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mercoledì 23 agosto 2017

Fulcro del lavoro contadino


 

SPLENDIDE ARCHITETTURE TESTIMONI DI UNA CIVILTA’

 

Cascina Linterno dove per 9 anni abitò Petrarca

 

A Milano alcuni di questi

gioielli

sono stati azzannati

dalla ruspa,

qua e là di notte, per

evitare le

proteste della gente.

La loro storia

è stata scritta con i

sacrifici e il sudore.



Franco Presicci

Molte cascine di Milano sono come certe “dame d’antan” che nella gloria dell’età conservano ostinatamente il fascino del tempo che fu. Quelle che non lo sono più hanno purtroppo le ossa rotte, sono gusci vuoti o offrono alloggio ad attività estranee alla loro destinazione originaria: qui uffici decentrati del Comune, come in via Passerini, a Niguarda; lì una carrozzeria... A Milano, nell’hinterland e in Lombardia è facile imbattersi in una di queste strutture rurali, anche nei borghi antichi ingoiati dalla città: a Greco come a Baggio.
Cascina Guardia di Sopra
Cascina sul Naviglio














In via Novara 340, s’impone per fascino e grandezza la Cascina San Romano edificata in più fasi nel XVI secolo. In via Bellaria 90, l’omonima Cascina sorge nel bel mezzo del parco di Trenno. In via Sant’Arialdo 17, la Cascina Anna, che, eretta agli inizi del ‘900 per volontà dei Visconti di Modrone, si lascia ammirare per le sue caratteristiche stilistiche. In via Mosca 82, dalle parti di Baggio, è situata la Molinello: In via Gallarate, la Merlata; al Gratosoglio la Chiesa Rossa e la Basnetto con i suoi vari corpi disposti attorno a un ampio slargo rettangolare. In via Melchiorre Gioia, la Cassina de’ Pomm, sfiorata dal Naviglio Martesana che a una decina di metri, gorgogliando, comincia a scorrere sotto traccia. In piazzale Cimitero Maggiore 18 la Cascina Torchiera, che deve il nome al lombardo “torcera”, stanza con il torchio del vino. A Peschiera Borromeo la Cascina Pescaccia, menzionata nella mappa del Claricio del 1600…
Altre architetture di questo tipo sono sparse lungo il Naviglio Grande: Guardia di Sopra, appartenuta ai Visconti; dirimpetto Guardia di Sotto, che vanta anche un oratorio, innalzato nel 1622 da Giovan Battista Pozzi e dedicato alla Vergine Maria (una testa di cavallo in terracotta troneggia sotto la grondaia sulla parete della stalla). Al Parco Lambro, la Cassinetta San Gregorio; a Rozzano l’ottocentesca Cascina Grande, trasformata in luogo di cultura, con una sala-convegno nell’ex fienile, e la biblioteca; a Porta Romana, la Cascina Cuccagna, così chiamata forse in omaggio a un albero da festa paesana issato nel cortile dell’osteria che una volta si apriva nel complesso. Ad Assago la Cascina Bazzanella, data di nascita XVII secolo. La quattrocentesca Cascina Resenterio a Locate Triulzi, con la vecchia pesa e la macchina per la pilatura del riso…
Altra cascina milanese
Il fotografo Pietro Orlandi nel 1999 fece una lunga passeggiata da una cascina all’altra, puntando il suo occhio magico su quelle più notevoli, tenute con ogni riguardo. Riprese alcuni momenti del lavoro agricolo o zootecnico, gli attrezzi (vomeri, zappe, falci fienaie…); gli ambienti (brolo, stalla, portici, corti, loggiati della dimora del padrone, “caminate” (stanze del camino…), torri, fontanili, pozzi, chiese, campane, che scandivano i tempi della fatica e segnalavano gli eventi straordinari. Immagini bellissime, di ampio respiro. Realizzò anche panorami dall’elicottero: a Pavia, ad Abbiategrasso, a Vigevano, a Ronchetto delle Rane, a Mede Lomellina, persino sorprendendo rane intrappolate in una sorta di nassa e mondine genuflesse, le gambe affondate nell’acqua: scene da “Riso Amaro”, il film del ’49 di Giuseppe De Santis con Silvana Mangano, Vittorio Gassman, Raf Vallone.
Cappella Linterno
E raccolse questi tesori fotografici in un libro ormai esaurito, il cui testo venne affidato al sottoscritto. Milano e la Lombardia sono dunque disseminate di cascine: nel 1288, nel suo “De Magnalibus Mediolani”, Bonvesin de la Riva le definisce “mansiones extraordinaree”, appunto per indicarne la loro abbondante “fioritura”. Purtroppo, alcune hanno subito i colpi del piccone, che in qualche caso ha operato di notte o nei mesi in cui il sole brucia e la gente è al mare o in montagna. Spesso la demolizione è stata decisa dal degrado, come per la cascina di via Cottolengo, alla Barona, già sfigurata dal tempo e dall’incuria. Il “De profundis” è stato recitato anche per la Cassinazza di via De’ Missaglia, nell’85; per la Cascina della Seta, a Quarto Oggiaro, azzannata dalle