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mercoledì 28 febbraio 2024

Un faro di Taranto si spegne

 LA CASA DEL LIBRO DI MANDESE DESTINATA AL MONDO DEI RICORDI



Casa del Libro di Nicola Mandese - Foto Antonio De Florio


Un’altra ferita per la città. Una libreria storica smonta gli scaffali tra l’amarezza dei tanti
avventori, che adesso sperano di vederla trasformata in centro culturale. Un appello alle autorità comunali: “Salvatela!”.















Franco Presicci




Quando una libreria spegne definitamente le luci, un pezzo del cuore della città ne risente. Se poi quelle vetrine danno testimonianza di circa un secolo, il dolore è ancora più grande. La Casa del Libro di Nicola Mandese, a Taranto, era inserita nell’albo delle librerie storiche d’Italia.
Michele Pierri

L’hanno visitata personaggi illustri, da Vasco Pratolini ad Alda Merini, nei quattro anni che fu a Taranto con Michele Pierri, grande poeta e primario traumatologo dell’ospedale Santissima Annunziata; da Riccardo Bacchelli a Michele Prisco, da Fulvio Tomizza a Roberto Gervaso, a Vittorio Sgarbi, a Raphael Alberti, che a Nicola volle improvvisare il ritratto su un foglio qualunque.
Lunga e gloriosa vita, dunque, quella della famosa libreria della Bimare. Non c’è tarantino, giovane o anziano, che non abbia acquistato un libro da Nicola, persona garbatissima e libraio di antico stampo.
Nelle mie rimpatriate non potevo evitare di fare un salto in quel tempio, che stava a due passi dal bar dell’angolo (D’Aquino-Acclavio) e dal giornalaio Fucci, che dall’androne dello stabile debordava all’esterno, servendo anche da punto di raccolta di studenti universitari e intellettuali come Marcello Ruggieri, che poi si trasferì a Roma, diventando un attento e autorevole operatore culturale.
Quasi sempre dalla folla che fluttuava da piazza Maria Immacolata fino al cinema Vittoria, all’angolo con via Margherita, dove si sfrangiava e tornava indietro, emergeva la voce di Marche Polle. “A vuè mo? Nà, pìgghiet‘a schedìne; e se no ‘U panarijdde”. Era una leggenda per Taranto, quest’uomo basso e sottile, il volto scavato, berretto in testa, a cui hanno innalzato un monumento. Da Mandese gli appassionati discutevano dei versi di Claudio De Cuia, che qualche volta teneva una conferenza sulla poesia dialettale, e si scambiavano opinioni sull’ultima opera di Federico Moccia o della stessa Merini, che quasi ogni giorno si presentava per informarsi sulle novità.
Il ponte sul Naviglio Grande dedicato ad Alda Merini
La Casa del Libro si trasformava così in una specie di circolo culturale, dove gli intenditori del vernacolo spiegavano il significato delle parole e la loro etimologia, accennando ai poeti Diego Fedele, Domenico Cantore, Arturo Caforio, Nerio Tebano, Diego Marturano, Alfredo Lucifero Petrosillo, che fu anche direttore de “’U Panarjdde”... Tra i maestri della nostra parlata, c’era Giacinto Peluso, che ha raccontato Taranto in tutti i suoi aspetti, compresi i personaggi, alcuni stravaganti, pubblicando volumi proprio con la casa editrice Mandese, che dava spazio ad autori come Giuseppe Francobandiera, che fu direttore colto, ricco d’idee e di competenza, dinamico, del circolo culturale Italsider, sede la Masseria Vaccarella, dove Giuseppe portò personalità di spicco, come Gianni Brera, Morando Morandini, il maggiore critico cinematografico italiano (“Il Giorno”), una mostra del pittore barese Filippo Alto, il Teatro sull’erba, con Luca De Filippo, i concerti in chiesa... Queste erano alcune delle figure che ebbero contatti frequenti con la libreria di via D’Aquino, che qualche anno fa realizzò una iniziativa di grande prestigio: “Taranto legge Kafka”, in cui si alternarono al microfono collocato davanti alla libreria i cittadini più volenterosi, nonostante il freddo e le minacce di pioggia.
Nicola con Vittorio Gorresio

Cominciai a frequentare la libreria quando era in via De Cesare 28 ed era governata dal cavalier Antonio, papà di Nicola, un galantuomo come pochi, sempre sorridente, calmo, disponibile, cordiale. Mio padre voleva avviarmi al lavoro più che allo studio e già a tredici anni a sua insaputa spolveravo gli scaffali da Mandese in cambio di qualche volume: “I tre moschettieri” o “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas; “Il corsaro nero” o “Le tigri di Mompracem” di Emilio Salgari.
Più di una volta, d’estate, ho portato il pranzo a Nicola e ai sui fratelli che con la mamma facevano i bagni a Praia a Mare, stabilimento balneare che allora, come Lido Bruno e altri, era di moda. Gli operai dell’arsenale andavano invece allo stabilimento Santa Lucia - verso i Salesiani - di cui mi è rimasta impressa la rotonda, perché, bamboccio irrequieto, dagli interstizi spiavo il mare limpido, cristallino, seducente, prima di assecondare l’onda che baciava la battigia e si ritraeva. Allora Nicola poteva avere quattro anni. Passò il tempo, il cavaliere Antonio, già in via D’Aquino, dove accolse Sandra Milo e altre figure famose, scomparve e le redini della libreria passarono a Nicola. Cominciarono a conoscerlo tutti. E a stimarlo. I miei amici parlavano molto bene di lui, e mi sollecitavano a ripetere i racconti dei miei anni di garzone.
Antonio Mandese con Sandra Milo

