Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 25 settembre 2019

Un ricordo di Guido Lopez


ESPLORO’ MILANO CON AMORE

RACCONTANDOLA NEI SUOI LIBRI


                                  Scrittore scrupoloso e infaticabile

Era stato anche capo ufficio stampa
della Mondadori e presidente della
Università Popolare locale. Uomo
coltissimo, generoso, affabile, ha
scritto numerosi volumi, tra cui
“Milano in mano”, apprezzato da
Dino Buzzati e da tanti altri.


Franco Presicci
 
Era il 3 dicembre del 2010 quando si sparse la notizia che lo storico di Milano e della Lombardia, Guido Lopez, se n’era appena andato. A darla agli amici fu Roberta Cordani, curatrice di tutti i gioielli della casa editrice Celip di Nicola Partipilo: un terrone (“absit injuria verbis”) innamorato di Milano così tanto, da volerne far raccogliere le bellezze in una serie di volumi molto eleganti e corposi. Di alcuni Lopez era la firma autorevole e scrupolosa.

Nicola Partipilo
Roberta mi aveva dato appuntamento in un negozio vicino a corso Buenos Ayres e alla stessa libreria di Partipilo, con l’intento di presentarmi la titolare e la figlia, bravissime nell’eseguire lavoretti ambiti dalle signore. Mentre conversavo sentivo che lei parlava al telefono con il figlio di Lopez e subito dopo mi riferì che lo scrittore era appena deceduto. Nel 2008 lo avevo incontrato alla Società del Giardino; era su una sedia a rotelle e non avevo avuto il coraggio di chiedergli il motivo. Anche perché Guido era generoso, affabile, ma dal carattere ruvido. Un amico lo aveva salutato poco prima, riportando l’impressione di non essere stato riconosciuto. Fu Nicola a spiegarmi che tre anni prima Guido era stato investito da una moto e che da allora non si era più ripreso: oltre alla frattura del femore, aveva subito un “deficit” della memoria e aveva difficoltà a scrivere. 

Sandro Neri, direttore del Giorno.
Telefonai a Sandro Neri, al tempo non ancora direttore de “Il Giorno”, che mi chiese di scrivere una pagina, avendo conosciuto il personaggio, stimato e amato, molto da vicino. Quando usciva un libro della Celip, Lopez, che era stato capo ufficio stampa della Mondadori, si meravigliava che io scrivessi per alcuni giornali che me li chiedevano lunghi articoli uno diverso dall’altro, potendo mandare a tutti un comunicato con tutte le caratteristiche del volume. Mi piaceva così, e farlo non mi costava fatica. Navigavo tra quelle pagine quasi con gioia: erano tra l’altro illuminate da immagini spettacolari di grandi fotografi, come Mario De Biasi (che per il settimanale “Epoca” aveva girato il mondo), Fulvio Roiter, veneziano con un pezzo di cuore per Milano, quadri di pittori illustri del passato… A presentare i libri in luoghi prestigiosi erano lo stesso Lopez, Ferruccio De Bortoli, allora direttore de “Il Corriere della Sera”, la Cordani (alla Basilica di Sant’Ambrogio o a Palazzo Tè, a Mantova; alla Biblioteca di Cernusco sul Naviglio o alla Società del Giardino, dove l’accesso era consentito soltanto a chi indossava giacca e cravatta. Una volta fu scento Spazio Prospettive, la galleria di un altro apulo-milanese, Mimmo Dabbrescia, fotografo eccezionale e intenditore d’arte.
Gianni Brera con la pipa
Ricordo che in questa sede, spaziosa ed elegante, al tavolo dei relatori si sedettero anche Don Lurio, il famoso coreografo e ballerino di Rai Uno, che vi esponeva le sue opere pittoriche, e l’ex campione del Milan Giovanni Lodetti. Doveva esserci anche Bearzot, invitato dal pittore Guido Bertuzzi, ma un malessere lo aveva costretto a rinunciarvi. Con la scomparsa di Guido, il capoluogo lombardo aveva perso un figlio di grandissima cultura, conoscitore profondo di ogni angolo della città. Il suo voluminoso “Milano in mano” (steso con Silvestro Severgnini e più volte riedito da Mursia), per Dino Buzzati era “ritratto storico, amabile e saporita conversazione, romanzo, potente invito a fare una quantità di bellissime cose… attraversare per esempio il capoluogo lombardo, ammirando monumenti, teatri, palazzi patrizi, piazze, musei, chiese, monasteri, archi, la stazione Centrale, i navigli, la Torre Velasca, i circoli, le fabbriche, ricordando i salotti letterari, i personaggi, i moti, le dominazioni straniere… 

Don Lurio
Una guida, un libro indispensabile per chi ama Milano e voglia scoprirla sempre di più. Per scriverlo, Guido fece anche lunghissime camminate dal Duomo alla Darsena, dagli scali ferroviari al Ticinese, per rintracciare le sopravvivenze storiche, i resti della Pusterla dei Fabbri, che tante polemiche suscitò in consiglio comunale all’epoca della decisione di demolirla. Nato nel ’24 da genitori toscani, figlio di Sabatino, che fu docente universitario, scrittore e illustre autore teatrale, amato da grandissimi attori, tra cui Ermete Novelli, Ermete Zacconi, Emma Gramatica; da proprietari di sale, critici teatrali (che poi lo ebbero nelle loro file), dalla borghesia lombarda... Morì a Milano nel ’51. Guido aveva ereditato dunque la vocazione da lui e come lui divenne popolarissimo.