ganasce della ruspa nel ’91… E dire che questi manufatti sono testimonianza del secolare rapporto dell’uomo con la terra, quindi patrimonio da tutelare. Documenti rimasti per molto tempo sconosciuti le fanno risalire al X secolo, sotto forma soprattutto di depositi e fienili. Alcuni esperti ritengono che il termine cascina derivi dal latino “capsia”, ricovero per le bestie, o “casius”, cacio, formaggio. Nel Medioevo l’attività di questi luoghi ebbe un notevole incremento anche con l’allevamento dei bovini, quindi carne e latticini. Con il passare del tempo il settore, sviluppandosi, richiese nuovi locali atti ad accogliere le diverse fasi della produzione. Nella seconda metà del Seicento si inaugurò l’epoca della cascina a forma chiusa o a corte, per difendersi delle bande criminali incline al saccheggio e a ogni sorte di violenza; e per la decisione dei padroni di farsi costruire la propria dimora “in loco”, di solito su un lato o di fronte all’entrata, per esercitare un controllo più diretto sul lavoro nei campi. Che era organizzato razionalmente: ogni dipendente un compito preciso: il “bozzolone” preparava il cibo; lo “strapazzone” faceva di tutto; il “cavallante” governava i cavalli; il “camparo d’acqua” si occupava della rete d’irrigazione… Erano, questi, i lavoratori fissi, sempre in debito con il proprietario pur percependo poche lire e un piatto di minestra.
Ingresso di una cascina
A loro si aggiungevano gli ”obbligati”, che dovevano correre in cascina per ogni necessità; e gli avventizi, che venivano liquidati quando non servivano, e alcuni di loro s’intruppavano tra i malviventi, facilitando le loro scorribande per la conoscenza che avevano dei luoghi. L’agricoltore lombardo è stato l’artefice della prima intensiva coltura del riso, nella quale, secondo antiche fonti, nel 1470, s’impegnò con risultati soddisfacenti, a Villanova in Lomellina, Galeazzo Sforza. Il suo esempio fu seguito da altri e alla fine del XVI secolo la risicoltura padana, grazie anche a terreni inondati artificialmente, prese ad eccellere in Europa. Intanto, faceva capolino il granoturco, gonfiando le tasche dei signori e fornendo di polenta le tavole povere con la conseguente propagazione della pellagra. Diffusi anche la vite, il gelso, che, probabilmente nel 1148, introdusse l’industria della seta per merito di un tale fra Daniele, degli Umiliati. Lodovico il Moro provvide a migliorare la produzione con i gelsi bianchi. Qualcuno ha scritto che la casa è il prodotto di una storia.
Cavallo in cascina
La cascina è il contenitore in cui si snoda la vita e il lavoro.
La storia delle cascine è stata scritta dall’impegno, dai sacrifici, dalla ricerca di nuove risorse atte a strappare il meglio alla terra. Nella cascina il contadino viveva con i genitori, la moglie e i figli. Si alzava all’alba e andava a letto al tramonto. Quando lasciava il campo dopo ore di sudore pregava. E in tante lo si fa ancora oggi. Viene in mente Renzo Tramaglino, che, arriva a Greco, a Milano, e cerca qualche “cascinotto” in cui poter riposare. Memorabile un passo di Ferruccio De Bortoli, sulla plancia di comando de “Il Corriere della Sera” per due volte, intervallate da una direzione del “Sole Ventiquattr’ore”, in “Terre delle cascine a Milano e in Lombarfdia”, dell’editore-libraio Nicola Partipilo, barese trapiantato nel capoluogo lombardo una sessantina di anni fa: “Per vedere questi monumenti, basta percorrere da Milano, dalla darsena, la pista ciclabile del Naviglio Grande, che poi va su fino al Ticino, e a Sesto Calende. Si può non incontrare nemmeno un’auto. Oppure da Abbiategrasso scendere verso Bereguardo e magari puntare verso Morimondo. La sensazione è quella di un tuffo in una Lombardia antica, che alterna marcite e risaie, che allinea pioppi e gelsi…”, tra chiese e conventi, ville, castelli, cascine…. “Se si ha voglia, si raggiunge Albairate, dove alcune cascine sono di provenienza medioevale….”. I visitatori, sempre più assetati di verde, di quiete, di silenzio, restano estasiati di fronte a queste gioie dell’anima. Nella Cascina Linterno per 9 anni abitò Petrarca.

















venerdì 18 agosto 2017

Dal New Jersey a Tursi, nel Materano



Gennaro e Davide Lonigro


SETACCIARONO IL PAESE

CERCANDO I PARENTI



Era il settembre del 2001. I ricordi

 

di chi fece da guida in quella giornata

 

emozionante. Il fascino del paesaggio

 

lucano, che ispirò Carlo Levi e il poeta

 

Albino Pierro. La festosa accoglienza e

 

la promessa, mantenuta, del ritorno nella

 

“terra della luce”.