Adesso, “punctum dolens”, la Casa del libro si avvia alla fine del percorso. Tra un mese, forse, cesserà l’attività, nella via dello struscio. A quasi ottant’anni e qualche acciacco Nicola ha deciso di mollare. Ma sta facendo di tutto, anche con l’esortazione degli avventori più fedeli, per continuare a dare respiro alla Casa del libro, magari con l’etichetta di centro culturale che alimenti la lettura, solleciti gli autori a venire a dialogare con i lettori, a stabilire insomma tra scrittore e lettore un contatto diretto, come a suo tempo ha fatto lui, Nicola, invitando a una tavola rotonda all’aperto il professor Francesco Sabatini, linguista esimio, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, per un lungo periodo quasi venerato per le sue lezioni in televisione la domenica mattina.
Come è giunto alla decisione di abbandonare il campo, dopo tantissimi anni di attività, di soddisfazioni e di gloria? Nicola la prende alla larga, riservato com’è. E parla di età, di malanni e anche, forse, di disamore indotto. A ottant’anni può accadere. Ma a espugnare la sua resistenza è stata la crisi del libro, dovuta anche alle vendite on-line, che hanno indebolito il mercato.
Per Nicola Mandese è un momento triste, sia pure un tantino confortato per aver fatto onore alla promessa fatta suo tempo alla mamma, Olga: tirare avanti il più a lungo possibile. Lui è stato sempre all’altezza del compito a cui era stato chiamato, ha dimostrato di saper tenere il volante, di essere un ottimo pilota. E lascia con l’impegno di essere presente in altra veste, indomito nonostante le avversità. Non si sente come il timoniere di una barca naufragata davanti a una nave da combattimento. Un altro Nicola, a Milano, Partipilo, titolare anche lui di una libreria storica, ha dovuto chiudere dopo aver lottato con tutte le sue forze; e oggi il suo sacrario è un ricordo che addolora tutti i suoi ex avventori. Questi vanno per viale Tunisia e provano nostalgia davanti a quelle vetrine che erano sempre ricche di novità librarie.
Quando una libreria chiude, grande o piccola che sia, storica o no, in centro o in periferia, non lascia indifferente nessuno. I clienti della libreria Mandese – riferisce Nicola – chiedono se questa casa del libro in qualche modo si possa salvare. Io sono del parare che le autorità comunali dovrebbero mobilitarsi perché non si abbassi un’altra serranda nella via più elegante di Taranto, un salotto. Un salotto appunto era la Casa del Libro, che oggi potrebbe sopravvivere come centro di conferenze, incontri culturali, presentazioni di libri, serate sul vernacolo, con letture di pagine di Diego Fedele, Giacinto Peluso. Diego Marturano, Arturo Caforio.... Taranto non può e non deve perdere la Casa del Libro, il faro di via D’Aquino e della città; la libreria che negli anni ha visto il passeggio di migliaia di cittadini e ha contribuito alla crescita culturale della Bimare. Quanti nomi sono entrati nella Casa del Libro: oltre a quelli già citati, Michele Prisco, Carlo Cassola, Fulvio Tomizza, Massimo Grillandi, Roberto Gervaso, Luciano De Crescenzo, Tino Carraro, Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo, quando venne a recitare al Teatro Orfeo, dove si esibirono Emma Gramatica ed Elsa Merlini (in “Venerdì Santo” di Cesare Giulio Viola), Paolo Carlini, Ernesto Calindri, Alighiero Noschese, Milva e ancora prima Wanda Osiris, che nella sua casa di via Sant’Andrea, a Milano, mi raccontò gli applausi raccolti a Taranto e il grido di Mussolini mentre correva in aua Rimini “Wandissima!!!”. E tale era la diva quando scendeva le famose scale.
Tornando alla Casa del Libro, l’augurio che continui a vivere, sia pure con l’insegna di circolo culturale.

mercoledì 21 febbraio 2024

Riconoscimento per Martino Montanaro

 IL PREMIO ‘ASTERISCO’ COME ONORE AL MERITO




Martino Montanaro

Martino è il titolare del forno che porta il nome del Santo che tagliò il suo mantello in due per donarne un pezzo a un povero infreddolito trovato per strada















Franco Presicci




A volte, mettendo in tavola il pane, mi capita di pensare alla fatica dell’artigiano che già la notte ha le mani fra gli ingredienti per la lavorazione della farina; e anche alla sua storia, al sudore del contadino, al grano, al mulino, alla macina... alle rivolte che il prezzo di questo alimento ha provocato (come nelle pagine del Manzoni), penso alle sue origini antichissime; alle tante opere d’arte che ha ispirato, alla sua presenza nelle mense dei poveri.
Il pane

