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mercoledì 31 luglio 2019

Le parole nelle ricevitorie del lotto


 
CHE FATICA CAPIRE CHI DICE

TRAPANO INVECE DI RAPIDO


Una donna anziana viaggiò in un “vacone” (scompartimento) con una ragazzina che “ascunneve” (nascondeva) un cagnolino nella “borzetta” (la borsa).


Una signora sognava ogni notte di fare l’amore con un partner diverso: l’idraulico o l’elettricista.



Franco Presicci

Una signora anziana, sdogata, chiusa in un vestito nero, sciarpa bianca attorno al collo, capelli gonfi mascherati dalla tintura, si presentò al botteghino del lotto per giocare un terno: era andata a Milano col “trapano” e durante il percorso aveva notato una ragazza che, seduta nel “vacone” accanto a lei teneva “ascunnute”, cioè nascosto, un cagnolino nella “borzetta”. “Ma il trapano non è un mezzo di trasporto”, osservò spiritosamente il ricevitore. “No, e da quànne? Lei lo aveva “pegghiate” (preso), una settimana prima pagando salato il viaggio e lui se ne usciva con quella novità? “Carta canda”, esclamò, tirando fuori dal portafoglio il biglietto.
Il treno
Equivoco risolto: il trapano era il rapido, il vacone lo scompartimento, la borzetta la borsa. L’addetto al botteghino, sconfitto, eseguì, sciorinando un sorriso. Nelle ricevitorie le parole vengono a volte violentate, storpiate, stravolte, massacrate da persone che con la nostra lingua hanno poca dimestichezza, pur essendo nate e cresciute in questo Paese bello come il sole. Gli esempi conservati nella mia memoria non sono pochi. Li ho raccolti tanti anni fa, quando, ormai in pensione, sul quotidiano “Il Giorno”, in una pagina che usciva la domenica scrivevo di lotto dal punto di vista demologico: i comportamenti dei giocatori, la superstizione, le situazioni che ispirano le puntate, gli assistiti (quelli che, dicendosi in possesso di una dote speciale proveniente da chissà quale spirito, danno i numeri magari in cambio di uno o due euro, assicurando che usciranno e poi giustificano la delusione con una scusa già pronta). Un pomeriggio un tale, alto, sottile, pelo bianco un po’ scarmigliato, passo marziale, camicia bianca e pantaloni color caki, sui settanta, tenendo la testa quasi infilata nello sportello, con atteggiamento circospetto, tono da saputo e voce bassa per non farsi sentire dalle due persone che poco distanti stavano guardando il tabellone che proponeva combinazioni presumibilmente fortunate, chiese che gli venisse smorfiata un’esperienza onirica: “Il nostro duce andette dentro al Belgio e ai suoi trocutori (interlocutori n.d.a.) belgesi facette un comizio che il posto era beddefatte (bello: n.d.a.). 
Palazzo del vecchio Giorno
Quelli là tutti ‘condendi’ gli dicettero che, se lui gli mandava un po’ di taliani, li facevano fatiare. Sua maestà li uardò mbacce e facette: ‘Ma acquà non ci stanno fenestre e io no manno nesciune’”. “Perché in Belgio costruiscono i palazzi senza finestre?”, gli fu chiesto maliziosamente. E quello: “Allora nu canosci che dentro a le miniere le fenestre non ce stanno”. “Tu però non hai detto che Mussolini si trovava nei pressi di una miniera”. L’impiegato smorfiò la narrazione e giocò un terno sulla ruota di Bari, secondo la richiesta ricevuta. E aggiunse che lui, il cliente, era un po’ in ritardo, visto che di tempo ne era trascorso dalla caduta del regime. “Sì, però je ‘stu fatte me lo so sunnate stanotte e ho subbete avenute quà”. Anche se, proseguì, lo aveva studiato a scuola, dove aveva avuto una maestra che “c’imparava uno de tutto”. Per curiosità, e con cortesia, lo sportellista gli domandò il luogo di nascita e il mestiere che svolgeva. Rispose che era da quarant’anni a Milano e confezionava orecchiette in un ristorante. Per gli altri due non veniva dalla luna e quando uscì lo delinearono con poche, ma efficaci pennellate: nelle sue rimpatriate estive, nonostante la frana del suo linguaggio, manifestava molta supponenza, come se con il trasloco in Lombardia avesse conquistato una promozione sociale.
Ospedale
Io in una stanzetta accanto ero in attesa che la ricevitoria si svuotasse per avere informazioni su quel mondo ritratto da Luciano De Crescenzo, Eduardo De Filippo, Matilde Serao, la giornalista-scrittrice, moglie di Edoardo Scarfoglio (del matrimonio, celebrato nel 1885, fece la cronaca Gabriele d’Annunzio con uno pseudonimo su “La Tribuna”), che nel suo “Ventre di Napoli” aveva tra l’altro affermato: “Tutti i napoletani che non sanno leggere, vecchi, bimbi, donne, specialmente le donne, conoscono la ‘smorfia’, ossia la ‘chiave dei sogni’, a memoria…”.
Il maiale