 

(Foto di Davide Lonigro)

 

                                                                                      



Franco Presicci


“Lonigro, Lonigro, Lonigro…”. Pensò un attimo, stringendosi il mento fra il pollice e l’indice, fissando una siepe umana davanti al bar di fronte, e poi, con l’aria di chi ha un’illuminazione subitanea, esclamò: “Questo Lonigro non lo conosco”; e ci voltò le spalle con uno scatto quasi meccanico. “Certo che non conosce Gennaro”, intervenne un signore, sottile, pantaloni scuri, camicia bianca aperta sul collo e cravatta, vaga somiglianza con l’attore francese Pierre Leroy. “E’ forestiero, non so da dove viene; è la seconda volta che lo vedo qui. Gennaro lo trovate all’Istituto per ragionieri ‘Manlio Capitolo’. Se non è lì, provate a casa, in via Giacomo Matteotti. E’ una persona squisita”. “Scusi, visto che è così cortese, ci indica il 10 di via Pisacane?”. “E’ questa, la via Pisacane; il 10 ce l’avete davanti; ma non ci abita più nessuno chissà da quanto”. Una volta ci abitava la nonna di Maria. Lei si girò salì i pochi gradini della costruzione dalla facciata screpolata, guardò la porta usurata dal tempo e frugò nella memoria, mentre Thonas, capelli argentati, alto, aspetto da lord inglese, faceva grillare la macchina fotografica.

Borgo antico di Tursi
Quanta fatica, quanti giri e quanti quesiti sotto il sole fino a quel momento. Ci rimettemmo in cammino, imboccammo quel tratto d’intestino un po’ in salita che conduce alla scuola “Manlio Capitolo”, poeta e giurista nato a Tursi nel 1904 e deceduto a Roma nel ’54; ci fermammo all’ingresso, spostandoci appena in tempo per evitare che una valanga di giovani ci travolgesse, troncandoci sulle labbra la domanda: “Dove possiamo incontrare il ragionier Lonigro?”. Silenzio da un crocchio che faceva programmi per il pomeriggio e da chi lasciava il campo alla spicciolata. Troppa fretta, la testa altrove. Ci avrebbero illuminati due signore nell’atrio, professoresse o bidelle o chissà chi, prese da una conversazione un po’ animata, affogata nel cicaleccio di chi si attardava, scambiandosi scherzi e battute come sempre dopo il suono della campanella, se un uomo garbato, pacato, faccia da buon parroco di periferia, non si fosse affacciato alla ringhiera, al primo piano: “Chi vuole Lonigro? Lonigro sono io”. Un brivido di gioia mi percorse, e mi scoprii nei panni di Raffaella Carrà che in una trasmissione televisiva urlava “Sono quiii!”, e tirava fuori dalle quinte come conigli dal cilindro di un mago gli emigrati a lungo cercati, per lanciarli fra le braccia dei parenti trepidanti per l’evento. “Eccoli lì in fondo alla scala, i suoi cugini venuti da oltreoceano”. Un brillìo si accese negli occhi di Gennaro, che venne verso di me, divorò il resto della rampa e, dopo un attimo di esitazione, si allacciò forte alla coppia. “Andiamo a casa”, disse poi con l’ugola smorzata. 

Veduta di Tursi
Era il settembre del 2001 (il giorno sfugge alla memoria, che ha i suoi limiti), e quei momenti vissuti a Tursi - provincia di Matera, città non ancora designata capitale della cultura ma ampiamente visitata per i suoi Sassi, e non solo: una meraviglia – spesso sentita nominare ma mai vista e contemplata -, restano indimenticabili. L’idea di scrivere questa stupenda esperienza mi è venuta la vigilia di ferragosto, pochi giorni or sono, quando, avendo beccato un numero invece di un altro nella mia rubrica del telefono vecchia di vent’anni, quindi sbiadita, ho sentito dall’altro capo del filo una voce chiara e forte: “Non sono la persona che vuole!”. “Scusi, io sono Presicci, può dirmi chi è lei?”. “Gennaro Lonigro”. Gennaro! Ma è stato il caso a combinare il portento... I ricordi di quel giorno hanno immediatamente avuto uno sbocco e preso a fluire come l’acqua di un fiume: ogni particolare, ogni attimo, le parole, le sequenze, i gesti: un film: l’arrivo in via Matteotti; Gennaro che dice alla figlia Carmelina, tenace e appassionata studentessa di Lingue straniere: “Ti presento Maria Elena Smith e suo marito Thomas da Haddonfield, New Jersey; Carmelina che esulta, abbraccia gli ospiti; mentre Gennaro avverte che è quasi l’una e bisogna mettere in tavola quello che c’è; e Carmelina che lo rassicura: “Papà, la mamma stamattina presto, prima di andar via per la vendemmia, ha già preparato tutto.
Thomas, Cermelina, Maria, Maria Elena, Gennaro
Dobbiamo chiamarla”. La mamma, Maria, bella, simpatica, affabile, comunicativa, vulcanica, arrivò in un baleno, felice dell’improvvisata, con slancio baciò più volte Maria Elena e Thomas, senza trascurare me e mia moglie. Poi si mise ai fornelli, facendo la spola tra la cucina e la sala. Gennaro mi chiese di accompagnarlo a prendere le delizie del paese, dei dolci e una torta. Sulla via del ritorno mi precedette in un’edicola, acquistò per me cinque o sei cartoline illustrate di Tursi e la “Guida” di Salvatore Di Gregorio, ricca d’informazioni anche storiche e di immagini, soprattutto del borgo antico. A tavola alle 14.

