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mercoledì 30 dicembre 2020

Una vita laboriosa nelle carceri

LUIGI PAGANO, UN

GRANDE DIRETTORE

DA PIANOSA                   

A TARANTO,                   

A SAN VITTORE

Racconta la sua esperienza in un bellissimo

libro, “Il Direttore”, uscito in questi giorni.

Parla del suo impegno per un carcere aperto,

umano, popolato di persone da ricostruire.

Fondatore del carcere di Bollate, ritenuto

un modello, ha lasciato impronte indelebili

 

 

Franco Presicci

Luigi Pagano

Un libro bellissimo, istruttivo per chi usa dire “rinchiudilo e butta via la chiave”; o “Adesso hanno pure la televisione”, vedendo nel piccolo schermo un lusso, una concessione risolutiva, un privilegio. Un libro scritto con uno stile scorrevole, brillante, chiaro anche laddove l’autore s’inoltra in argomenti giuridici e nell’esame di leggi, riforme varate e rimaste sulla carta o attuate solo in parte.

Pagano ha la stoffa dello scrittore. Ed è stato un grande direttore. Lo riconoscono tutti quelli che lo hanno seguito. Parlando dei reclusi usa spesso la parola ”persone”, illuminante, se ce ne fosse bisogno, della sua concezione del carcere. Nei suoi quarant’anni di lavoro ha fatto un po’ il commesso viaggiatore. 

Prima destinazione Pianosa, dove conobbe Pietro Cavallero, che con Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, Donato Lopez il 13 settembre del ’67 irruppe nell’agenzia numero 11 del Banco di Napoli di largo Zandonai, a Milano, e fuggendo scatenarono un mezzogiorno di fuoco tra le strade e le piazze della città, seminando vittime e terrore. A Bad’e Carros assistette al massacro di Francis Turatello, il 16 agosto del 1981. Tra gli esecutori dell’omicidio, Pasquale Barra, uno degli accusatori di Enzo Tortora, un innocente messo alla sbarra per le accuse affastellate da un manipolo di criminali.

Luigi Pagano con il Presidente Mattarella

Pagano aveva 27 anni e cominciava a sentirsi a suo agio sulla plancia di un penitenziario. Dopo Nuoro, l’Asinara, dove, unico abitante era Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra organizzata. Il penitenziario era stato riaperto apposta per lui. Altra destinazione, Taranto con tutta la sua volontà di rendere la vita dei reclusi meno tormentata dalla solitudine, dalla lontananza delle persone care, dalla restrizione della libertà… Qui invitò Mario Merola, che arrivò con oltre tre ore di ritardo nella sala gremita. Per di più il “re della sceneggiata napoletana” tentennò alla richiesta di cantare, temendo che il caldo soffocante potesse creargli problemi alla gola. Il direttore insistette e alla fine il mito spiegò l’ugola.
Dal pubblico si levò un boato di applausi. Ha pagine memorabili il lavoro svolto da Pagano nelle carceri. E non soltanto per le attività di svago.
 
Il poliziotto apre la cella

A San Vittore è stato 15 anni. Un carcere edificato per 700 persone ne aveva 1200. Nel 1980, nel suo ingresso nel capoluogo lombardo, il cardinale Carlo Maria Martini chiese all’autista di deviare il percorso verso l’Arcivescovado per passare sotto le mura di San Vittore, che definiva “il cuore di Milano”. Mentre molti volevano rimuovere la struttura con il pretesto che non era in armonia con il tessuto urbano; ma in verità perché infastidiva chi non tollerava la casa circondariale quasi nel centro di Milano. Molti erano sordi al principio che la società deve stabilire un rapporto con il carcere, anche per evitare che una persona, scontata la pena, e in grado di reinserirsi, vedendosi respinta torni a delinquere. 

Corridoio di San Vittore
Gabriele Cagliari
Con quelle persone Pagano usava il dialogo costruttivo e spesso convincente. Un detenuto saliva sul tetto? Lui lo raggiungeva, si sedeva al suo fianco e intesseva il dialogo anche per scoprire i motivi intimi che lo avevano spinto a quel gesto.
La sua porta era sempre aperta, istituì una sala-stampa per ricevere i giornalisti, una novità assoluta. Ha avuto giorni difficili, come il suicidio del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, che all’esterno fece esplodere la polemica sull’uso che si faceva della custodia cautelare. Tangentopoli incrementò l’affollamento e non si sapeva a che santo rivolgersi per far fronte all’emergenza. Qualcuno di quelli finiti nella rete del “pool” di “Mani pulite” chiedeva un lavoro sia pure gratuito, pur di non stare con le mani in mano. Intanto un altro recluso s’impiccava in cella. Situazione davvero critica.
Ma ci sono stati anche momenti sereni, come la preghiera del cardinale Martini nel cortile di San Vittore con alcuni ex appartenenti alla lotta armata, dissociati ma non collaboranti con la giustizia, e poi la consegna di quattro borse piene di armi in Arcivescovado, come simbolo di resa.
 
Presicci e Pagano
Pagano racconta il carcere con passione e si racconta senza enfasi, calamitando l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina. Io l’ho letto in un giorno con moltissimo interesse e piacere, anche perché conosco Luigi e l’ho frequentato fino al giorno in cui sono andato in pensione. Ero autorizzato a varcare la soglia di San Vittore dal ministro e trascorsi anche mezza giornata di Pasqua con alcuni reclusi che sembravano sereni e spiritosi. Con Pagano abbiamo più volte conversato e l’ho ascoltato nelle riunioni con relatori competenti.
 
Il direttore Luigi Pagano
Uomo colto, intelligente, gentile, ha svolto la sua professione con impegno e senza risparmio di energie. Aveva collaboratori di notevole spessore. Milano, dove dice di essersi trovato bene, lo stimava e rispettava, i cronisti anche. Le sue opere non saranno archiviate. Tra l’altro ha fondato un carcere modello, a Bollate. Ha lottato per un carcere aperto, fucina d’idee. Un direttore insostituibile. Determinato e umano, esperto nel suo lavoro, intuitivo. Sabella lo ritiene un gigante a dispetto del suo fisico da ragazzo. E conclude: “Ecco, la Storia, quella con la lettera maiuscola, quella, in gran parte raccontata in questo libro che ho letto d’un fiato. La Storia d’Italia osservata da una prospettiva particolare, quasi unica: una visione a scacchi degli ultimi quarant’anni di vita repubblicana attraverso le sbarre delle prigioni e con gli occhi di quella umanità che le aveva popolate”. Quella storia, da Pianosa all’Asinara, Piacenza, a Taranto, a San Vittore, Luigi Pagano l’ha scritta con sincerità, senza retorica, senza reticenze, senza peli sulla lingua.
 