In un’altra ricevitoria trovai un ottantenne vesuviano, noto in tutto il quartiere per la sua capacità di snocciolare i numeri senza alcuna esitazione: Il morto? Fa 47; se parla, 48. Il maiale fa 4. E proprio in quei giorni, da mesi, il 4 infiammava i botteghini, per il suo resistente ritardo sulla ruota di Genova. E moltissimi patiti si stavano dissanguando: si vociferava di un barbone così accanito da aver già dissipato un paio di milioni di lire, al pari di una contessa da tempo sedotta dal gioco e di altri, che inveivano contro l’incolpevole suino, che nella smorfia non gode di grande simpatia. Sull’argomento il vegliardo, da me sollecitato, mi tenne una lezione; e saltando di palo in frasca sostenne di essersi imbattuto addirittura nel diavolo. Lo aveva intravisto nei panni di un gentiluomo in smoking a una festa di aristocratici disastrati nel fisico. “Si fece verso di me e mi dette appuntamento per la notte successiva in una zona isolata”. La mattina dopo, pur sapendo di aver vissuto un’esperienza onirica, a quell’appuntamento si presentò davvero “ed eccomi di fronte a Mefistofele in persona, nella realtà. ‘Fino a ieri hai sempre vinto -proclamò il demomnio - ma hai commesso l’imprudenza di giocare assieme ad un individuo negativo, che ti ha contaminato. Se continuerai a puntare, anche da solo, sprecherai il denaro’”. “Non si offenda – replicai - ma questa è fantasia o uno scherzo?”. “Fa male a pensarla così. Lei può anche non credermi, ma è tutto vero. Tanto che io al lotto vengo ormai solo per fare due chiacchiere con il titolare. E non suggerisco più i numeri agli appassionati, perché, visto che sono diventato negativo anch’io, non farei loro un favore. Quindi il mio patrimonio, cioè la padronanza della Smorfia, è ora soltanto un fatto culturale”. 
Diavulicchie
Detto questo, trasse dal taschino un peperoncino rosso e lo baciò. “Lo sa che per Spinoza la superstizione è la negazione della ragione e della libertà di pensiero, che ci sono stati concessi da Dio?”. Spinoza? E chi è? Era un filosofo. Brontolò: “Brutta razza!” e se ne andò, sventolando la mano destra. Ritorno al lessico claudicante pescato in un altro banco lotto, scomparso da anni. Ero lì a fare domande a tre o quattro signori in fila, quando entrò un ometto con il naso adunco, i capelli ricci, lo sguardo fulminante, alto un metro e 60. “Mi ha vvenute in sogno la mia giumenta”, confidò al ‘postiere (per donna Matilde chi sta al di là del vetro), ca se n’ha sciute e mi ha scantato: con una faccia da masciare (fattucchiera) mi ha detto: ‘Ti stai addicriando con quella zurlera, ma hai achiuso: sta pe vvenè a ‘pegghiarte’ a ‘senza nase’”. Qualcuno spiegò che il cliente aveva sognato la moglie defunta che l’aveva spaventato, avvertendolo che aveva finito di divertirsi con l’amante attaccabrighe, perché la morte l’aspettava dietro l’angolo. “Questo mestiere è interessante e anche divertente – mi commentò il ricevitore - e queste persone sono di una simpatia unica. Fortunatamente però la grande quantità dei frequentatori del gioco sono insegnanti, impiegati, operai, pensionati acculturati e non dicono ‘tramote’ per tumore, ‘furnace’ per bocca, ‘chiavute per indicare un parente che ha avuto un’eredità”.
Granchi
Una cliente ogni notte faceva l’amore in sogno con un ‘partner’ diverso: l’idraulico o il giovane che le portava la spesa a casa o il macellaio…, “ma facevo fatica a interpretarla. Un’altra mi elencò alcune parole per me ermetiche: ‘u caure ca m’ha muzzecate”, ‘spetale’, ‘putèje’, ‘putepumme’ (mi sono rimaste in mente). Un mio amico, nato dalle sue parti, aggiunse: ‘e ‘u putechine no?’, traducendo i primi quattro termini come granchio che mi ha morsicato, ospedale, bottega, rumore di un corpo che cade; e quello usato da lui come botteghino del lotto. La smorfia mi suggerì i numeri; il cliente ne giocò tre e la vuol sapere tutta? Vinse due milioni di lire”. Ho imparato tante cose facendo il giro delle ricevitorie delle varie zone della città e anche di alcuni paesi al nord e al sud. Oltre al vecchietto partenopeo che a suo dire si era intrattenuto con belzebù ho visto parecchi giocatori spargere sale contro la jettatura in ogni angolo del locale, mandando in bestia chi il mattino dopo doveva rimuoverlo… 
Rose siamesi
Succede anche – parola di ricevitore - di avere a che fare con chi ha sentito l’ululato del lupo mannaro, appostato nell’androne di uno stabile, fatto considerato portatore di fortuna (nel “Satiricon” un soldato si trasformò in licantropo, e nessuno potette correre al botteghino, perché a quell’epoca non ce n’erano). Al lotto convergono tutti gli episodi quotidiani soprattutto se straordinari. Un mio amico, per esempio, ha giocato due rose “siamesi” fiorite nel mio giardino. Il botteghino registra anche le maledizioni. Quando tuonano meglio giocarle al lotto che preoccuparsi. Come per il malocchio, altro spauracchio che, come ho accennato, si aggira in questi pressi. Catullo consigliò a Lesbia di non rivelare il numero dei baci che lui le mandava, per evitare che i maldisposti accendessero i loro sguardi biechi, ai quali viene attribuito un potere malefico anche dai tedeschi: “Lo sguardo uccide i serpenti, spaventa i lupi…”, secondo una credenza popolare molto antica. Un novantenne ricordava sedute spiritiche, di cui gli avevano parlato i genitori. “I morti devono essere lasciati in pace”, esclamava. Una sua parente aveva partecipato all’invocazione di un’anima addirittura in casa di un sacerdote: il tavolino, a tre gambe, si alzò e atterrando se ne spezzò una. Per me era un segnale. Mi sono sempre rifiutato di giocare i numeri al lotto”. Ma queste sono altre storie. Le rimandiamo a una prossima volta. Se il direttore gradisce.



