima di una burocrazia antidiluviana e abbandonò il palazzo di via Larga ripetendo la tiritera fino a quando non raggiunse piazza della Scala, dove ha sede Palazzo Marino, sede del Sindaco. Fatto tutto questo, non contento della parola di Tognoli, venne al giornale, si fece ricevere da me e mi espose l’occupazione dell’ufficio del sindaco, dettagliandomi il motivo. “E’ una vita che combatto per la libertà, non è una professione, questa? Il male del nostro Paese è la burocrazia, che non cambia mai“. L’episodio era curioso, chiamai il fotografo e intervistai questa persona che non riusciva a calmare la sua agitazione.

Tognoli e Presicci

La mattina dopo alle 7 ricevetti la telefonata di Carlo Tognoli desideroso di mettere le cose a posto. La conversazione durò una mezz’ora e si concluse com’era iniziata molto gentilmente. Io non avevo verificato i fatti dove si erano svolti, nel timore che saltando di orecchio in orecchio l’onda potesse finire in quelle sbagliate, cioè della concorrenza. La mania dello “scoop” a volte è fuorviante. Da allora me sono passati di anni. Quasi una vita. Vidi Tognoli nell’86, al giornale, che da via Fava era passato in piazza Cavour, nel Palazzo dell’Informazione. Venne a trovarci in Cronaca, dove trovò ad accoglierlo quasi tutta la redazione: Giorgio Guati, Piero Lotito, Maurizio Acquarone, Gigi Gervasutti, Gino Morrone, Giampiero Grecchi, il direttore Lino Rizzi, Roberto Bagnoli, Roberto Bagnoli, il vicedirettore Guido Gerosa. Lo avevo incontrato la prima volta nel ’76, quando accettò il mio invito alla cerimonia per la consegna del premio “Milano” di giornalismo a Franco Di Bella, direttore de “il Corriere della Sera”, e ad Aberto Cavallari, corrispondete da Parigi dello stesso quotidiano. La festa si tenne al ristorante “La Porta Rossa” di Chechele e Nennella, alla presenza di tante personalità della cultura, della carta stampata e delle televisioni, di critici d’arte, di Gino Palumbo, direttore della “Gazzetta dello Sport”, di Giovanni Testori, giornalista e scrittore (“Il Ponte della Ghisolfa”, “La Gilda del Mac Mahon”…)… 

Tognoli, Chechele, Presicci
Il sindaco fece il suo bel discorso, breve ed efficace, abbracciò i premiati e riservò un elogio al padrone di casa, che tra l’altro era suo fan. Per tutta la giornata Chechele cantilenò ai camerieri: “Stasera viene Tognoli, il nostro sindaco, sì, proprio lui, il sindaco di Milano, perciò attenzione: ogni cosa a posto”. Lui, che era di Apricena e aveva fatto fortuna nella città del Porta, quando citava Milano lo faceva sempre con dolcezza. Era entusiasta, felice di ospitare questi personaggi che per lui e per tanti altri erano miti. Non incontrai più Tognoli per tanto tempo. Al giornale mi occupavo di delitti e altri misfatti e le strade che percorrevo ogni giorno non sfioravano neppure Palazzo Marino, costruito dall’architetto Galeazzo Alessi e sede centrale del Comune dal giorno dopo l’Unita d’Italia. Ma ci ritrovammo in una mostra del pittore barese Filippo Alto alla Galleria di Renzo Cortina, in piazza Cavour, dove conobbi anche Marietta, l’attrice che quando ero ragazzo con il suo collega “Coline” la domenica pomeriggio teneva inchiodate alla sedia migliaia di persone con la trasmissione “Caravella” su Radio Bari. Dirò di più: alla cena che ne seguì Filippo, conoscendo la mia passione per l’attrice al ristorante mi fece sedere proprio accanto a lei. Fu per me un onore, oltre che una grande occasione, perché potetti fare con lei una lunga chiacchierata sulla sua attività di attrice e sulla sua vita successiva.

Tognoli con il gallerista Nencini. Alle sue spalle Del Mare e Vernola

Il sindaco lo rividi in un’altra mostra di Alto, in un’altra galleria, dove fra gli altri c’erano Annibale Del Mare, il noto giornalista che fece parte dell’ufficio stampa del Governo Badoglio e pubblicò un articolo in cui annunciava il ritorno della libertà di stampa, il ministro Vernola e altri.  e il Ministro VernolaUna domenica il capo cronista Enzo Catania si stagliò davanti alla mia scrivania e alla presenza di tutti mi disse che non mi avrebbe più dato la sua stima se io non fossi riuscito a ad intercettare il presidente Sandro Pertini che era in visita privata a Milano (aveva saputo la notizia dal Quirinale, aggiunse). Una tegola mi stava cadendo in testa. Era quasi mezzogiorno, dove andavo a pescare il Presidente in una città grande come Milano? Chiamai il fotografo, che era al decimo piano, scesi di fretta dal quarto piano, nell’atrio chiesi all’autista di portarci in un “tour” per la città, senza avere una metà, la benchè minima indicazione.