Cortile sul Naviglio Grande
Le pagine che ha scritto sono migliaia.
Meticoloso, appassionato, instancabile nell’investigare la città, raccontandola nei minimi particolari ne “I cortili di Milano”, “In Liberty Milano e la Lombardia”, “Navigliando”… , “Storia e storie di Milano”…”. ”Milano in mno” è anche utilizzato dagli studenti per le ricerche, tante sono le notizie precise e dettagliate che contiene. La sua prima opera fu una autobiografia romanzesca, che parlava della fuga in Svizzera e della sua vita nel campo profughi: uscita nella Medusa mondadoriana, venne premiata come opera prima al Premio Bagutta. Seguì “La prova del nove”, ancora con Mondadori. Raccontò i suoi anni lontani ne “I verdi, i viola e gli arancioni”, pubblicato nel ’79 sempre dalla casa editrice di Segrate (nel libro sfilano Hemingway, Faulkner, Thomas Mann, Elio Vittorini, Marco Moretti, Georges Simenon, Italo Cavino….). Fu amico di Primo Levi e lavorò sui suoi libri, compresi quelli meno noti.La sera in cui Guido morì telefonai al figlio Fabio, persona gentilissima, cordiale, sincera: “Ci dava amore, ma avevamo anche discussioni animate, perché aveva un bel caratterino”. Guido non aveva peli sulla lingua. Quello che aveva da dire lo spiattellava e a volte anche in modo brusco. La sera della presentazione del volume della Celip “Milano venticinque secoli di storia” allo Spazio Prospettive d’arte di via Carlo Torre di Dabbrescia, rispose a muso duro a Don Lurio, che aveva detto una battuta banale. Al termine della serata Don Lurio gli scrisse una dedica sulla pagina bianca del suo catalogo, gliela consegnò con un largo sorriso che sciolse l’episodio. Guido era un uomo libero, non accettava condizionamenti. Laico, con attenzione alla cultura ebraica. 

Enzo Biagi e Partipilo a sin.
Lontano dai partiti politici (una sola volta cedette al Partito Socialista, “perché glielo avevano chiesto, non ricordo se Aniasi o Tognoli”, ricordò il figlio Fabio che grazie al papà aveva conosciuto Milano in lungo e in largo. “Mi portava con sé nelle sue peregrinazioni. Indagava, fiutava, scopriva e raccontava. Ogni occasione era buona per visitare luoghi, per incontrare persone disposte a svelarsi. S’imbarcò sulla “Viscontea”, il natante che portava i turisti in gita sul Naviglio Grande, dalla darsena a Gaggiano e oltre, per osservare ancora una volta le cascine (la Guardia di Sopra, la Guardia di Sotto…), anima e fulcro del lavoro contadino, le ville, i castelli, i prati ben pettinati che si offrono agli amanti della bicicletta. In “Milano in mano” se ne trovano alcune: La Gobba, la Cassina de’ Pomm, la Pozzobonella.  Roberta Cordani, che come la mamma, purtroppo da molto defunta (la ricordo sorridente, gioviale, elegante nel linguaggio, nel comportamento), è una donna deliziosa, ne parla spesso con entusiasmo e affetto, e anche con commozione. Nicola Partipilo, un barese di poche parole, schivo, avaro di elogi, che tanti anni fa, prima di diventare libraio e poi editore, aveva percorso Milano in bici per la consegna dei libri a domicilio (appena arrivato dalla Puglia, fra i tanti lavori fece anche il commesso di libreria), quando parla di Guido Lopez diventa loquace. “Nel mio esercizio, che accolse Gianni Brera, Enzo Biagi, Carlo Castellaneta, Giuseppe Pontiggia, Empio Malara, l’architetto che ha scritto tanto su Milano e ha una lunga militanza nella difesa dei navigli, era di casa. Come lo era Alberto Lorenzi, che per la Celip scrisse “I segreti del varietà”, con introduzione di Wanda Osiris. Piero Lotito, valente cronista del “Giorno”, dove si occupava prevalentemente di cultura, aveva intervistato più volte Guido Lopez su Milano e aveva per lui una stima illimitata, come del resto tantissimi giornalisti, a cominciare da quelli di “Repubblica”, quotidiano su cui pubblicò articoli memorabili. Fu anche, dal ’71 al 2002, presidente dell’Università Popolare di Milano.








mercoledì 18 settembre 2019

Il mitico fisarmonicista di Crispiano


Vito Santoro


UN’INTERVISTA SCOPPIETTANTE


CON IL BRIOSO VITO SANTORO




Ricorda i posteggiatori napoletani.