mercoledì 24 luglio 2019

“Il risveglio del portiere”


Longhi con colleghi della Gazzetta dello Sport


UN LIBRO APPASSIONANTE
DI GUGLIELMO LONGHI


La trama si sviluppa tra

personaggi veri e inventati da

Lamberto Boranga a Gianni

Rivera, a Giovanni Lodetti. Un libro

per chi ama il calcio e la vita.


Longhi con la moglie e il campione Giovanni Lodetti





Franco Presicci
 
Non mi appassionava lo sport. Invogliato dal direttore del settimanale barese “Settegiorni”, Papandrea, assistetti a un paio d’incontri di boxe (uno nella palestra della scuola XXV Luglio), avendo a fianco Rino Di Battista, virtuoso della penna ed esperto della materia (scriveva sul quotidiano “Il Corriere del Giorno” prima di passare alla “Gazzetta del Mezzogiorno”), che mi spiegava i montanti, i ganci, le sventole, le posizioni di guardia, le castagne… tentando di mettermi in condizioni di mettere giù un “pezzo”. Ma fu tempo sprecato. Vidi un terzo incontro tra due campioni in un circo che aveva innalzato il tendone della città vecchia; un quarto al Teatro Comunale di San Severo, ring sul palcoscenico; l’ultimo, protagonista Mazzinghi, la sera dell’inaugurazione di Antennatrè Lombardia, ma nessuno di questi mi coinvolse. Avevo 13 anni quando aspettavo gli ultimi 5 minuti di una partita dell’Arsenal Taranto, sperando che la squadra segnasse e aprissero le porte accogliendo tutti gratuitamente, ma tenendoci ai margini; e feci in tempo a vedere uno slancio acrobatico del portiere che mandò in visibilio gli spettatori.
Copertina libro su Rodi
Quelle mie presenze erano saltuarie. Le domeniche a Taranto erano noiose, se non avevi voglia di andare a mare, allo stabilimento Santa Lucia in viale Virgilio, allestito per gli arsenalotti o a Lido Taranto, per la gente” chic”. Andavo verso il muraglione, dove c’era l’ingresso del campo, ma senza emozione: vittorie e sconfitte mi lasciavano indifferente. Poi m’incalzò: Gianni Nuzzo, persona sbrigativa e determinata, che sedeva sulla plancia di un altro periodico, “Bari Sport” (da tempo mi ospitava la pagina letteraria). Mi telefonò per chiedermi se ero disponibile ad andare allo stadio di Torino per la partita Juventus-Bari (sarà stato nel ’62) e gli dissi che mi sarei fatto accompagnare da mio cognato, Dino Bucci, cataldiano doc e grande appassionato e profondo conoscitore di calcio. Fu lui a scrivere l’articolo come fosse un giornalista provetto. In tarda età ho cominciato ad essere attirato dalle partite, dalle geometrie che i pedatori disegnano sul campo, dai giochi di equilibrismo dei solisti. Oggi li seguo e mi diverto, pur non tifando per alcuna compagine. Non ho mai più messo piede in uno stadio, ma dalla poltrona del mio soggiorno vedo volentieri le beffe all’avversario, i colpi alla palla con il tacco, le testate, le sparate in porta, i voli, i tutti del portiere, la prontezza nell’intercettare la sfera, a inseguirla saettando, a svirgolare. Godo nell’osservare i calciatori che s’inventano il gioco, realizzano strategie, agganciano la sfera, la spingono verso la rete facendo spettacolo, forando la difesa. Così io vivo le competizioni, i momenti esaltanti di un duello. Senza esprimere giudizi su un calcio di rigore, una staffilata, una decisione dell’arbitro. Non mi compete, non ne sono capace. Ma fremo quando un lancio saetta verso la porta e il pubblico ammutolisce per l’incertezza che la violi o finisce contro la traversa e urla, si agita, si scalmana quando è gol o si affloscia quando il tiro va a vuoto. 
Palazzo del Giorno
Non so se per questo interesse tardivo o per curiosità mi sono precipitato a telefonare a Guglielmo Longhi, di cui proprio in questi giorni è uscito il libro “Il risveglio del portiere”. Non lo sentivo da tanti anni, a parte qualche suo intervento brioso su facebook. Guglielmo ha lavorato per oltre cinque anni al “Giorno”, e lo ricordo spiritoso, autentico, gioviale, rispettoso, faccia da bravo ragazzo, sempre sorridente, simpatico ai colleghi e al capocronista, Enzo Catania, abile nel galvanizzare la redazione. Guglielmo si muoveva in punta di piedi, mai polemiche, mai chiacchiere, attento nel lavoro, scrupoloso, bello stile. Poi traslocò alla “Gazzetta dello Sport” - confratello del “Corriere della Sera” - di cui fu direttore il grande Gino Palumbo. Ho saputo del libro sorvolando Facebook, dove a richiamare la mia attenzione è stata una foto con Guglielmo, la moglie e Giovanni Lodetti, a suo tempo centrocampista del Milan, campione europeo, 17 presenze in nazionale, ritratti nella serata di presentazione del volume. Che ha come protagonista un portiere andato in coma per un incidente di gioco. L’argomento mi stuzzicava e mi sono procurato il libro, che ho preso subito a leggere. Sin dalle prime pagine mi ha catturato: scritto con grazia, coinvolge, commuove. E quando arrivi all’ultima pagina, ti prende la voglia di ripercorrerlo. Il protagonista è un medico sportivo che ha il ruolo di portiere in una squadra dilettantistica milanese; ed è anche un accanito tifoso del Milan in particolare di Gianni Rivera, di cui porta con orgoglio li nome di battesimo. 
Guglielmo Longhi
Nel 1989, giocando, si fa molto male, entra in coma e si ridesta dopo 16 anni, scoprendo che il calcio, il mondo, sono cambiati. Non è una scoperta rassicurante: la metamorfosi non è esaltante. Lui deve risollevarsi, e lo fa a fatica, con il supporto del figlio Mattia e di un personaggio reale, celebre, acclamato, che fa parte della storia dello sport: Lamberto Boranga, portiere, che dopo aver militato in serie A nella Fiorentina, nel Cesena, nel Perugia, in cui era cresciuto, diventando campione, ritornò tra i pali all’età di 75 anni. Ottenne risultati anche nello studio, laureandosi in medicina all’Università di Bologna. Gianni torna a lavorare, mette su famiglia, a 40 anni suonati rientra in campo con l’energia e la gioia di un pivello. Una vicenda entusiasmante che Guglielmo costruisce con saggezza e cuore, mescolando in armonia voglia di rifarsi dei giorni perduti, tifo, abilità, ricordi del rettangolo di gioco di un giocatore che difende la sua postazione con coraggio, con interventi geniali. Un libro bellissimo, interessante, che con pennellate efficaci rende le emozioni che il calcio offre a chi lo ama. Un libro per chi esalta la vita, che va affrontata, quando si può, con determinazione e la capacità di rialzarsi quando si cade, di vedere la luce in fondo al buio, l’amore nella solitudine. Il portiere è una metafora. Tra i due pali è solo; e quando la palla arriva con la potenza di una cannonata, lui deve cercare di afferrarla, di sottrarla ad altre spinte; e quando ci riesce è salutato come un mito.
Guglielmo Longhi col figlio Stefano
Un libro che trascina anche chi non bazzica gli spalti. Chi leggendo si immedesima nel protagonista, nella sua volontà di ritornare in campo e anche alla vita, con sostegni solidi da parte del figlio, che lo incoraggia, lo esorta, gli tira le orecchie quando si abbatte, quando sembra cedere alla rassegnazione, lo aiuta a interpretare le novità alle quali si trova di fronte, le incognite che gli si presentano, le nuove mode e i modi nuovi, gli atteggiamenti a cui non è abituato. “E’ accaduto di tutto durante il suo lungo sonno – dice con la sua solita pacatezza Guglielmo – è caduto il Muro di Berlino, c’è l’euro, sono scomparsi i vecchi partiti, sono sorte nuove compagini, Palazzo Chigi e il Milan sono presieduti da Silvio Berlusconi…”. Nel libro sfilano nomi illustri del calcio, Nereo Rocco, per esempio, che arruolato nel Milan conquistò lo scudetto nel primo campionato; passò al Torino e poi rientrò nel Milan, vincendo un altro scudetto…. Gianni Rivera, altro campione di quegli anni, bersaglio di Brera, Gianni come lui, e inventore di un linguaggio giornalistico che è stato argomento di tesi di laurea. 
Longhi con la storica Esther Menascè
“Il risveglio del portiere”, edizioni Effedì, pagine 271, è anche “una storia di sofferenze, di tragedie, di dolore, ma resta un omaggio all’ottimismo”, aggiunge Guglielmo Longhi. “Gianni capisce di aver superato l’emergenza quando torna a lavorare e grazie a Boranga a giocare nell’Iris, che è stata anche la squadra di Mattia. E poi quando torna a San Siro a vedere il suo Milan, il segno della normalità”. Nel 2014 prende una decisione: chiudere la parentesi del calcio. Quell’anno la squadra del suo cuore compie i cent’anni, lui sfida il figlio nel torneo celebrativo”. Pagine da consigliare a chi ama le buone letture e applaudire le pedate sull’erba di veri e propri assi della sfera che suscitano trepidazioni, esaltazione, gioia nei “fans” e delusione quando una sforbiciata fallisce. Guglielmo Longhi ha scritto anche “Rodi, i giorni dell’attesa ’41-43”, prefazione di Mario Cervi, editrice Mursia; libro che è stato presentato dalla storica Esther Menascè, mentre “Il risveglio del portiere” da Giovanni Lodetti. “Il risveglio del portiere” me lo sono portato in vacanza, dove non vado al mare, non faccio passeggiate fra i tratturi di Martina Franca, non frequento il mercato affollato di varia umanità né le feste rionali, non impigrisco su una sedia a sdraio: leggo un buon libro all’ombra dell’ulivo saraceno, che ha la base come i piedi di un elefante. Posto migliore per rileggermi “Il risveglio del portiere”, tessuto da un autentico scrittore.