Borgo antico rabatana
Prima di sedersi, l’altro gioiello di famiglia, Davide, impegnato anche lui negli studi con ottimi risultati, andò al computer e stampò la “List of manifest of alien passenger for the United States”, la carta d’imbarco dell’11 maggio 1910, con in testa il nome dello zio Vincenzo. Era la dimostrazione delle ricerche fatte negli anni per rintracciare gli amati familiari d’America. Al “dessert”, Maria Lonigro appoggiò sulla tavola una scatola di cartone piena di fotografie; le sparse; Maria Elena le passò con lei in rassegna, puntando il dito su zii, nipoti, nonni, scandendo i nomi, e rispolverando sprazzi di biografie. Maria accavallava le domande, curiosa, avida di notizie, affezionata com’era a questi discendenti dei congiunti che avevano rinunciato alla culla per andare a conquistare la fortuna così lontano.

Paesaggio di Tursi

Poi, volgendosi a me: “Come mai siete insieme?”. E io, con orgoglio da battistrada che ha realizzato l’obiettivo: “Sono miei ospiti a Martina Franca da quattro giorni, hanno voluto conoscere l’abitazione, in via Marangi, dello zio prete, che fu canonico penitenziere nella cattedrale e morì nel ’62, e li ho esauditi, mostrando loro anche la stupefacente Valle d’Itria e il centro storico, un teatro naturale con quinte e fondali. Ieri hanno espresso il desiderio di venire da voi a Tursi, ed eccoci qui. “Adesso andiamo in campagna a raggiungere gli altri parenti”. La richiesta di Gennaro fu subito condivisa, e il piccolo esercito volò verso le macchine. Giunti a destinazione, dalla vigna emersero uomini, donne, bambini, e corsero a salutare festosamente gli “americani”. Gennaro, Maria e i figli non potevano stare nei loro panni; la nuova comitiva neanche. Gennaro osservava compiaciuto la scena e mi consegnava brandelli di storia del paese – oltre 5 mila abitanti - che nel 2006 ricevette da Carlo Azeglio Ciampi il titolo onorifico di città. ”Tursi, che ispirò Carlo Levi pittore e il poeta Albino Pierro, deriva da un guerriero di origini bizantine, Turcico, padrone della zona. Il centro abitato è tagliato dal torrente Pescogrosso; sul punto più alto è collocato il Castello.

Tursi di notte
Questo fondo fu acquistato da mio padre dalla nonna di Maria in partenza per gli Stati Uniti”. Nelle ore libere dal lavoro ufficiale, quest’uomo basso di statura, ma elevato nell’animo e nell’intelligenza, oltre che ragioniere geometra, una famiglia tutta armonia, rispetto reciproco, amore, guidava il trattore, il dinosauro meccanico, che era proprio di fronte a noi. Io ascoltavo con interesse e guardavo i cesti ricolmi di grappoli. Arrivò il momento dell’arrivederci e Maria e Thomas promisero di tornare (manterranno la promessa). Nessuno si decideva a fare il primo passo. Era piacevole stare qui in questa campagna deliziosa, fra queste persone che amano ancora stare insieme. Tutti avevano ancora qualcosa da dire come pretesto inconscio per evitare il distacco. Temporeggiavo anch’io. Vedevo il gruppo che s’infoltiva, i piccoli che si rincorrevano tra i filari piluccando gli acini, e pensavo a Giustino Fortunato, eminente rappresentante del meridionalismo; all’esimio pittore Luigi Gurricchio (che frequentò le accademie di Napoli e Milano), amico di Rocco Scotellaro, “il genio improvviso e dimenticato”, che, nato a Tricarico, conosceva profondamente il dramma dei contadini… Dolce Lucania, “terra della luce”.









mercoledì 16 agosto 2017

Il sito su Facebook “Memorie tarantine”



CARTOLINE E FOTO D’EPOCA

 

SUSCITANO GRANDI EMOZIONI

 

Il tram sul ponte girevole

 


Accompagnano in un viaggio a ritroso

 

nella città di una volta, fra tram, carrozze

 

e tramonti magici sul Castello. Questa

 

perla non ha perduto la sua luce, anche se

 

ha qualche neo. Come tutte le bellezze.