Pagano e la giornalista Isotta Gaeta
Per carattere dice sempre pane al pane e vino a vino. Dopo una discussione vivace con il pm Francesco Di Maggio, magistrato rigoroso, coltissimo, eloquente nelle requisitorie (magistrale per cultura giuridica, letteraria e filosofica, quella al processo al clan dei catanesi nell’aula bunker di piazza Filamgieri) divenne suo amico e andò a trovarlo a Vienna, dove il sostituto procuratore aveva preso a lavorare per l’Onu. Morì qualche tempo dopo. Laureato in giurisprudenza, una breve pratica nello studio di un avvocato, specializzato in Criminologia, campano di Cesa, provincia di Caserta, oggi sessantaseienne, già giocatore di calcio dilettante, abile nel realizzare spettacolari geometrie in campo, ammiratore di Maradona, lettore appassionato, una carriera esemplare, conclusa come vice al Dap, dipartimento al vertice del sistema carcerario. Il suo libro l’ho letto in un giorno, ma con molta attenzione. Adesso ripenso alle parole di Alfonso Sabella: “La voce narrante è quella di un uomo che, dal suo singolare mondo ignoto ai più, non solo l’ha più volte incrociata e toccata con mano ma ha anche contribuito, silenziosamente, a scriverla quella storia”


LA REDAZIONE DI MINERVA NEWS AUGURA A TUTTI I LETTORI E AL CAPO

REDATTORE FRANCO PRESICCI I MIGLIORI AUGURI PER UN NUOVO ANNO

COLMO DI SALUTE, AMORE E SERENITA'.  Il direttore Michele Annese  



martedì 22 dicembre 2020

Un fotocronista innamorato della “nera”

 

STEFANO CAVICCHI, DI FERRARA

UN VERO CAVALLO DA CORSA

Cavicchi oggi

Si è anche occupato di cronaca bianca.

Ha ripreso Papa Woytila, Sandro Pertini,

Spadolini, Gorbaciov. Occupandosi di

nera”, qualche volta è stato scambiato

per un poliziotto della Scientifica. Riprese

Giovanni Paolo II nella sua prima vacanza

in Valle d’Aosta.

 

 

Franco Presicci 

Il Papa ripreso da Cavicchi

Anche i fotografi ai miei tempi hanno consumato scarpe sulle strade di Milano e non solo, di giorno e di notte, galoppando o acquattandosi per fare lo scatto. A volte anche pericolosamente, quando, per esempio, tentavano d’immortalare un personaggio della mala recalcitrante. Anche loro avevano voglia di scoop”, e ne mettevano a segno. Posso citare bravissimi, appassionati fotocronisti. Lorenzo Pizzamiglio, che faceva parte della pattuglia del “Giorno”: con i suoi atteggiamenti da gatto sornione usciva dal giornale con l’attrezzatura nel borsone, ma la lasciava nell’auto, se era il caso di tirare fuori dalla tasca un sostituto infallibile. Un altro abile cacciatore di immagini del quotidiano dell'Eni un pomeriggio corse un brutto rischio: teneva nascosta la macchina sotto il giaccone in attesa del momento giusto per fare lo scatto; una ragazza uscita improvvisamente, si spaventò per il gonfiore dell'indumento e si mise ad urlare: "un mitra!". Per rassicurarla il professionista scoprì l'attrezzo di lavoro e nel frattempo cliccò. Non si contano i colpi realizzati da Stefano Cavicchi, “free-lance” oggi sessantacinquenne e non ancora a riposo. L’ho ripescato dopo tanti anni e ho voluto ripercorrerne la storia.

Obiettivo Sandro Pertini

Per la verità non è stato facile, perché l’esimio professionista non ama raccontarsi. L’ho incalzato e alla fine ci sono riuscito. Ma non sapeva da dove cominciare, tanti sono gli episodi che hanno costellato la sua attività, nelle sue notti bianche trascorse in strada o in questura, anche altrove e addirittura all’estero. “Dai, parto dall’inizio”. Dalla sua Ferrara, dove lanciò il primo strillo nel ’55 in una casa confinante con quella di Giorgio Bassani, l’autore del bellissimo libro “Il Giardino dei Finzi Contini”, da cui Vittorio De Sica trasse un film con Dominique Sanda nella parte di Micol, Romolo Valli, Lino Capolicchio… “Lì c’è la famosa Palazzina Marfisa, magnifica dimora signorile che appartenne a Francesco d’Este…”. Devo dirottarlo, perché a lasciarlo dire descriverebbe mezza Ferrara. “Mio padre, Luciano, faceva il tipografo alla “Gazzetta Padana”, quotidiano della città che con poche copie arrivava fino a Bologna, regno del “Resto del Carlino’.

Cavicchi con Spadolini

 

Mia madre, Osvalda, era commessa nel negozio “Giorgio calzature” nel centro storico, in via San Romano”. La passione per la fotografia di cronaca sorse quando aveva quasi 18 anni. “Una domenica mattina mi chiamò un giornalista del ‘Resto del Carlino’, edizione di Ferrara, e mi disse che la polizia aveva arrestato un dirigente sportivo e avevano bisogno di una foto. Non persi tempo. In un baleno ero in questura”. Fu questo il suo primo servizio. Carattere esuberante, volpino, ambizioso, vulcanico, allora fisicamente filiforme, un po’ timido e forse già con quella siepe di peli sotto il naso, si buttò a capofitto nel mestiere, scoprendo che non avrebbe potuto fare altro. “La nera affascina, ti prende, ti coinvolge. La nera seduce, ti entusiasma”. E’ vero. Persino il grande Dino Buzzati, giornalista, scrittore, pittore, scenografo, drammaturgo, al “Corriere della Sera” fin da quando era studente, nel ’65 trascorse notti insonni su un’auto del 777, il numero della Volante di quegli anni. “Con la cronaca, per la verità, Dino Buzzati aveva avuto rapporti fin dall’inizio del suo ‘meraviglioso mestiere, in via Solferino – ho letto in un piccolo libro con la copertina nera -.