Pertini al ristorante Al Grissino

Non si dice che la fortuna aiuta gli audaci? A volte anche quelli che tali non sono. E infatti mentre attraversavamo via Manzoni all’altezza del Teatro La Scala, vidi chi? Carlo Tognoli che andava verso Palazzo Marino. Imposi all’autista di fermarsi, scesi come un fulmine e corsi verso il sindaco. “Carlo, mi devi aiutare: dimmi dov’è Pertini. Tu non puoi non saperlo. Se non mi dai una mano, ci rimetto la reputazione!”. Lui finse di cadere dalle nuvole per tenermi sulle spine, ma cedette alle mie suppliche rivelandomi che Pertini era andato a pranzare al ristorante “Al Grissino” e che fino a qualche ora prima aveva passeggiato lungo la Galleria Vittorio Emanuele, dove alzando lo sguardo e vedendo alcuni vetri rotti sulla cupola aveva detto che se avessimo avuto bisogno di un vetraio, lui avrebbe potuto parlare con suo amico.

Altra foto di Carlo Tognoli
Lo disse con il suo sorriso amabile, Tognoli, domandandomi: “Ho risolto il tuo problema? Non dire che queste cose te le ho dette io. Ah, sta’ attento, non cercare di intervistare il Presidente mentre manga: non gradisce”. Tornai in auto e via verso il ristorante “Al Grissino”, dove all’esterno trovai un gruppo di ragazzi che avendolo visto entrare erano decisi a non andare via prima dell’uscita del Presidente, perché gli volevano far festa e sapere da lui il nome della sua squadra del cuore. Ovviamente aspettai anch’io, con la mia “troupe”. Dopo un paio d’ore, eccolo, con la sua pipa sulle labbra e la sua scorta, accolti dal grido: “Presidente, noi teniamo per la Juventus; e lei?”. E lui: “Anch’io, Viva la Juventus”. Ma un signore che era di fianco a me, che scoprii essere il cognato, mi disse che non era vero, che lui non aveva una squadra del cuore. Poi mi avvicinai, mi presentai, mi strinse la mano, gli rivolsi alcune domande, mi rispose con molta cortesia dandomi del tu e ci salutammo. Non c’erano altri colleghi accanto a me e tirai un sospiro di sollievo. Tornato al giornale, guardai Catania e gli urlai: “Ce l’ho; ce l’ho l’intervista a Pertini!”. Lui mi venne incontro e mi abbracciò. Il giorno dopo avevo fatto terno secco: nessuno aveva in pagina Pertini. Solo noi, grazie a Caro Tognoli, di cui apprendo la notizia della morte con profonda commozione. Mi dispiace di non avergli mai telefonato in tutti questi anni. Eppure lui il numero del cellulare me l’aveva dato.






mercoledì 3 marzo 2021

La magnificenza delle ville lombarde

Interno di Villa Gallarati Scotti

 

RESIDENZE DA FAVOLA

CON ARREDI SONTUOSI

 

Simboleggiavano il potere

economico e sociale dei                

proprietari. I progetti di

architetti famosi.

 

Franco Presicci

dott. Carlo Perogalli

La Bicocca, quartiere alla periferia di Milano, prese il nome dalla Bicocca degli Arcimboldi, dimora di delizia innalzata nel Quattrocento per Nicolò Arcimboldi, che apparteneva alla corte sforzesca. Era già nota tanti secoli fa, anche per l’omonima battaglia del 1522: gli spagnoli contro i francesi, che, sconfitti, furono costretti a lasciare il Ducato di Milano. La zona è stata autonoma fino al 1841, quando venne unita a Niguarda. Famosa anche per le fabbriche, dalla Pirelli alla Breda, all’Ansaldo, alla Wagon Lits. Era insomma il centro dell’area industriale che si estendeva tra Greco e Sesto San Giovanni. La Bicocca degli Arcimboldi - come informa Carlo Perogalli - è uno dei primi esempi di villa del Rinascimento lombardo: Il volto attuale è il frutto dei restauri ai quali è stata sottoposta nel tempo, ultimo quello del 1919 di Ambrogio Annoni. Milano con i suoi d’intorni è disseminata di gemme storiche. Da contemplare Villa Borromeo Arese a Cesano Maderno, in Brianza; Villa Litta; Villa Gaia a Robecco sul Naviglio, del XVI secolo, e tantissime altre che meritano di essere visitate. Molti lo fanno, dov’è possibile, preferendo quelle circondate dall’acqua o da un largo tappeto di verde o adagiate su un poggio. Ville imponenti, spettacolari. Chiunque avesse potere, politico ed economico, sceglieva un architetto di fama e si faceva costruire una dimora suggestiva nel silenzio e nella tranquillità della campagna, qua e là poi fagocitata dal centro urbano. Il complesso doveva essere scenografico, grandioso, simbolo del prestigio, della ricchezza, del ruolo del committente nella società. Ed eccole, alcune di quelle che non mostrano il carico degli anni, con giochi d’acqua, statue, porticati, giardini all’italiana costellati di statue, scale di raccordo con un’ampia vista su un paesaggio incantevole. 