Suona il suo strumento con vera
maestria. 

Voleva studiare musica
classica, ma il papà gli chiedeva
sempre canzoni vesuviane.

Vuole resuscitare le tradizioni della sua
Crispiano, che ama ardentemente.






Franco Presicci

Incontenibile, effervescente, brioso Vito Santoro. Si presta all’intervista, ma vuole gestirla lui. Faticoso cercare di condurlo sui binari. Parla delle serenate; del carnevale e della quarantena, sua moglie; del presepe vivente defunti; dei mestieri che non ci sono più, ma salta di palo in frasca. Ha mille cose da dire, tutte per me interessanti, ma non osserva un ordine. Va indietro, anticipa, sottolinea, precisa, chiosa, si ferma sui dettagli. Trotta, galoppa, come un cavallo di razza. “Ti ricordi i ‘fiskere’; ‘u vuttere”, “’u calarere’; “’u conzapiatte…?’” (li ha annotati su un foglio di carta) “Beh non ci sono più. Crispiano è cambiata”. E’ disposto a qualunque impegno pur di rinverdire la tradizione. Venticinque anni fa, durante la celebrazione di Santa Maria Goretti, ha rispolverato le serenate, formando un duo: “Menele e Zucchere”, cioè lui e Franco Mirabelli, che è nato in Belgio. Un bel momento, le serenate. “Se un innamorato vuole conquistare il cuore di una fanciulla che lo respinge, magari soltanto per tenerlo sulla corda, o vuol rendere un omaggio a chi è già cotta di lui, noi lo seguiamo fin sotto la casa dell’amata e via con le canzoni ‘ad hoc’”. Nel loro repertorio hanno anche “Romantica” e altri brani capaci di far fiorire l’amore, se la pianta ha radici.


Omaggio floreale alla futura sposa
In masseria
















“Se l’abitazione è in alto, lui la raggiunge con una scala e porge a lei un mazzo di fiori”, mentre i musicisti diffondono le note. E’ sentimentale, Vito? Meglio non chiederlo, perché lui sta sempre dall’altra parte: è controcorrente. Se ti aspetti che risponda di sì, è no. Se uno sta a sinistra lui è a destra. E’ sempre ai margini del corteo. Così dice, e gli credo. Simpatico, schietto, lontano dalla retorica e dalle moine. All’improvviso spara la sua battuta di spirito, mai volgare, mai offensiva, e scatena la risata. Così fa quando si esibisce con la sua fisarmonica, animando le serate da ballo in piazza, le feste private. Fa anche sognare.

La serenata
L’ho ascoltato nelle masserie di Crispiano, l’anno scorso alla Francesca, in coppia con un sassofonista, in uno spettacolo memorabile. Lo immagino tra i posteggiatori napoletani di una volta. Quando recita una barzelletta lo fa con maestria. La barzelletta è un’arte. Quando il pubblico lo applaude, accende i suoi occhi vivaci. “Dovete venire tutti da me”, diceva con espressione seria, ma celiando, quando lavorava al cimitero. Egli altri si toccavano la zona meridionale. Stare con Vito Santoro è un piacere e un divertimento. Possiede un serbatoio di aneddoti. “Durante il servizio militare a Verona, in caserma, con il beneplacito del cappellano, organizzai il primo festival delle voci nuove. Mentre presentavo, andò via la luce; e io dissi: “ ‘luce’, ‘luce’, ‘luce’”. Alla fine un ufficiale si congratulò con me, dicendo: ‘Bravo, ho capito che cosa volevi dire”. Aveva scambiato luce per duce. Lo addolora vedere Crispiano privata delle manifestazioni che attraevano i turisti e chiamavano a raccolta la popolazione. Ripete: “Il presepe vivente è un ricordo. E un ricordo il carnevale. Mi stende sul tavolo un manifestino intitolato “Wanted”. Sottotitolo “Vino o morto – d virn o d staggion u carniel…”. A tutti i costi vuole leggerlo lui, con il tono giusto. Sintetizzo: Ha venòte e s na sciòte e nesciune s n’avvertòte/ se lamèntn i crestiène: ‘addò ha sciòte a quarantène????...se ballèv i sciurèje, e ce feste u martedèje…”. Poi prende una poesia. Vuole leggere anche quella. E’ dedicata a Crispiano: “Con le strade e i tuoi caffè/ ed il parco che non c’è/ non c’è manco un monumento ma lo stesso son contento/ A me basta quel che c’è ma poi dimmi: cosa c'è? Non c’è niente di speciale, non m’importa proprio niente/ a me piace questa gente… “. Firma, Giorgio e Vito.