Papa San Giovanni XXIII in vacanza
Nel 1928, a ventidue anni, era proprio entrato in cronaca al ‘Corriere’, e in cronaca era restato per sette anni, finchè l’uscita presso Garzanti del suo primo libro ‘Bernabò delle montagne’ lo aveva fatto promuovere alla redazione, a occuparsi delle province insieme con Emilio Radius…”. La nera rapì tanti giornalisti all’inizio della carriera, tra cui Guido Gerosa, che anche da vicedirettore del “Giorno” ricordava fatti e misfatti della malandra e la storia di “boss” e gregari. Alla cronaca nera riservavano un occhio particolare anche Gaetano Afeltra, quando era in plancia al “Corriere d’Informazione”; e lo stesso Guglielmo Zucconi, che lo sostituì alla direzione de “Il Giorno”. “Tre ‘esse’ fanno vendere i giornali – diceva – il sangue, i soldi, la salute”. Mi rimetto subito sul binario di partenza. Cavicchi ricevette la telefonata di Wilfredo Chiarini, dell’agenzia “Olimpia fotocronache, che aveva sede alle Varesine, nel capoluogo lombardo, e si sentì chiedere se fosse disposto a trasferirsi a Milano”. Rispose subito di sì, ma poi intervenne la riflessione: non aveva i mezzi per intraprendere questa strada che lo portava lontano dalla sua città. Prevalse nuovamente l’istinto: vendette l’agonizzante Mini Minor arancione e con il ricavato parti in treno. Giunto a destinazione, prese alloggio in uno degli alberghi frequentato dalle signore che luccicavano di notte. Riuscì ad acquistare un motorino 50 e mosse i primi passi nella cronaca. E siccome nel nostro ambiente contavano le amicizie (lo scrisse anche Giorgio Bocca nel suo “Vita di giornalista”), cominciando a bazzicare la questura, dove quel valente cronista del “Corsera” molto stimato tra i colleghi e gli investigatori, Alberto Berticelli, gli fece conoscere Marco Ancarani, capocronista di “Avvenire”, dal quale Stefano venne reclutato per seguire il cardinale Carlo Maria Martini; e quando l’arcivescovo andò a Lourdes con un treno speciale partito dalla stazione Scalo Romana, il neofita lo “scortò” assieme a tanti suoi colleghi. Dopo un po’ venne contattato dal capocronista de “La Notte”, glorioso quotidiano del pomeriggio condotto da Nino Nutrizio, definito da Indro Montanelli “un uomo a caldo in questo mondo di pesci Findus”, e da Vittorio Feltri “il genio che inventò la stampa popolare”.
In montagna

 

Fu in questo giornale, con sede in piazza Cavour, che Cavicchi intraprese i suoi voli. Incontrò Michele Focarete, che allora era impegnato nelle cronache notturne degli eventi nei locali milanesi, e con lui fece quasi coppia fissa. Primo atto che rivelò le sue doti: un generale di Corpo d’Armata desideroso di ritrovare un giovane lustrascarpe, che tante volte gli aveva lucidato le calzature (forse era l’ultimo della categoria che lavorava nella galleria delle carrozze della stazione Centrale) e si rivolse a “La Notte”. Il capocronista dette l’incarico delle ricerche a Cavicchi e a Focarete, poi passato in via Solferino rivelando l’ottima stoffa di cui era fatto, e il sciuscià venne rintracciato ad Afragola, nell’entroterra napoletano.

Modugno, Cavicchi, Franca Gandolfi
Quando il 18 giugno del 1984 l’inarrivabile astro della canzone Domenico Modugno fu colpito da un ictus durante la registrazione della trasmissione “La luna nel pozzo” di Canale 5 negli studi di Cologno Monzese, Cavicchi riuscì ad infilarsi nel reparto, a Niguarda, e a scattare le foto. Riprese l’autore di “Piove”, “Nel blu dipinto di blu” e di tantissimi altri brani intrisi di poesia, mentre la cortesissima moglie Franca Gandolfi spingeva la carrozzina fuori dall’ospedale. Stefano era, ed è, onnipresente; compare all’improvviso, fa il suo lavoro e corre via dopo aver catturato anche qualche notizia. A volte lo hanno scambiato per poliziotto. Abile, fulmineo, intraprendente, non si tirava mai indietro e continua ad essere un cane da tartufi. L’ho sorpreso più volte in questura appostato come un cacciatore in attesa degli uccelli di passo, a un paio di metri da una porta dalla quale stava per uscire un detenuto importante.
 
Cavicchi con Sua Santità

Si è occupato anche di cronaca bianca, fotografando personaggi di primissimo piano: Papa Woytila nella sua prima vacanza nel villaggio Introd, in valle d’Aosta; Giovanni Spadolini negli studi della Rai; Sandro Pertini, il Pontefice in Vaticano; Gorbaciov nella sua visita a Milano.… Quel giorno Stefano e i fotografi di tutti i giornali scattarono foto a iosa per un avvenimento clamoroso: all’arrivo del Presidente dell’Urss propugnatore della perestrojka in piazza Duomo, tra una folla straripante e rumorosa, lo sputafuoco Mustafà s’inerpicò come una scimmia sull’impalcatura montata per il restauro della facciata della Galleria Vittorio Emanuele per protestare contro i vigili urbani che lo riempivano di multe, interrompendo i suoi numeri. Furono momenti di grande tensione, che si sciolse quando Mustafà si fece convincere a scendere.

Scatto per Gorbaciov

 

 

Così Gorbaciov, seguito da un corteo di autorità e da una marea chilometrica e fluttuante, attraverso il salotto di Milano, fece il suo ingresso in Comune, protetto, oltre che dalla sua scorta, da centinaia di poliziotti e carabinieri, fatti venire anche da fuori. Stefano lo ricorda bene quel giorno così movimentato. E lo lascia emergere dalla memoria assieme a molti altri: l’omicidio della Settima Strada, a Segrate, dove s’intrufolò con disinvoltura nel teatro del delitto e venne preso per uno della Scientifica. 

Momento di leggere
Quanti delitti, alcuni irrisolti, come quello dell’antiquaria di corso Magenta; l’arresto della modella Terry Broome a Chiasso, proveniente da Zurigo, accompagnata dal vicequestore Enrico Macrì, capo della sezione omicidi di via Fatebenefratelli (era accusata dell’omicidio di Francesco D’Alessio, figlio del re dell’ippodromo, avvenuto il 25 giugno del 1984 in corso Magenta); l’arresto del re delle bische con il conseguente crollo del clan dei catanesi… Stefano aveva sempre l’orecchio teso. “Capivo da qualcosa che si agitava nell’aria che le forze dell’ordine avevano realizzato un colpo, e allora mi scatenavo, dopo qualche telefonatina a un amico, che magari trovavo reticente, imbarazzato, diceva e non diceva, intensificando la mia sensazione; e allora mi agitavo ancora di più, carpendo una conferma e un indirizzo…”). Nell’85 Stefano aprì un’agenzia, Day Studio, e poi conclusasi quell’esperienza ha conquistato il “Corriere della Sera”, dove lavora ancora. “Che cosa è per te la cronaca?”. “Una palestra, in cui la competizione è forte. Non puoi mai rilassarti. In qualunque momento può presentarsi l’evento e devi essere pronto. Del resto tu lo sai bene. La cronaca bianca mi ha permesso di muovermi nei palazzi romani, dove tra l’altro ho seguito prima Maroni e poi Salvini. Un giorno il giornale mi mandò a fare un servizio a Umberto Bossi, a Gemonio, dove vidi un bambino che soffiava su due candeline. Era il ‘Trota'. (Absit injuria verbis),così lo definirà il padre.“E la nera?”. “Quella ce l’ho nel sangue. La nera ti afferra e tu te ne innamori”.