 

                                               (Foto: collezione "Memorie Tarantine")




Franco Presicci


C’è un sito su Facebook che è una pregevole antologia d’immagini della Taranto di una volta: rinfrescano la memoria e suscitano nostalgia.

Il ponte sul canale
Su quei rettangoli di carta, foto o cartoline d’antan, riemergono il vigile urbano che troneggiando sulla pedana dirigeva il traffico, con i cittadini che il giorno della Befana deponevano ai suoi piedi pacchi-regalo per ringraziare il corpo del servizio reso; il tram che percorreva sferragliando il ponte di Porta Napoli o il ponte girevole con le braccia spalancate, mentre una folla s’ingrossava in attesa del via libera libera; le strade più famose; la facciata di un cinema chiuso da tempo con i brandelli di un manifesto strappato dell’ultimo film proiettato; la Sem, che ha lasciato soltanto il nome; le processioni dei Misteri e dell’Addolorata; gli stabilimenti balneari in viale Virgilio (“Lido Taranto”, “Elena”, “Nettuno”…), che rispuntano con Praia a Mare e Lido Bruno sul vialone per San Vito; gli oggetti in disuso non so più da quanto: “a frascère”, “’u scarfalìette”, ‘”u mòneche”, “’l’abbrustelatùre” … Qualcuno gioca con gli indovinelli, sollecitando chi ama pescare tra i ricordi luoghi, monumenti, targhe, personaggi... “Che via è questa?”, è la domanda che accompagna la cartolina d’epoca o la foto con il pallore dell’anzianità. E piovono numerose le risposte, giuste o sbagliate, segno dell’amore che tanti tarantini conservano per la città.
L'Arsenale
Chi vive lontano sfoglia con interesse e passione questo album che diventa sempre più folto; e in parte si consola alla vista delle paranze e delle lampare; “d’u chiùdde” che rammenda la rete; dei vicoli, dei nugoli di ragazzini che giocano all’aria aperta; dei negozietti, dei piatti copputi in terracotta colmi di frutti di mare (noci, vongole, ostriche, mitili, cozze pelose, “javatùne”, “spuènze”…), allineati su banchi a più ripiani, a scala. Faccio due passi su quell’interminabile strada molto trafficata che costeggiando “’u màre peccerìedde” va dalla discesa Vasto “’a Duàne d’u pèsce”, concludendosi in piazza Fontana, e vedo baluginare la figura di Francesco Miccoli, che trascorreva le ore ad aprire quelle delizie (un chilo mille lire) per clienti appassionati, tra i quali un grande intellettuale tarantino di Pulsano, Piero Mandrillo; e a “Pesce Fritto” e ai suoi giorni di gloria.
Queste immagini mi rimandano alla chiesa di “Sanemìnghe”, da dove nella Settimana Santa esce la Madonna. Tante volte ci sono andato da ragazzo, attraversando “’a vieremiènze”.

Taranto vecchia
Quasi settant’anni fa il parroco era don Stefano Ragusa, di Martina Franca; e il sacrestano “’u caggiàne”, uomo buono e simpatico detto così, benevolmente, per il modo di camminare. Il sacerdote trasformò in teatro una cappella sconsacrata per iniziare alle scene un gruppo di giovani aspiranti. Salivo i gradini della chiesa sempre con gioia, ammirando ogni volta, là in alto, il celebrato rosone. Fu solenne la cerimonia svoltasi nello stesso tempio fra una siepe umana in onore di un Crocefisso eseguito e donato da uno noto scultore, il cui nome mi sfugge. A volte preferivo sgambare sulla Ringhiera per fermarmi ad ammirare le imbarcazioni alla fonda in Mar Grande; e i veloci motoscafi che da lontano sembravano baffi d’cqua. E’ notevole il merito di “Memorie Tarantine”, che di memorie ne sforna a josa, non solo nelle vedute. Leggo Carmen Adamo, interprete brillante - mi dicono – di commedie dialettali con il suo gruppo “le Pizzecarìedde”, e ripasso la storia della mia culla e il mio dialetto, che mi è sempre caro. Sono curioso di sapere se siano tanti a farne uso o se anche questa preziosità sia rimasta soltanto nel cuore di pochi. Ero nel verde degli anni quando mi sedevo in platea, all’Orfeo, per godere le opere di Bino Gargano, Diego Marturano, Alfredo Nunziato Majorano… Di quest’ultimo, “’A stutàte”, rappresentata al cinema Dopolavoro Ferroviario, se non erro nel ’57. Accanto a me, Saverio Nasole esprimeva la sua approvazione con sorrisi lampeggianti. Il commento su “La Voce del Popolo” lo scrisse Antonio Rizzo, critico teatrale di grande cultura e severità, tanto da essere inutilmente chiamato a Roma da “La Voce Repubblicana. Niente avrebbe potuto estirpalo. Lo rivedo uscire dal Circolo Unione, con l’abito bianco, il cappello e il bastone. Fu lui a portare nel ’50 il Premio Taranto nei saloni adiacenti all’Istituto Talassografico, dove era direttore il professor Pietro Parenzan, che dipingeva i fondali del Mar Piccolo e mise in aldeide formica un pescecane a due teste appena nato, raro esempio – mi informò – di teratogenesi marina.