Vito Santoro col sassofonista Armando De Sales
Annese, De Lucretiis, Santoro
















E’ nostalgico. Mi rivolge lo sguardo, stralunato. “Il carnevale era fatto di balli in famiglia; si ammazzava il maiale, il mercoledì si faceva il carnevale morto, si appendeva la ‘quarantena’, la moglie di carnevale, e nelle masserie al ventesimo giorno si rompeva ‘’a pignate’, opera della biblioteca e poi della Pro Loco, si formavano i carri, i massari aspettavano i suonatori, a cui davano le uova, la salsiccia, il caciocavallo. A Pasqua dopo la messa i massari arrivavano con il carretto… “. Parla sempre lui; non conosce pause. S’intuisce che le parole gli escono dal cuore e dalla rabbia. Cerco di porgli domande, ma lui le soffoca. Gli voglio bene anche per questo. E’ un ruscello, una cascata. Grande Vito. Deraglia ma per il bisogno di narrare la sua Crispiano svuotata delle manifestazioni che piacevano a tutti, come la sagra del fegatino, nota non solo in paese. E continua: “Mi batto per ridar vita al carnevale: se non lo fanno loro, lo faccio io”. Torna al passato: “Parecchi suonatori dell’epoca non ci sono più, sono rimasto solo. Mi ricordo Ciccillo ‘u pappatène”, che mangiava patate; Tonino Pentassuglia, detto ‘ il barbone’; Tonino Spada, un batterista che faceva le serate con me e mio fratello Lillino ‘’u russe’ per il colore dei capelli; Alfonzo Palazzo, che suonava la batteria, tutti della stessa orchestra.

Il duo “Menele e Zucchere”
Facevamo i matrimoni nelle case e nelle masserie”. Tu suoni soltanto la fisarmonica? “No, anche il pianoforte da quando avevo 12 anni. Nel ’68 (avevo 18 anni) la fisarmonica non si usava più, considerata come strumento da masseria, e allora mi sono dato alla tastiera, cominciando a formare gruppi musicali… Ah, il carnevale era molto bello, nel paese…Tu lo hai visto, giravi con la macchina fotografica attaccata all’occhio…”. Si l’ho visto: era grandioso, interminabile. Egidio Ippolito, allora al timone della Pro Loco, dal palco urlava che i carri e le maschere di Crispiano non avevano alcunchè da invidiare ad altri: non faceva i nomi ma s’intuiva che si riferiva a quelli di Massafra e di Putignano… e di Viareggio. Aggiungeva che per vedere le fantasmagorie crispianesi molti scendevano dal Nord. E non sbagliava. Ricordo la giovane signora che presentava e un personaggio in attesa di essere chiamato sul palco, mentre sfilava un carro folto di abiti ispirati all’antica Troia. E’ vero, era bello il carnevale di Crispiano. Si svolgeva, se non sbaglio, a luglio, tra lunghissime e folte ali di gente e cascate di applausi. Ha coinvolto anche me, Vito Santoro, che si blocca per riprendere la poesia, composta nell’80: “Con le tue tradizioni / e con tutti i tuoi rioni/ hai tanta ospitalità per chi viene e per chi va/ e chi torna da lontano tu abbracci, mia Crispiano/ e lo tieni stretto stretto/ come un figlio prediletto…”. Da chi hai ereditato la virtù della fisarmonica? “Ti faccio un po’ di storia. Mio nonno, Vito Castellano, che con i fratelli era il proprietario del palazzo del municipio, suonava la chitarra; il fratello Angelo il violino e la fisarmonica e aveva anche una scuola di musica, dove io ho imparato l’arte. Volevo studiare musica classica, ma mio padre mi chiedeva sempre canzoni napoletane e mi ha dirottato il gusto”. Nonostante le sue digressioni, ascoltarlo è veramente un piacere. Seduto di fianco a me, il direttore del giornale Michele Annese non perdeva una parola. Ancora quei versi: “Ma fra tutte queste cose/ una sola è importante: ritrovarsi tutti quanti nella piazza del paese/ a raccontar le nostre imprese”. E il carnevale: “In quel periodo ci vestivamo in maschera e andavamo in giro per le case, preceduti dal capogruppo che stilava il programma. Il fidanzato respinto dal padre di lei indossava la maschera e parlottava con la ragazza senza essere identificato (le furbizie dell’amore: n.d.a.). E poi tutti a tavola”. E’ innamorato della sua Crispiano, Vito Santoro, loquace, ma amabile. Con tutto questo suo bagaglio potrebbe scrivere un libro. Anzi, non so se posso rivelarlo: le sta già scrivendo, le sue memorie: quanto prima appariranno sugli scaffali. Prometto che sarò il primo a leggerlo. Prevedo che sarà ricco di storie dilettevoli. Quelle che mi ha raccontato a mezzogiorno di un martedì afoso nella villa degli Annese sono soltanto una parte. Lo saluto dicendogli che non andrò alla sagra “d’u puperùsse ascquànde” di San Simone, sperando di non far torto agli “Amici da sempre”, che ogni anno mi hanno accolto con affetto, ricambiato: motivi che non dipendono dalla mia volontà m’impongono di anticipare il ritorno a Milano. Mentre ci salutiamo, gli ricordo la sagra di tanti anni fa, in cui abili parrucchiere architettarono con vari tipi di “diavolicchio” le capigliature di belle ragazze, mentre lui, Vito Santoro, virtuoso della fisarmonica, lasciava uscire dal mantice una musica che metteva le parole sulle labbra del pubblico.


mercoledì 11 settembre 2019

Mario Dagnoni, “stayer” di grande successo


Mario Dagnoni

QUANDO NON CORREVA TIRANDO I CAMPIONI
INTERPRETAVA DIVERTENTI CANZONI MILANESI 

Fu amico di Fausto Coppi, che con lui si confidava

considerandolo una persona riservata.