In ogni scenografia sacra uno spazio è riservato al fornaio e al forno, alla sua fiamma. Il pane è il simbolo della vita, è nutrimento indispensabile. “Questo è il pane che è disceso dal cielo…”, si dice nel Vangelo di Giovanni. “Questo è il mio corpo che è dato per voi”, in quello di Luca. Mosè, prima della fuga in Egitto, raccomandò al suo popolo di rifornirsi di pane non lievitato, che dura di più.
Al pane sono legate storia e leggenda. Per la prima, la sua nascita avvenne sul Nilo; per l’altra fu il risultato di un dispetto: una domestica rovesciò nel composto di acqua e farina ciò che rimaneva della fattura della birra, per vendetta contro la padrona. Tante le leggende e i modi di dire, i riti e le abitudini che hanno accompagnato la vicenda del pane. Il passare del tempo li ha fatti dimenticare. Non l’intelligenza e la capacità creativa del fornaio.
Per questo ho accolto con piacere la notizia del Premio “Asterisco” assegnato a Martina Franca a Martino Montanaro, che ha attraversato la storia della panificazione e svolge questo lavoro con tutto l’impegno e la passione possibile. Martino, nella città dei trulli e del Festival della Valle d’Itria, una delle più intramontabili meraviglie della natura, è il titolare del forno intestato al Santo che tagliò a metà il suo mantello per darne un pezzo ad un povero infreddolito. Un esercizio noto e molto frequentato, dove “porta avanti la grande tradizione dei prodotti da forno e confeziona ogni notte tante prelibatezze conosciute in tutto il mondo”, come dice la motivazione della giuria.
L'attestato del premio

Il riconoscimento gli è stato consegnato in municipio, fra gli applausi di un pubblico numeroso. Avrei voluto esserci, per la stima che ho di Martino e perché sono attratto dalle iniziative in onore del lavoro. Martino è una persona schietta, attiva nella categoria da moltissimi anni, con grande competenza e passione; e conosco il Forno san Martino fin da quando diffondeva i suoi odori in fondo alla discesa che costeggia lo stabile che lo ospita oggi: in via Mercadante, che inizia il suo percorso dalla rotonda di San Francesco per fermarsi in via Taranto, all’altezza del Bar Adua. Sono affezionato a questo forno, dove mio zio Dionigi acquistava il pane o lo faceva acquistare da qualche amico che andava in bicicletta o in vespa in città. E doveva essere a forma di trullo. Era ottimo, quel pane. Lo preferiva tutta la famiglia.
Avevo 12 anni, quando cominciai ad assaporarlo. A quell’età già ero innestato sul Chiancaro, nelle giornate d’estate e nella casa incappucciata dello zio canonico, che ci veniva ogni giorno, a piedi, con indosso la sua tonaca meno brillante e con l’aiuto del bastone. Anche lui amava il pane del forno San Martino. E siccome lo bombardavamo di domande, dopo che aveva assaporato i fichi “recotte” dell’albero ad ombrello che stava a due passi, poco oltre il muretto del piazzale, spesso ci dava lezioni di vita. Un mezzogiorno ci descrisse i forni antichi, fatti con pietre e altro materiale: e gli statuti comunali che imponevano “ai fornai e alle fornaie” le regole da osservare per fare dell’ottimo pane.
Martino Montanaro e Michele Marraffa

Il nostro era sulla destra del cancello di ingresso e la nonna v’infornava le pizze. Aveva le mani d’oro, la nonna, ed era molto affezionata a quel fratello, che diceva messa nella Basilica di San Martino e in alcune chiese di campagna, che sopravvivono in ottimo stato. Come la chiesa della Madonna della Consolata, sulla vecchia strada per Noci, curata a turno dalle donne della contrada, compresa Angela Argese, devota e generosa.
Tornando a Martino Montanaro, l’ho incontrato un paio d’anni fa nel suo luogo di lavoro, trovandolo indaffaratissimo. Ma, cortese, com’è, piuttosto che salutarmi sbrigativamente, affidò la distribuzione del pane ai vari negozi al cognato, comparso all’improvviso.
Francesco Lenoci

Chiamai Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica di Milano, scrittore e narratore girovago dei mille valori del nostro Paese. Veniva da Bari con l’amico Enzo Rocca, già vicedirettore generale di un istituto di credito ed eccellente fotografo. La visita fu esaltante anche per Francesco, che aveva tenuto tre conferenze sul pane: a Laterza, ad Altamura, a Matera.
Francesco parlò a lungo con Martino, sedotto dalla sua storia fatta di sacrifici, tenacia, bravura. Io ascoltavo, interessato agli sviluppi tecnici della lavorazione del pane. Mi colpiva la figura di questo lavoratore infaticabile che dialogava spedito, senza interrompere, facendo domande opportune e fornendo notizie utilissime che affascinavano Lenoci.
Poi lui mi parlò della sua famiglia, del padre; e io della mia, che a suo tempo era stata sfollata a Martina per paura delle bombe che martoriavano Taranto. Sentivamo i “tuoni” e piombavamo sul piazzale. Erano invece gli ordigni che cadevano a pioggia sulla Bimare, infiammando l’orizzonte. Martino forse non era ancora nato e di quei giorni sa ciò che ha letto e gli hanno raccontato i vecchi, custodi di una memoria difficile da demolire.
Il pane a trullo