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mercoledì 16 dicembre 2020

Crispiano com’era e come tornerà ad essere

Il giorno del matrimonio

 

UNA CITTADINA RICCA DI INIZIATIVE

DAL CARNEVALE AL PRESEPE VIVENTE

 

Durante la guerra molti cittadini di

Taranto, per paura delle bombe, si

rifugiavano a Crispiano, godendo tra

l’altro la sua aria pura. Per qualche

anno vi soggiornarono Alda Merini e

Michele Pierri.


 

 

 

 

 

 

Franco Presicci

A Santeramo festa delle due comunità montane di Gioia e Mottola

Un tempo i nonni nei giorni prima di Natale, tenendo in mano la pipa con il fornello di terracotta e la cannuccia di canna, si sedevano con i nipotini attorno al braciere e raccontavano storie. A volte quelle storie erano completamente improvvisate, altre volte erano briciole di ricordi arricchite dalla fantasia.

Annese,dott.De Cesare e Nuzzi presidente comunità montana di Gioia

 
 
Certo è che i virgulti pendevano dalle loro labbra, mentre sotto la cenere crepitavano i ceci. Mio nonno non mi snocciolava favole, ma brani della sua vita passata ad erigere muri con l’aiuto di due o tre giovanotti incaricati di “carescià’ ‘a còffe”. Anch’io ho tanto da dire, ma di un paese con persone capaci di realizzare idee brillanti e originali. E siccome sta per arrivare la più bella festa dell’anno, mentre si prepara l’albero o si costruisce il presepe, apro l’archivio della memoria e lascio fluire i ricordi. A sollecitarmi sono state alcune persone di laggiù, che, telefonandomi per darmi gli auguri, si sono lamentate del fatto che nella graziosa cittadina alle porte di Taranto sembra si sia un tantino spento l’entusiasmo.
 
Presepe vivente organizato dall'Ass. Pro Loco

Le grotte basiliane, per esempio, non accolgono più i figuranti con indosso i panni dell’epoca di Gesù e gli ambienti sono vuoti e tristi, quindi niente presepe vivente, ampio e spettacolare, curato nei minimi particolari. Colpa del covid, questo killer spietato? A quanto mi dicono, già prima l’abilità manuale dei crispianesi si era messa a riposo. Michele Annese, già direttore intelligente e dinamico della biblioteca “C. Natale”, spera nella rifioritura della volontà di riempire le strade con luci, suoni, odori e colori, quando questa iattura sarà passata. “Gli amici da sempre”, ai quali si devono tante belle imprese, come lo straordinario presepe di biscotti o pane scaduti in un locale del corso principale, dovrebbero rimettersi in moto con il loro affiatamento, la dote creativa e la riconosciuta infaticabilità potenziando la “Sagra d’u diavulìcchie asquànde”, invitando editori di libri sulla spezie e la sua storia e personalità autorevoli nel settore, del livello del professor Biagi.

Annese,Alfredo De Lucrezis-Presidente Amici da Sempre e Vito Santoro

Ricordo tutte le iniziative che hanno animato Crispiano. A cominciare dalla “Sagra dei funghi, organizzata dal ristorante “C’era una volta” di Santino Basile. Era l’estate del 2005 e mi aggirai fra le bancarelle affascinato dalle forme e dai colori di cumuli di boleti, pensando alle leggende che li hanno per protagonisti. Sin dai secoli passati hanno suscitato sospetti e prudenza. Cicerone lo teneva lontano e se lo sbirciava faceva gesti apogropaici; l’imperatore Claudio passò a miglior vita forse gustando un piatto di “Amanita verdognola” preparatogli dalla moglie Agrippina, vogliosa di assicurare il trono al proprio figlio, Nerone.
Francesco De Mita alla Sagra dei Funghi
Come sempre ci sono buoni e cattivi. Del fungo Giovenale tesse le lodi. Anche se si chiama “trombetta dei morti”, grazioso nella sua forma di cornucopia, ma mangereccio, come il “Boleto lurido”, così detto per il colore bluastro che prende quando viene toccato. Il grande Enzo Tortora nutriva simpatia per queste gemme dei boschi. Hanno di tutto, favola, poesia, sortilegio, medicina, cucina. Nel fungo, c’è nostalgia della terra, alla quale l’uomo si sta avvicinando sempre di più, scoraggiato dal caos e dai rumori della città.
 
Affresco "La cattura di Pizzichicchio",realizzato su una parete della masseria Belmonte, ove Santino-ha ricordato-25 anni fa venne aperta a Crispiano, per sua iniziativa, "l'Ostaria Pizzichicchio"
  
 
Sante(Santino) Basile

Ho incontrato Santino un paio di anni fa alla “Sagra d’u diavulìcchie asquande” e l’ho supplicato di riproporre la celebrazione del fungo, primattore silenzioso di tanti spezzoni di storia. Spero abbia accolto la mia richiesta di “fan” della sua città. Da Martina Franca a Crispiano occorrono 20 minuti di macchina e ho sempre risposto ad ogni appello di Michele Annese. Lo feci anche quando, nel maggio del 1999, nella masseria “La Pizzica”, della famiglia Piangevino”, si svolse un convegno provinciale sul tema: “L’allevamento delle lumache da gastronomia in Puglia: situazione e prospettive”. Un simposio interessante, al quale parteciparono oltre 400 persone e sei relatori. Tra questi, Antonio Gentile, commissario straordinario della Comunità montana Murgia tarantina; il sindaco Francesco Liuzzi; Oronzo Perrone, esperto regionale di elicicoltura, e Luca Ficco, secondo il quale le lumache “sono un piatto tipico delle mense dei buongustai pugliesi, ma purtroppo il loro consumo si mantiene attualmente quasi esclusivamente concentrato in certi periodi dell’anno”.

Gentile con l'assessore Nunzio Tria

Il motivo? La specie di chiocciola più fortunata, la “Heix Aspersa”, altrimenti detta ‘monacella’, viene messa in commercio solo nel periodo estivo…”, perché solo allora si forma l’opercolo, quella lamina bianca che si stende sulla bocca della chiocciola. Discorsi interessanti. Alla fine a tutti i presenti venne offerta una coppetta fumante di monacelle e il sindaco Liuzzi volle offrirmi la sua, perché, mi disse da bravissimo medico pediatra, che quel gasteropodo ammazza il colesterolo.

Il dott. Franco Liuzzi con la moglie Chiara

 

 

 

 

Il congresso venne seguito da molti giovani, alcuni dei quali intenzionati ad attingere notizie utili per allestire un allevamento di monacelle sull’esempio di un altro Liuzzi, Franco, che successivamente organizzò una sagra che attirò migliaia di persone provenienti anche dai paesi vicini. Una specie di Ben Gazzara faceva lo schifiltoso, affermando che quella bestiolina così viscida gli faceva senso; mentre una signora settantenne bella, bassa, magra, spiritosa, viaggiatrice appassionata, infilzando con lo stecchino l’ultima vittima si diceva appagata anche dalla gentilezza della gente del posto. E aggiungeva che era bello una volta, quando si andava per i prati a raccogliere le lumachine che alloggiavano sulle foglioline o sugli steli delle festuche o sui muri a secco.