Nella sua cascina di Limito ha ricevuto Bearzot, Gianni

Motta, Felice Gimondi, Ernesto Colnago, corridore legato

a Eddy Mercks, e tante altre glorie dello sport.










Franco Presicci

Cominciò giocando al calcio. Poi scelse la bicicletta. E in sella percorse le stradine attorno a casa, affrontando in seguito itinerari più lunghi, non soltanto nell’ambito di Lavanderie - un centro poco distante da Milano - dove ha un’azienda. Al rientro, era soddisfatto. Si affezionò alle “due ruote” e la cavalcava sempre più spesso. Divenne bravo, bravissimo. E partecipò a gare con molto entusiasmo, tanto da vincere il campionato italiano Uisp (Unione italiana sport popolari).
Piazza della Scala
L’anno successivo conquistò dodici vittorie su strada. Gli proposero di correre come motociclista tra gli “stayers” ed ebbe successo. Intanto Mario Dagnoni - di lui parlo - cantava in milanese, componendo anche qualche piacevole canzone in vernacolo. Gli amici, e non soltanto loro, lo ascoltavano volentieri, nella sua cascina di Limito, dalle parti della casa editrice Mondadori, a Segrate. Li riuniva spesso, gli amici e i conoscenti, in quella struttura agricola, dove in un angolo del salone aveva il suo bel pianoforte. A volte si esibiva in coppia con Armando Pisanello, informatore scientifico pugliese da anni a Milano, che aveva imparato molto bene a prestare la sua voce a brani lombardi. Dagnoni cantò anche con Nanni Svampa, che poi dette vita ai Gufi con Gianni Magni, Roberto Brivio e Lino Patruno, e con loro realizzò per la Durium, in dodici 33 giri, “La Milanese”, presentando l’opera alla cascina Abbadesse, in viale Zara, in una serata affollata di giornalisti, discografici. scrittori, interpreti del cabaret. 
Gigi Pedroli
Da un po’ Nanni Svampa non c’è più. Dagnoni amava dire: “Sono rimasto uno dei pochi a cantare in milanese autentico”, non ricordandosi di Gigi Pedroli, che scriveva, e continua a scrivere, sempre in dialetto, brani di tutto rispetto, ispirati soprattutto al naviglio e alla sua gente, oltre ad eseguire acqueforti pregevoli, che hanno come soggetto quasi sempre Milano. Come “stayer”, Mario Dagnoni è stato un campione. Ha vinto, con vari ciclisti dietro il suo rullo, 28 campionati italiani, 5 Gran Premi d’Europa, circa 400 altri Gran Premi anche in corse meno importanti, due medaglie di bronzo, una d’argento e 3 d’oro. Ha avuto la fortuna di tirare corridori come Marino Vigna, Francesco Moser, Louison Bobet, Beppe Saronni, Eddy Mercks. Ed è stato amico di Fausto Coppi. “Il campionissimo mi faceva delle confidenze, ma io lo chiamavo signor Fausto. Un giorno gli chiesi il motivo che lo spingeva a dirmi tutte quelle cose e lui mi rispose che ogni uomo ha bisogno di parlare con un altro uomo, aggiungendo che mi considerava una persona a modo, molto riservata e quindi degna di raccogliere i suoi sfoghi.
La Stazione Centrale
E io ho sempre rispettato il segreto anche con mia moglie e con i miei ragazzi anche dopo la sua morte, per riguardo alla sua memoria. Sono amico del figlio Faustino e dei cugini del campionissimo, Sergio e Piero”. E le canzoni? “Fui coinvolto da un pugliese come te, ma della provincia di Lecce, Armando Pisanello. Lui cantava in napoletano; io ho poi preferito Giorgio Gaber, Nanni Svampa…”. Quali sono i tuoi pezzi forti? “’Il ballo in maschera’, di Mimmo De Miccoli; ‘I tusan de Milan’ (brano che celebra le ragazze che la sera, a maggio, vanno a spasso gorgheggiando in gruppo; ‘El noster dialett’; ‘Nostalgia de Milan’; ‘Lassa pur ch’el mond el disa…”, e continuò la lista, invitandomi ad ascoltarli nella sua cascina, dell’800, dove le donne di casa preparavano la cena con piatti milanesi. I brani che hai scritto tu? “’La canzone della mamma’…”.
Lavandaia
Mario, che è presidente della Darimec (Dagnoni riduttori meccanici), con sede a Lavanderie, non è abituato a vantarsi: è cordiale, spiritoso, compagnone. E ama moltissimo Milano, che conosce profondamente. “Durante la guerra i lavandai del mio paese, che da loro prende il nome, per non essere derubati mentre prelevavano la biancheria sporca al Savini in Galleria o al Bar Commercio in piazza Duomo… portavano sul carrettino un ragazzo che faceva da guardiano”. Uno era lui. “Milano mi piaceva, nonostante gli sfregi che le avevano provocato le bombe, e quando ne avevo l’occasione la visitavo”.