lunedì 15 luglio 2019

Sabato è arrivata la Milano-Taranto


 
UNA CORSA DI OLTRE 1900 CHILOMETRI

TRA ACCOGLIENZE FESTOSE E RINFRESCHI



Le ultime tappe Bari, Castellana Grotte,
Martina Franca, Ostuni, Villa Castelli e
infine la bimare, dove il canale navigabile
unisce in matrimonio due mari, il Grande
e il Piccolo. Una manifestazione che suscita
Sempre grandi emozioni e nostalgie.


 Foto: www.milano-taranto.it


Franco Presicci
Una volta, quando ero giovincello (appena diciotto anni), amavo anch’io frequentare quella splendida “promenade”, che è il lungomare di Taranto. Vi si respirava l’aria del mare e quando il sole diventava una fornace, trovavo riparo all’ombra di una palma. Si faceva la ronda tra il palazzo del governo e il grattacielo che sembra voler dominare il paesaggio. Come in tutti i luoghi dello “struscio”, a Taranto via D’Aquino, che lo era e forse lo è ancora per eccellenza; a Martina Franca lo stradone e il ringo, in fondo al quale si aprono le sedi delle società operaia e artigiani, anche il lungomare favoriva gli amori e gli incontri con amici che magari non si vedevano da tanto tempo.

Il ponte girevole
La sera, sulla rotonda, quando sul mare si specchiava la luna e pareva che migliaia di stelle danzassero sulla superficie, qualche coppia affacciata alla ringhiera si scambiava un bacio casto, o quasi. Dandosi un appuntamento, ci si chiedeva: “A via D’Aquino o a lungomare?”, caro anche a Raffaele Carrieri, il poeta e critico d’arte che era ancora un ragazzino quando emigrò a Milano. A lungomare andava in scena un grande manifestazione: decine di motori rombanti, quelle delle moto che partecipavano alla Milano-Taranto. Il giorno del loro arrivo non si sapeva l’orario, e c’era chi si presentava tre ore prima per paura di perdersi lo spettacolo. Poi a poco a poco gli spettatori s’infoltivano, si facevano siepe, e la siepe fluttuava. Molti si sporgevano dal marciapiede e guardavano verso l’oratorio dei salesiani per vedere apparire la prima sagoma a due ruote, elegante, veloce quasi come il vento; e, se appariva, era quella di un buontempone che voleva far credere che l’evento stesse per compiersi, o semplicemente era uno che andava per i fatti suoi.

Altro arrivo
La delusione era evidente. E continuava l’attesa, durante la quale alcuni tracciavano la storia della Milano-Taranto, qualche altro contestava una data; qualche altro ancora domandava al solito saputo che cosa si dovesse fare per parteciparvi, visto che lui con la moto ci sapeva fare. “Ecco, ecco, il primo, lo vedo, è all’altezza della clinica Bernardini, applaudite, applaudite forte!…”. L’urlatore aveva preso un abbaglio. Un tale, copia perfetta dello Smilzo di Guareschi, scese dal marciapiedi, si mise al centro della strada, e con la destra aperta sulla fronte, come un marinaio sulla tolda del veliero per avvistare la terra, con sussiego annunciò che l’orizzonte era sgombro. “Abbiate pazienza – esclamò una donna fresca di parrucchiere, dimensioni di Tina Pica in ‘Pane, amore e fantasia’. Sarà il tubo di scappamento ad annunciare la prima freccia”. Lo ricordo, l’effetto che la Milano-Taranto faceva fra i tarantini. Lo storico, un po’ per placare l’ansia, un po’ per l’abitudine di saltare in cattedra, ricordava che la prima edizione della corsa avvenne a mezzanotte del ’37 e che il percorso era di oltre mille chilometri.
Trullo sul chiangaro
“Ne deve avere di passione e di abilità e coraggio chi affronta un’avventura come questa!”, diceva un’altra signora non bella, non signorile come la prima, ma gentile e sorridente, trepidante a sua volta”. ”Avventura indimenticabile”, gli fece eco chi le stava a fianco. “Vorrei esserci anch’io, immaginandomi l’autodromo di Monza. La sola idea mi esalta”. C’era ammirazione, fervore, gioia per la Milano-Taranto. Moltissimi, come mi disse in seguito Pasquale Scardillo - eminente giornalista sportivo del quotidiano della bimare, “Il Corriere del Giorno” - che aveva fatto una specie di ricerca pur occupandosi prevalentemente di calcio, l’aspettavano già un mese prima, questo giorno, come lo sposo prossimo alle nozze.