Michele Annese rispolverava i tempi in cui si mangiavano crude per rimarginare le ferite ulcerose; e il dottor Donato Plantone, già segretario comunale di Crispiano, confessava di averle tenute alla larga per anni e di aver poi ceduto al primo assaggio.

Il Carnevale estivo organizzato dalla Pro Loco

Meritatissimo successo otteneva il Carnevale estivo o del fegatino congegnato dalla Pro Loco con carri faraonici e creazioni in cartapesta singolari, che, se non facevano concorrenza al confratello di Viareggio, come sosteneva orgogliosamente qualche inossidabile campanilista, era sicuramente apprezzabile, anche per i gruppi a piedi ben sintonizzati e maschere isolate che trasmettevano allegria nel pubblico accalcato nella piazza. Un anno sfilò anche un carro intitolato “Cavallo di Troia”. Insomma in questa cittadina le cose si sono sempre fatte bene, con passione e maestria. Non posso credere che il dinamismo si sia definitivamente fermato come il treno su un binario morto. Non dimentico le iniziative della Comunità Montana, che nel suo albo d’oro immortala, tra l‘altro, il gemellaggio con la Grecia, festeggiato alla grande nella masseria “Le monache” alla presenza di tante personalità e di invitati di tutte le categorie, giornalisti compresi.

Gentile balla il Sirtaki in onore degli ospiti Greci

Donato Plantone esaltava i meriti del segretario generale Annese, degli assessori e del presidente dell’Ente Antonio Gentile, che ballava il “sirtaki” meglio di Anthony Quinn nel film sulla vita di Aristotele Onassis. E sottolineava la bellezza e il sapore delle ciliegie ferrovia coltivate nella stessa struttura rurale. E il lavoro svolto dalla biblioteca “C. Natale”, sotto la guida di Michele Annese e la collaborazione del uno “staff” preparato, appassionato, sempre disponibile? Una biblioteca che non si limitava a fornire i libri richiesti, ma teneva corsi di cucito, dattilografia, computer, mostre di pittura, conferenze, incontri con autori; e incoraggiava manifestazioni nelle masserie a volte con figuranti impegnati nella simulazione dei lavori scomparsi sotto gli sguardi di finti briganti forniti di fucile … La “Carlo Natale”: una biblioteca esemplare, dove trovai un vecchio libro di Giacinto Peluso che avevo cercato inutilmente ovunque a Taranto, la città che lo storico nato nel borgo antico aveva illustrato con amore e chiarezza.

In copertina il territorio delle due Comunità Montane

La biblioteca era una fucina, un laboratorio, un luogo sacro che bisognerebbe far rinascere, con il suo centro montaliano, dotato di documenti preziosi del Premio Nobel autore di “Ossi di seppia”, e di un’emeroteca ricchissima e di moltissimi volumi. Ho sempre in evidenza nella mia libreria “Le cento masserie di Crispiano”, pregevole opera con testi importanti e immagini significative.Alcune idee messe in cantiere dalla biblioteca di Crispiano oggi vengono adottate da altri anche al Nord, come i libri in condominio, cioè consegnati a domicilio.

Presentazione dell'opera a Martina Franca, al Centro della Fondazione Nuove Proposte(dott.A.Silvestri,Annese,avv. E.Greco,dott.M.De Cesare)
Un invito alla lettura che non dette delusioni, perchè tutti i destinatari furono fedeli all’impegno della restituzione. Non ho davanti a me il braciere per rimediare al freddo di questi giorni, che resiste al potere dei caloriferi; non ho nipoti piccoli a cui raccontare queste storie. Ma come il mio vecchio di un’epoca trapassata ho sentito il bisogno di esporre tanti miei ricordi, con modestia e lucidità. Qualcuno potrà osservare che io non sono di Crispiano. Bene. Ma appartengo alla Bimare, da dove durante l’ultimo conflitto la gente scappava per rifugiarsi proprio a Crispiano, dove veniva accolta con molta ospitalità. E questo non può essere dimenticato. Come non si può dimenticare che qui soggiornò il grande poeta tarantino Michele Pierri, primario traumatologo all’Ospedale Santissima Annunziata, insieme ad Alda Merini, la poetessa dei navigli, come viene definita a Milano. E non si può dimenticare l’onorevole Lo Re, figura eminente, cristallina e generosa di un tempo ormai lontanissimo e completamente diverso.
 
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mercoledì 9 dicembre 2020

La passione per il dialetto

'A frascère

A TARANTO E’ “’U SPEZZIDDE”

IL NOTO GIOCO DELLA LIPPA


I genitori imponevano ai figli

di non usare il vernacolo, ma

c’era chi disobbediva e diceva

lucèscere”, anzichè albeggiare.

Il dialetto è un patrimonio da

non perdere, ma da difendere,

affermavano i vecchi.

 

Franco Presicci

Scaldino antico di Quatela

Scaldino scomposto di N. Quatela

Ascolto sempre molto volentieri chi usa il mio dialetto. Un piacere che posso permettermi nelle rimpatriate estive nella splendida città dei due mari. Di solito colgo l’occasione per fare un salto a Taranto vecchia, dove mi fermo, in via Garibaldi o “indr’a vìremenze”, ovunque veda gruppi di vecchi che parlano del governo, del sindaco o del pescato del giorno prima. Tengo l’orecchio teso per catturare suoni che escono da quelle labbra screpolate, e gioisco. A Milano, dove vivo da anni, non trovo mai nessuno che, pur nato quaggiù, dica, per esempio, “’mbasulàte” anziché appassire,”’ndruppecàre” al posto d’inciampare. E’ più fine. Si preferisce “Ghe pensi mi” (Ci penso io), che fa parte della lingua del Porta. Un collega dalla scrittura elegante, che ha tutta la mia stima, quando accennavo al vernacolo storceva il muso: “Il dialetto, accidenti!, no, perché fare torto a Calvino o a Porzio, che pure era di Taranto e non parlava mai come te?”. Anche mia madre, casalinga con un bagaglio culturale quasi vuoto, quando ero ragazzino mi redarguiva severamente se chiamavo “curciùle” l’uccello appena caduto dal nido (lo portai subito alla nonna perché lo salvasse). Lo considerava un peccato, e mi ripeteva la tiritera: “Lo capisci che devi elevarti? I ragazzi che vanno a scuola devono avere un linguaggio dignitoso ”. Come se il dialetto fosse roba da scaricatori di porto o (con tutto il rispetto per questi lavoratori). E rimanevo perplesso quando, parlando con mia zia, scivolava su “Criste le fàce e Criste l’accòcchie” o su “Pàne e panèdde fàcene le fìgghie bbèdde”. Pretendeva che mi distinguessi. Ma a me non importava essere diverso dagli altri. Con i miei compagni usavo “spezzìdde”, il gioco della lippa, “caùre” invece di granchio e “pezzùte”, per aguzzo. E godevo quando potevo urlare “Càpe, ci ‘a mandène è fàtte”, momento esaltante di un altro gioco da me molto praticato sul larghissimo marciapiede in terra battuta di fronte a casa: “’a Levòrie”, sul quale gli studiosi, compreso Filippo Di Lorenzo, hanno discusso tanto (pare fosse diffuso in Spagna addrittura nel Medioevo). Anche per questo passatempo ero ritenuto un ragazzo di strada. Soprattutto da “’nu maulòne”, una specie di pertica, che, essendo figlio di un impiegato, mi parlava con sussiego ricordandomi che mio padre era un arsenalotto e mi pronosticava un avvenire da garzone di bottega. “Grannezzùse”, altezzoso, e “cape de tùfe”, avrebbe sentenziato mia nonna, che lo soprannominava “’ndrasciòne” per la sua altezza. Diventato un po’ più grandicello, il mio vocabolario dialettale s’infoltì e dissi chiaro e tondo a mia madre che non potevo esaudire il suo desiderio di avere un moccioso fedele ai suoi canoni: il dialetto per me era ed è importante come il pane che mi nutre e come la lingua italiana che comunque sapevo che dovevo coltivare. Ma lei aveva la testa dura. Mio nonno, noto per aver lasciato sempre deserto il suo banco a scuola e per la sua sensibilità straordinaria, cercava di farle comprendere che il dialetto fa parte del nostro patrimonio e che anche lei doveva apprezzare parole come “lucèscere”, albeggiare; “’ngègne”, la noria del signor Capone, la cui campagna era vicino all’orto di mesta Ronze, dove lei andava a comperare “’a gnète”, la bietola. E la supplicava: “Làssele lìbbere a ‘stu uagnòne!”. 