Piccolo Teatro
Diventato grande, le occasioni si sono moltiplicate e veniva a godersi la città, dalle vie e viuzze del centro ai canali, da piazza Duomo al Castello Sforzesco, a via Rovello, dove sorge il Piccolo Teatro, nel quale ogni anno da Franco Punzi viene presentato il Festival della Valle d’Itria, ormai noto e apprezzato nel mondo. Gli domandai ancora: Quando iniziasti a giocare al calcio? “All’età di 15 anni, nella prima squadra dell’Innocenti, la più prestigiosa. Poi mi accorsi che nel ciclismo si guadagnava di più e scelsi il manubrio, entrando nella società ‘Luigi Campeggi’ di Lambrate (quartiere di Milano); quindi in quella di Crescenzago, l’’Ottusi’, con ottimi risultati”. In seguito passò allo Sport Club “Genova” di Milano, che lo indusse a correre in pista. Fu il commissario tecnico degli “stayers”, Edoardo Severgnini, ad esortarlo a correre in motocicletta tra questi specialisti. L’idea gli andò a genio e accettò. Lo incalzai e proseguì: “I miei ricordi sono una montagna. Mamma, quanti”: Si mise a pensare, stringendo il mento tra il pollice e l’indice destri. Sorrise. “Si osava dire: “Andiamo a Milano”, nonostante la distanza tra Lavanderie e la Madonnina ci sembrasse tanta. Allora Lambrate, che stava tra il capoluogo Lombardo e Lavanderie, faceva comune a sé. Lavanderie era terra di Lavandai, uomini e donne, che svolgevano la loro attività nei fontanili della zona. Milano era ordinata, pulita, non ingolfata nel traffico come oggi, frenetica, spossante. La Galleria Vittorio Emanuele luccicava: era davvero il salotto buono della città, un’oasi di pace, di silenzio.
Il Savini
Alzavamo lo sguardo verso la cupola per vedere il ‘ratin’, credendo fosse un topolino con la casa tanto in alto; e invece erano delle fiammelle a gas accese da uno speciale meccanismo a molla, che “scorrendo velocemente giro giro, lasciava dietro di sé una scia luminosa” (Guido Lopez), a cui i milanesi dettero quel nome. C’era la guerra ed erano parecchi i giorni in cui non si andava a scuola per paura dei bombardamenti. I ‘confetti’ cadevano all’improvviso, facendo disastri. Tanti gli edifici danneggiati, la stessa Galleria, la Scala…, diffondendo il terrore fra la popolazione. Mi ricordo soprattutto le bombe su Gorla. Io ero in classe, alla ‘Pietro Maroncelli’, a Lambrate, e quando sibilò la sirena chiusero il cancello per non farci uscire. Senza pensare al pericolo, lo scavalcai, corsi a Gorla e vidi il macello: una scuola elementare disfatta, nella piazzetta, quasi di fronte alla piccola chiesa. Una strage d’innocenti. Gli ordigni violarono anche il convento della Visitazione in via Santa Sofia e il pesante portone venne aperto per lasciare uscire le monache di clausura”. Non volle dire altro sull’argomento, che provocava angoscia. “La guerra è terrificante”. Tornammo allo sport. “Per 20 anni sono stato la prima guida nazionale e ho riportato le soddisfazioni che ti ho detto. Che posso ancora aggiungere? I tempi d’oro del ciclismo sono stati quelli compresi tra il 1960 e il 1995. C’era più trasparenza, La lealtà era sicuramente un valore. La categoria degli ‘stayers’ è venuta a mancare quando sono state inserite specialità a noi estranee, venute da molto lontano. Lo considero un peccato. Con lo ‘stayer’ è venuto meno anche il tandem, specialità molto spettacolare e quindi molto seguita dagli appassionati di ciclismo. Annoverava tanti virtuosi… Dimenticavo, alla cascina di Limito, detta ‘casinetta del Mario’, si racconta abbia dormito Napoleone Bonaparte, diretto a Cassano d’Adda, per il primo catasto al mondo, che ha funzionato sino a pochi anni fa”. Hai una moglie, Diva, e tre figli. I ragazzi seguono le orme del padre? “Cordiano e Christian guidano moto leggere anche durante la Sei Giorni”. Le serate di Mario erano frequentate da nomi prestigiosi anche dello sport. “Sono venuti Bearzot - mi disse - Gianni Motta… Ogni anno organizzavo una festa con tutte le medaglie d’oro del ciclismo e arrivavano Ernesto Colnago, costruttore di biciclette e già ottimo corridore legato a Mercks, Felice Gimondi… Ho grande nostalgia dei tempi andati, perché il ciclismo di 50 anni fa era meno raffinato, ma praticato da uomini di parola”. Questa frase concluse l’intervista, svolta in casa mia lunedì 27 ottobre 2008. L’imprenditore campione aveva 73 anni ed aveva un fisico ancora forte.