Altro angolo della città vecchia
Quella mostra, che attirò a Taranto pittori contemporanei famosi (da Cassinari a Pirandello, a Meloni) e critici d’arte autorevoli, come Marco Valsecchi, scatenò un putiferio tra i pittori locali, che preferivano Giotto e Velasquez. Nella mia testa lampeggiano anche i giorni della Fiera del Mare nella Villa Peripato; e della balena spiaggiata trasportata con un camion nella stessa oasi Beaumont, che ospitò anche un festival con grandi nomi della musica leggera: Joe Sentieri, che cantava “E’ mezzanotte”, facendo il saltello; Paolo Bacilieri, Nuccia Bongiovanni, Wilma De Angelis, Miranda Martino… Tra i giudici, Mario Casalbore, de “Il Corriere Lombardo”, quotidiano del pomeriggio di Milano da anni scomparso (ultima trovata pubblicitaria la ricostruzione nel salotto del capoluogo lombardo della famosa rapina all’oreficeria Colombo in via Monte Napoleone). Mario, che navigava sulle note da una città all’altra, scese apposta quaggiù, ritenendo la rassegna di suo gusto. Quante memorie dunque risveglia questo sito, che seguo quasi dalla sua nascita, apprezzando il clima che vi si respira. Mai impennate polemiche; mai interventi scurrili, o sfoghi pirotecnici o intemperanze. E sempre un linguaggio morbido, educato, per parlare della città dei due mari, delle sue vicende storiche, dei suoi nastri più belli: la vecchia piazza Maria Immacolata, nome voluto dall’arcivescovo Bernardi in anni agitati; via Di Palma, dove, proprio di fronte al cinema Odeon (altro capitolo del libro dei ricordi), s’incrociavano i binari di scambio dei tram.

Il Castello
Nell’una e nell’altra “Il Corriere del Giorno” ha avuto la sede dopo via Mazzini in cui lavorarono firme notevoli: Livio De Luca, Mario Ligonzo, Franco De Gennaro, Tani Curi, Domenico Casulli… Ed eccoci in via D’Aquino. Chissà quanti amori sono sbocciati in questa arteria; quanti sono andati in malora, e quante amicizie sono state coltivate o disintegrate. A migliaia facevano la ronda (rubo l’espressione a un grande della nostra poesia: Alfredo Lucifero Petrosillo) da un capo all’altro, chiacchierando, spettegolando, tirando scherzi mancini. Alcuni sostavano davanti all’edicola Fucci per leggiucchiare a scrocco i titoli dei giornali; altri curiosavano nella libreria Mandese, dove signoreggiava il cavalier Antonio, vero gentiluomo. “Qui abbiamo avuto in visita Raphael Alberti, Vittorio Sgarbi e tante altre personalità dell’arte e della letteratura”, mi disse un giorno Nicola, sempre garbato e premuroso.
Il fiume Galeso
Non lo sapevo, ma non mi stupivo. Rispolvero dunque il passato grazie a “Memorie tarantine“. Guardo cartoline e foto di Mimmo Di Todaro, Enrico Vetrò, Franco Scherma, Dino Pignatelli, Jole Sorrentino (Cuzzarùle tarandìne nel 1935; il ponte girevole aperto nel 1900; un braccio di questa meraviglia; il Castello Aragonese…)…, e compio continui viaggi a ritroso nel tempo. Nonostante le ferite, i drammi, le offese che questa nostra città ha dovuto subire, conserva gran parte del suo fascino. “La perla ha perduto la sua luce?”. La provocazione fattami a Milano da un tarantino renitente alle rimpatriate rimase senza risposta. Non la meritava. Per me ogni ritorno è un’emozione, e divento pellegrino tra le vie del borgo e quelle al di là del ponte, ascoltando la sonorità delle parole che sfuggono alle labbra screpolate d’“u chiùdde” o l’urlo “d’u cuzzarùle”; “Na, mo’ t’hà’ fàzze vedè accum’jè chiène, ‘sta còzze”. E fluiscono i versi di Majorano in “Tàrde vècchie mije” e quelli di Nerio Tebano, che a Roma sospirava Taranto e il Galeso. M’indignai alla battuta dello stesso tarantino radicato al Nord come l’edera al muro e la mosca al vischio. Per lui il fiume Galeso, era “un canale, tutt’al più un torrente”. Ah, se Orazio, Virgilio… potessero alzare la testa! Sacro, è il Galeso. Un luogo dell’anima, che dovrebbe essere più rispettato, e invece quando ci andai la prima volta trovai difficile arrivarci perché non c’era alcuna indicazione utile. Il Galeso è un vanto, come i colori che al tramonto si accendono nel cielo, ispirando tante tavolozze: magie di Taranto. Sì, è una regina, Taranto, nonostante certi spazi che avrebbero bisogno di qualche ritocco. Ogni bellezza ha il suo neo.




mercoledì 9 agosto 2017

Il cavalier Antonio Mazzarano


 

UNA VITA PER IL PRESEPE


TRA LUMINARIE E FUCINA


Costruiva le architetture natalizie

e le raccontava alle scolaresche, che

seguivano avide e numerose le sue

lezioni. Amava parlare e raccontare.