Milano-Taranto
E aggiunse che il propulsore della corsa era stato proprio un nostro concittadino. Poi un sussulto. Un signore alto con la scritta a mano “Milano-Taranto” sul cocuzzolo del cappello di paglia, esultò: “Le vedo, le vedo, arrivano, arriva la ‘Milano-Taranto’, evviva!”. Pochi minuti e la prima motocicletta, lodevole esemplare d’arte meccanica, sfrecciò davanti a noi, poi la seconda, la terza, la quarta…, accolte dai battimano del pubblico irrefrenabile, che il servizio d’ordine faceva fatica a tenere ai margini della strada e accalappiava l’irresponsabile che tentava di spingersi più avanti con l’intenzione, non dico di toccare il pilota, ma di salutarlo più da vicino. Il sole cuoceva, ma la folla non diradava; semmai si spostava verso il traguardo, formicolando davanti al Palazzo del Governo. “Sono affaticati, poverini. Hanno attraversato gran parte dell’Italia. Sono locomotive viventi”. L’iperbole galoppava, come spesso accade nello sport. Nel calcio il tiro che sfonda la rete è una cannonata. I “fans” godono, vanno in visibilio, come per Valentino Rossi, che nelle curve quasi tocca terra con il ginocchio. Trascorsero gli anni, io mi trasferii a Milano, fui reclutato prima dal quotidiano “L’Italia”, organo della Cei, in piazza Duca d’Aosta, quindi dal “Giorno”, il giornale dell’Eni, in via Angelo Fava. Un mio caro amico ormai scomparso, Mimmo Vacca, carabiniere in pensione che viveva nei pressi di Bologna, veterano della Milano-Taranto, più di una ventina di anni fa mi telefonò per dirmi che se gradivo mi faceva prendere parte alla gara portandomi sul sellino posteriore della sua moto bella come un gioiello. La proposta mi dette un fremito di gioia, gli risposi incerto: “Vedremo”, a causa del lavoro che incombeva. C’era tempo per pensarci. Mi sarebbe piaciuto, eccome, far parte di quella flotta. La moto è libertà, brio, spacca l’aria, ti fa sentire un campione. 

Un momento della Milano-Taranto
Più rompe i timpani, più sei la saetta che attraversa il cielo durante il temporale. Mario Sironi, Luigi Sassu, Fortunato Depero… hanno dipinto ciascuno a suo modo i ciclisti e mi sarebbe piaciuto vedere su una tela un centauro. Da ragazzo pilotai una piccola motocicletta prestatami da un amico, caddi e chiusi per sempre l’argomento. Mi attiravano la Vespa e la Lambretta, ma mi limitavo ad ammirare la loro linea estetica, geniale. Le vedevo passare montate da giovani innamorati: lui al manubrio, lei dietro con le braccia attaccate al torace del suo tesoro. L’occasione per ripescare nella memoria quelle lontane giornate esaltanti me l’ha fornita nel pomeriggio di sabato 13 luglio Francesco Lenoci, che insegna all’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Milano, e va in giro per il Paese a tenere conferenze sull’operosità dei nostri artigiani, che in alcuni casi sono veri e propri artisti. “Devi andare su facebook, oggi è arrivata la Milano-Taranto nella tua città. Non hai visto la televisione?”. Ci sono andato, su facebook, ho visto le foto, ho chiesto informazioni all’ufficio stampa, che in poche ore, come promesso da Filippo, che di quell’ufficio fa parte, mi ha mandato un comunicato esauriente.
Arrivo della Milano-Taranto
“Dopo sei giorni e circa 1.900 chilometri anche la Milano-Taranto 2019 è arrivata al traguardo. La partenza dell’ultima tappa di oggi è stata ‘comoda’: alle 9 da Bari, un po’ di riposo in più ci voleva dopo le levatacce dei giorni scorsi. Il percorso è stato scandito dalle soste classiche dell’ultima giornata e da un velo di malinconia per la consapevolezza che un’altra bellissima esperienza stava volgendo al termine, Allo stesso tempo c’era però anche l’entusiasmo di arrivare allo storico traguardo di Taranto, già attraversato ben 32 volte dalle moto d’epoca della Milano-Taranto”. La prima sosta, Castellana Grotte, un tempo semplicemente Castellana, che non faceva però onore a quelle meraviglie fiabesche sedimentate nel suo sottosuolo. In questa città, vincitrice del “Miglior ristoro delle ultime due edizioni”, l’accoglienza è stata magnifica, con un “buffet” eccellente fatto di gusti e profumi locali. 

Piazza Roma a Martina Franca
Da qui a Martina Franca il passo è breve e i piloti hanno divorato l’itinerario in pochi minuti e all’arrivo sono stati accolti da Angelo Conserva, che “a nome del ‘Veteran’ Club Valle d’itria ha premiato gli iscritti in gara quest’anno e l’organizzazione”. Momenti commoventi quando il padre di Angelo, Giuseppe, ha ricordato la vecchia amicizia con il patron della gara Franco Sabatini. Da Martina e dalla Valle d’Itria, che tanti anni fa venne definita benedetta da Alessandro Caroli, autore raffinato di diversi libri, a Ostuni, che ha il vanto di sedere su tre colline. Nella città bianca, tra ulivi saraceni i cui tronchi sembrano sculture, colonne barocche o uomini genuflessi, la “troupe” è stata ricevuta dal presidente del Vespa Club locale, Giovanni Totero, e dal sindaco Guglielmo Cavallo, mentre ragazze in costumi tipici si esibivano in uno spettacolo con i tamburelli. Intanto nei piatti del “buffet” fumavano le polpette e le mozzarelle diffondevano il profumo del latte, tra friselle con olio, pomodoro e sale. Poi, Villa Castelli, con il suo bel Palazzo Ducale. Infine in viale Virgilio, a Taranto, la città dai tramonti tizianeschi, dove il canale navigabile unisce in matrimonio due mari, il Piccolo e il Grande, e il ponte di ferro si apre per lasciar passare le navi con l’albero di trinchetto alto quanto una torre. Taranto è il traguardo storico di questa lunga cavalcata, che ogni volta suscita grandi emozioni e profonda nostalgia.