Martino gradì la nostra visita e il giorno dopo mi fece avere in campagna un pane a trullo. Fatto soltanto per me, perché quella forma fa ormai parte come altre cose dei ricordi. Anche le sagome del pane hanno un’origine, una vita, una fine. Le idee germogliano e appassiscono, come i fiori. Alla vista del pane a trullo nella mia mente si è srotolata una pellicola: come seduto in poltrona, in prima fila, sfilarono Ciccillo, Marusaria, Giovanni, le nipoti Lina, Graziella, Maria, Pierino; e anche Martino, il papà di Francesco Lenoci: maestro di sartoria, artista dell’abito, conosciuto in anni meno lontani. I ricordi di Martina sono tanti, e tanti i personaggi incisi nel mio personale albo d’oro. Tanti anche gli incontri fugaci che hanno lasciato il segno, e i luoghi, le cose. Oggi vado per tratturi, mi fermo davanti a una chiesetta e penso a don Martino, ai Romanelli, che avevano i trulli sul lato destro di quelli di don Martino, al boschetto di fronte, al campo di miglio di quando ero giamburrasca… Ricordo l’uccellanda che il papà di Adriana e Antonietta aveva fatto costruire con rami, rametti e qualche piccolo tronco.
Il pane di Martino

Il pane? Sì, ho fatto una deviazione: la memoria è vasta e care le cose che ho da dire. Sono quasi ottant’anni che vado a Martina, dove mi sono avvicinato a persone buone e brave, che mi hanno tenuto a cena o a pranzo, parlandomi di odori e sapori, di bellezze nascoste, di itinerari suggestivi da scoprire, di passi da fare nel bosco delle Pianelle, di masserie da visitare... E del pane, che qui, sarà l’acqua, la legna, il clima, certo l’eccellenza delle mani e del cuore di chi impasta e inforna, ha un sapore diverso, più godibile, più allettante. E ogni singolo pezzo di quello del forno San Martino ha per me un gusto particolare. Non lo spezzo, come mi ha insegnato don Martino Calianno.
Martino, Presicci e Lenoci

E Francesco Lenoci, che in una delle sue conferenze elencò alcune norme a proposito del pane: non si prende mai con la mano sinistra, che è la mano del diavolo; se va a terra, lo si riprende baciandolo; a tavola non si mette mai a faccia in giù; non lo si usa per giocare… Per tagliarlo uso il coltello, non lo spezzo, per non spezzare i ricordi. Me ne ha rinverditi tanti, Martino Montanaro! Dimenticavo, Con lui ha ricevuto il premio “Asterisco” anche un altro Martino, Ruggieri, chef stellato con un ristorante a Parigi.



mercoledì 14 febbraio 2024

Una conversazione istruttiva

I RACCONTI DEL MARESCIALLO RAFFAELE TODISCO DETTO “DRAGO”





Raffaele Todisco

Una vita vissuta tra pedinamenti, indagini complicate, inseguimenti a 140 chilometri all’ora, intercettazioni telefoniche, arresti a volte in flagranza. Così è la vita di un uomo appartenente all’Arma dei carabinieri, nato a Napoli 65 anni fa.








Franco Presicci



“Un brigadiere dei carabinieri? Bah, che cultura può avere”. L’ho sentito dire tante volte.”Un tempo nell’Arma arrivavano dopo aver lasciato la terra”. Come se quello del contadino non fosse un lavoro nobile e chi cura le zolle non possa farsi un avvenire diverso, con meno incertezze economiche. Ho spesso replicato a queste persone ottuse, ribadendo la mia amicizia con il metronotte che presidiava il mio giornale, “Il Giorno”, bravissima persona che andando in pensione mi fece dono di un suo libro ciclostilato sulla propria esperienza di partigiano.
Maresciallo Todisco
Non ho mai dato molta importanza al percorso scolastico, avendo conosciuto persone senza titolo con un bagaglio culturale di tutto rispetto e qualche laureato all’oscuro della battaglia di Canne, (ah, quel 16 agosto 216 a C, che botta per l’esercito romano!) e di qualunque momento della navigazione dei nostri governi dai primi del ‘900 a oggi. Conversando sere fa proprio con un brigadiere dell’Arma, poi promosso maresciallo, ho avuto l’ennesima prova della validità della mia opinione. Il mio interlocutore: Raffaele Todisco, 65 anni, napoletano di Mergellina, nel quartiere Chiaia, dove sconfinano i sospiri di Piedigrotta (ricordo il Festival della canzone, al quale partecipò anche Giuseppe Marotta, partenopeo prestato a Milano, scrittore, critico cinematografico de “L’Europeo” e del “Corriere”: tra i suoi libri “Mal di Galleria”, “Le milanesi”, “L’oro di Napoli”, “Gli alunni del sole”…).
Di libri ne ha letti tanti, Todisco. Soprattutto di storia. E può spaziare da Lepanto a Porta Pia; da Scipione l’Africano a Cavour; dal valore della paura alle vicende della sua città, alle strategie del governo. L’ho ascoltato con piacere e interesse anche quando scivolava nel suo dialetto, che affascina con le sue armonie ed evoca Eduardo, Totò, Nino Taranto, Pasquariello, D’Annunzio, che scrisse il testo della canzone “’A vucchella”, seduto a un tavolo del “Gambrinus” della città del Vesuvio, uno dei locali storici più famosi d’Italia, come il Cambio di Torino, il “Boeucc” del capoluogo lombardo, in piazza Belgioioso, 600 anni di vita.
Todisco il primo a sinistra