Alfredo Lucifero Petrosillo

Io ne approfittavo per stimolarla spiegandole la bellezza di certi gioielli, come “’U travàgghie d’u màre”, titolo del poema di Alfredo Lucifero Petrosillo, dal quale ero stato affascinato.

La stessa venerazione nutrivo per Alfredo Nunziato Majorano, che andava nel borgo antico per bearsi della parlata de “le chiùdde”, i pescatori, o de “le cuzzarùle”, i mitilicoltori o “d’u putejàre”, il bottegaio. Don Alfredo, come lo chiamavo io, aveva molti meriti, riconosciuti da studiosi eminenti, tra cui Michele De Noto, che, in una lettera del ’32, di lui scrisse che era un vero talento di folclorista e che se fosse nato trent’anni prima molte più persone avrebbe sottratto all’oblio. Don Alfredo scriveva anche di teatro, regalandoci opere come “’U fìgghie d’a Madonne”, ”’A truccchelesciàte de fratèlle Spiridiòone”, “’A Sanda Mòneche”, “’A stutàte”, ”A vite d’u piscatòre”, uno dei lavori a lui più cari, in cui racconta i drammi familiari, la miseria, i sacrifici, le sofferenze della gente “che per sopravvivere s’impegna l’anjidde d’a bonàneme”… Le sue commedie, commentò nel ’31 Gaetano Savelli, avevano il merito di essere popolari senza essere volgari, fedelissimo specchio della vita tarantina, dell’anima del suo popolo, quel popolo che viveva ‘ind’u strittile, ca stè sèmb’arrajate cu sole…”.

'A frascère della bisnonna Addolorata Tagliente-Anni '30
'A Frascère della nonna Antonietta Greco-Anni '50
Di Majorano ricordo una fitta raccolta di poesie e “Zazarèddire”, edito da Mandese. Ricordo i suoi rapporti dì amicizia con Gerald Rohlfs; e i suoi studi demopsicologici.
Indimenticabile un altro grande: Diego Marturano, autore di tante commedie, come “U cuèrne de Marije ‘a Canzirre”, ” Mastro Agostino Fragaglia”, “L’ove de zia Cuncette”; e di migliaia di versi drammatici o brillanti, ispirati dalla sua città, dalla sua vita quotidiana, dal suo passato, dalla sua bellezza… Come non ricordare “’U relògge d’a chiàzze”, “Tàrde vècchie mie”, “’A vie de mìenze”? Alto, magro, signorile, schivo, lo vedevo passeggiare in via D’Aquino e lo ammiravo, questo delicato cantore di Taranto, storico attento e scrupoloso, come Giacinto Peluso, Nicola Caputo….Tanti poeti ha avuto la nostra città. Tra i più… recenti, Claudio De Cuia, Nerio Tebano, Diego Fedele... Di Diego, che ho frequentato quando abitava in via Messapia, ricordo, fra i tanti altri, i divertenti versi di “’U rafanìedde”, attraversati da un doppio senso garbato, sottile, divertente; e i brani sul Natale: ”Natàle tarandìne”, “’A frascère”; “Da Natale a Sande Stèfane”, “Creije è Natale”. Con poeti e commediografi ho tenuto vivo il mio dialetto, ho amato sempre di più la parlata del mio cuore. Anche con “’U panarjidde”, che veniva confezionato nella tipografia Leggieri, che aveva sede di fronte a piazza coperta. Il periodico fu diretto anche da Petrosillo, che lavorava in Arsenale, dove durante la pausa pranzo si isolava per mettere mano alla penna, adottando come scrivania il bancone. Persona simpaticissina, camminava a passo di danza. Un anno prima della mia partenza per Milano mi disse che le sue “cose” erano all’Archivio di Stato, dove mi sarei potuto rivolgere in caso di bisogno. Nessuno può accusarmi di aver tradito il mio vernacolo.
 
Sagra del peperoncino piccante

Quando vado a Crispiano per passeggiare con il mio amico Michele Annese, pilota del periodico on line “Minerva News”, lungo via Sant'Arcangelo con sosta nella adiacente piazza Martellotta, nel quartiere di San Simone, alla “Sagra d’u diavulìcchie asquànde”, mi sfogo sciorinando termini che hanno a che vedere con questa spezie famosa in tutto il mondo: “diavulìcchie”, nome che probabilmente scaturisce dal suo colore rosso, afferma Nicola Gigante nel suo “Dizionario della parlata tarantina”. E perché non dal suo potere d’infiammare la gola? osservo. Mi vengono in mente la frase di James Joyce (“Dio ha creato l’alimento, il diavolo il condimento”) e le tante personalità che non potevano farne a meno, da Greta Garbo a Bertrand Russell, ad Anna Magnani, a Cole Porter, ad Anthony Quinn, a Frank Sinatra…Oggi sono interessato ad alcuni bravissimi cultori del dialetto che postano su facebook gli antichi proverbi: “Muttete e Detti”.