mercoledì 4 settembre 2019

Radio Meneghina ha compiuto 43 anni


Tullio Barbato
L’EMITTENTE DEI MILANESI E DEI FORESTI CHE VIVONO NELLA TERRA DEL PORTA



Fondata dal giornalista Tullio Barbato non trasmette soltanto commedie, programmi culturali e d’informazione. Ha regalato alberi destinati alla Montagnetta di San Siro, sorta con le macerie degli edifici danneggiati dalle bombe dell’ultima guerra, e realizza tante altre iniziative.





Franco Presicci

Qualche mese fa Radio Meneghina, l’emittente dei milanesi, ha compiuto 43 anni; e il suo Ghino, seconda metà del nome Meneghino (la tradizionale maschera della terra del Porta), simbolo emerso nel ’77 dalla matita di Davide Scaluzzi, non si è limitata per l’occasione a fare l’occhiolino agli ascoltatori, ma ha espresso contentezza. Sotto la sua insegna Tullio e Luca Barbato, che siedono sulla plancia, in tanti anni hanno diffuso centinaia di programmi la settimana: di poesia, prosa, musica, informazione, per bambini…; allestito concorsi letterari, festival di canzoni dialettali, destando sempre l’attenzione dei quasi 200mila ascoltatori.
Betty Curtis e Wilma De Angelis nel '77
E’ dunque una radio storica, che tra l’altro tiene vivo il vernacolo, che affascina anche chi è arrivato da lontano, dalla Puglia e dalla Sicilia. Infatti sono molti i pugliesi che, pur non avendo dimenticato la propria parlata, hanno imparato quella della città che li ha accolti. Tullio Barbato, che proprio in questi giorni ha compiuto ottant’anni, è un giornalista che ha lavorato al quotidiano del pomeriggio “La Notte”, che ebbe in Nino Nutrizio un direttore mitico. Conobbi Tullio nel ’73 (almeno mi pare che quello fosse il periodo) su uno dei gioielli della società di navigazione “Italia”: la “Raffaello”. Era in compagnia di un’altra firma prestigiosa, Vittorio Reali. Entrambi spiritosi, simpatici, senza peli sulla lingua, gentiluomini. Il capo dell’ufficio stampa, Adriano Bet, li aveva invitati anche perché a bordo si svolgeva una manifestazione che incoronava la “Signora del mare”, presenti, fra gli altri, la grande attrice di teatro Diana Torrieri, che mi fece leggere un suo libro di poesie ancora in bozze; e il notissimo mago Waldner, che faceva gli oroscopi su “Grazia”, la rivista della Mondadori.
Gigi Pedroli
In quell’occasione Bet mi affidò la confezione di un giornale da comporre nella tipografia del transatlantico e intervistai i personaggi più in vista, cominciando dai due colleghi, che sprigionarono la loro garbata ironia addirittura sulle coppe di “champagne” che avevano in mano. Entrambi alti, Reali di più, figura elegante e comportamento sostenuto; Tullio più alla mano. Con loro la traversata fu più piacevole, a detta dello stesso Bet, friulano di poche parole, ma sinceramente gentile. Quando a Tullio Barbato nel ’75 venne proposto il progetto dell’antenna, lui non sembrò tanto entusiasta. Si era alla fine di quell’anno, quando una sera al Circolo Ambrosiano, frequentato anche dai foresti, il presidente Maiocchi gli illustrò l’idea. Cominciavano a nascere le radio, la prima, nel marzo di quell’anno, la Milano-International, e una potevano crearne anche loro. Tullio, che del sodalizio era vicepresidente, ci pensò un po’ e poi disse che, sì, si poteva fare, ma soltanto per un paio d’ore la settimana. Maiocchi, felice, rilanciò: “Vada per sei ore al giorno”. La trappola, si fa per dire, era scattata. Nei primissimi mesi dell’anno successivo iniziarono gli esperimenti e il 4 marzo si accesero i microfoni, tenendo a battesimo Radio Meneghina, con Tullio Barbato direttore, che fece una dichiarazione. “Quello che avete sentito fino ad ora era soltanto una prova.
Nanni Svampa e Lino Patruno
Oggi è nata Radio Meneghina 24 ore su 24”. Ed era nata in ottima salute, con tante personalità milanesi in funzione di collaboratori. Tra queste, Luciano Beretta, assiduo a Sanremo, Meneghino in carica (la moglie Cecca di Berlinguitt, Mirna Maggi); il poeta Mino Mazzola; il cabarettista Ezio Soffientini; Giulio Busnelli, vecchio alpino agente di borsa, che frequentava il Rotary della Martesana; la poetessa Angela Martini Tessitore; il più grande cantastorie vernacolare Nino Rossi; Luciano Sada; il regista Mario Barillà, il giornalista Mario Lucchini Gabrioli poi passato alla Rai…
La Galleria