Non ho chiesto a Raffaele il suo “iter” scolastico: seguivo i suoi ragionamenti, che spesso condividevo. E’ un uomo da ammirare: tutte le sue letture si sono inserite tra un pedinamento e un inseguimento; un’intercettazione telefonica e un appostamento; un’indagine complessa, lunga, estenuante e un “blitz”. Onore al merito. Quelle letture lo hanno arricchito anche spiritualmente. Todisco è un ottimo conversatore, che parla anche del sole e della luna, non soltanto della complicità dell’astro “notturno”, faro e complice delle serenate e dei palpiti degli innamorati.
Pronto per il blitz

Lo esorto a ripercorrere la sua vita nell’Arma. Si aspettava la domanda. Lo sa anche lui che un cronista non è tale se non ha quella curiosità che lo induce a ficcare il naso ovunque, e io ho colto l’occasione per rifarmi delle volte in cui trottando tra un posto di polizia e una caserma trovavo difficoltà a intervistare un uomo in divisa. Ma con Todisco, oggi in pensione, non mi sono imbattuto in un muro da bucare. “Fu mio padre, Luigi, ad iniettarmi la passione per l’Arma. Il 2 giugno mi portava alla sfilata delle Forze Armate; il 4 novembre alla visita alle caserme, soprattutto quella dei carabinieri, dove osservavo le uniformi e le piazze d’armi e cominciavo a sognare”. Si vedeva con il cappello con il pennacchio in sella a uno di quei cavalli possenti e solenni, eleganti, abili in ogni movimento, al passo, al galoppo, al trotto, saggiamente allenati e curati. A Milano li possiamo contemplare in Galleria e nelle strade quasi nell’atteggiamento di modelli a una sfilata di moda.

“A 18 anni entrai nell’Arma, alla Scuola Allievi di Roma, molto severa, risultando il tredicesimo su 1500 del corso”. Nel novembre del ‘77 arrivò a Milano, al Nucleo Tribunale della caserma di via Vincenzo Monti, che avrà come comandante il colonnello Antonio Sibillo, oggi generale. Nel ‘79 al Nucleo radiomobile come motociclista e poi come autista, dove rimase dieci anni. Da lì al Nucleo Operativo di via Moscova, squadra antirapine, contribuendo all’incremento del sovraffollamento del carcere di San Vittore.
Todisco in servizio a Milano
Esempi? “Acciuffammo tre rapinatori presso un ufficio postale, alle 13, quando davanti agli sportelli c’erano lunghe code. Dopo un’indagine durata molto tempo, mandammo al ‘gabbio’ (la cella nel gergo della malandra) una banda di ‘duristi’ che svuotavano i furgoni blindati in tutta Europa. In una rapina alle Poste c’era una donna, convivente di uno della consorteria criminale, in possesso delle chiavi dell’ingresso posteriore, quindi entrarono armi in pugno durante la pausa-pranzo, e, minacciando gli impiegati, arraffarono i soldi e via. Noi, subito avvertiti, ci eravamo appostati, per evitare una sparatoria tra la folla li seguimmo fino all’auto, una cilindrata molto potente, straniera, rubata, e li circondammo”. Paura? “Sì, altrimenti saremmo incoscienti. Si deve vincere, la paura. Tornando a quella rapina, un quarto elemento riuscì ad allontanarsi, ma lo catturammo una settimana dopo in Veneto”. I nodi vengono sempre al pettine.
Ed ecco l’assalto al furgone blindato della Mondialpol a Segrate, con cinque o sei rapinatori armati di “bazooka”, bottino un miliardo e mezzo. I carabinieri individuarono la banda, la intercettarono telefonicamente per mesi, seguendola fino ai confini con la Svizzera e la mise nel sacco in Francia con l’ausilio dei reparti speciali d’oltralpe. Successivamente toccò ad altri elementi, tra cui anche alcuni calabresi.