Lavorò anche alla costruzione del
 
Palazzo del Governo. Infaticabile,

severo, inflessibile, si è spento con

le note di un poeta.






Franco Presicci

Quando conquistò la soglia dei 90 anni, parlando con un amico, disse: “Chissà se arriverò al secolo”. Antonio Mazzarano lo ha superato, andandosene a 104 anni. “E mezzo”, precisa il figlio Giuseppe, che di anni ne ha 71. “A quell’età gli spiccioli contano”. Ed entra subito nell’argomento senza aspettare la domanda, aggiungendo che il padre ha mantenuto viva a Taranto la tradizione del presepe. Parla in modo pacato, sottovoce, misurando le parole, avvolgendo l’interlocutore con uno sguardo benevolo.
Il Palazzo del Governo
Quando è nato i ragazzini giocavano per strada alla “livoria”, con la palla di pezza, “’o spezzìedde” o con le cinque pietruzze che si lanciavano a una a una in alto, le si riprendevano velocemente nella caduta, mentre si raccoglieva e lanciava un’altra rimasta a terra. Un gioco di abilità. La città presentava le ferite provocate dalla guerra e negli occhi della gente c’era ancora la paura dei bombardamenti e del suono lugubre della sirena che li annunciava. Diventato grande, Giuseppe, tredici, quattordici anni, non ha mai tirato calci alla palla imbottita di stracci, che i coetanei si confezionavano da soli. Il papà Antonio era severo ed esigeva che i sette figli rigassero dritto e loro, tutti e sette, gli obbedivano. Dalle parole di questo signore cordiale e molto ospitale si capisce la devozione e il rispetto che la famiglia nutriva per Antonio, che nella città dei due mari era stimato e amato. “Voleva che noi collaborassimo con lui, imparassimo la difficile arte del presepe, che a me ha riempito la vita”. Era intransigente e dava l’esempio. Infaticabile, “non si fermava mai. E non lasciava che qualcuno gli suggerisse di riposare un po’, di risparmiarsi”. Dava molto di più di quello che chiedeva.
Il fiume Galeso
Era di Massafra; ed era occupato come capo operaio, fabbro fucinatore, ai Cantieri Tosi, due passi dal fiume sacro, il Galeso, che scorre placido tra filari di alberi ad alto fusto. Dal Tosi passò all’Arsenale. “Era ricco di idee, inventivo, ingegnoso”, interviene Grazia Spataro, 47 anni, la bella, cordiale, simpatica nipote di Giuseppe, alla quale è affidata la gestione della “Casa del Presepe-Dmat” (Dmat sta per Ditta Mazzarano Antonio Taranto), di via Principe Amedeo. Lasciò l’Arsenale e si mise in proprio aprendo un’officina in via Cesare Battisti. Chiuse l’officina, acquistò una cassarmonica sgangherata e con l’aiuto dei figli la rimise in sesto. “Intanto aveva inaugurato un negozietto di statuine del presepe nel borgo antico, dove stava la mamma; ed è lì che alimentò la vocazione per i paesaggi natalizi.
Andava a farli nelle case, nelle chiese, ovunque lo chiamassero, coinvolgendo i figli, soprattutto Giuseppe e Luciano che tra l’altro ha realizzato un ponte girevole in dimensioni ridotte e perfettamente funzionante, collocato in bella vista nel Castello Aragonese. Personaggio di rilievo, Antonio, consacrato “re del presepe”. Nel laboratorio di via De Cesare, e battezzato il giorno in cui nacque Giuseppe, cominciò anche a confezionare stelle, grotte, montagne, scale, ponti, illuminazioni con lampade a forma di pisello… Poi anche a Taranto arrivò il “boom” dell’albero. Quando la moda si sgonfiò, tutti tornarono all’antico. E l’impegno di Antonio e dei suoi ragazzi si accrebbe. I concittadini lo sollecitavano e nascevano architetture con artigiani in movimento, cascate d’acqua, effetti di luci in dissolvenza: alba, giorno, tramonto, notte. Nel laboratorio, Antonio distribuiva gli incarichi, e tutti eseguivano fedelmente. Lui costruiva magie continuando ad esercitare il mestiere di fabbro, perché quando la Befana aveva portato i doni, attraverso la gola del camino, se c’era, chiudendo la parentesi della festa più attesa dell’anno, la famiglia doveva continuare a nutrirsi. Ma la passione non andava in vacanza. E i costruttori Antonio, Giuseppe e Luciano, e qualche altro fratello, tenevano corsi anche alle scolaresche, avide di apprendere. Spiegavano come nasce un presepe, in sughero, in cartapesta, in gesso, poliuretano, tutti i materiali che impiegavano in quell’arte. L’attività oggi continua.