Enzo Loperfido

Uno di questi è Enzo Loperfido, che non solo raccoglie i vari gioielli di saggezza popolare, contribuendo a tenere vivo questo serbatoio lessicale, ma ne scova le origini, il momento storico in cui sono nati, le interpretazioni dei massimi studiosi e le proprie… Insomma una fatica meritevole, utile anche ad estendere la conoscenza. Una delle ultime “sentenze” trae spunto dai primi versi di una poesia di Nerio Tebano, poeta tarantino che viveva a Roma: “Achiure, achiur’a porte p’a currende, ci no po’/ ‘mbagghiare ’a parturènde….”. Ecco: il verbo “’mbagghiare”, per il quale Loperfido fra l’altro consulta i vocabolari del Rohlfs e De Vincentis, ma non si ferma lì: arriva fino al XV secolo per concludere che con il termine “mbagghiare” si voleva indicare un malanno che poteva colpire la donna gravida. Da tutto questo lavoro emergono anche altri elementi, come i modi di vivere di un tempo, gli usi, i costumi, le abitudini, le necessità. E rispunta “’a caggiòle pe’ le surge”, cioè i topi, ospiti ovviamente sgraditi delle vecchie case di una volta. In alcune, di roditori ce n’erano tanti ed era indispensabile una gabbia per catturarli. All’epoca faceva parte della dote del giovane innamorato. In casa di mia nonna abitava una famiglia numerosa di muridi, e mio zio, falegname e figlio di falegname (mest Fiorènze, un uomo eccellente che aveva il laboratorio nell’androne del palazzo in cui abitava e del quale era proprietario) confezionò una trappola con un gancio a molla al centro, a cui si appendeva un pezzettino di formaggio: attirato dall’odore, il topastro entrava, toccava la prelibatezza, scattava il congegno e la porta “s’achiutève”.

L'abbraccio fra l'Isola e il Borgo
Il resto lo lascio alla fantasia di chi legge. Insomma questi “Muttete e Detti calendarizzati” sono di un grande interesse e chi ama il dialetto “d’a nàche” farebbe bene a seguirli: imparerebbe tanto. In altri interventi emerge una figura di Taranto molto nota: Marche Poll, al secolo Amedeo Orlolla. Batteva tutte le strade vendendo il periodico satirico “’U Pamarjidde” e la schedina della Sisal. Proponeva la sua merce dicendo ad ogni passante: “A vuè mo’ ‘a schedine? No ? E pìgghiate ’U Panarjidde”. Un giorno Enzo Loperfido, laureato in informatica, intelligente, colto, tarantino doc, incontrandolo, gli disse. “Amedeo, ti porto tanti saluti dal tuo amico Giuànne Portafoglio”. La risposta: “Amiche tùve, je fatjie”. Marche Poll, nome dovuto al fatto che il padre era stato imbarcato sulla Marco Polo (lo raccontava, quando gli capitava, lo stesso Amedeo), non era dunque annebbiato come molti pesavano. Lo ricordo bene. E ricordo le serate in cui strillava lungo via D’Aquino i messaggi burleschi che gli venivano commissionati in cambio di qualche lira. Altri tempi. Altra via D’Aquino, dove il comitato della Festa della Matricola si sedeva al Bar Principe con l’intento di sviluppare i progetti per la baldoria.

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mercoledì 2 dicembre 2020

Feste di ieri e di oggi

                                                                

Figure per il presepe di Manola e Vincenzo

 

NON SPEGNERA’, IL CECCHINO   

LA MAGIA DEL SANTO NATALE

    Una volta le strenne le portava

    la Befana, calandosi nella gola

    del camino, dove c‘era. Almeno

    questo si raccontava ai bambini.

    Ma la vecchietta distingueva tra

    ricchi e poveri. In verità erano i

    portafogli dei papà ad essere

    vuoti 

 




Presepe dei Soliti Ignoti

 

 

Franco Presicci

Natale è alle porte. Ma temo che quest’anno

la ricorrenza sarà in tono minore: il cecchino

invisibile continua a tenerci in scacco. Ma non

bisogna mai perdere la speranza. Certo,

stando ai provvedimenti del governo, le

tavolate non potranno essere affollate e i baci

e gli abbracci dovranno essere evitati. Ma

forse potranno essere riaperti i

negozi, e quindi gli innamorati potranno

scambiarsi i regali e i ragazzini

avere le ultime novità tecnologiche.

Zampognari al Centro dell'Incisione
I più piccoli convinti che a portare i giocattoli è Babbo Natale, quell’omaccione con il volto incorniciato da pelo bianco, l’abito rosso e il cappello a punta e la pallina di lana bianca penzolante; a differenza dei più grandi, i quali sanno che Santa Claus è una figura immaginaria e che sotto il suo abbigliamento c’è una persona che magari invece di ridere vorrebbe piangere. Io ricordo altri Natali, con i papà e le mamme in giro per la città in cerca di giocattoli meno costosi, che non si trovavano certo in esercizi tipo la Rinascente a Milano, che – come dice Carlo Castellaneta nel suo libro “Nostalgia di Milano” – era un Paese dei balocchi, che i più poveri potevano al massimo sognare”. Nelle vetrine i trenini della Lima e della Rivarossi correvano in un regno di bambole e di eserciti di soldatini di piombo (mamma quanto li ho sognati!), mentre sulla città fioccava la neve. Per ricevere un semplice Pinocchio di legno bisognava essere stati buoni o aver riportato voti decenti sulla pagella; altrimenti, cenere e carboni. Ma non so quanti genitori se la siano sentita di rovinare la festa ai marmocchi. So di molti che aggiungevano al regalo un biglietto. “Gesù Bambino ha pensato a te anche se non lo meritavi”. Ma io mi riferisco ai Natali tarantini, quelli di circa ottant’anni fa, quando laggiù l’automobilina a pedale e il pulcinella su quattro ruote, che, spinto da un’assicella, percuoteva i piatti, li portava la Befana, che faceva distinzioni tra ricchi e poveri. Ma non ci facevo caso e piuttosto mi domandavo come facesse la vecchia con il naso lungo e curvo e il mento appuntito ad infilarsi nel camino, dove c’era, con il sacco dei giocattoli sulle spalle, come si raccontava.
 
Le pettole
Con me e con quelli che abitavano nella mia via era avara: ci lasciava un anno “’nu currùchele”, un altro “’nu tirammòlle”, un altro ancora ‘”nu monopàttene”, che poi scoprii, origliando, che l’aveva fatto, in modo rozzo, mio padre e mia madre, per riparare, disse che lo aveva incaricato la Befana. Solo verso i dodici anni mio cugino Enzo, più grande di me e più smaliziato, mi rivelò che “’a ròzzele” che avevo trovato sul comodino era opera di mio zio Dionigi, cioè suo padre, che per mia sorella aveva eseguito una camera da letto raffinata. Quindi la Befana non era una vecchietta che volava a cavallo di una scopa come i barboni nel famoso film di Vittorio De Sica. I doni li portavano papà e mamma, e i miei avevano il borsellino che piangeva.
 