Villa Romeo,clinica Columbus a Milano

In Lombardia il periodo di più alta efflorescenza di ville fu la prima metà del Settecento. Alcune di queste fornite di elementi difensivi, come ponti levatoi, fossati e torri, che imparentavano la villa con il castello. Si dovette attendere il Neoclassicismo, perché quella parentela fosse soppiantata, come a Villa Borromeo, a Cassano d’Adda, innalzata su progetto di Francesco Croce e rimaneggiata dopo il 1781 da Giuseppe Piermarini. Una felice sintesi di questa meravigliosa vicenda creativa fu un libro uscito oltre vent’anni fa per i tipi della Celip, con il testo di un profondo conoscitore della materia, il professor Carlo Perogalli, già citato, e le foto, bellissime, panoramiche, di un virtuoso dell’obiettivo: Piero Orlandi, che ama riprendere le preziosità del territorio lombardo anche sorvolandole con l’elicottero.

Uno scrigno da aprire per intraprendere un viaggio ideale attraverso queste bellezze senza muoversi da casa, non fermandosi allo stupore che suscitano le facciate, i giardini terrazzati, con sculture, archi, giochi d’acqua e di luce, alberi tesi verso il cielo, che permettono passeggiate al riparo dal sole, magari affacciati sul lago a Como o sul Naviglio Grande. Splendide Villa Arconati nei pressi di Bollate, fra le più eminenti residenze fuori porta, elevata su preesistenze medievali da Galeazzo Arconati nella seconda metà del secolo XVII e “ritoccata” da Giovanni Ruggieri verso il 1730; Villa Arrigoni, a Robecco sul Naviglio, detta “La Peralta”, costruita nel 1692 accanto a un’azienda agricola; Villa Visconti di Modrone, detta “Il Belvedere”, a Macherio; Villa Giulia, poco distante da Bellagio, neoclassica, basata su una struttura del ‘700; Villa Manzoni, dimora estiva dell’autore de “I Promessi Sposi”, già appartenuta a Carlo Imbonati.

Il fotografo Piero Orlandi
E ancora la quattrocentesca Villa Mirabello, ora adibita a casa di lavoro per i ciechi, con una fontana che con il suo bisbigliare allieta l’impegno quotidiano dei non vedenti; Villa Clerici, a Niguarda; Villa Gaia, ora Gandini, a Robecco sul Naviglio; Villa Borromeo, a Senago, ingrandita nel secolo XIX; Villa Gallarati Scotti, a Vimercate; Villa Melzi d’Eril, a Vaprio d’Adda, costruita nel 1483 da Giovanni Melzi d’Eril sulle macerie di un castello. Da Milano alla Mantova dei Gonzaga; a Brescia; a Como... Altre pregevolezze. Villa Monastero, a Varenna, sulla sponda del Lago di Como, dove si specchia anche la settecentesca Villa Clerici (la Carlotta), una delle più ammirate della Lombardia. Villa Belgioioso a Merate, edificata nel Seicento; Villa “la Rotonda”, ad Inverigo, che l’architetto Luigi Cagnola fece erigere per proprio uso e consumo (è famosa anche per le sue azalee e il “marmo” del Canova raffigurante Amore Psiche)… Tante ville maestose, solenni, monumentali, con ampi parchi, notevoli anche per gli arredi interni, le aiuole geometriche, i portici sorretti da telamoni, spazi architettonici occupati da figure mitologiche, saloni d’onore…

Il Naviglio Grande
Luoghi da sogno, da favola, principeschi. Tali erano le feste, le serate danzanti che vi si svolgevano. Bisognava pur mostrarle agli amici, ai conoscenti, alle persone con cui si avevano rapporti d’affari, queste dimore di delizia, di villeggiatura nello splendore di un ambiente rurale. E quale migliore occasione di un ballo, inviti a pranzo o a cena, incontri culturali, visite, giornate di studio (alcuni proprietari si rifugiavano in quelle stanze per meditare o per bisogno di serenità, di pace). Nella villa suburbana Simonetta, sorta al principio del 1800, dotata tra l’altro di un apprezzabile teatrino con pareti affrescate, nel 1821 si svolse un clamoroso episodio che suscitò sdegno in tutta la città.