Todisco con i generali Capusso e Dalla Chiesa
Avanti, Raffaele, la narrazione entusiasma. “Ho fatto numerosi inseguimenti a 140 all’ora con moto o auto...”. Parla come se raccontasse delle storie a un nipote davanti al camino la sera di Natale. Storie avvincenti, che aprono il sipario sull’attività frenetica degli uomini dell’Arma, “fedeli nei secoli”. Storie di fuoco e di sangue alleggerite, mai narrate con toni enfatici, con vanto. Possono essere sciorinate anche in un salotto con signore impressionabili. Per carattere Raffaele Todisco rinverdisce i suoi ricordi con levità. E’ moderato anche quando dice di aver conosciuto il capitano Ultimo e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato dalla mafia a Palermo la sera del 3 settembre ‘82 mentre era in auto con la moglie Emanuela Setti Carraro. Per Raffaele e per i suoi colleghi il generale prefetto era un mito.

Todisco ha conosciuto anche i colonnelli Tommaso Vitaliano, Alfonso Martorana, Nobili, Vitale, Fenu, Sibillo, Massolo… tutti promossi generali. “Nell’81 feci parte della scorta al generale Capuzzo, che poi ci volle incontrare per complimentarsi”.
Todisco detto Gatto 9
Con Vitaliano, comandante del Nucleo Operativo di Milano (era anche un bravissimo pittore), catturò tra l’altro un latitante di grosso spessore criminale. Come motociclista era soprannominato “Gatto 9”, al Nucleo operativo “Drago”. Dalla centrale lo chiamavano: “Drago! Drago rispondi”. E Drago rispondeva pronto e chiaro: “Drago, presente, all’erta”. Dopo una decina di minuti da una rapina a un ufficio postale periferico, a un semaforo di via Lorenteggio s’imbatterono nei presunti autori del colpo. Quelli si accorsero dei segugi e partirono a razzo con il rosso. I carabinieri non si fecero prendere di sorpresa e la zona si trasformò in un autodromo. Risultato: i banditi, molto pericolosi, con pistole e fucili a canne mozze al seguito, finirono in manette. Operazioni da brivido, come tante iscritte negli annali di Milano.
Stuzzico ancora la memoria di Todisco e la trovo inossidabile. I ricordi fluiscono come nella mia città, la Bimare, l’acqua del fiume Galeso caro a Orazio, a Virgilio e a tanti altri poeti. Avanti ancora, Raffaele. “Anni di indagini per smascherare un clan di camorristi che rosicchiava il ventre di Milano; la cattura di un terrorista arabo “dormiente”; l’arresto in flagranza di un omicida…
Todisco si definisce animale da strada, e nel suo lavoro è stato determinato, duro, inflessibile, infaticabile, divoratore di carte d’archivio, di vecchi verbali per ricostruire un episodio irrisolto, frequentatore della biblioteca Sormani, di ogni luogo in cui poter reperire carte, documenti, chicche. Meritevole di encomi e promozioni per la sua solerzia, il suo attaccamento al lavoro, la sua arditezza.
Raffaele Todisco inginocchiato

Che ‘curriculum’, Raffaele!”.Vuoi dirmi, per concludere, che mestiere esercitava tuo padre? “Con mia madre Pasqualina era custode in uno stabile di prestigio ubicato in via Regina Elena, parallela di via Caracciolo, dove nel 1900 erano stati costruiti palazzi per le famiglie della nobiltà napoletana, un quartiere con attori famosi che frequentavano quei bar. Tra questi c’era l’attore Benedetto Casillo, che ha anche girato un film di successo, “Così parlò Bellavista”, regista Luciano De Crescenzo. Era del duo dei ‘Sadici piangenti’ e per breve tempo aveva fatto parte del gruppo ’I gatti del vicolo dei miracoli’. Qualche volta giocava a carte con mio padre”. Ormai ha sturato la bottiglia e i ricordi sono goccioline di “champagne”. Attira, coinvolge quando accenna alle sue origini, alla sua famiglia e alla sua Napoli e alla sua vita sociale: “Amo la compagnia, le serate al ristorante con gli amici, la buona cucina, la “cassoeula”, il mio dialetto e le sue sfumature. Amo dire “’e gguardie”, “’o pazze”, “’o guaglione”, “’a piccirelle”… “E tu? Dimmi almeno una parola del tuo vernacolo”. “’u travàgghie”: il lavoro; “’u carbenìere”. Così la conversazione con Raffaele Todisco, diluita nel mio studio, slitta nel dialetto, caro ad entrambi. Al termine, gli regalo un carabiniere in terracotta con il fischietto, proveniente dal negozio di Maria Matarrese, ad Alberobello: il mio modesto riconoscimento a una vita dedicata al pericolo.
Todisco il secondo da sinistra

mercoledì 7 febbraio 2024

Si è spento il giornalista Enzo Catania

 UN LEONE CHE RUGGIVA NON MOLLANDO LA PREDA




Enzo Catania
La notizia per lui era sacra e
sapeva cercarla e irrorarla,
accogliendola con onore e
gloria. Un grande cronista
che conquistò la poltrona
di direttore.