Statuine della Casa del presepe

Una volta sentii piangere una bambina a cui la Befana aveva portato una bambola di pezza piena di segatura. Ne aveva avuta una anche mia sorella, che non pianse, ma rimase molto male quando quella subì uno strappo ed emise “tande di chidde farfugghie” che poteva riempire una grossa scatola di scarpe. A pensarci, mi viene in mente l’antica filastrocca cantata da Renato Carosone: “Mo’ vene Natale e nun tènghe denare, m’appicce ‘na pippe e me vaco a cuccà”. Eppure il Natale lo aspettavamo con ansia per un anno. Non dico la gioia di vedere passare gli zampognari che arrivavano dall’Abruzzo e suonavano “Tu scendi dalle stelle” con le cornamuse. Erano il simbolo, i messaggeri della grande festa Natale. Alla vigilia mettevamo la letterina sotto i piatti del nonno e del papà e quando il piatto veniva riportato in cucina i destinatari facevano un po’ di teatro inscenando la sorpresa. Le due lire ce l’avevano già in tasca.

Bambinello di Manola Artuso e Gianluca Seregni
Erano comunque Natali di gioia. Già un mese prima si cominciava a fare il presepe, che non era certo come quelli di Napoli, dove anche le scenografie popolari raggiungevano livelli d’arte (non parliamo poi dei presepi in cui, nel XVII secolo, provvedeva a sistemare i pastori il re Carlo III, mentre sua moglie si occupava personalmente dell’abbigliamento e eminenti architetti facevano il resto). Molto più modestamente il nostro lo faceva mio padre con fogli di giornali impastati di creta sciolta in un secchio, e poi impiegati per ricoprire, aggrinziti, lo scheletro di compensato. Gli alberi erano compito mio: andavo a prendere, a piedi, i rami di pino già strappati a Praia a Mare, stabilimento balneare sulla strada per San Vito. L’erba proveniva da un campo a due passi da noi, noto e frequentato “p’a ‘ngègne”, la noria, fatta girare da un cavallo bendato. Per l’illuminazione veniva utilizzata una normale lampadina nascosta fra gli aghi. Le statuine le confezionava mia madre: non ci potevamo permettere di fornirci dalle bancarelle allineate vicino alla chiesa di San Cataldo (tra l’altro troppo lontane dalla nostra via, alle Tre Carrare).
 
Presepe di Manola e Gianluca

La creta ce la dava uno che l’acquistava abbondantemente per sé ”sus’a le Tammòrre”. Insomma non era un presepe spettacolare, di quelli con le casette ben distribuite, cioè le più piccole dietro e le più grandi davanti, secondo un ordine prospettico, tante luci nelle grotte e lungo i sentieri, l’acqua non simulata con fogli di carta argentata, un paesaggio da sogno, i personaggi sagomati da artigiani o da artisti, come a Milano Manola Artuso e Gianluca Seregni, una coppia affiata nell’arte e nella vita, nella loro bottega di viale Certosa; e a Taranto la famiglia Mazzarano della Casa del Presepe. Eppure l’allestimento del presepe era un momento magico, che mi faceva immaginare di trovarmi tra il guardastelle e un pastore con la zampogna o addirittura seduto in una grotta accanto a quella del Bambino. Per monsignor Gianfranco Ravasi - presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura e dei Dicasteri Vaticani per l’archeologia e l’arte sacra, già prefetto della Biblioteca e Pinacoteca ambrosiana – “con tutto il suo apparato di figure, e di emozioni e di paesaggi, il confluire dei pastori stupiti che avanzano verso quella grotta e quel Bambino appena nato, l’adorazione solenne dei Magi con il loro insieme sontuoso di doni costituiscono infatti per l’arte un vero e proprio alfabeto colorato della vita, della fede, della fiducia, dell’avvio di una storia segnata della pace tra Dio e l’umanità e degli uomini tra loro”.

Presepe vivente di Crispiano

E per Elisabetta Oropallo, esperta di spettacolo e comunicazione, il presepe è fonte di attesa gioiosa per tutti i bambini che attendono l’arrivo del Natale…”. Qualunque sia il risultato ottenuto da chi lo ha concepito. Il periodo natalizio memorabile l’ho avuto anch’io, ed è stato quello in cui mia madre, facendo un sacrificio enorme, mi regalò un drappello di soldatini di piombo, uno più bello dell’altro. Un mese dopo un militare disertò e lo cercai dappertutto, piangendo. E quando mi ero ormai rassegnato alla sua perdita, lo ritrovai in casa di un lontano parente e non ebbi il coraggio di rivendicarne la proprietà. I sopravvissuti sono oggi allineati su uno scaffale della libreria. In ricordo dei tempi in cui improvvisavo le battaglie navali con le mollette come aerei e le navi di carta galleggianti in una vaschetta colma d’acqua. Quanti ricordi avrei da snocciolare. Tanti ne sono emersi dall’archivio della memoria il giorno di Santa Cecilia, che introduce l’aria del Natale. Amici di Taranto mi hanno mandato un paio di video con la banda in giro per la città fin dalle prime ore del mattino.

I Magi nella Casa del presepe di Grazia Spataro

Mi viene in mente il grande, autorevole, coltissimo Giacinto Peluso, che in uno dei suoi libri, “Taranto da un ponte all’altro”, ha scritto che una volta le bande erano due: quella di Scattigne e quella degli Scarpari, che si alternavano, attirando un bel numero di persone, ragazzini compresi. Suonavano le “pastorali”, aggiunge un altro grande, Nicola Caputo: “Le ‘pastorali’ sono fondamentali nella tradizione natalizia tarantina. Dal 22 novembre e sin al 6 gennaio saranno le vere protagoniste della festa più intima, più raccolta dell’anno”. Meticoloso, storico appassionato, Caputo lo fa rivivere, il Natale di una volta, descrivendo anche i piatti, dalla pasta con le cozze o con le anguille, “’u capetòne”, per concludere, dopo altre pietanze, con le “castagne d’u prèvete”. Allora le donne preparavo “u resòlie”, operazione in cui erano bravissime. Per acquistare gli ingredienti si rivolgevano a Misciose, in una drogheria di via Garibaldi, nella città vecchia. Le vie profumavano di “scarcèdde”, “sanacchiùtele” costellati di “anesine; “taradde”, che mia nonna ci faceva portare al forno di “mest Petrìne”, che mandava aromi in tutta la via Giusti, parallela alla nostra. E, giacchè c’era, confezionava anche le “fresèdde”, con le quali facevano colazione. Il nonno stava a guardare, tenendo in tasca la pipa a collo di giraffa, perché gli era proibito fumare durante la lavorazione di quelle prelibatezze. La sera si faceva la partita a scopone con mio padre e i miei zii, e noi a guardare, vigendo la proibizione per i mocciosi di partecipare. Anche per gli adulti il Natale era ed è una festa magica e importante.

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