mercoledì 10 luglio 2019

I mercati di Milano ieri e oggi

Un mercato dipinto da Guido Bertuzzi

LA NINETTA DEL VERZIERE DI

PORTA E’ NATA TRA BANCHI E

BANCARELLE



Il giorno in cui fu trasferito da piazza
Fontana in largo Augusto (1780) per
l’arcivescovo Visconti fu un grande
sollievo, avendo riconquistato così
la tranquillità e il silenzio.





Franco Presicci 
Quasi ogni quartiere a Milano, come altrove, ha il suo mercato. Stabile o ambulante. In quella via il martedì, in quell’altra il mercoledì, in quell’altra ancora il giovedì...
Pomodori appesi
Il senso del risparmio e il desiderio di trovare prodotti più genuini (le fave novelle pugliesi, i lampascioni, le cipolle di Tropea…) spingono a frequentarli. La gente si ferma davanti alle bancarelle, osserva, medita sui prezzi e sulla qualità e se si convince si mette in fila. E magari, in attesa del suo turno, si trova fianco a fianco con un amico, un vicino di casa, un conoscente con cui scambia opinioni sui problemi del condominio, sulla figlia che si sposa, sul marito che la fa disperare o semplicemente sull’andamento sul tempo. Al mercato è sempre festa, soprattutto per i colori, per la forma dei carciofi, dei pomodori a cuore di bue, per le angurie che sono imprevedibili (“E’ buona? Guarda che ho ospiti a pranzo”, e il fruttivendolo garantisce, giura senza pudore: “Vedrai che penserai a me quando avrai mangiato una fetta dolce e rossa come una rosa). E intanto una donna che traina un carrello già mezzo pieno anche se non se l’hai mai vista ti suggerisce il banco che offre vere cime di rapa della Puglia meno care e più fresche. Al mercato capita anche di litigare: “Signora, lei stava dopo di me e ora la ritrovo davanti. Si rimetta al suo posto e non faccia la furba”.

Fragole
L’autrice del sorpasso difende la sua posizione, i toni si alzano, la polemica si fa aspra, rischia di andare per le lunghe e di degenerare. Basterebbe qualche parola per riportare la calma (“Mi scusi, non me n’ero accorta”), fra l’altro evitando il coro dei commenti. Intanto il veditore per spegnere il fuoco pubblicizza la bontà della sua merce. Questi sono i mercati all’aperto, che innalzano i tendoni, per dirne uno, il sabato in piazzale Lagosta (che ha anche un mercato permanente, al chiuso), dove è preferibile andare a piedi o in tram, perché il giorno in cui lo slargo si trasforma in foro boario (vi si vendono anche coniglietti, uccelli, criceti) il traffico impazzisce, intasando anche le vie vicine (Pola, Alserio, Borsieri…). Storico quello di Sinigaglia, punto di smercio di ogni tipo di mercanzia, comprese biciclette usate, alcune – si vocifera da sempre - procurate in modo sospetto. L’ultima volta l’ho visitato una trentina di anni fa alla darsena, cercando un orologio ”parlante” e un trenino di latta a corda che passa sotto due gallerie, una di fronte all’altra. Trovai il primo ma non il secondo. Intercettai però una farfalla, ricordo della mia infanzia, che grazie a una leva muove le ali. In quell’occasione rividi l’uomo del pianino che suonava canzoni in voga, mentre il pappagallo beccava, a richiesta, da una cassetta piena di fogli colorati, la pianeta, l’oroscopo.

Largo Augusto
Il mercato un tempo più rinomato e ai giorni nostri reperibile soltanto nei libri sulla città era il Verziere (in meneghino “Verzée), attivo in largo Augusto (in omaggio all’imperatore romano Giulio Cesare Ottaviano Augusto, pronipote dell’uomo politico e scrittore romano che valicò in armi il Rubicone), dove era stato trasferito da piazza Fontana nel 1780 per volontà del conte Carlo Firmian, ministro plenipotenziario di Maria Teresa d’Austria. Il giorno del trasloco – commentava Otto Cima (nato a Milano nel 1859, da Camillo, pittore, caricaturista, storico, poeta, giornalista, fondatore del giornale umoristico “L’Uomo di Pietra”), fu sicuramente di grande sollievo per l’arcivescovo Visconti, che potette finalmente godersi un po’ di tranquillità e silenzio, perché “era chiassosa ed esuberante quella brava gente nel trattar gli affari e così ribelle alle autorità costituite. Specialmente le donne pronte di lingua e di mano, erano sempre state l’incubo dei fanti del podestà e dei vicari di provvisione…, come in seguito lo furono dei poveri sorveglianti quando comparvero nel 1860.
                                                                               
Pesce al mercato
Carciofi e pomodori
Famosa tra le sommosse femminili quella del 27 giugno 1302, quando essendosi sparsa la voce che il Gran Consiglio intendeva imporre nuove gravezze, le venditrici del Verziere si levarono in tumulto e spalleggiate dalle compagne pollivendoli di Santa Tecla si recarono in piazza Mercanti, dove cominciarono a saccheggiare il magazzino del sale…”. Al tempo degli spagnoli le cose non andarono meglio: ogni santo giorno c’era chi protestava, anche perché le norme sancite dai governanti erano spesso intollerabili. Per esempio, il pesce non poteva essere mandato a casa del cliente, fosse nobile o monaco o danaroso. Chi sgarrava veniva perseguito.