Franco Presicci



E se n’è andato anche Enzo Catania: prima cronista, poi capocronista, poi inviato speciale ed editorialista e poi direttore del quotidiano “Il Giorno”. Giornalista di grande bravura, di un’attività straordinaria. Per molti un mito. Oltre a stimarlo gli volevamo bene. La passione, enorme, per il mestiere lo portava a volte ad essere irrequieto, ad alzare la voce e a grugnire, ma subito si sbolliva e sorrideva. Era un personaggio. Fiutava la notizia in un baleno, e le faceva di tutte per catturarla, facendole largo nella pagina già pronta per la rotativa. La notizia per lui era sacra e la celebrava solennemente. Appena seppe dal valentissimo Nino Gorio che un quadro scomparso a Milano era riapparso in Francia, chiamò la segreteria e le fece prenotare subito un volo per Parigi. E quell’anno Nino Gorio vinse il Premio Cronista dell’anno di Senigaglia, dove lui andò per partecipare alla cerimonia di consegna.
Tutta cronaca del Giorno

La cronaca era nel suo cuore: Ovunque si trovasse lodava le imprese di Lotito, Guaiti, Basso, De Barberis, Rizza, Gadda… All’arrivo di uno “scoop,” gioiva, si scatenava. Scendeva giù dal quarto al secondo piano e prima di bussare alla porta del direttore, Afeltra o Zucconi o Rizzi, annunciava urlando il nome dell’autore. Urlava spesso, quando era contento e quando era arrabbiato. Era travolgente. Litigava con un cronista e dopo cinque minuti gli batteva una mano sulla spalla, invitandolo al bar dell’angolo. Una notte se la prese con me e dopo la sfuriata mi chiese di andare a prendere uno zibibbo insieme come vecchi amici.
Era un vulcano: non camminava, correva; non parlava, gridava. Ma era generoso, disponibile. Se un cronista non si risparmiava, passando decine di ore al giornale, di giorno e di notte, oltre che nelle feste comandate, lo poneva su un piedistallo. “E’ sempre sulla notizia, passa più tempo sul campo che a casa: non so come la moglie stia ancora con lui”, diceva di un mastino. Era entusiasta del suo lavoro. Il pomeriggio del mercoledì, verso le 4, chiamava l’autista e si faceva portare a Legnano, ad Antennatre Lombardia (noi per quella tv confezionavamo il telegiornale), dove conduceva una trasmissione: “Parliamone adesso”. Al termine volava al giornale, facendo dell’autista un pilota d’aereo. Era un fulmine. Se andava a cenare a casa, a mezzanotte era nuovamente alla sua scrivania.
Catania al centro tra questori e prefetti

Quando seppi dall’Interpol che la giovane americana accusata dell’omicidio del figlio del re delle scuderie era stata arrestata a Zurigo, non mi fece finire di parlare: chiamò la segreteria di redazione e fece prenotare un posto in aereo. Ero seduto accanto a un amico titolare dell’indagine, che inaugurò felicemente il mio taccuino; e mezz’ora dopo l’atterraggio ero già davanti all’”Emme dieci”, il computer che usavamo allora quando eravamo fuori. Feci il viaggio di ritorno in treno, nel vagone riservato ai poliziotti e alla ragazza estradata e lui già mi aveva detto di scrivere cento righe su quel viaggio.
Era una grande soddisfazione lavorare con lui: “Etna”, nomignolo ispirato dal suo carattere. Un giorno a tavola, scherzando, gli rivelai che ero stato io ad appiccicargli quell’etichetta e lui non commentò, continuando ad infilzare gli spaghetti al sugo. Era un bersagliere, e mi pare che il servizio militare lo avesse fatto proprio in quel corpo. Forse per questo aveva il passo svelto.
Gli volevo bene come a un fratello. Una domenica piombò verso la mia scrivania: “Ho saputo da un amico del Quirinale che Pertini è a Milano. Voglio un grosso pezzo!”. “Enzo, siamo a Milano ed è quasi mezzogiorno”. “Ti spaventi?”. “Be’, sì, ad essere sincero”.
Il Palazzo del Giorno in via Fava