E’ evidente la fiammella che Giuseppe si porta dentro. “Quando fai il presepe ti rilassi, non pensi ad altro, sei estraneo a tutto, i pensieri quotidiani sono lontani, il tempo scompare: sei così preso che non ti accorgi delle ore che passano, cominci la sera e finisci al mattino; sei lì intento ad allestire montagne, casette, a piantare alberi, cespugli, a erigere muretti, a montare recinti per le pecore, forni, castelli, laghetti, sentieri, a disporre i pastori, il guardastelle, il dormiente, presenti sempre in ogni presepe, e ti immedesimi, ti senti dentro quel mondo idilliaco che stai plasmando”.
Opera artistica di Mazzarano
Un sogno fatto di simboli: l’acqua, la luce, il fuoco…, cioè la purificazione, l’amore, la palingenesi... Il presepe affascina, dà serenità, affonda il pessimismo. “Una volta a Taranto – dice Giuseppe – i presepi nelle case occupavano mezza stanza. Univa la famiglia. Padre, madre, virgulti, tutti si davano da fare per produrli. Ed era sempre una gioia”. C’era chi li arredava con rami di pino veri, erba e paglia vere; chi le statuine se le faceva da sé; e chi sullo scheletro in legno modellava carta da pacchi impregnata di acqua e creta. In via De Cesare, nel ’58, accompagnai l’indimenticabile Raffaele D’Addario, che era tornato a Taranto dopo aver fatto lo scenografo a Cinecittà e l’insegnante di disegno a Roma. Persona buona, intelligente, schietta, pittore e presepista. Li fabbricava in scatole di cartone. A casa, in via Cataldo Nitti, quasi all’angolo con corso Umberto, aveva un ampio locale con un bancone e cumuli di sughero. Il risultato finiva nella vetrina della drogheria del padre, in via D’Aquino. Comperava i personaggi dalla “Casa del presepe”, che ne aveva, e ne ha, anche in alabastro, in argilla grottagliese, in cartapesta romana trattata a Lucca, di scuola partenopea e siciliana, un Bambinello in cera che realizza cinque movimenti al ritmo di un carillon… e tutta la minuteria, vasi, secchi per i pozzi, fascine, pagliai, lampioncini, pollai…ciò che è necessario per addobbare quel mondo affascinante. Ha anche Madonne, schiere di “perdune”, carabinieri, vigili urbani che seguono le processioni della Settimana Santa e dell’Addolorata. Poi D’Addario abbandonò il sughero e avviò la serie dei presepi di carta.
Grazia Spataro e Giuseppe Mazzarano
E intanto dipingeva quadri di fiori, paesaggi, utilizzando anche i gessetti. Una sera a una sua mostra in via Di Palma, vicino al negozio di scarpe di Protopapa, che creava opere con scampoli di pelli (un suo catalogo fu firmato da Piero Mandrillo), in pochi tratti mi descrisse Antonio Mazzarano: “Loquace, amava raccontare, aveva un carattere forte, era stakanovista, maestro indiscutibile, carico di umanità”. Oggi al timone della “Casa del presepe” c’è lei, Grazia Spataro, una giovane straordinaria che fa onore ad Antonio: tra l’altro va in Spagna per comperare le natività iberiche; corre in Germania, alle fiere, ai mercati, per fornirsi di innaffiatoi, lampade ad olio, cestini e altro in miniatura… La guarda con simpatìa e affetto, Giuseppe, che assieme ai suoi fratelli ha inventato la galleria del presepe tarantino, dove emergono anche figure di quello napoletano, tra cui il pizzaiolo, ieri presente soltanto negli allestimenti campani e, da quando la pizza ha espugnato altre città (a Milano è arrivata nel 1929 al ristorante Santa Rita), ovunque. Sul cavalier Antonio Mazzarano, classe 1912, c’è molto altro da dire. Per esempio, che lavorò all’edificazione del palazzo del Governo; tenne una ditta di luminarie per le feste patronali (quella di Cosenza e dintorni, soprattutto)… Il professor Antonio Fornaro gli ha dedicato alcune poesie in vernacolo. Una è intitolata “’Nu valente presepare”(che pubblichiamo in coda a questo articolo) con alcuni versi che recitano: “Ne cunzume de fatije/ tra sedore e receddije/ tene all’erte p’osce adije/ 'a cchiù bella tradizione…”. In un’altra, per festeggiare il suo secolo, “Cìend’ànne de sedòre e de fatìe, care cavaliere Mazzarane mjie…”. Ha lasciato sette figli (sei maschi e una femmina), tredici nipoti, 11 pronipoti.