Radio Meneghina divenne un punto di riferimento per tutti i gruppi popolari che si ritrovavano sui navigli (soprattutto il Ticinello) e davano vita a tutte le feste di quartiere al Ticinese e in altre zone della vecchia Milano, da corso Garibaldi (già ”el borg di formaggiat”: il borgo dei formaggiai) con i suoi cortili che sfociano in via Ascanio Sforza, lungo il Naviglio Pavese, al Giambellino... Il raggio d’azione della Radio si allargava, allestendo spettacoli fuori onda al Teatro Massimo, al Nazionale e su palcoscenici di periferia… Le attività erano e sono numerose: raccolta fondi per mille alberi da mettere a dimora nel bosco della Montagnetta di San Siro, fatta con le macerie degli edifici e dalle case sbriciolate dalle bombe nel ’44; dodici piante in regalo da far fiorire al Parco Alessandrini... Insomma, Radio Meneghina una fucina di idee e di opere per la sua città, industriosa, generosa, ospitale, discreta, ricca di bellezze anche nascoste.
Il Naviglio Grande
Tullio Barbato mette a disposizione tutto il suo bagaglio di cultura, esperienze acquisite in anni di lavoro nei giornali (“Il Messaggero”, “Secolo XIX”, “Il Giorno”, “Il Corriere della Sera”, “La Notte”) e in agenzie giornalistiche, tra cui “L’Italia”, moltiplicando gli ascoltatori. Secondo un’indagine, questi hanno un’età media di 43 anni, per il 64 per cento donne; per il 68 in ascolto in famiglia, l’11.4 sintonizzati soltanto sulle frequenze di Radio Meneghina, che propone Milano in tutte le salse e dà spazio, oltre che al dialetto, ai Rotary e ai Lyon’s, a programmi scientifici… culturali. Tullio Barbato e Francesco Ogliari - compianto autore di centinaia di libri su Milano e di una enciclopedia dei trasporti di oltre cento volumi (molti dei quali furono da me donati alla biblioteca di Crispiano), docente universitario, già presidente del Museo della scienza e della Tecnica e fondatore del Museo dei treni, ricco di locomotive, vagoni, stazioni ferroviarie, binari, marmotte, segnali…. - fecero la storia d’Italia attraverso le pagine de “La Domenica del Corriere”. 
Presicci con Beruschi
“Il metodo – mi disse Barbato in un’intervista per il quotidiano ‘Il Giorno’ ill 3 marzo del 2007 - è improntato al rigore; il modo quello della vicina di casa che racconta una storia”. Il giornalista, autore di volumi sul terrorismo, sulle case di tolleranza a Milano, sulle balere e sui balli degli anni Cinquanta, ritiene a ragione quella di Radio Meneghina un’esperienza esaltante. Parlando con me, si mostrava felice, ricordando i suoi primi passi.
Barcone sul Naviglio Grande
“In quei giorni lontani pieni di fatti - il terrorismo che angosciava Milano con rapimenti di dirigenti d’azienda, uccisioni, ferimenti (Indro Montanelli, il vecchio leone, fu colpito alle gambe in via Manin, mentre andava al suo giornale); i cronisti del turno di notte che dovevano correre in questa o in quella strada per prendere un comunicato in un cestino portarifiuti dietro a una chiesa o in via Imbonati davanti a un’azienda farmaceutica o in via Palestro, nel mezzanino del metrò, per poi rispondere al rientro al giornale ai due carabinieri che volevano sapere il tipo di voce, la cadenza, la frase, il tono…. di chi aveva telefonato e consegnare lo scritto ciclostilato (già fotocopiato senza farsene accorgere nell’archivio del quotidiano, al pianterreno). La radio di Tullio trasmetteva notizie su notizie: la Scala, sovrintendente Paolo Grassi, in “tournèe” a Washington, con “Machbet”, “Cenerentola”, dirette da Claudio Abbado, che poi si dimise da direttore generale con una lettera al sindaco Aldo Aniasi; le pensioni di un mese pagate in ritardo per uno sciopero proclamato da un sindacato autonomo del Ministero del Tesoro… Mentre il Ghino occhieggiava, ricordando Meneghino, che a sentire Guido Lopez, scrittore e giornalista, “è senza altre virtù, anzi spavaldo solo a parole, più egoista che caritatevole, cauto per non dire pauroso e castigatore di costumi sì, ma pettegolo e servile. Tutte magagne, queste, destinate a scomparire nelle sue apparizioni successive…, nobilitato dall’attore Giuseppe Moncalvo”. Comunque Meneghin, inserito secoli fa nelle commedie del poeta Carlo Maria Maggi, è amato dai milanesi: simbolo popolaresco nella città. Lo ritroviamo in “El lavapiatt del Meneghin ch’è mort”, di Carlo Porta; e a gennaio, seduto in carrozza, nel corteo dei Re Magi diretto alle Colonne di San Lorenzo.