L’incarico mi solleticava. Chiamai l’autista e il fotografo e via. E siccome c’è un santo in Paradiso che protegge i giornalisti o, se preferite, la fortuna, arrivati da via Fava (dove era allora la nostra sede) a piazza della Scala, intercettai il sindaco Carlo Tognoli che andava verso Palazzo Marino. “Carlo, ti supplico, so che sei stato con Pertini, dammi qualche prelibatezza”. Avevo bluffato, ma quella pasta d’uomo mi fornì il mangime che desideravo, compreso il nome del ristorante, in cui il Presidente era andato a pranzare. ”Aspettalo all’uscita: non gradisce essere intervistato quando mangia”. Rientrai al giornale e i baffi e la barba di Catania ebbero un fremito e la sua voce la sentirono fino al settimo piano.
Mi voleva bene anche lui. Una volta sola mi investì con la sua furia. Fu in occasione di un assassinio a Figino. Un collega aveva ostacolato il canale che portava le notizie in tempo reale, e io seppi due ore dopo del fatto di sangue. Mi precipitai, feci la mia mietitura; poi sotto una pioggia torrenziale, un amico poliziotto mi guidò all’abitazione del presunto assassino, una roulotte in aperta campagna, e andammo a curiosare affondando i piedi nel fango. Catania mi aveva chiamato più volte sull’auto perché doveva fare il titolo ed erano già le ventitrè. Tornato nell’abitacolo urlò al telefono senza darmi il tempo di spiegare. Abbaiai come Zanna Bianca. Ma in redazione lo trovai placato e sorridente come un frate cappuccino.
Era nato a San Teodoro, nel parco dei Nebrodi, in provincia di Messina. All’età di 21 era approdato a Milano dopo essere stato caporedattore alla redazione romana di “Tempo IIlustrato”, un prestigioso settimanale, che allora aveva come direttore Nicola Cattedra. Catania si distinse soprattutto per le sue coraggiose inchieste sulla mafia. Al “Giorno”, dove aveva cominciato da cronista, scrisse tanto di Cosa nostra, da far dire a Enzo Biagi che Enzo Catania era un mafiologo di lungo corso. Ha scritto, oltre a una “Storia della mafia”, tanti libri su Craxi, sull’Inter. Ricordo “Sono innocente” con Guglielmo Zucconi, presentato a Mediaset presente il mitico professor Domenico Pisapia; e i suoi gialli.
Era assiduo alle feste a casa mia, a carnevale e alla cena con Ottavia Piccolo, che stava per interpretare in televisione uno sceneggiato sul Naviglio Grande, e mentre gustavamo le orecchiette fatte da mia moglie Irene, mi incaricò di scrivere una pagina sull’evento.
Catania, Ottavia Piccolo e Lotito

Mi fece incontrare Ettore Andenna, conduttore di programmi ad Antennatrè, Walter Chiari, dopo una sua disavventura, il cibernetico Silvio Ceccato e altre personalità. incoraggiò la mia idea di trascorrere una notte all’Albergo popolare; e l’altra su un’ambulanza; e le titolò personalmente: “La stazione dei disperati”; ”Le notti in bianco del cronista”. E gli interventi di Piero Lotito, tra i quali la rapina con sequestro di persona al Banco di Roma durata un pomeriggio e metà del giorno successivo, con le famiglie degli ostaggi che trepidavano in un locale al pianoterra dello stesso edificio? Quella volta si presentò in piazza degli Affari, teatro di quell’impresa criminale, e si fermò a conversare a lungo con Arnaldo Giuliani, prossimo a diventare capocronista de “Il Corriere della sera”, tenendo l’orecchio teso a un’eventuale voce del vento. Fu spinto dall’amore del mestiere, che non si è mai spenta.
Catania e Serra

Lo si capiva anche da come si esaltava quando in redazione piombava la notizia di un fatto clamoroso, come quando dalle parti di Vialba si rovesciò un camion con elementi chimici velenosi o quell’altra volta del furioso incendio che mise in pericolo un intero quartiere, che fu sul punto di essere evacuato. Mandò sul posto mezza cronaca, Basso, Lotito… e anche Andrea Marini, che si occupava di sindacato. All’avvenimento dedicò una pagina intera.
Grandissimo Enzo. Sempre elegante, sapeva essere anche spiritoso. Ho davanti agli occhi una foto in cui è ritratto a dorso di mulo sull’Aspromonte, forse alla ricerca di un latitante da intervistare, non pensando che poteva essere preso a fucilate. Quella immagine è forse di Uliano Lukas, un bravissimo fotografo amico suo.
Tra i suoi libri c’è anche la storia dell’Inter, la squadra che lo aveva come difensore e attaccante nei dibattiti a Telelombardia (viva la metafora), dove incantava i fans. Quando, colpito dall’ictus, fu costretto a ritirarsi, Telelombardia gli chiese di tornare… in campo, disposta anche a mandargli la telecamera e gli operatori a casa, ma lui si rifiutò. Il leone Enzo Catania non ruggiva più.
Palazzo dell'Informazione in piazza Cavour

Ho ripreso in mano un suo giallo. Prima di aprirlo, hanno cominciato a fluire tanti ricordi di questo grande cronista devoto della notizia, celebrante della notizia, corridore mai stanco, bersagliere e maratoneta. Il motore della cronaca con lui si oleava continuamente; Enzo faceva in modo che i cronisti lavorassero divertendosi.
Quanti ricordi custodisco nel mio cassetto. Quella sera a mezzanotte, quando entrai con il fotografo Lorenzo Pizzamiglio al Policlinico, per assistere a due espianti e a un trapianto di rene, non la dimenticherò mai. L’anestesista mi domandò: “Lei è sicuro di resistere agli interventi?”. “Penso di sì”. Ciononostante ci pensarono un po’ prima di mettermi sotto i piedi uno sgabello perché vedessi meglio il lavoro dei chirurghi. Anche quella volta lui credette in me. Non potevo deluderlo neppure in quel caso. Come lui non ha mai deluso gli altri cani da tartufo.