Mercato di piazza Santo Stefano - dipinto  di Giuseppe Canella
Il Verziere era enorme e debordava in corso di Porta Vittoria e in piazza Santo Stefano, che è a poca distanza da via Laghetto, dove confluivano le acque della Fossa interna che formicolava di tencitt”, facchini che trasportavano nei depositi la legna e il carbone che arrivavano con i barconi e - ricorda Raffaele Bagnoli, profondo conoscitore della città e anche autore delle Strenne della Famiglia Meneghina - solennizzavano la loro festa a Ferragosto incorniciando di nastri policromi le facciate delle loro case. Il Verziere, mercato all’ingrosso che solo con il passare del tempo inaugurò lo spaccio al minuto (frutta e verdura, ma anche fiori, carne, pesce e selvaggina), fu definito da Carlo Porta ”scoeula de lengua”, cioè scuola di lingua, per i tanti dialetti che, anche allora, vi si parlavano da parte dei “verzeratt” (chi aveva un posteggio) e degli avventori. Il poeta descrisse questo teatro, variopinto e ricco di voci, sempre affollato, nella sua opera “La Ninetta del Verzée, storia di una pescivendola del luogo che si trasformò in meretrice per colpa di un amore infame”. Per colpa del traffico, che veniva ostacolato dalle bancarelle, il mercato subì diversi trasferimenti: uno con un proclama del conte de Fuentes in quel largo che oggi porta il nome di Marinai d’Italia e ha la Palazzina Liberty, che, realizzata nel 1908 dall’architetto Alberto Migliorini, negli anni Settanta ospitò le rappresentazioni di Dario Fo.

Largo Augusto in un olio di Aldo Cortina
Nelle pagine di Otto Cima si legge anche che nel 1580, su proposta della Confraternita della Santa Croce di Porta Tosa si era deciso di collocare in largo Augusto la colonna sormontata dalla statua di Cristo Redentore (opera iniziata nel 1850 dagli architetti Giuseppe e Giambattista Vismara su disegno di Francesco Maria Richini), perché, come accade spesso nei luoghi più praticati, il Verziere aveva cominciato ad avere una cattiva fama, per certi elementi di malaffare che vi si aggiravano, ma più credibilmente per la cessazione della peste del 1577. Non c’era soltanto il mercato del Verziere, con la sua spettacolarità popolare. Gli faceva concorrenza quello di Porta Ticinese, in prossimità dei Navigli che tra l’altro offrivano le loro acque all’ansia di bagnarsi dei milanesi e anche alla pesca sportiva. Lo scrittore Guido Lopez, autore di tanti libri sulle architetture, i monumenti, la vita nei secoli, le piazze, le vie più importanti, i protagonisti del capoluogo lombardo…, nel suo volume “Milano in mano”, edito da Mursia, parla anche dell’argomento che stiamo affrontando: “Ci furono mercati al Cordusio, al Carrobbio, in piazza della Vetra e in Foro Bonaparte. Lungo via San Maurilio, allo sbocco sull’attuale via Torino, sorgeva l’Ospizio della Balla, che era sì un’osteria con alloggio, ma diventò mercato per cuoi e pellami e più tardi per derrate varie: olii, latticini e sego. E c’è chi ha sentito parlare della Sciostra della Luna, luogo di smercio per generi alimentari “quaresimali (pesci salati e sott’olio, fichi secchi…). Nel capoluogo lombardo c’è una via, nelle vicinanze di Porta Comasina, chiamata Mercato, in quando a suo tempo sede appunto di un commercio stabile, in cui le massaie si rifornivano di pesce, verdure e altra roba da mangiare. A sceglier quel nome fu il sindaco Belinzaghi nel 1872, ritenendo che per lo scopo non fosse il caso di… scomodare persone illustri o fatti storici memorabili.







mercoledì 3 luglio 2019

I giorni roventi di Milano


Mario Nardone


UN INCUBO LE RAPINE FATTE O TENTATE
I SEQUESTRI DI PERSONA E GLI OMICIDI

Un assalto in banca finito con la resa dei
banditi; l’impresa di due fratelli alla scuola
elementare di Terrazzano, che tenne per
ore e ore la città con il fiato sospeso, primo
fra tutti Mario Nardone, allora capo della
squadra mobile.





Franco Presicci
Di giornate d’ansia Milano ne ha vissute tante: i 96 alunni presi in ostaggio il 10 ottobre del ’56 da due uomini esaltati nella scuola elementare di Terrazzano; la rapina di via Osoppo, finita in un libro che raccoglie le imprese più clamorose della malandra internazionale; il colpo all’oreficeria Colombo ((9 giugno del ’64; bottino 350 milioni); la sparatoria di largo Tel Aviv (13 settembre del ’67); l’assalto della banda Cavallero all’agenzia del Bano di Napoli di largo Zandonai, che seminò morti e feriti sulle strade; l’evasione in massa da San Vittore del 29 aprile dell’80, e via dicendo.
Francesco Colucci
Un altro giorno da cani fu l’8 settembre del ’75, quando due banditi si asserragliarono in una banca, prendendo in ostaggio dieci clienti e sette impiegati. Furono oltre 9 ore d’incubo. Erano entrati alle 9 del mattino, avevano razziato 10 milioni e se ne stavano facendo consegnare altri 14, quando furono notati da una pattuglia di vigili urbani di passaggio. Immediatamente strillò in telefono della centrale operativa della questura e due volanti ululando si precipitarono sul posto. I rapinatori ormai in trappola minacciarono di fare un macello, se non fosse stato consentito loro uno spiraglio.
Achille Serra

La situazione si faceva complicata e sul posto arrivarono Achille Serra, allora dirigente della sezione rapine (diventerà questore di Milano, capo dello Sco e prefetto di Roma), il capo della Mobile Antonio Pagnozzi, un ottimo poliziotto che concluderà la carriera anche lui da prefetto. Una delle due pellacce, dopo 10 anni di carcere, era uscita un mese prima dal carcere. E naturalmente faceva di tutto per non ritornarci. Che fare? Gli investigatori avviarono un dialogo, sperando di poter evitare che la situazione degenerasse, mettendo in pericolo la vita delle persone, tra cui 5 donne, un bambino di 4 anni e i suoi nonni, oltre a quella degli stessi banditi e dei “detectives”, che nel frattempo si erano infoltiti. Come succede in questi casi si era assiepata una folla, difficile da tenere a debita distanza. Tra l’altro, dalla calca si levavano urli di parenti angosciati e di cittadini propensi al linciaggio. Furono richiesti i rinforzi e giunsero altre volanti, “gazzelle” dei carabinieri, elementi del reparto la Celere. Achille Serra entrò nel bar attiguo e fece il numero della banca. Rispose uno dei rapinatori: “Non vogliano sentire ragioni: dovete metterci in condizioni di andar via; altrimenti farò cantare le armi”. Il poliziotto non si arrese, cercò di capire la psicologia dell’interlocutore; e, se possibile, anche l’identità del complice. 