Villa Visconti Borromeo,Litta,Weil Weiss,a Lainate

Ad organizzarlo fu la Compagnia della Teppa, una consorteria di rampolli dell’alta società che ne combinava di tutti i colori: faceva saltare il cappello a un passante anziano, molestava, insultava, spintonava, scherniva; e dalla goliardia, si fa per dire, passò al codice penale. In uno dei suoi libri, “Cento anni” (che racconta la storia e i personaggi milanesi dal 1750 al 1850), lo scrittore Giuseppe Rovani, con qualche tocco di fantasia, riferisce un episodio del 1821. Quel giorno, con il loro copricapo particolare, gli associati reclutarono balordi, storpi e nani per una festa nella villa presa in affitto con belle ragazze di buona famiglia fatte passare per fiori disponibili. Quando le damigelle stavano per accomodarsi attorno a una tavola abbondantemente imbandita irruppe la marmaglia, calata in abiti da signori presi in affitto alla Scala, e si scagliò sulle donne sicura di conquistarle. 

Altra immagine del Naviglio Grande

 

Si scatenò un parapiglia: le vittime cercarono una via di fuga e, non trovandola, si difesero con tutte le proprie forze. La teppa dovette ricorrere ai ripari. Intervennero le autorità austriache, e siccome molti membri della Compagnia avevano marchi nobiliari, se la cavarono con punizioni non proprio all’altezza del misfatto. Avevano iniziato l’attività nel 1817, riunendosi nei pressi del Castello Sforzesco indossando copricapo di forma particolare. Dopo la sarabanda alla Simonetta fu sciolta e finirono le molestie, le violenze, le legnate fra i teppisti e tranquilli cittadini che non ne potevano più (avevano anche rapito una donna quasi sotto gli occhi del marito). La Villa Simonetta era stata edificata da Domenico Giunti per Gualtiero Bascapè nel ‘500. Non dimentichiamo Villa Meriggio a Villanterio; Villa Bellisomi a Montebello della Battaglia; Villa Olmo, a Como; Villa Lechi, a Montirone, in provincia di Brescia, una delle maggiori testimonianze lombarde – sottolinea Perogalli - di costruzione nobile suburbana, settecentesca, dovuta ad Antonio Turbino.

Il Lago di Como
Non si contano dunque le ville che impreziosiscono il territorio di questa fetta d’Italia. Ce ne sono anche a Cernobbio, a Cernusco Lombardone, a Inverigo, a Casatenovo (Villa Lattuada Vismara). Meravigliosa Villa d’Este, a Cernobbio, sorta su progetto di Pellegrino Tibaldi con un grandioso giardino architettonico e da sempre mèta di aristocratici, industriali di alto rango non soltanto italiani… La notte del 15 settembre del 1948 fu teatro di un delitto che scosse non soltanto il Lario: la contessa Pia Bellentani, mentre nel salone del Grand’Hotel era in corso il ballo, estrasse dalla stola d’ermellino che aveva indosso una pistola e la puntò contro l’industriale Carlo Sacchi, uccidendolo. Le penne più nobili d’Italia, tra cui Dino Buzzati, si mobilitarono per commentare il delitto e il successivo processo, che impegnò i più celebri principi del foro. La contessa morì nel 1955. Non sempre la villa doveva significare l’autorevolezza e il sovrabbondante conto in banca del titolare: a volte a muovere il desiderio era il bisogno di vivere nella natura, nella pienezza del suo fascino, lontani dai riti quotidiani della città, raccolti nella meditazione. La stessa esigenza di Francesco Petrarca, che per ben nove anni visse, secondo la tradizione, nella solitudine della milanese Cascina Linterno, a Baggio, in via Fratelli Zoia, dove si prendeva cura dell’orto e rivedeva le sue opere. Una cascina frequentata da centinaia di persone e curata con passione e tenacia dai fratelli Bianchi, tra l’altro impegnati a spiegarne la storia, le attività anche agricole che si svolgevano, e si svolgono, i fontanili, in questo luogo sacro per chi ama le ricchezze di Milano.



SU MINERVA NEWS(Cliccare su block notes con la penna).
 
LA DIVINA COMMEDIA: INFERNO (canti 2°, 3°, 4°, 5°)-PAOLO E FRANCESCA di Silvia LADDOMADA