Giannattasio e Oscuri
Il prefetto Antonio Pagnozzi
Seguirono decine di telefonate e momenti drammatici. La folla si agitava; gli urli di dolore e di vendetta non si placavano. I banditi chiedevano 200 milioni e un’auto per potersi allontanare portandosi dietro soltanto il direttore dell’istituto di credito. Serra insistette nell’opera di convincimento: era disposto a proseguire le trattative a condizione che lasciassero subito le donne, il bambino e i due nonni. A un certo punto uno dei due rivelò di conoscere Serra, i marescialli Oscuri e Imbriani, e il funzionario fece in modo di fargli dire le occasioni in cui li aveva incontrati e gli episodi di cui era stato protagonista. Così gli fu chiaro chi c’era dall’altra parte del filo. Si consultò con Pagnozzi, che decise di mandare a chiamare la moglie. Si pensava che la voce della donna avrebbe potuto sbloccare lo stallo. Invece no. Il sostituto procuratore della Repubblica Pomarici si alternò con Serra, mettendocela tutta per piegare il bandito, che continuava con le minacce, che diventavano però sempre più deboli, tradendo la stanchezza dei “duristi”.
Mario Jovine
Il sostituto ne approfittò per far credere che, se si fossero arresi al processo avrebbe chiesto pene meno pesanti. Serra incalzò: “Non avete alcuna possibilità di scampo, soprattutto adesso, che siete stati individuati”. Alle 17 il primo cedimento.: “Serra, di te ci fidiamo. Forse abbiamo perso. Se entri disarmato, noi ci arrendiamo”. Consulto con il vicequestore Monarca (nell’85 questore a Roma), Serra entrò, preoccupandosi che i suoi parenti non sapessero dalla radio, che trasmetteva in diretta le fasi dell’operazione, del rischio che stava affrontando. Seguirono altri momenti di tensione: i “duristi” pretesero di perquisirlo, lui rifiutò e sorse il dubbio: se volevano veramente consegnarsi, che cosa importava che il poliziotto avesse o no un’arma? Qual era il trucco? Le trattative non naufragarono. Serra, seguito dal magistrato, assicurò di essere disarmato, i due si fidarono, deposero i passamontagna, le pistole, una 7.65 Luger e una 7.65 Beretta, e l’incubo si sciolse. La folla tirò un sospiro di sollievo, i parenti piansero di gioia. Erano le 18. I banditi vollero essere accompagnati prima nello studio del loro avvocato, incappucciati e tenuti lontano dalla fiumana, che inveiva. Uno uscì tra due ufficiali dei carabinieri; l’altro “chiuso” tra Serra e Pagnozzi. I poliziotti furono accerchiati dai giornalisti, che li mitragliarono di domande senza tener conto del fatto che erano stravolti dalla brutta esperienza. Serra riuscì a dire che quella era stata una giornata per lui indimenticabile, come il precedente assedio in via Lassalle 10 di un bandito di più alto spessore, “cervello” di una banda che farà molto parlare di sé.
Enzo Caracciolo e Vito Plantone
“Quando bussammo alla porta dell’appartamento al quarto piano dello stabile in cui si erano rifugiati in tre, due uomini e una donna che in fatto di coraggio non aveva niente da invidiare agli uomini, uno gridò: “Non avvicinatevi, se no facciamo una strage”. Anche allora ci fu una trattativa, meno lunga. Alla fine, il presunto capo promise di arrendersi e chiese di brindare con Serra con coppe di “champagne” “Cristall”. Dopo la fuga dell’80 da San Vittore raggiunsi quel bandito, che si era rintanato in una casa di fronte in cui si trovavano una nonna e il nipotino: volevo fargli delle domande, ma mi trovai alle spalle Antonio Pagnozzi e Achille Serra, che non fecero fatica a tirarlo fuori e a infilarlo in una “pantera” della volante. Dopo qualche anno, presi parte a una decina di puntate di “Fuori Orario”, una trasmissione che andava in onda su Raitrè; e una sera la regista mi chiese se avessi la possibilità di intervistare un rapinatore. Mi procurai l’indirizzo di uno dei due della tentata rapina di cui parlavo prima; ma non c’era. La portinaia mi disse che forse avrei potuto trovarlo in un certo bar, che lui bazzicava abitualmente.
Mario Jovine nella sua casa di Bologna


Ci andai, mi suggerirono di scendere al piano sottostante; e lo feci. Mentre scendevo, una decina di persone sedute attorno a un grande tavolo mi guardarono interrogativamente; qualcuno in modo ostile. Spiegai il motivo della mia comparsa, ma nessuno mi rispose. Lasciai il mio biglietto da visita e dopo un paio di giorni la persona che avevo cercato mi telefonò al giornale. Le riferii l’invito in televisione e mi rispose che non voleva esporre il suo volto sul piccolo schermo. Passò del tempo e m’imbattei nel bandito nel corridoio della questura che portava alla Mobile. MI presentai e gli feci qualche domanda. Mi rispose in modo gentile senza fermarsi, perché era atteso proprio da Achille Serra, che era stato promosso dirigente. “Lei mi chiede com’è cambiata la mala? E’ cambiata molto; e a farla cambiare è stata la droga. Per esempio, una volta la mia categoria usava le armi in via eccezionale, quando era proprio necessario, ed aveva un grande rispetto per chi operava sul fronte opposto: voglio dire i rappresentanti delle forze dell’ordine. Oggi, pur di farla franca, ma anche per molto meno, si tirano fuori le pistole, se non i mitra. Io appartengo alla vecchia guardia e non voglio fare più passi sbagliati. E come me ce ne sono altri. Le nuove leve sono molto organizzate, dispongono di mezzi moderni e di auto veloci”. Arrivò a destinazione, bussò, mi salutò sventolando la mano destra e scomparve al di là della porta. Oggi ripenso ai sequestri di persona, alle stragi, come quella del Lorenteggio, con quattro morti ammazzati.